Oblivion's Garden
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Il pavimento della sala era ingombro di bauli e sacche da viaggio, alcuni già chiusi e messi da parte, altri ancora aperti, di cui si poteva scorgere il contenuto infilatovi alla bell’e meglio. Al centro di quella confusione vi era Victor, senza il presunto libro ma, in compenso, in compagnia della bottiglia con cui Oscar l’aveva immaginato; in realtà più di una, visto che sulla tavola troneggiavano ben quattro bottiglie, tre completamente vuote e una piena ancora per metà ma che evidentemente non era destinata ad aver vita lunga. Seduto di fronte a esse, illuminato dalla luce violenta del fuoco, Victor fissava le fiamme, lo sguardo pensoso lontano dal caos che aveva intorno.
Il primo pensiero di Oscar a quella vista fu una semplice constatazione: Victor aveva deciso di andarsene; il secondo fu un corollario dell’osservazione precedente: l’avrebbe portata via con sé; le riflessioni successive furono un confuso affastellarsi di domande: perché voleva trasferirsi? E dove, soprattutto? E se fosse stato un luogo ancora più nascosto e dimenticato, come avrebbe fatto a fuggire? Dove sarebbe potuta andare, una volta scappata, senza punti di riferimento?
L’accavallarsi di quegli angosciosi interrogativi fu interrotto da un movimento lieve che attrasse l’attenzione di Oscar, facendole volgere lo sguardo da quel disordine carico di inquietanti presagi alla fonte di quel moto ritmico e cadenzato così in contrasto con lo scompiglio circostante. Nella mano sinistra Victor reggeva un calice colmo e lo faceva ruotare adagio, con un gesto di elegante, abituale noncuranza; il movimento lento e regolare di quel polso abbandonato generava insieme al fuoco caldi, cangianti scintillii sulla superficie dura del cristallo, che contrastavano cupamente con le liquide oscillazioni del vino, quasi nere nel riverbero rossastro. In quel fosco mescolarsi di tenebra e brace spiccava la mano di Victor, bianca come quella di una dama, nervosa come quella di un soldato, con dita affusolate da musicista che avevano passato tutta la loro esistenza a maneggiare armi e sembravano prive di calli come se avessero sfiorato soltanto fiori, stoffe e tasti d’avorio. L’insieme era a un tempo tetro e ammaliante, una trappola ipnotica da cui Oscar avrebbe voluto allontanarsi e che invece la teneva inchiodata nel vano della porta con gli occhi fissi e la mente confusa.
Victor portò il calice alle labbra, spezzando l’armonia del movimento e l’incanto magnetico che da essa derivava. Oscar si riscosse con un brivido, ma invece di proseguire nella sua esplorazione rimase inspiegabilmente ferma a osservare Victor nella sua interezza: aveva la schiena curva e le spalle basse, come prostrato da un fardello invisibile, forse il peso della risoluzione che aveva preso; i lunghi capelli ondulati, sempre in ordine, ricadevano in ciocche scomposte ai lati del viso, come se li avesse torturati per sfogare il nervosismo, e vi disegnavano ombre profonde che smagrivano gli zigomi affilati; gli occhi chiari, dalle pupille malsanamente dilatate, erano pozzi bui in cui si leggeva una decisione necessaria quanto dolorosa.
Finalmente Oscar indietreggiò, la mano sulla bocca a soffocare un singhiozzo: quel quadro fiero e sofferente non era per lei, era un momento privato di Victor, una sua lotta interiore che doveva rimanere nascosta, che lei avrebbe dovuto rispettare. Avrebbe fatto meglio a passare diritta, a ignorarlo e a seguire il suo piano originario, invece si era fermata a guardarlo con una scusa banale, credendo di tranquillizzarsi per ritrovarsi di fronte a un abisso più spaventoso del dolore inconsolabile, più oscuro dell’avvenire: la ponderata assenza di speranza.
Victor sarebbe crollato e l’avrebbe trascinata con sé più di quanto lei avesse fatto con lui, Oscar lo capì con innaturale chiarezza; doveva andarsene adesso, seduta stante, così com’era, senza soldi e senza abiti, senza ulteriori indugi. Lei non aveva fatto alcun rumore, ne era certa, e lui non si era mai voltato, quindi non poteva averla vista; doveva solo superare quel piccolo quadrato di luce e sarebbe stata di nuovo nascosta. Mosse lentamente un passo, sfiorando appena il pavimento freddo, poi un altro e finalmente il terzo, l’ultimo, quello che la separava dal buio; fu in quel momento che la voce di Victor si levò dalla sala, leggermente impastata ma tagliente come una lama: “Buonasera Oscar! Notte insonne?”
