Oscar tatamisé

ovvero

Il Takarazuka visto da un’occidentale

 

 

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Premetto che non parlo il giapponese, e che quindi le riflessioni che sto per fare sono condizionate dal grosso handicap di non aver capito una parola di quel che ho visto, a parte qualche arigato, kokoroko e i nomi dei personaggi. Limite non da poco, mi rendo conto, ma, in mancanza di un’edizione dello spettacolo sottotitolata in qualche lingua indoeuropea, la versione originale è l’unico modo per accostarsi al Takarazuka. E bisogna anche dire, d’altra parte, che per un fan che abbia debitamente letto il manga e conosca la storia di Oscar e André, seguire tutto e capire quello che sta succedendo sulla scena è molto facile, perché l’intreccio segue abbastanza fedelmente - messi in conto gli inevitabili adattamenti teatrali – il racconto di mamma Ikeda.

Inoltre questo Grand Romance di Oscar e André è un’opera fatta di musica, danza e canto, in cui la recitazione è solo una parte, e così il problema di non capire i dialoghi è stemperato dal fatto che sono accompagnati da gesti e quadri molto vivaci (anche troppo, se è per questo), che orientano la comprensione e sostengono l’attenzione.

Essendo dalla tenera e remota età di quindici anni un’appassionata integrale di Lady Oscar, sempre alla ricerca spasmodica di tutto ciò che potesse ricondurre ai nostri eroi dopo essere stata sedotta e tragicamente abbandonata dall’anime, la mia curiosità di vedere il Takarazuka dopo aver appreso della sua esistenza era stata sempre fortissima. Ricordo che un tempo fantasticavo perfino di improbabili viaggi in Giappone dove, oltre a saccheggiare le fumetterie, avrei fatto l'impossibile per procurarmi un biglietto per questo spettacolo. La versione “Oscar et André”, naturalmente: perché di Versailles no Bara il Takarazuka mette in scena anche una versione tutta dedicata all’amore tra Fersen e Maria Antonietta, in cui i nostri, altrove protagonisti, hanno invece una parte secondaria.

Volevo vederlo, insomma. Pur nella consapevolezza, certamente, che per una spettatrice temprata, come tutti i fan occidentali, dalla dura scuola di Dezaki, e pervenuta al manga anni e anni dopo senza lo stesso trasporto, il confronto con questo tipo di opera avrebbe avuto delle dissonanze.

Le ha avute, infatti, e non piccole. Ma erano ampiamente previste e forse per questo sono state meglio digerite. La visione non mi ha fatto strappare i capelli e gridare al miracolo (ammetto anzi qualche fondato sbadiglio), ma direi che tutto sommato è valsa la pena.

Il mio, sottolineo, è un punto di vista molto parziale e senza alcuna pretesa d’infallibilità. Quello di un’occidentale che valuta col suo metro e col suo gusto, partendo dal suo background culturale. Una dei tanti spettatori occidentali, che ovviamente non pensa di parlare per tutti e da prendere col beneficio d’inventario. Niente di più relativo, quindi.

Oltretutto la sottoscritta è di quei fan che pensano che dell’oggetto della propria passione bisogna conoscere più aspetti possibili. Che non si sarebbe mai sognata di non guardare il film di Demy, e ci ha trovato perfino qualche cosa di buono. Di quelli che pensano che conoscere una cosa in più su Lady Oscar è meglio che non conoscere una cosa in più su Lady Oscar. Chi legge è quindi avvisato su ciò che potrà trovare.

 

Ma, riprendendo il filo, dicevo che ne è valsa la pena. Ovvero, è valsa la pena per me in quanto appassionata alla ricerca di spunti, interessata anche sul piano “documentario” a cogliere riferimenti pur minimi, fatta la dovuta paziente scrematura tra i quintali di cose noiose e kitsch che - non me ne vogliano i giapponesi in ascolto - si trovano a bizzeffe nel Grand Romance. Bisogna che noi ci accostiamo, a mio parere, accantonando l’idea di poter ritrovare autentica qualcuna delle emozioni che avevamo provato davanti ai “nostri” Oscar e André. Che questa è una versione diversa: una versione tatamisé. Più utile per capire semmai, le differenze tra le nostre culture, e i motivi del maggiore successo del manga in Giappone, i cui ricami e abbandoni retorici sono fedelmente ricalcati dall’allestimento.

