Oblivion's Garden
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Darsi del cretino era quasi farsi un complimento: lui era proprio il re dei cretini, il prototipo del perfetto imbecille. Aveva lasciato la Guardia reale per non dover combattere una battaglia persa in partenza, e cosa aveva pensato bene di fare? Imbarcarsi in un’impresa ancora più folle e impossibile, per di più con la convinzione di poterne avere ragione. Come aveva potuto essere così stolto, così cieco? Semplice, perché era un enorme cretino, come gli aveva sempre detto suo padre. Il suo amato padre, che non si lasciava mai sfuggire l’occasione di fargli notare che lui, Victor, della vita non aveva capito un beato accidente, e che a stare dietro alle bizze di una donna avrebbe fatto solo la figura del buffone. Non ne sbagliava mai una, suo padre.
Il ricordo delle osservazioni feroci con cui il genitore lo aveva apostrofato fin dall’adolescenza[1] fece montare ancora di più la rabbia di Victor: vedere Oscar nello stagno, intenta a osservare l’acqua come se fosse la cosa più invitante del mondo, chiaramente sul punto di riprendere ciò che lui aveva interrotto, era stata la dimostrazione, per Victor lampante e incontrovertibile, che tutte le sue premure, le sue attenzioni, erano state una solo una colossale perdita di tempo. Non aveva mai avuto la presunzione di compiere il miracolo di trasformare Oscar da amante devastata in donna immemore e felice, ma non si era aspettato nemmeno di essere considerato meno di niente. Non sapeva se detestava di più lei, aguzzina inaspettata e implacabile, o se stesso, sciocco martire idealista.
Questo rimuginava Victor mentre riportava Oscar a casa trascinandola per un braccio neanche fosse stata una bambina capricciosa; e lei inizialmente lo seguì docile, sconcertata da tanta inattesa durezza. Quella mattina, svegliandosi, le era sembrato di respirare più liberamente, come se un piccolo pezzo di quel viluppo gelido e melmoso che le attanagliava il cuore si fosse sciolto insieme alle brine dell’inverno. E invece quello stesso grumo di dolore se lo era ritrovato negli occhi spiritati di Victor, un macigno che aveva il suo volto duro e il suo sguardo distante. Aveva rivisto le scene della notte precedente, l’abbraccio timido e delicato con cui l’aveva stretta a sé per consolarla nonostante le parole crudeli che lei gli aveva sputato addosso; in un attimo aveva ricordato tutte le volte in cui lui avrebbe potuto riprendersi la sua vita e non l’aveva fatto in attesa di una rinascita che a lei era sembrata impossibile, sperando al posto suo quando lei non se ne sentiva più capace.
Per la prima volta dopo la morte di André, qualcosa si era mosso nell’animo di Oscar, un sentimento indefinibile a metà tra la compassione e il rispetto per quell’uomo che, pur potendo scegliere altro, si era votato all’infelicità e alla solitudine in nome di un amore irrealizzabile; un moto di simpatia venato di malinconica tenerezza per il coraggio discreto, tenace e silenzioso con cui aveva portato avanti quella scelta, senza incertezze né recriminazioni. Un fiume di emozioni repentine e confuse era dilagato in Oscar, una piena che cercava disperatamente di uno sbocco per esprimersi e non trovava la via per farlo, perché troppo in quei mesi si era inaridito il suo cuore; e tutto ciò che produssero fu quell’unica frase mesta che rimbalzò contro l’angoscia e la frustrazione di Victor per poi perdersi inascoltata nell’abisso della sua rabbia: insensibile al tono accorato con cui Oscar aveva pronunciato quelle parole, Victor si lanciò in un interrogatorio martellante su cosa Oscar volesse fare e su quali nuove, malsane idee stesse accarezzando, interrogativi che rimanevano senza risposta visto che ogni tentativo di Oscar di ribattere veniva subitamente zittito da una domanda più rabbiosa e inconcludente della precedente. Se Victor non fu capace di cogliere l’affetto con cui Oscar si era rivolta a lui, lei da parte sua non fu in grado di vedere l’avvilimento, lo sconforto che si celavano dietro l’ira di Victor: le accuse feroci che lui le rivolgeva, le allusioni crudeli al suo passato, per Oscar non erano altro che un attacco gratuito che non meritava certo giustificazioni, e quello che doveva essere un dialogo chiarificatore si rivelò un estenuante soliloquio in cui Victor dava finalmente sfogo a mesi di insoddisfazione repressa e Oscar tornava a chiudersi in un silenzio sprezzante e risentito.