Oscar si bloccò stranita, muovendo solo gli occhi in direzione di Victor; lui non si girò neppure per verificare che lei effettivamente ci fosse: chissà come l’aveva vista, sentita, oppure, ipotesi peggiore, ne aveva intuito la presenza con quella sua capacità malata di indovinare sempre dove fosse e cosa stesse facendo. Considerando che ormai era stata scoperta, Oscar decise che tanto valeva affrontare Victor apertamente, nella speranza che lui si lasciasse sfuggire qualche informazione utile sulla destinazione del trasloco e sulla tempistica del viaggio. Gli si avvicinò fredda e decisa nonostante il cuore le battesse furiosamente, preoccupata dei risvolti che quel secondo, e presumibilmente tutt’altro che pacato, dialogo con Victor avrebbe potuto avere. “Che cosa stai facendo?”
“I bagagli, non si vede?”
“Non fare lo spiritoso, Victor, hai capito benissimo cosa intendo.”
“Torniamo a Parigi, ti riporto da Rosalie.”
La notizia le arrivò come una secchiata d’acqua fredda: perché proprio Parigi? Perché l’unico luogo in cui non voleva più mettere piede? Oscar strinse i pugni fino a sentire le unghie conficcarsi contro i palmi; lacrime di rabbia le premevano dietro gli occhi e un grido di dolore le si agitava in gola di fronte a quella crudele farsa, a quel destino spietato che giocava con lei come il gatto con il topo. Deglutì tutto con forza e si impose di restare calma. “Io a Parigi non ci torno”, disse in tono risoluto, le braccia incrociate al petto in posizione di difesa.
Victor vuotò il calice con un unico sorso. “Non ha nessuna importanza ciò che vuoi tu, Oscar.” Nel dirlo si decise a guardarla, e le piantò addosso due occhi che sembravano un oceano in tempesta, mentre la bocca si stirava in un ghigno ironico. In quella luce incerta le piccole gocce di vino che gli erano rimaste sulle labbra sembravano sangue rappreso, e il loro contrasto con la pelle livida dava a Victor le sembianze di un vampiro[1]. “Risparmiami questi capricci.”
“Tu non hai il diritto di decidere per me, hai capito?! Ma cosa credi, che io sia uno dei tuoi bauli, che puoi sballottarmi da una parte all’altra a tuo piacimento?!”
“E tu cosa credi, che io sia un martire, da dover sopportare tutto questo?!”, urlò Victor alzandosi di scatto. Oscar non lo aveva mai sentito gridare, neppure quando riprendeva i soldati; fece involontariamente un passo indietro. “Ho già fatto per te tutto ciò che potevo fare. Sono stremato
dal vivere in funzione di te[2]. Lo sai cosa significa essere stremati, Oscar? Lo sai cosa significa non avere nemmeno la forza per trascinarsi?”
“Fai meno il teatrale, Victor! Non puoi rinfacciarmi nulla, io non ti ho mai chiesto niente!”
“E di conseguenza io non ho nessun obbligo nei tuoi confronti.”
“Lo sai cosa sei, Victor? Un meschino, piccolo uomo! So perfettamente a cosa miravi, con quei tuoi occhi lacrimosi e quell’aria da cane bastonato…”
“Io non ti permetto…”
“Pensavi che prima o poi avrei ceduto, vero? Che la riconoscenza, l’abitudine, o la noia, sarebbero riuscite dove tu avevi fallito! E quando ti sei reso conto che io non sarei mai, mai stata tua hai pensato bene di mollare tutto e scappare. Che eroismo!”
“Proprio tu vieni a parlarmi di fughe, Oscar? Proprio tu osi tacciarmi di vigliaccheria?” Il cuore di Oscar accelerò violentemente a quell’accusa, ma lei rimase impassibile; Victor tornò al tavolo e si riempì nuovamente il calice. “A proposito”, riprese dopo aver bevuto, guardandola di nuovo con quell’orribile smorfia obliqua, “ che stavi facendo in giro a quest’ora? Una passeggiatina notturna? Con una nuotata al chiaro di luna, magari?”