Insomma, bisogna partire con l'idea che si tratta di una cosa distante anni luce dal nostro gusto.

Un tipo di spettacolo che suona antiquato al nostro palato, ormai. Sul piano formale somiglia più al varietà di una volta, ma una cosa fatta in grande (il che non è detto sia un bene, dipende da cosa viene ingrandito). Passerelle, scale, pavimenti mobili con pedane che portano gli attori su e giù, un modo di cantare statico, con gesti molto "portati" e molto classici che a noi ormai non piacciono più. Tipo Wanda Osiris, o quei tenori vecchio tipo che eseguivano "E lucean le stelle" fermi in mezzo al palcoscenico con la mano nel panciotto. Peraltro sul palco si alterna un sacco di gente, si muovono tantissimo: ma ugualmente non è un muoversi naturale, dinamico, sa troppo di coreografia per il nostro gusto, o almeno per il mio. E anche la recitazione non si può definire realistica: quelli non sono Oscar e André ma due attori (attrici!) che impersonano Oscar e André, e non si preoccupano minimamente di dissimularlo perché si vede benissimo che la cosa per loro non costituisce un problema, anzi. E' come se tutta questa messinscena, questo sbracciarsi in gesti grandi e solenni, insieme ai lustrini e ai vestiti improbabilissimi, facesse parte del divertimento e dello spettacolo. Non fosse insomma una cosa da evitare ma invece da garantire al pubblico. Che infatti si diverte un mondo e applaude. In buona parte credo sia anche il modo di parlare dei giapponesi che ci fa faticare quando dobbiamo accostarci a una cosa loro: l'intonazione suona al nostro orecchio leggermente "eccessiva", sembrano quasi arrabbiati anche quando parlano di cose normali, e in buona parte credo che la nostra difficoltà derivi da questa lontananza percepita del tutto soggettivamente, al di là della effettiva melodrammaticità del testo.

 

Ora, detto tutto ciò, il lettore si chiederà che diamine ci ho trovato di buono. Ebbene, direi che qualcosa di buono c'è. Se uno riesce a fare questo grande sforzo d'elasticità e sopportare di buon animo che André vada in giro vestito come Tony Manero, e passa sopra agli aspetti più tipicamente ascrivibili alla diversità culturale, qualcosa di buono c'è. Sul piano più prettamente "filologico" si può individuare qualche spunto apprezzabile, qualche analogia interessante.

Ad esempio nella parte iniziale, quando André e Oscar vengono presentati da bambini, lei gli tira una spada e subito iniziano a duellare, così come la Ikeda ci raccontava. E mentre duellano, all'improvviso la scena cambia e ci sono sempre loro che duellano ma sono grandi, con un gioco di luci diverso, una scena più spoglia, vestiti differenti. Insomma, anche se rimangono sulla scena, questi due nuovi André e Oscar sembrano spuntati fuori dal nulla, ed è immediatamente chiaro che sono diversi, più grandi, cresciuti. E' una scena di un impatto visivo notevole (o almeno a me ha fatto questo effetto), perché tutta la gente che c'era intorno all'improvviso scompare, tutta la famiglia al completo da papà Jarjayes a Nanny alle cinque sorelle si dilegua e rimangono sulla scena solo loro. Soltanto loro due, grandi, insieme, che si esercitano alla spada. Mi è piaciuto che questo sia stato reso: il fatto che questi due siano finiti insieme per caso e per manovre altrui, e poi abbiano continuato a stare insieme perché si sono scelti, e continuano a stare insieme da soli perché non hanno bisogno di altri.

C’è una scena simile nel film live di Demy. Ma, rispetto a quella, questa mi è parsa più bella e toccante. Quella di Demy è molto più didascalica, questa ha un suo impatto emotivo.


