L'uccello che girava le viti del mondo

 

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l’accostare elementi riconducibili alla realtà investigabile in termini logici ad elementi totalmente a-logici e irrazionali, che però non si presentano affatto - è questo il punto - come irreali, ma pretendono per sé spazi di uguale, se non maggiore realtà rispetto ai precedenti. Per questo sento il bisogno di metter in parole alcuni sentimenti e riflessioni confuse che si agitano tra la mente e il cuore (il che è già buon segno perché vuol dire in ogni caso che questo libro non mi ha lasciato indifferente), nella speranza di riuscire a fare un po’ di chiarezza e senza sapere esattamente, in questo momento, dove andrò a parare: perché forse anch’io, come il protagonista di “Tokio blues”, sono una di quelle persone che per capire qualcosa hanno assolutamente bisogno di scriverla.

Per il motivo sopra espresso - l’esigenza di fare un po’ di chiarezza - non mi faciliterò il compito, in questa recensione, buttandomi su prestigiosi aggettivi-scorciatoia tipo “onirico” e “transfondente”. Ammiro Murakami anche se lo conosco relativamente da poco, e non posso dire di conoscerlo bene. Ho letto “Tokyo blues - Norwegian wood”, “Dance Dance Dance”, “La ragazza dello Sputnik” e questo libro, appunto, “L’uccello che girava le viti del mondo”.

Da subito mi è stato evidente che mi trovavo davanti a un grande scrittore. Del resto come si fa a non innamorarsi di uno che scrive frasi del genere: “Il cameriere non si girò neanche una volta. Nella sua andatura c’era qualcosa di singolare, sembrava che sfilasse nel Campionato mondiale di Portamento dei camerieri d’albergo”. Capisci subito che hai davanti il genio, di fronte a una cosa simile. Schiatti d’invidia e gli elevi un grazie in cuor tuo, perché è bello vedere che al mondo c’è qualcuno che sa usare le parole con questa grazia, con quest’acume, con questa verità.
C’è nel suo modo di raccontare, di descrivere insinuandosi lieve tra gli oggetti e i particolari, qualcosa di incredibilmente poetico. Il suo stile è di una forza e di una sicurezza e di un fascino capaci di avvincere totalmente il lettore. È limpido e avvolgente e sfumato nello stesso tempo. Sospetto - ma non potrò mai saperlo - che ciò sia dovuto in parte al fatto che scrive in giapponese, perché ho già provato sensazioni simili leggendo altri suoi conterranei, tipo Mishima o alcune cose della Yoshimoto, e ho la sensazione che questa lingua - per il suo esprimersi in ideogrammi -, possieda un potere di suggestione maggiore delle nostre lingue, che hanno bisogno di trasformare i concetti in sillabe, li concretizzano troppo e fanno perder loro la poesia. In qualche modo quest’“aura”deve passare, non so come, nelle traduzioni, perché è immancabile che me ne renda conto, quando ho davanti un autore giapponese.

Non è la prima volta che avverto un senso di disagio leggendo un romanzo di Murakami: un po’ in tutto quello che ho letto di lui c’era questo senso di irrisolto, di non spiegato. Le ragioni profonde dello sconvolgimento di Myu ne “La ragazza dello Sputnik”, dopo l’esperienza che le cambia la vita; i fantasmi che si agitano nello spirito di Naoko in “Tokio blues”; l’uomo-pecora in “Dance Dance Dance”... Quello che ho apprezzato di più, in ogni caso, è stato quest’ultimo, “Dance Dance Dance”, per la bellezza e la straordinaria lucidità della narrazione (indimenticabili per la profondità e l’ironia le pagine in cui si descrive l’ex compagno di scuola Gotanda), per l’intrecciarsi in modo apparentemente confuso ma alla fine perfettamente coerente delle diverse trame del testo, per il senso di nuovo scorrere e di liberazione del respiro che si avverte alla conclusione.
Ma il senso di disagio resta, e qui, ne “L’uccello che girava le viti del mondo”, si trasforma in qualcosa di più forte.

