innocentiusIII  

BARLAAM DI SEMINARA

SUL PRIMATO DEL PAPA

 
 

 

 Nel 1334 Barlaam di Seminara, un Greco di Calabria che intorno al 1326 si era trasferito a Bisanzio, fu costretto ad uscire dalla tranquillità dei suoi studi universitari, ai quali si dedicava ormai da tempo, ed a salire sulla ribalta della Storia. Infatti, l'imperatore Andronico III aveva scelto lui per condurre il dialogo teologico con i rappresentanti papali, i vescovi Riccardo d'Inghilterra e Francesco da Camerino, frati domenicani missionari in Crimea, ai quali si aggiunse il vescovo missionario di Pechino, Nicola. Di contro alla renitenza, motivata da disillusione personale o da timore di impopolarità, degli altri membri della Chiesa greca a partecipare alle discussioni, Barlaam accettò con grande impegno questo incarico e, anche se i colloqui non portarono ad alcun avvicinamento tra le Chiese, gli diedero comunque l'occasione di comporre le sue opere contro le dottrine latine del Filioque e del primato del papa, che gli procurarono quel ruolo di protagonista che non abbandonò più.[1]

 

Di Barlaam abbiamo tre opuscoli greci sull'argomento del primato papale (un quarto è solo un abbozzo), convenzionalmente chiamati: A X , B VII ed il n° XIX (l'ultimo nella numerazione del Fabricius),[2] e composti appunto in occasione dei dialoghi teologici del 1334.[3] I trattati di Barlaam si inseriscono in una tradizione polemica bizantina consolidata che inizia dal secolo XII, quando i teologi greci cominciarono ad avvertire l'esistenza di un nuovo modo di concepire la Chiesa di cui la monarchia papale era l'effetto ed il compendio. Iniziarono così gradualmente ed in modo crescente ad inserire il tema del primato nei testi di polemica antilatina, ma fu Barlaam ad avere il merito di essere stato il primo a farne l'oggetto di uno specifico trattato teologico. Vi fu probabilmente spinto dall'atteggiamento dei teologi latini che spesso, quando si trovavano in difficoltà di fronte alle sue dimostrazioni, interrompevano la discussione sul Filioque, invocando l'infallibilità della Sede romana.[4] Le argomentazioni usate da Barlaam furono talmente efficaci che i suoi trattati vennero sfruttati abbondantemente dai Greci anche dopo la condanna del calabrese da parte della loro autorità ecclesiastica nel 1341.

 

La sua argomentazione partiva con la constatazione di una diversità quasi psicologica dei "Latini": il bisogno assoluto di avere qualcuno che garantisse la verità cristiana, un guardiano della fede. Per i Greci, invece, dato che l'autorità del magistero ecclesiastico consisteva nel fatto che esso insegnava e faceva rispettare regole e dogmi già stabiliti, del tutto inutile appariva la principale giustificazione funzionale della monarchia papale: quella di essere lo strumento sicuro dell'individuazione degli errori di fede. Infatti, essendo la fede cristiana già stata esplicitata, chiunque poteva rilevare l'eresia, individuandola direttamente nelle modifiche, nelle aggiunte e nelle sottrazioni operate nei confronti di quella stessa fede. Per Barlaam la promessa di eternità per la Chiesa fatta da Cristo: Le porte dell'inferno non prevarranno (Mt. 16:18) si riferiva al fatto che ci sarebbe sempre stata una Comunità cristiana (grande o piccola che fosse) che sarebbe rimasta attaccata indefettibilmente alla verità, piuttosto che ad una infallibilità della Comunità stessa.