Oscar sentì il sangue affluirle al viso, mentre il respiro le si bloccava nei polmoni, come se avesse ricevuto un calcio nel ventre: l’allusione ai suoi tentati suicidi era così gratuitamente cattiva, così umiliante da toglierle ogni capacità di reazione. La voce, che voleva essere ferma e dura, le uscì soffocata e tremante. “Victor, tu non hai il diritto…”
“Di che cosa, eh, Oscar? Di essere crudele? Di soffrire? Di non volerne più sapere niente di te? Credi che siano tuoi esclusivi privilegi? Non sei altro che una volubile egoista, che pretende rispetto per i suoi sentimenti ma non si fa scrupoli di sputare su quelli altrui!” Nel parlare Victor aveva continuato a tenere in mano il calice in una presa sempre più spasmodica; mentre pronunciava le ultime parole le sue dita si erano strette in un gesto convulso che ruppe il fragile cristallo, ma lui quasi non se ne accorse, non ebbe neppure un moto involontario, e il sangue cominciò a scorrere attraverso il pugno serrato; piccoli frammenti caddero a terra con un tintinnante suono stridulo. “Perché vedi, Oscar, ogni tuo atteggiamento nei miei confronti, ogni tuo gesto di indifferenza, o ripulsa, è come una di queste schegge.” Si chinò a raccogliere un pezzo di cristallo appuntito. “Sembra una cosa così piccola, così insignificante”, commentò con voce piatta, seguendone con le dita i profili affilati. Riportò improvvisamente la sua attenzione su Oscar. “Eppure, ogni cosa che fai penetra nel mio cuore, così.” Aprì finalmente la mano e mostrò a Oscar un palmo martoriato, trafitto da pezzetti di cristallo e percorso da lunghe scie di sangue; senza guardare, Victor vi conficcò la scheggia che teneva in mano, in profondità, finché il sangue non uscì dalla ferita in un’unica grossa goccia che gli scivolò lungo il polso fino ad allargarsi contro il polsino della camicia. Oscar non aveva mai provato una tale nausea di fronte a una ferita. “Ma tu questo lo sai già. E hai la presunzione di accusarmi di colpe che non ho, di insultarmi in casa mia come se fossi uno dei tuoi soldatucoli! Beh, Oscar, ti dirò una cosa, con me i tuoi giochi non funzionano: io non sono un altro André, disposto ad accontentarsi delle tue briciole!”
Quel nome non doveva essere pronunciato; tantomeno da lui, tantomeno con quel disprezzo. Oscar impallidì e gli si avventò contro come una tigre ferita. “Non osare paragonarti a lui!”
“Non provare a toccarmi!”
Oscar non avrebbe mai creduto che Victor, sempre così controllato e quasi flemmatico, possedesse riflessi tanto rapidi: lo schiaffo arrivò violento, assolutamente imprevisto, e la colpì in pieno viso, mandandola a sbattere contro il muro. Le spalle premute alla parete, ansante, le mano posata contro la guancia percossa, Oscar fissava Victor con occhi enormi. “Tu sei pazzo…”
“Sì, Oscar! Così pazzo da amarti nonostante questo, nonostante tutto!”
La tensione si ruppe di colpo. Da quando vivevano insieme Victor non aveva mai accennato ai suoi sentimenti; non che Oscar non li sapesse, non che ce ne fosse bisogno: i suoi gesti in quel senso erano stati fin troppo eloquenti. Però l’esprimerli ad alta voce aveva dato loro concretezza, li aveva trasformati da un’ipotesi verosimile, ma che comunque Oscar poteva fingere di non considerare, a una realtà incontrovertibile che in qualche modo doveva pur essere affrontata. Sarebbe stato meglio se lui avesse taciuto.