La tensione accumulata nella giornata raggiunse il culmine durante la cena, quando Victor, snervato dall’indifferenza che Oscar gli opponeva, perse completamente il suo abituale contegno e le sbatté davanti il piatto intimandole di mangiare, e rapidamente anche, visto che gli aveva fatto passare una giornata infernale e non vedeva l’ora di andarsene a dormire. Per tutta risposta Oscar, che già normalmente mostrava pochissimo appetito, si mise a giocherellare con la minestra, raccogliendola nel cucchiaio e rifacendola cadere nella scodella, fissando Victor con occhi stretti e cattivi: non pensava a nulla, solo al fatto che se non la finiva subito, quella brodaglia se la sarebbe ritrovato in faccia. Ma Victor non era nella condizione di spirito per sopportare anche quella malcelata collera: colpì il tavolo con il palmo della mano, stizzito, facendo sobbalzare Oscar e tutte le stoviglie, affermando in tono tagliente che, visto che era diventata così schizzinosa, la prossima volta avrebbe assunto un cuoco professionista. Si alzarono entrambi nello stesso momento, ugualmente offesi, irritati e convinti di avere ragione; si guardarono attraverso la tavola con occhi che se avessero potuto li avrebbero fulminati sul posto, e alla fine Oscar si voltò con sdegno e risalì le scale con un portamento più eretto di quanto avesse mai avuto in tutti quei mesi con lui, giusto per ricordargli con chi stava parlando. Giunta nella sua camera, aveva impiegato tutte le sue residue energie per sbattersi sonoramente la porta alle spalle, in modo che Victor capisse bene la distanza che intercorreva fra loro. Se anche aveva provato per lui un momentaneo barlume di affettuosa pietà, la scenata che le aveva fatto a cena aveva provveduto a spegnerlo definitivamente. Tutta la situazione era, a suo avviso, una pagliacciata inscenata a bella posta da quel buffone di Victor, il quale evidentemente si era stancato di fare l’infermiere premuroso e adesso, tanto per cambiare, si dava arie da innamorato deluso e affranto. Ma che si aspettava? Che lei gli sarebbe caduta tra le braccia come una pera dall’albero, incantata dalla sua dedizione? Che dall’oggi al domani avrebbe dimenticato André, che bastavano un paio di moine da cicisbeo per cancellare tutto ciò che aveva provato con lui e per lui? Che a lungo andare la solitudine l’avrebbe fatta cedere? Forse si confondeva con se stesso se pensava una cosa del genere, forse era a lui che la solitudine aveva dato alla testa! Non gliel’aveva chiesto nessuno di portarla lì con sé, o quantomeno non era stata lei a pregarlo, quindi Victor non poteva rinfacciarle niente; si ci era messo lui in quella situazione, quindi che si arrangiasse, o che trovasse il coraggio di porvi fine: per quel che riguardava lei, Victor se ne poteva anche andare a quel paese. Anzi, se intendeva perseverare in quella messinscena da amante ferito, forse sarebbe stata lei a togliere le tende.
Victor si sentiva prossimo a impazzire, impazzire sul serio, non come Oscar, che si atteggiava a povera psicolabile ma che era ben presente a se stessa quando si trattava di prenderlo a pesci in faccia. Le vene delle tempie gli pulsavano selvaggiamente, il mondo era avvolto da una caligine rossa; sentiva il bisogno di distruggere: tirò via la tovaglia, scaraventando le stoviglie contro il pavimento. Grosse macchie si allargavano sul marmo, mentre le delicate porcellane si spaccavano con suoni striduli, ma Victor non sentiva nulla, non vedeva niente; camminava avanti e indietro come un animale in gabbia, calpestando rabbioso i cocci che costellavano il pavimento, come se schiacciando loro avesse potuto ferire Oscar. Sentiva di odiarla profondamente, con tutto se stesso,
l’avesse avuta vicino l’avrebbe agguantata per il collo e l’avrebbe strozzata con le sue stesse mani. Come aveva potuto innamorarsi di una donna simile, una erinni gelida e implacabile, che non faceva altro che distruggere chi la amava senza alcuno scrupolo, senza neppure l’ombra di un rimorso? Di quanti fallimenti aveva bisogno per comprendere la realtà dei fatti, ossia che in Oscar lui suscitava soltanto disgusto? La verità era che aveva voluto a tutti i costi giocare all’eroe, e aveva perso. Lui non era un eroe, non lo sarebbe mai stato. Gli eroi erano quelli come André, disperati, sofferenti, pronti a sacrificare occhi, vita, ardore, a seguire la propria donna fino all’inferno; i calmi, pacati, ragionevoli Victor, il cui fuoco bruciava nascosto fino a ridurli in cenere, erano soltanto sottoposti, amici al massimo, fantocci irrilevanti che dovevano limitarsi ad assolvere il loro compito per poi farsi da parte.