L'argomentazione del calabrese, poi, evidenziando la confusione che si faceva tra la figura dell'apostolo e quella del vescovo, riprendeva un tema caratteristico della più antica patristica e rimasto vivo in Oriente: la differenza tra gli apostoli ed i vescovi consisteva nel fatto che i primi erano stati designati pastori e maestri del mondo intero ed avevano avuto il potere di nominare il proprio successore; i secondi, invece, erano i custodi di un gregge particolare e ad essi non era stato concesso di designare il proprio erede nella carica. In questo senso, non vi era stata alcuna successione apostolica e perciò, anche si vi fosse stato un apostolo più grande degli altri, come affermavano i Romani, il suo carisma personale non avrebbe avuto continuazione e successione.[5] D'altro canto, invece, l'episcopato nel suo insieme era l'erede in altre forme del carisma apostolico ed ogni vescovo era successore di Pietro e di tutti gli apostoli, fra loro uguali per natura, cioè dell'intero e indivisibile collegio apostolico. Sarebbe stato troppo al di sopra degli orizzonti culturali di Barlaam, andare oltre e recuperare ia teologia del II/III secolo di Ignazio di Antiochia (Magn. 6:1; 3:1-2; Tral. 3:1) e di Ippolito di Roma (Trad. Ap. 3) che vedeva nel vescovo soprattutto un altro Cristo e un'immagine del Padre. Se infatti il vescovo diventa un altro Pietro, "la struttura della Chiesa locale cessa di riflettere il Regno di Dio, con Cristo circondato dagli apostoli (=i presbiteri)".[6]


innocentiusIV    

Per quello poi che riguardava l'esistenza di Chiese che venivano definite apostoliche, l'ecclesiologia orientale, basandosi sulla ripartizione del mondo cristiano in cinque patriarcati (la pentarchia), individuava questo carattere non nella fondazione diretta della Chiesa locale da parte di un apostolo, ma nel fatto che ad essa era stato affidato il ministero di un potere ecumenico (=apostolico) sulle altre.[7] In Occidente invece, già dal V secolo l'identificazione tra apostoli e vescovi era un fatto compiuto e gli apostoli fondatori furono considerati i primi vescovi di quella determinata Chiesa.[8]

L'idea dell'uguaglianza di tutti i vescovi tra loro fu definita da Barlaam con una sua originale dimostrazione, che lo differenziava da tutti gli altri polemisti bizantini: era l'argomento più ortodosso di tutti perché era l'argomento carismatico o sacramentale, che non riconosceva, appunto, l'esistenza di carismi istituzionali non contemplati e non originati dai sacramenti della Chiesa. Basandosi sulla testimonianza di Dionigi l'Areopagita, egli evidenziava come la tradizione apostolica che si era concretizzata nei libri liturgici di tutte le Chiese, compresi quindi anche i sacramentari dell'antica Chiesa romana, non conosceva un'ordinazione ministeriale superiore al vescovo; la gerarchia sacerdotale in senso ascendente era sempre questa: diacono, prete, vescovo. Non era mai esistito un sacramento per la consacrazione del papa e dunque il papa non esisteva per diritto divino, così come non esistevano i patriarchi, i metropoliti, e tutti gli altri titoli e funzioni assenti nell'originaria gerarchia della Chiesa. Essi non derivavano dal Vangelo, né dalla tradizione apostolica: erano aggiunte umane, storiche che, consapevoli di essere prive di una sanzione carismatica e sacramentale, avevano cercato di creare cerimonie parasacramentali come incoronazioni, intronizzazioni, eccetera. A corollario di questo argomento, Barlaam aggiungeva che il vescovo di Roma non poteva godere di un carisma superiore agli altri vescovi, visto che necessariamente proprio da essi doveva ricevere la consacrazione. 

Invece, la tesi di Barlaam, comune a tutta la polemistica bizantina contro il primato, che datava alla conversione dell'Impero romano ed alla legislazione dei sovrani cristiani l'origine storica del ministero "apostolico" della Chiesa romana, pur avendo ragione nel collegare all'esistenza dell'Impero la nascita del fenomeno, nell'aspetto secondario della collocazione cronologica non teneva conto delle testimonianze precostantiniane su questo argomento.