Il protagonista scende in un pozzo asciutto e, dal fondo di questo pozzo, passando ore, giorni al buio, cerca di trovare la ragione di quello che gli è accaduto: il perché dell’abbandono della moglie, la strada che deve percorrere per riaverla con sé e per rimettere insieme i fili dispersi della sua vita. Dal fondo del pozzo, passando attraverso il muro, egli penetra in un altro ambiente, parallelo a quello in cui vive, all’interno del quale sa che si trova la risposta alle sue domande, la soluzione e l’uscita dallo stato di disordine in cui sta vivendo. Solo dopo che è riuscito a penetrare al fondo di questo mistero, dopo che ha compiuto nel mondo al di là del muro del pozzo delle azioni rischiose e difficili e violente, la sua esistenza riprende un corso ordinato e nuovamente chiaro, e l’acqua della vita ricomincia a fluire.

Ora, è proprio in questo punto il mio problema: “onirico” non è affatto un termine giusto per definire quest’esperienza, secondo me. Se si trattasse solo di sogni, di viaggi fittizi della mente che permettono di capire meglio ciò che accade nella vita vera, non ci sarebbero impedimenti. Sarebbe facile da capire e da accettare, come è facile capire il compiersi di un’esperienza dell’intelletto o dello spirito che consenta di ricercare delle coordinate su cui orientarsi nel mondo.
Il fatto è che, nei romanzi di Murakami, almeno per quello che mi pare di comprenderne, le cose non stanno affatto così. Non stanno mai così. Lo dice chiaramente l’uomo-pecora di “Dance Dance Dance” al protagonista che si chiede se tutto ciò che sta vivendo - la trasformazione dell’albergo, il cambiamento dell’odore dell’aria, l’incontro col suo strano interlocutore -, sia una sua allucinazione: “Tutto questo è reale”. Non è un sogno, né una fantasia ad occhi aperti, il passare attraverso il muro di un pozzo, il parlare con un uomo-pecora, il vedere dalla ruota di un Luna-park se stesse nella propria stanza d’albergo nell’atto di avere rapporti sessuali con un uomo che repelle. È un’esperienza reale, effettiva, non esclusa dalla cosiddetta realtà vera e propria ma in qualche maniera ad essa parallela e con essa comunicante; e gli atti compiuti in questo mondo parallelo si trasmettono come conseguenze effettive alla realtà “vera e propria”. Uso le virgolette perché è evidente che, stando così le cose, i contorni di quella che comunemente chiamiamo realtà perdono di consistenza e risultano molto meno chiari e certi di quanto possiamo credere.

La voglia che viene a Okada Toru sulla guancia è la conseguenza di un’azione compiuta nel mondo al di là del pozzo, e scompare in conseguenza di un altro episodio verificatosi in questa dimensione parallela; Toru ha sogni erotici su Kano Creta, ma Creta il giorno dopo è in grado di descrivergli esattamente gli atti sessuali compiuti in sogno; Toru spacca la testa a uno sconosciuto nel buio della stanza al di là del pozzo, e nel mondo al di qua del pozzo il suo nemico è colpito da un ictus.
Non sono coincidenze, stranezze casuali. Sono segni. C’è un preciso rapporto di causalità tra una cosa e l’altra, e il testo indica chiaramente e senza possibilità di equivoco, a mio parere, che è questa la direzione da prendere e questa la lettura da dare.

Ovvero il testo chiede al lettore di cooperare al suo farsi accettando come reali e credibili dei fenomeni impossibili da considerare tali in una visione del mondo orientata su coordinate logiche. Il testo abbandona deliberatamente la strada del razionale e propone una visione del mondo in larga misura contrassegnata dall’irrazionale e dall’alogico. Propone di seguire il percorso del protagonista facendo propri e ammettendo come plausibili dei percorsi interpretativi che richiamano il campo del “magico”, o - se vogliamo usare una definizione un tantino meno svilita - il campo, per così dire, del paranormale.