Victor si abbandonò su una poltrona, svuotato ma anche stranamente sereno. Lasciò vagare lo sguardo sul caos che aveva di fronte, ma non se ne crucciò: la rabbia aveva mandato in frantumi, insieme alle suppellettili, anche tutte le false speranze e le sciocche fantasticherie a cui si era aggrappato in quei lunghi mesi bui; stava finalmente recuperando la sua lucida razionalità, stava ritornando a essere ciò che era. Un soldato, innanzitutto, un eccellente soldato, checché ne dicesse suo padre; di quelli che avevano tanto fegato da affrontare uno scontro in prima fila, con la spada in pugno, ma anche sufficiente intelligenza da capire che se una battaglia è perduta l’unica cosa da fare è ritirarsi. La sua personale battaglia per il cuore di Oscar era stata una completa disfatta, ma una battaglia non è una guerra e lui aveva ancora tanta vita davanti, una vita in cui potevano ancora esserci soddisfazioni, felicità e, chissà, amore. Una vita senza quel perenne senso di inadeguatezza, senza in fantasmi del passato. Una vita senza Oscar.
Oscar si era addormentata da poco quando si svegliò di soprassalto: un altro incubo, l’ennesimo, in cui vedeva il proiettile che avrebbe colpito André muoversi con macabra lentezza verso il petto di lui; lo vedeva e non poteva fermarlo, non poteva spingere via André dalla sua traiettoria, perché era inchiodata al suolo, consapevole di tutto ma paralizzata nell’immobilità tormentosa dei sogni. Scorgeva i profili della pallottola, i bagliori del metallo nella luce del tramonto; la vedeva conficcarsi nel corpo di André senza incontrare opposizioni, come un coltello rovente nel burro; vedeva André piegarsi in due per la violenza del colpo, il sangue che gli usciva dal petto e dalla bocca e gli macchiava le mani. Troppo sangue, troppo rosso, troppo sparso. E poi lo vedeva girare lentamente il capo verso di lei, e guardarla con il suo unico occhio, con uno sguardo limpido, senza alcuna traccia di rimprovero, pieno solo del rimpianto infinito per tutto ciò a cui avrebbe dovuto rinunciare. Tremò, Oscar, svegliandosi nella stanza afosa; si portò le mani al viso per scacciare gli ultimi brandelli di sogno e lo sentì bagnato di lacrime.
Il caldo estivo era opprimente, Oscar era in un bagno di sudore, la camicia da notte incollata al corpo. Si alzò per aprire la finestra, con l’intenzione di far entrare un po’ di frescura notturna e rimettersi a letto, invece restò affacciata a lungo, ammaliata dal dolce, indefinito paesaggio che si srotolava davanti ai suoi occhi. La luce della luna piena, bianca e tonda come il viso di un bimbo, bagnava di luce argentea i profili degli alberi, trasformando le foglie scosse dalla brezza in forme fantastiche, eteree e cangianti, in cui i grilli frinivano le loro canzoni d’amore. Oscar inspirò profondamente l’odore penetrante dei fiori estivi, lo stesso che sentiva nel suo giardino quando, da bambina, nelle torride notti di agosto, sgattaiolava fuori con André, ufficialmente in cerca di refrigerio, in realtà bisognosa di un’oasi di gioco e avventura lontana dal severo sguardo paterno. Non facevano nulla di particolare: passeggiavano, ricorrevano le lucciole, ma soprattutto rimanevano stesi nell’erba, a parlare dei loro segreti di bimbi e a guardare le stelle che scintillavano su di loro come piccoli diamanti nel velluto blu del cielo. A lei era sembrava che stessero lì buttate a casaccio, invece André sapeva distinguere le costellazioni, e aveva tentato a lungo di insegnare anche a lei a riconoscerle: fatica vana, per Oscar le stelle erano rimaste soltanto dei puntini luminosi. In compenso le piaceva ascoltare André che, indicando ora l’Orsa Maggiore, ora Cassiopea, raccontava la loro storia, leggende di eroi e regine di un’altra epoca trovate nei libri che il precettore appioppava loro costantemente e che lei altrettanto costantemente snobbava lasciando ad André l’onore-onere di leggerli per entrambi.