Infatti, il "primato" della Chiesa madre di Gerusalemme, modello non esportabile di ascetismo comunitario e veterotestamentario, guidata da Giacomo il giusto, un fratello di Gesù che non aveva mai fatto parte dei Dodici, era cessato nel 66/70, con il durissimo colpo inferto alla comunità giudeocristiana dalla catastrofe della guerra. Fu inevitabile, allora, che una compagine religiosa dal nome ecclesia romana ottenesse il posto più prestigioso tra le Chiese cristiane dell'impero romano.


  costantino

Un padre della Chiesa del II secolo: Ireneo di Lione, attribuiva alla Chiesa di Roma l'autorità più importante,[9] ma al tempo stesso respingeva decisamente la strumentalizzazione del prestigio di Roma capitale e delle tombe degli apostoli per privare della libertà le altre Chiese. Per lui i vescovi di Roma potevano pretendere obbedienza solo dai fedeli che stavano presso di loro.[10] Nel III secolo poi, di fronte ad un'interpretazione del primato della Chiesa della capitale come superiorità carismatica, gli altri esponenti dell'episcopato come Cipriano di Cartagine e Firmiliano di Cesarea di Cappadocia, senza alcuna remora ed atteggiamento reverenziale, negarono l'esistenza di un magistero particolare della Chiesa di Roma e del suo vescovo: Infatti Pietro, che il Signore scelse per primo e sul quale edificò la sua Chiesa...non riservò a sé stesso in maniera insolente la competenza su qualcosa o non fece mostra d'arroganza dicendo di possedere un primato..; Ci si può rendere conto che i Romani non osservano in tutto le tradizioni originarie ed invano si appellano all'autorità degli apostoli perché, in ciò che riguarda la celebrazione delle feste pasquali e molti altri aspetti del culto divino, è evidente che presso di loro alcune cose sono state mutate e che a Roma non si seguono le stesse pratiche di Gerusalemme...Da ciò è chiaro che questa è una tradizione umana...[11]Generale, insomma, era la cura di prevenire la comparsa tra i vescovi di un summus sacerdos, negatrice della pienezza cattolica delle singole Chiese che sarebbe stata fatta dipendere dall'inserimento in una struttura universalistica o dalla subordinazione a un presunto centro: Che il vescovo della prima sede non si chiami principe dei sacerdoti o sommo pontefice o con altri nomi simili, ma solamente vescovo della prima sede.[12]

Il sincero desiderio di Barlaam di dialogare e convincere gli interlocutori "latini" a ritornare allo spirito del Cristianesimo primitivo, nel quale non c'erano né primi né ultimi, era perdente in partenza. Infatti, quei postulati che lui riteneva necessario avere in comune con l'interlocutore, pena l'impossibilità e l'inutilità del dialogo stesso, non erano condivisi, come lui pensava, dai suoi contraddittori cattolici: infatti, essi non potevano accettare che i pronunciamenti dei papi non fossero inclusi nell'elenco delle fonti e delle testimonianze del dogma cristiano, anche se, su questo particolare tema, ciò avrebbe comportato la deroga al principio che le testimonianze a proprio favore non sono valide.[13] C'è ancora da notare che Barlaam non incluse fra le autorità su cui la discussione sul primato avrebbe dovuto basarsi neppure gli scritti dei Padri della Chiesa, dando invece la preferenza esclusiva ai testi scritturistici ed ai canoni conciliari. La presenza, quindi, dei testi dello Pseudo-Dionigi si giustificava come una testimonianza di un personaggio ritenuto compagno degli apostoli, piuttosto che scrittore autorevole della tradizione.