Mi è piaciuto il personaggio di André. Io, che avevo delle forti riserve proprio per il fatto che gli uomini fossero interpretati da donne, devo dire che mi sono abbastanza ricreduta. Certo, sono sempre donne, e l’immedesimazione richiede un bello sforzo. Ma fatto questo sforzo il risultato è accettabile. Un po' per il canto e l'intonazione, che riesce abbastanza grave e quindi credibile nonostante tutto. Sono molto professionali. Un po' proprio per la scelta dell'attrice che, tutto considerato, mi è sembrata calata bene nel ruolo di André, oltre che esteticamente gradevole.

Un'altra scena che mi è piaciuta è quando lui le dichiara di amarla. Non tutto, alcune cose. Qui la regia da una parte ha seguito la Ikeda, proponendoci la sconfortante scena del tentativo di avvelenamento. In parte, però, ha mediato, facendo seguire questo gesto improponibile da un'aperta confessione di André e da una drammatica dichiarazione, in cui egli le rivela il suo amore. Drammatica si fa per dire, considerato il modo di muoversi, ma insomma di un certo effetto. Soprattutto una cosa mi è piaciuta, perché nel finale, subito dopo la dichiarazione, mentre André esce lei lo richiama in un modo accorato. Nel manga, se non ricordo male, gli diceva "Ci vedi bene"? Si preoccupava per lui. Qui la cosa è molto più essenziale: non c'è nemmeno, mi pare, una preoccupazione in qualche modo "oggettiva" per il suo male, ma una preoccupazione in sé, che è quasi più un desiderio personale di riaverlo vicino e che non vada via che una sollecitudine "altruistica" per lui. Bella anche la scena, molto prima di questa,  del notturno in cui lei è sdraiata su una panchina e appoggia la testa alle sue ginocchia, e quando si assopisce lui parla al cielo in modo tenero e triste. Anche la scena della confessione reciproca dell'amore non è poi male. A parte il fatto che sembra di trovarsi in una tavola della Ikeda tanto la scenografia è fedele (a proposito, anche qui Oscar suona il violino), con tanto di finestroni ad arco e tende - ed è una cosa che fa piacere - devo dire che c'è sentimento. Bella l'idea (certo melodrammatica nella realizzazione ma interessante) di lei che gli chiede scusa. Melodrammatica perché gli abbraccia le ginocchia al modo greco (e su questo non faccio commenti), interessante perché è un riconoscimento alla devozione di André. Insomma, un ritrovarsi, tra intensi tira e molla sentimentali, che si conclude con un bacio e poi il sipario.

 

Un'altra cosa positiva, sebbene molto diversa dalla versione Dezaki, è il modo in cui questo spettacolo ha saputo prendere e integrare le parti comiche, che nel manga c'erano, con quelle drammatiche. In modo piuttosto naturale, senza che si avvertisse lo stacco. In effetti è uno spettacolo fatto di musica, recitazione, danza: e in due ore un certo alternarsi tra scene intense e scene più leggere conferisce armonia all'insieme senza togliere drammaticità alla storia.

Anche il personaggio di Maria Antonietta è ben interpretato, si vede che l'attrice è su un altro piano rispetto alle comprimarie.

La recitazione, certo, suona un po’ ostica alle nostre orecchie. La stessa scena dell'incontro coi Soldati della Guardia, per quanto Alain non sia male come scelta estetica, è caotica come poche (fa il paio solo con la scena delle frivole cortigiane di Maria Antonietta che sembrano in preda ad attacchi epilettici). Insomma, non c'era bisogno di fare tutto quel casino per spiegare che Oscar trova difficoltà coi nuovi soldati.

 

Il Grand Romance di Oscar e André è abbastanza fedele però opera dei tagli sulla storia originale. Tagli abbastanza ben condotti, di solito, a parte quello sulla storia del Cavaliere nero (che peraltro è un vero capolavoro nell'anime di Dezaki più che nel manga). Qui il Cavaliere nero spunta fuori all'improvviso dal nulla, non si capisce bene cosa ci stia a fare lì né dove vada in seguito. Compare giusto per il tempo di duellare con André e di ferirlo, anche se poi c'è una cosa interessante (magari un po' teatrale ma non male, nel senso dell'attribuzione di una notevole "dignità" a questo personaggio): che André viene ferito ma nonostante questo lo disarma, e dissimulando il dolore per la ferita lo consegna a Oscar.