Sentì la commozione attanagliarle la gola, e sollevò il viso nel tentativo di fermare le lacrime che la minacciavano di nuovo; il cielo sopra di lei le parve lo stesso di sempre, le stesse stelle fredde che dall’eternità osservavano lo svolgersi dei piccoli destini degli uomini, indifferenti alle loro gioie così come ai loro dolori. Dopo tanti anni le sembravano ancora ammassi confusi, e questa volta non c’era André a mettere ordine tra loro… non c’era più André a mettere ordine nella sua vita. E lei tutte quelle strane figure da sola non riusciva a scorgerle. E le storie su di loro non le ricordava più. Nemmeno la voce di André bambino ricordo più, pensò, mentre le lacrime ormai le scorrevano copiose sulle guance.
Si riscosse e si asciugò bruscamente il viso con il palmo della mano: non era quello il momento di piangere, lo aveva fatto già abbastanza a lungo. No, quell’incubo, quel risveglio repentino erano un messaggio, un invito ad agire, a mettere in atto i piani che da un po’ accarezzava. La lite con Victor l’aveva scossa nel profondo, costringendola a guardarsi finalmente allo specchio, e ciò che aveva visto non le era piaciuto; lei, da sempre così forte, così combattiva, si era arresa senza combattere al proprio dolore, lasciandosi trasformare da esso in una bambola inerte, che si aggrappava stolidamente a orgogliosi pensieri senza però avere il coraggio di trasformarli in azioni. Se si era ritrovata a vivere come una malata mentale rinchiusa in un manicomio la responsabilità era soprattutto sua: Victor era sì stupido e presuntuoso come pochi, ma era stata lei che con il suo vittimismo, con la sua arresa, gli aveva concesso la libertà di trattarla come una sua proprietà. Ma ora il tempo dell’apatia era finito, si sentiva pronta a riprendere in mano la sua vita; non sapeva ancora come e dove, ma a quello avrebbe pensato in un secondo momento: la prima cosa da fare era riappropriarsi della sua libertà, e questo significava lasciare Victor e quell’orribile luogo cadente. Ma per poterlo fare doveva innanzitutto esplorare il palazzo, scoprire se e quali erano le potenziali vie di fuga, e questo non poteva farlo certo quando c’era Victor: se lui avesse avuto anche solo il sospetto di ciò che intendeva fare l’avrebbe tenuta segregata, e addio sogni di libertà. No, doveva essere prudente, accorta; muoversi come sapeva fare lei, con l’eleganza e la discrezione dei gatti, agire nel buio, non vista.
E poi doveva procurarsi dei soldi. Sicuramente Victor doveva avere parecchio denaro, visto che non sembrava dedicarsi a nessuna attività in particolare e non sembrava mai neppure affaticato: era sempre lindo e profumato, vestito sì più modestamente ma senza toppe e rappezzi. E anche il cibo in tavola, benché non fosse particolarmente raffinato, non mancava mai; considerando che ormai era quasi un anno che vivevano lì e lui non aveva fatto nient’altro che starle addosso, di soldi appreso se ne era dovuti portare parecchi. La cosa del resto non stupì Oscar più di tanto: Victor era stato promosso maggiore, una carica prestigiosa e remunerativa, e i Girodel erano notoriamente ricchi quasi quanto lo stesso re di Francia; niente di più facile che, da quell’uomo senza scrupoli che era, avesse arraffato il più possibile e si fosse dato alla macchia per giocare all’innamorato invece di combattere. Meglio così, sarebbe stato più facile sottrargli il denaro che le serviva: l’idea del furto la ripugnava profondamente, andava contro tutti i suoi principi morali, ma derubare un uomo così vile e meschino le sembrava un po’ meno grave. E in fondo più che un furto lo si poteva considerare un baratto: in cambio di qualche moneta gli offriva la possibilità di rifarsi una vita, era uno scambio onesto; anzi, a essere obiettivi ci avrebbe guadagnato più lui che lei.