Quando si convertì al cattolicesimo, Barlaam dovette certamente confrontarsi con quello che lui stesso aveva scritto contro quella dottrina. Fu un fatto certamente penoso per uno spirito compreso del suo valore com'era lui. Esplicitamente non condannò mai le sue opere precedenti; le sue nuove idee preferì affidarle ad una corrispondenza epistolare con degli amici greci, rimastaci in versione latina, in cui li esortava ad unirsi alla Chiesa romana con delle missive che a volte raggiungono le dimensioni di piccoli trattati.[14] Per quello che riguarda il trattamento a cui sottopose le sue argomentazioni contrarie alla monarchia papale, gli fu abbastanza agevole contraddirsi il meno possibile, dato che le sue "palinodie" adottavano un altro schema concettuale, impostato sulla verifica delle dimensioni dei poteri di Pietro e del papa di Roma, schema che lo stesso Barlaam aveva esplicitamente scartato in precedenza nelle sue opere ortodosse (in particolare B VII, linee 35-40. Questa struttura, infatti, conduceva inevitabilmente ad un abbassamento del livello del discorso: mentre negli scritti ortodossi egli si era concentrato su una tagliente e modernissima esegesi neotestamentaria che spuntava tutte le armi ai suoi avversari, con la sua negazione dell'identità tra il carisma apostolico e quello vescovile e con la sua affermazione della storicità delle gerarchie all'interno dell'episcopato, ora di nuovo faceva principalmente appello ad una banale elencazione dei passi e degli attributi presenti nel Vangelo e nella Tradizione che esaltavano l'apostolo Pietro o la Chiesa di Roma, prescindendo anche da una verifica di cosa quelle parole avessero significato nel concreto. L'atteggiamento del Barlaam greco era, dunque, quello di una critica razionale che respingeva gli accumuli di "fatti" privi di significato e, quindi, di verità. Tipico fu il trattamento che fece (Op. XIX, linee 304-309) dell'argomento latino a sostegno dell'infallibilità papale: con un'altra delle sue concessioni dialettiche, l'affermazione che nessun papa avesse mai professato dottrine eretiche non venne da lui verificata o contestata storicamente, ed egli preferì divertirsi, quasi neopositivista logico ante litteram, ad evidenziarne l'inconsistenza dell'enunciato, che non dimostrava che le eresie il papa non le avrebbe potute professare o che non lo avrebbe fatto in futuro. Per il Barlaam cattolico, tale "fatto" assunse sì valore di prova, ma solamente riguardo alla Chiesa di Roma e non al suo vescovo, che anche per il Barlaam cattolico rimaneva fallibile: Infatti, se qualcuno di quei papi aderì a qualche eresia...subito la stessa Chiesa gli si rivoltò per quella dottrina, privandolo della sede e della vita.[15]

Barlaam, però, nella sua opera antilatina non si era potuto attenere completamente al suo schema che escludeva la trattazione del ruolo personale dell'apostolo Pietro all'interno dei Dodici: farlo avrebbe significato ammettere la possibilità che il collegio apostolico si fosse fondato su una logica gerarchica troppo stridente con l'idea dell'uguaglianza tra i vescovi. Da cattolico, perciò, fu costretto a ridimensionare la sua precedente affermazione che Pietro aveva ricevuto da Cristo le stesse prerogative possedute anche dagli altri: communiter omnibus data,
[16] precisando che le aveva ricevute personalmente in una forma più esplicita e solenne, a significanza del suo essere capo e principe degli apostoli. Anche il fatto che l'unica manifestazione del primato petrino nel Nuovo testamento fosse stata quella di parlare per primo, venne interpretato come la punta emergente dell'iceberg di un potere più grande. Ma per riprendere il tema delle concezioni di base, notiamo che il "discorso opposto" cattolico di Barlaam manifesta rispetto al discorso ortodosso altre due grandi scarti: esso, infatti, si caratterizza per la presenza ed il grande spazio concessi ad argomentazioni non teologiche che il primo Barlaam avrebbe definito di sapienza umana: la giustezza delle posizioni della Chiesa romana veniva dimostrata dal fatto che gli occidentali erano più potenti, più istruiti, più costanti nella fede, più uniti, più indipendenti dallo Stato, più numerosi: in virtù delle parole del Signore a Pietro, le genti a lei sottomesse la temono e ne tremano.[17]