Un altro aspetto che mi sembra testimonii della predilezione marcata per i toni più teatrali propri di un certo gusto del Sol levante è la scena della morte di André. Non mi è piaciuta (non solo perché André muore, s’intende), prima di tutto per il fatto che egli viene colpito più volte sotto gli occhi di Oscar ma distante da lei, e sempre distante muore, non confortato dalle parole dell’amata, mentre Girodel - che non si capisce peraltro cosa ci stia a fare lì in quel momento - trattiene Oscar e le impedisce di andare da lui negli ultimi istanti. Non mi è affatto chiaro perché. Immagino che narrativamente sia per impedirle di venire ammazzata anche lei, ma quello che visivamente emerge è una sorta di "rivalità" di Girodel con André, assai disdicevole in punto di morte del rivale. Insomma, una scena carica, manieristica, forzatamente melodrammatica, con un’aggiunta inutile.

C'è di buono che il personaggio di Rosalie è appena accennato e non mi pare che pianga granché, così come viene saltata tutta la parte in cui si installa a palazzo Jarjayes e Oscar le fa da balia asciutta, nonché il conflitto con Jeanne (che, se l'ho ben individuata, fa la sua comparsa nel secondo atto in mezzo ai popolani).

Oscar muore ikedianamente dicendo: "Banzai", però bisogna ammettere che lo dice con sentimento.

Confortante forse per il pubblico ma deprimente per noi il gran finale, in cui i nostri due eroi si ritrovano nell'aldilà, in partenza per il Paradiso a bordo della carrozza di Cenerentola su cui André biancovestito come si conviene a un beato attende l'altrettanto biancovestita Oscar per il ricongiungimento finale al di là della morte. Ogni commento su questa cosa è superfluo, ho avuto nostalgia degli spiriti fluttuanti di mamma Riyoko che, per quanto amante degli dei olimpici e delle teorie metempsicotiche, almeno ci evitava il trash fiabilandico. Dopodiché, prima del gran finale in costume settecentesco con discesa dello scalone per gli applausi, c'è in mezzo tutta una serie di quadri in abiti charleston e da Via col vento, che non c'entano un tubo (ma non sono meno rutilanti di quelli settecenteschi - a proposito, si fa per dire, più che settecenteschi sembrano quelli di un carnevale di Venezia ispirato a Strauss) con scene tratte credo da altri spettacoli del Takarazuka.

Alla fine, dopo averla sentita sei o settecento volte nel corso dello spettacolo, lo spettatore impara a riconoscere e apprezzare la canzone "Ai sore wa" o qualcosa di simile, evidentemente tema portante di tutta l'opera.

Comunque, nonostante tutte le riserve, dico lo stesso che preferisco averla vista. E' un'opera che fa parte del patrimonio berubariano, e offre interessanti spunti per il confronto. Anche se, è ovvio, si percepisce chiaramente la fortissima vicinanza col manga e anche una profonda distanza dall’anime della regia Dezaki, che ho l'impressione abbia fatto un grande lavoro non solo di bonifica e resa più sobria, ma anche di adattamento di certe cose alla mentalità occidentale, che per alcuni aspetti è profondamente diversa.

Certo, guardando questo spettacolo che così grande successo ha avuto in Giappone, e pensando anche al grande successo del manga e a come invece la serie animata di Lady Oscar non abbia trovato gli stessi estimatori in  patria, mentre in Europa e altrove ha avuto un’accoglienza straordinaria (meritatissima), trova conferma credo una volta di più quello che avevamo già intuito su una notevole differenza di gusti e mentalità tra noi e loro.

Ma è una differenza stimolante, per quanto mi riguarda. Piena di fascino e cui accostarsi con apertura e interesse, certo senza la presunzione di credersi depositari di una maggior verità. Piuttosto per inquadrare meglio noi stessi, oltre a loro. Una diversità che merita di essere esplorata. Anche solo per farsi un’idea e confermare le proprie coordinate.


 

 

pubblicazione sul sito Little Corner del febbraio 2007

prima elaborazione scambio mail con Laura 8-12 gennaio 2007

 

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Mail to *alessandra*

 

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