Aprì delicatamente la porta e si mosse cauta lungo il corridoio. La luce della luna piena penetrava attraverso le lunghe finestre, e quel tenue bagliore permetteva di distinguere i contorni delle cose, evitandole di inciampare o andare a sbattere rovinosamente contro una parete o una colonna; non era molto ma se lo sarebbe fatto bastare. Del resto non aveva molte alternative, Victor provvedeva ogni sera a mettere sotto chiave candele e pietre focaie, probabilmente nel timore che lei desse fuoco all’intera casa[2]. Che razza di idea balorda! E la malata secondo lui sarei io!
Giunse finalmente alla diramazione da cui si prendevano le scale: sarebbe partita dal piano inferiore, era certamente più facile sgusciare da una porta che calarsi da una finestra. Le scale però, trovandosi tra due ampie balconate, ricevevano pochissima luce dall’esterno, e in quel momento erano quasi completamente buie. Oscar trasse un respiro profondo, strinse nervosamente il corrimano e mosse il primo passo, ma fu costretta a fermarsi: davanti agli occhi le era comparsa l’immagine di André che, sulle scale di palazzo Jarjayes, si muoveva incerto, le dita avvinghiate al bel corrimano di marmo che lasciavano tracce di sudore, il passo lento, controllato, per non cadere. André che stava diventando cieco senza che lei lo notasse, André che le propinava scuse su scuse, la stanchezza, il mal di testa, e che lei si beveva vergognosamente ignara della sua situazione. È così che ti sei sentito, André?, si chiese Oscar, mentre fissava l’oscurità che le si stendeva davanti. Così maledettamente perso in un mondo che si faceva d’ombra? Così smarrito, senza una via, come mi sento io? E come hai fatto a continuare a vivere sapendo che la luce non sarebbe più tornata? Io mi sento così sperduta, così sola, così vuota… che farò della mia vita, André? Che posso farne, senza di te?
Sentì che le gambe le cedevano ma si costrinse a restare in piedi. Smettila, Oscar, smettila subito! Devi rimanere lucida. Inspirò lentamente e si rimise dritta, il capo fieramente sollevato. Percorse i gradini con attenta velocità: non aveva molto tempo, e quella dannata scala sembrava non finire mai. Quando, dopo un tempo incalcolabile, i suoi piedi non incontrarono più dislivelli, si diresse decisa verso il portone principale, ma fu costretta ad arrestarsi a metà del percorso: la parete era illuminata da un riverbero rossastro, probabilmente il riflesso del camino acceso. Rimase in attesa, nascosta nell’ombra, la schiena appoggiata contro il muro, il respiro ansimante che le sollevava il petto. Victor! Dannazione, ancora lui! Ma non si decideva proprio mai a smetterla di darle il tormento? Cosa diavolo ci faceva di notte nella sala? Perché non se ne era stato tranquillo in camera sua invece di metterle i bastoni tra le ruote? Era addirittura arrivato a fare la guardia alla porta?
Il silenzio fu rotto da un suono tintinnante, come un bicchiere mosso maldestramente. Oscar si sentì sollevata: se stava bevendo voleva dire che si sentiva tranquillo, probabilmente voleva leggere o scrivere e si era piazzato lì per evitare di fare su e giù con le bottiglie. Sperò con tutte le sue forze che avesse dato fondo alla credenza: più alcool aveva in corpo, più i suoi sensi sarebbero stati ottenebrati e tanto più lei sarebbe passata inosservata. Avanzò guardinga, rasentando il muro, lo sguardo fisso all’ingresso e le orecchie tese a captare il minimo suono, ma quando si trovò di fronte alla sala non poté resistere alla tentazione di dare un’occhiata dentro, giusto per assicurarsi che non correva alcun rischio di essere scoperta. Ma ciò che vide le mozzò il respiro.
[1] Victor è da sempre il secondo di Oscar: considerato che lei entra nella Guardia reale a 14 anni, e che lui appare di qualche anno maggiore, anche Victor deve essere entrato nell’esercito alquanto giovane
[2] Questa riflessione di Oscar è nata mentre vedevo il remake di “Jane Eyre”
pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2013
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