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L'idea ortodossa che Barlaam aveva abbandonato era la proclamata fedeltà all'evangelico "piccolo gregge" (Lc. 12:32), che gli faceva dire che la Chiesa sarebbe rimasta tutta intera anche con un solo vescovo rimasto fedele alla Parola di Dio. Adesso, invece, una Chiesa oppressa o sconfitta storicamente era per lui una comunità abbandonata da Dio.
Importante fu anche la modifica alla lista delle autorità e dei principi che fornivano il criterio della verità cristiana: mentre nelle opere ortodosse egli aveva esaltato l'autorità dei canoni della Chiesa antica come parte della rivelazione divina, adesso erano considerati, tranne quelli esplicitamente dogmatici o ricavati direttamente dalle parole evangeliche, opera umana che era stata più volte fatta oggetto di modifica e riforma. Essi, dunque, che riflettevano profondamente la prassi e lo spirito di una Chiesa conciliare e tradizionalista, potevano con questo nuovo atteggiamento benissimo essere messi da parte, eliminando un grossissimo ostacolo all'affermazione della monarchia papale. Che però questa fosse una tendenza in nuce del pensiero di Barlaam lo si può vedere dalla sua insistenza negli scritti ortodossi sul fatto che, nonostante i "divini" canoni stabilissero una gerarchia tra i vescovi, questa gerarchia era per lui un'evoluzione tardiva, legittimata dalla sua utilità e, per ciò stesso, storica. I Concili ecumenici stessi, inoltre, si vedevano nella versione cattolica del pensiero di Barlaam diminuire di molto la loro autorità: mentre prima egli aveva attribuito loro giurisdizione anche sulla Chiesa di Roma, nei suoi ultimi scritti era la Chiesa di Roma a legittimare e a valutare il Concilio.  

Dei tre opuscoli contro l'assolutismo papale qui diamo la traduzione di quello convenzionalmente chiamato con la sigla B VII, che
, nella sua pacatezza e concisione, contiene la negazione più radicale dell'ideologia papale che sia stata concepita da Barlaam. C'è un notevole progresso teorico rispetto all'Op. XIX, come testimoniano anche la diversa e più efficace citazione dello Ps. Dionigi ed il pressocché totale abbandono dell'apologetica a favore del "co-primato" dei patriarchi orientali, ormai insostenibile in una visione teologica dove l'idea stessa di primato non ha alcuna giustificazione teologica. E' il miglioramento del precedente A X, di cui però ha lasciato cadere questi tre spunti interessanti:

a) l'universalità del titolo di "papa" : Dal momento che già era una consuetudine diffusa usare la parola "papa" nei titoli, questo nome non è indicativo di alcuna precedenza o rango: e infatti si è presa l'abitudine di chiamare papa anche il vescovo di Alessandria, e presso di noi ogni prete è chiamato papa. Papa, infatti, significa padre, e ciascun vescovo, se non di nome ma certo di fatto, è un "papa" a motivo che egli è il pastore dei suoi fedeli.  

b) il rifiuto dell'autorità di Pietro da parte di Paolo:
Risulta poi che il divino Paolo rimproverò Pietro e ridusse la sua autorità, dal momento che dice di essere stato lui destinato ai pagani ed invece Pietro ai Giudei.