Nel mondo di Okada Toru accadono cose che non sono regolate da ordinari rapporti di causa-effetto, ci sono nomi e voci che cambiano di continuo pur appartenendo alla stessa persona; individui soli, eventi traumatici, incontri misteriosi e risolutivi, coincidenze del tutto imprevedibili in termini razionali che divengono determinanti per lo sviluppo della vicenda.

La narrazione, soprattutto da un certo punto in poi, abbandona le strade consolidate della rappresentazione realistica e si sviluppa secondo una trama visionaria accostando elementi a prima vista completamente diversi e lontani tra loro ma per i quali si rivendica - in modo implicito e tuttavia assai chiaro - una precisa coerenza d’insieme.

E in questo scenario confuso in cui ogni cosa - lo stesso alternarsi “illogico” dei capitoli - rimanda a un’altra in modo apparentemente accidentale ma in verità ben determinato secondo una rete di continue interconnessioni, il protagonista si muove alla ricerca di qualcosa che ha perduto, col dubbio crescente, una scoperta dopo l’altra, di non averlo mai posseduto davvero. Incontrando le persone del suo presente e ascoltando i racconti terribili del passato proprio e di altri, di tutto un popolo, egli arriva più volte a percepire fisicamente, a toccare con mano, qualcosa che può essere forse in modo piuttosto banale definito come Male: il male che pervade il mondo e sta nell’interno delle persone, che può essere tirato fuori da esse e venire avvertito fisicamente sotto la pelle della mano come una pallina dallo spessore duro, nel corpo di una donna oltraggiata come un nucleo oscuro che emerge e devasta la coscienza. Questo male esiste e non è solo una proiezione delle nostre paure, delle nostre inadeguatezze, della nostra incapacità a vivere in un modo compiuto: o, per meglio dire, su di queste paure, inadeguatezze e incapacità si modella, ma ha una sua concreta e sconcertante consistenza. Tanto più sconcertante e violenta quanto più si accosta, come una realtà compresente e altra, alla più normale e ordinaria quotidianità. È come se l’autore volesse dirci propriamente questo, che il male esiste non solo come realtà osservabile ma come entità trascendente, come principio metafisico, che è però concretamente presente e attivo nella nostra vita, e la devasta continuamente con una tremenda forza operativa.