Victor invece appariva frastornato, come se non potesse capacitarsi delle libertà fisiche e verbali che si era preso; senza vederli, guardò le schegge che ammiccavano beffarde ai suoi piedi, il sangue che ancora stillava copioso dalla ferita, e finalmente ricondusse gli occhi su Oscar, immobile come una statua. Quella vista sembrò riportarlo in sé, e le sue belle iridi chiare si accesero di uno sguardo indecifrabile, misto di rancore e tenerezza. Si mosse verso di lei ma subito si fermò, scuotendo il capo come a scacciare un pensiero inopportuno; tornò sui suoi passi e si lasciò cadere pesantemente su una poltrona. Ad occhi chiusi, appoggiò stancamente la fronte alla mano sana, la mascella che gli si contraeva in un piccolo moto nervoso, l’espressione assorta e sofferente; finalmente si riscosse, emise un profondo sospiro e reclinò la testa all’indietro, fissando caparbiamente il soffitto. “Va’ via, Oscar.”
Se le parole erano di comando, il tono della voce era quello di un mesto e penoso congedo: le stava dicendo definitivamente addio, facesse pure ciò che voleva. Oscar non avrebbe potuto chiedere di meglio: Victor si stava facendo da parte, non avrebbe frapposto ulteriori ostacoli fra lei e la sua libertà: doveva semplicemente prendere ciò che poteva servirle, varcare la soglia d’ingresso, e sarebbe di nuovo stata padrona della sua vita e delle sue scelte.
Si rese conto di non poterlo fare, inchiodata da un inspiegabile senso di colpa per un uomo verso il quale non avrebbe dovuto provare nulla. Se fosse andata via avrebbe realizzato il suo piano, avrebbe obbedito a un’esplicita richiesta di Victor, lo avrebbe liberato da tutti gli obblighi e gli avrebbe inflitto un dolore peggiore di quelli che fino ad allora gli aveva causato; se lo sarebbe lasciato alle spalle come una vecchia cosa ormai inutile, come aveva fatto con André. Solo che Victor non si sarebbe ribellato a questa sua decisione, era troppo poco egoista per opporvisi: non l’avrebbe cercata, non avrebbe chiesto nulla, e si sarebbe consumato nel silenzioso tormento di non sapere cosa ne fosse stato di lei. E questo non lo meritava, aveva già sofferto abbastanza. Si era rivelato un uomo migliore di quanto lei avesse mai potuto immaginare, le aveva dimostrato una dedizione assoluta, e lei lo aveva usato come sfogo al proprio dolore, lo aveva ignorato a bella posta, lo aveva tacciato di egoismo e grettezza quando il suo unico crimine era il troppo amore per una donna che non poteva ricambiarlo.
Che cosa doveva fare? Non ne aveva idea: non poteva tornare a Parigi, non riusciva a separarsi da Victor e non voleva tenerlo avvinto a sé con false speranze; e soprattutto non sapeva come avrebbe potuto conciliare esigenze così contrastanti.
Visto che il futuro era così oscuro tanto valeva occuparsi del presente, e il presente era Victor con il palmo squarciato che sembrava seriamente intenzionato a lasciarsi morire per dissanguamento. Oscar lo raggiunse e gli si inginocchiò davanti. “Dammi la mano.”
“Ti ho detto di andartene. Cosa vuoi ancora?”
“Le schegge: vanno tolte.” Gli prese la mano e, alla luce del camino, con pazienza certosina, estrasse tutti i frammenti di cristallo; poi prese la bottiglia e versò il vino rimasto sulla ferita per disinfettarla. Il contatto dell’alcool con la carne viva strappò a Victor uno scatto di dolore e fastidio[3]. Oscar lo ignorò. “Dove posso trovare dei teli puliti?”
“Lascia perdere…”
“I teli”, ripeté con voce imperiosa: dopotutto era stata il suo comandante.
“Nella mia stanza, nell’armadio.”
Oscar non era mai stata nella camera di Victor, né aveva mai provato curiosità al riguardo; conoscendolo, doveva essere la tipica stanza da nobile, elegantemente ammobiliata, colma di graziose suppellettili inutili, sfarzosamente pacchiana come tutte le stanze dei ricchi che aveva visto in vita sua. Invece si trovò in un ambiente estremamente sobrio, quasi spartano, arredato con il minimo indispensabile a garantire la comodità di colui che lo abitava. A Oscar ricordava le tende da campo degli ufficiali, funzionali e anonime.
Contrariamente alla stanza di lei, che Victor aveva provveduto ad allestire con la massima cura, tentando da un lato di rispettare i gusti severi di Oscar, dall’altro di creare un’atmosfera quanto più possibile rasserenante e accogliente, la camera di Victor era vuota e impersonale, simbolo e immagine del suo proprietario, così concentrato sul benessere della donna che amava da dimenticare il proprio.