c) il giudizio su eventuali carismi tra i cattolici: Quanto poi al fatto che, come tu dici, molti che riconoscono il papa come capo autentico ed ortodosso piacciono a Dio per la loro virtù ed hanno operato molti miracoli, noi diciamo due cose. La prima è che di ciò noi non abbiamo elementi sicuri, dato che non abbiamo mai visto un esponente della vostra eresia operare dei miracoli. La seconda è che non è sufficiente la capacità di operare miracoli a provare l'ortodossia di chi li fa; si narra infatti che anche un vescovo dell'eresia degli pneumatomachi da morto abbia operato dei prodigi sulla sua tomba, ma non per questo la Chiesa ha considerato ortodossa la sua fede. Infatti nel vangelo sta scritto: Molti mi diranno in quel giorno: Signore, non abbiamo operato queste cose nel tuo nome? E si sentiranno rispondere: Non vi conosco (Mt. 7:22). Poiché, al contrario, vi sono presso di noi in numero incalcolabile persone virtuose e devote che giornalmente operano secondo verità dei miracoli, dovresti allora sentirti obbligato a convertirti alla retta dottrina che noi conserviamo.    



 gregorius XIII
     


 SULL'AUTORITA' DEL PAPA    


Tu dici che il papa non può essere eretico perché egli è il successore di S. Pietro in ciò che riguarda la fede, e siccome tale fede non potrà mai venir meno in conformità dell'espressa preghiera del Signore, essa non potrebbe ora venire meno nel papa, dal quale necessariamente è conservata integra. Dici anche che se il papa, unico vicario di Cristo sulla terra, potesse allontanarsi dai dogmi ortodossi, crollerebbe la nostra religione. La Chiesa scomparirebbe prima della fine del mondo: non essendoci infatti un papa, non vi sarebbe neppure un vicario di Cristo fra gli uomini, e senza di esso la Chiesa non potrebbe esistere.  

Queste, dunque, sono le tue tesi. Ed io, sebbene non abbia dubbi sulla necessità di replicarvi, sono incerto su quali debbano essere i miei interlocutori. Infatti, da una parte, se mi dilungassi a favore dei Greci su questa materia, sarebbe esagerato, e neppure mi sembrerebbe giusto costituire vostri giudici coloro che ritenete avversari. Ma d'altro canto, se io non tenessi conto di loro e mi rivolgessi esclusivamente a voi, temo che vi sentiate in dovere di puntellare ad ogni costo le vostre posizioni, impedendovi la decisione a favore del giusto e del vero. Non vedo altri interlocutori oltre a questi due gruppi con cui parlare di queste cose senza essere preso in giro. Nondimeno, so che è pericoloso consegnare al silenzio la verità anche per una volta e perciò praticherò l'unica alternativa disponibile, che è quella più verosimile delle altre.
Mi rivolgerò a voi Latini e mi aspetto da voi prima di tutto che non porrete niente al di sopra della verità: né il tempo, né la posizione, né la razza, né altro di ciò che vi appartiene, sapendo perfettamente che dare l'assenso a qualcuno che dice la verità su queste materie sarebbe una gran sorte. Ho pensato, infatti, e mi sono convinto che le mie parole saranno non solo a favore dei Greci, ma anche di voi Latini, dal momento che mi accingo a parlare a vantaggio del bene comune della verità.

Farò vertere il discorso, dunque, solo sul potere del papa, senza mescolarvi altri punti in cui la pensiamo diversamente, e come se non vi fossero altri motivi di contrasto tra di noi su altre materie. Così questa discussione ci rivelerà se è possibile o no che la Chiesa possa sussistere senza il papa.
Nessuno mette in discussione che la sede romana sia la prima fra tutte; che il santissimo papa debba essere il capo di tutti i gerarchi nel mondo; e nessuno vi contraddice quando affermate che è molto meglio, negli affari della Chiesa come in quelli del mondo, che vi sia una sola autorità suprema. Siamo in disaccordo soltanto sull'origine di questo primato e sulla sua estensione. Tuttavia io metterò da parte la questione del quanto e del come gli altri debbano onorare il papa, perché essa non ci è utile per lo scopo che ci siamo prefissati. Io discuterò, invece, soltanto di quando il suo primato è comparso e da chi lo ha ricevuto. Infatti questo solo, una volta stabilito, ci mostrerà quello che cerchiamo.