Forse quella di indisporre il lettore, di disorientarlo e sottoporlo a una fruizione in una certa misura disturbante è una scelta precisa dell’autore, e in tal caso potrei anche dire che il proposito è andato a segno. Potrei anche dire che il fatto che non mi siano simpatici i personaggi non significa affatto che come personaggi siano mal riusciti, tutt’altro. Non mi è simpatico Okada Toru perché è lo stesso personaggio che ho già visto all’opera come protagonista in tutti i romanzi di Murakami che ho letto. Perché nella sua intelligenza, nel suo quieto distacco dalle cure degli individui comuni e da tutto ciò che gli altri considerano importante, nella discreta accettazione delle critiche che riceve e nel suo decidere di scendere in basso, sempre più in basso, per ritrovarsi, nasconde un’enorme presunzione e l’effettiva incapacità di percepire i sentimenti degli altri, concentrato com’è soltanto sui propri. Il fatto che abbia bisogno di tanto tempo per arrivare al bandolo della matassa dipende in ultima analisi da un suo limite umano e da un difetto di sensibilità insito nella sua personalità, di cui peraltro si compiace copertamente (e se ne compiace anche l’autore). Ciò non toglie che sia un bel personaggio, una volta preso atto dei suoi difetti. Non mi è simpatica Kasahara May e non mi sono simpatiche le propensioni morbose del narratore per le ragazzine prepuberi, che non ha nemmeno il coraggio di ammettere spingendosi con onestà fino in fondo. Eppure Kasahara May è un personaggio a suo modo toccante ed il percorso di ricostruzione di se stessa che compie è alquanto credibile. Non mi piace - ovviamente - Boris lo scorticatore, responsabile dell’unico salto di pagine intenzionale che abbia fatto in un libro da tanti anni a questa parte (e a proposito, a volte mi piacerebbe che su certi libri venisse messo un bollino rosso prima delle scene troppo violente, perché non è detto che tutti leggano di buon grado la rappresentazione di un uomo scuoiato vivo), ma è certamente un personaggio dotato di spessore. Mi è antipatica Kumiko, che peraltro è presente come un’assenza, solo “in negativo”, evocata nei ricordi e nelle percezioni del protagonista, o nelle lettere che scrive, ma mai direttamente nel suo parlare e agire sul momento. Ma Kumiko ha una sua profonda ragion d’essere perché è, a prescindere, l’oggetto amato e la meta cui Toru tende, per quanto possa essersi sporcata e sottratta alla sua ricerca. Mi è indifferente sul piano personale Wataya Noboru, che è il malvagio della storia, ma nella sua funzione di malvagio malato funziona egregiamente. Non ho particolare propensione per gli altri, che mi sembrano tutti alquanto sconclusionati e persi nella loro ricerca, ma non posso certo negare che sia proprio questo loro essere sconclusionati e persi, pieni di ferite e maltrattati dalla vita, la radice intima e la ragione del libro, che descrive il ritrovare la strada non di un solo uomo, ma di un’intera umanità sofferente.
L’unico che amo senza riserve è il tenente Mamiya, perché è l’unico che non riesce a vivere autenticamente non perché non sappia ma perché non può; perché è una persona intimamente gentile e infelice, come tutti quelli che un giorno, senza aver fatto male a nessuno, vengono buttati in un pozzo.

C’è la guerra in questo romanzo, una guerra passata e lontana: ed è una storia infinita di sofferenza, di morte, di violenza inaspettata e crudele, insensata e condotta con diligenza. La guerra che combattono i soldati durante l’occupazione della Manciuria, ma anche la guerra che continua dopo la guerra, in tempo di pace, negli angoli oscuri e irraggiungibili della nostra quotidianità regolata. La guerra come metafora della vita, della perdita, della ricerca di un nuovo, faticoso equilibrio.
Metafora. Ecco, se devo trovare un’interpretazione che possa rendere per me accettabile quello che ho letto, trasformarlo in qualcosa che io possa condividere, direi forse che, più che di sogno o della rappresentazione di una realtà parallela, si dovrebbe parlare di metafora. Il pozzo, il cappello rosso di Kano Malta, la voglia bluastra sulla guancia del protagonista e il ritrovato e ribattezzato gatto Sawara, i viaggi di Okada Toru attraverso il muro gelatinoso del pozzo, le sue eiaculazioni impreviste e la schiena di porcellana di Kumiko, Nutmeg e Cinnamon e le mani di Kasahara May sugli occhi del fidanzato che guida la moto dovrebbero essere la metafora, vera, di una ricerca.
In un mondo in cui, in maniera un po’ pirandelliana, non è più possibile sapere se si conoscevano davvero le persone o no, in cui non è possibile nemmeno sapere se si conosceva se stessi, chiudersi in un pozzo vuoto con una mazza da baseball e passarne il muro freddo e gelatinoso per risalire all’origine della sofferenza e liberarsi da essa, è la metafora della ricerca che possiamo, forse dobbiamo intraprendere. Con una speranza e una consolazione, quelle che discrete concludono in fondo tutti i libri di Murakami, per lo meno quelli che ho letto io: che in qualche modo ritrovare una strada è possibile, e che da qualche punto nascosto della terra alla fine l’acqua di un pozzo secco torna a rifluire.


 

 

pubblicazione sul sito Little Corner del dicembre 2009

 

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