Il cuore di Oscar si strinse un altro po’. La nobiltà d’animo di Victor, che lui chissà perché aveva sempre tenuta nascosta sotto strati di frivola superficialità, la riempiva di un profondo senso di inadeguatezza; era come uno specchio in cui lei si osservava per la prima volta e che le restituiva un’immagine di sé che non le piaceva affatto, fredda e dura, fin troppo veritiera.
Oscar si passò le mani fra i capelli e si impose di limitarsi a fare ciò per cui era venuta, senza perdersi in inutili divagazioni filosofiche; forte del ritrovato spirito pratico, si diresse decisa verso l’armadio, ne trasse fuori un telo e lo ridusse in lunghe strisce. Nel tornare indietro l’occhio le cadde sul letto di Victor, su cui spiccava, in netto contrasto con l’ordine delle coltri, il cuscino pesantemente gualcito, chiaro indizio di notti tormentate da pensieri che solo ora Oscar poteva a stento indovinare. Aveva trascorso una vita intera al fianco di Victor, da un anno ne condivideva addirittura il tetto e il cibo, eppure di lui non sapeva praticamente nulla; non gli aveva mai chiesto niente, non le era mai importato. Stirò una grinza del cuscino con goffa tenerezza, e pensò involontariamente che forse quella carezza avrebbe dovuta farla a Victor.
Tornata in sala trovò Victor intento a fissarsi alternativamente le due mani come se non fossero state parti del suo corpo ma bizzarre appendici dotate di vita propria che si muovevano indipendentemente dalla sua volontà. Oscar gli si accostò in silenzio e iniziò a bendargli il palmo ferito; Victor rimase per un po’ come ipnotizzato da quelle mani sottili che si muovevano rapide e precise intorno alla sua, poi spostò lo sguardo sul suo viso: ne osservò l’espressione degli occhi, attenta e concentrata, la gota sinistra, rossa e gonfia. “Mi dispiace, Oscar…” Si allungò per sfiorarle il viso, certo che lei a quel tocco si sarebbe scostata con stizza, e si stupì quando Oscar accettò quella carezza, gli sembrò anzi che lei premesse impercettibilmente la guancia contro le sue dita.
“Non è successo niente.” Lo disse senza guardarlo negli occhi, ma era sincera. Il gesto e le parole di Victor erano stati dettati da un dolore così profondo da diventare cieco, da un amore così radicato da non lasciare scampo, sentimenti che Oscar conosceva fin troppo bene per non scusarli; e poi di ceffoni in vita sua ne aveva ricevuto tanti, uno in più non avrebbe fatto la differenza. “Fatto”, annodò i lembi della benda, “e ora vieni, torniamocene a dormire.”
Oscar lo vide muoversi rigido e seguirla con aria cupa e distante, come se non avesse affatto udito il suo suggerimento ma agisse di propria iniziativa; giunti però alla porta della sua camera, mentre gli augurava la buonanotte con il tono più neutro che riuscì a trovare, la sua impressione si rivelò del tutto sbagliata. Con uno scatto felino e assolutamente imprevedibile Victor chiuse la mano intorno al pomello, bloccando Oscar sulla soglia, e le piantò in viso uno sguardo fermo e duro di cui Oscar non lo avrebbe mai creduto capace, e che strideva in modo inquietante con la tinta delicata degli occhi. “Oscar, ciò che ho fatto stasera è ingiustificabile: colpire una donna indifesa è un’azione vile che non merita alcuna comprensione; perciò tanto più ti chiedo scusa e apprezzo la delicatezza che hai avuto nei miei confronti”, disse sollevando leggermente la mano ferita. “Ma è giusto che tu sappia che nulla di ciò che è avvenuto stasera può influenzare la mia decisione.”
Senza una parola di più, Victor scomparve nell’oscurità della sua stanza. Oscar pensò che l’unica cosa da fare era lasciare che il sonno portasse consiglio e facesse sbollire gli animi di entrambi, ma non riuscì a chiudere occhio.
[1] Un po’ Billy Idol un po’ conte di Montecristo
[2] Citazione dal film Labyrinth, in particolare dal personaggio di Jareth, splendidamente interpretato da David Bowie
[3] Citazione da “La Bella & La Bestia”
pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2013
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