Ora, voi dite che dal momento che S. Pietro ricevette le chiavi del regno dei cieli da Cristo Signore, e divenne il primo, principe degli apostoli e pastore universale, il papa quindi, in quanto suo successore, necessariamente ha lo stesso potere in tutte le cose ed è onorato come il più eminente fra tutti. Riguardo all'autorità del principe Pietro, io non mi opporrò categoricamente a chi sostiene che avesse la direzione dei Dodici come di tutti. Non voglio contestare chi, esaltando l'estensione del suo potere, lo distingue dagli altri apostoli; tuttavia, io non ammetto che il papa abbia ricevuto il primato sugli altri dal divino Pietro. Per adesso riconosco al papa due titoli: di essere il vescovo di Roma e di essere il primo tra i vescovi. L'episcopato di Roma gli viene trasmesso dal divino Pietro, ma l'onore di essere il primo rispetto agli altri, gli venne attribuito molti anni dopo dai piissimi imperatori Costantino e Giustiniano e dai divini Concili.
Mentre molti divennero vescovi in diverse città per mano di S. Pietro, uno solo divenne quello di Roma, non per comandare sugli altri vescovi, ma per essere pastore e maestro dei Romani.

Anche i restanti vescovi ordinati dallo stesso apostolo non ebbero un grado superiore agli altri; invece tutti i vescovi ordinati da questo apostolo, come quelli ordinati dagli altri apostoli erano tutti colleghi di uguale rango, avendo ricevuto lo stessa dignità e lo stesso potere dagli apostoli. Nota questo particolare: in nessun luogo degli scritti degli apostoli noi troviamo un ordine sacro più elevato di quello del vescovo. Quando S. Dionigi, della generazione immediatamente successiva agli apostoli, o piuttosto loro contemporaneo e da loro nominato pastore di Atene, scrisse La gerarchia ecclesiastica, egli distinse la gerarchia della Chiesa in tre ordini: diaconi, preti e vescovi. In quel passo egli considera i vescovi come uguali in rango ed onore, dicendo che nessuno tra loro è più grande dell'altro. Dal momento, quindi, che la sua opera intese trattare l'intera gerarchia ecclesiastica, non avrebbe potuto omettere la figura del papa, se ci fosse stato un papa a costituire un superiore gradino rispetto agli altri. Il suo silenzio, invece, dimostra che quel papa non c'era.

Ma se tu affermi con spavalderia che "Pietro ha reso il papa il primo di tutti i vescovi", come ce lo dimostri ? con quale citazione ? Invero, noi accettiamo che il divino Clemente (o Lino, ci sono due tradizioni a questo proposito), fu nominato vescovo di Roma dall'apostolo; ma non abbiamo trovato in nessuno scritto la tradizione che egli sia stato il primo ed il capo di tutti. O forse dici questo perché il divino Pietro, essendo il primo degli apostoli, dovette lasciare il suo posto e la sua dignità a colui che era il vescovo della città in cui egli morì? Ma allora io dovrei applicare questa eventualità anche al resto degli apostoli, perché se noi dobbiamo basare la nostra discussione su questo argomento su considerazioni ragionevoli, apparirà non meno logico che vi sia un successore per ciascuno degli apostoli, qualcuno che ha avuto in sorte il suo posto ed il suo rango. Allora il successore del grande Pietro avrà rispetto ai successori degli altri la stessa preminenza che il principe stesso aveva rispetto agli altri apostoli. In questo modo noi preserviamo in tutte queste cose la verosimiglianza e la ragionevolezza.
Così come è logico che ciascuno degli altri apostoli abbia lasciato un successore, come ha fatto Pietro.

conclave
 


Tuttavia, per quanto possa essere la preminenza sugli altri condiscepoli attribuibile al divino Pietro, essi non ricevettero la grazia episcopale dall'imposizione delle sue mani. Né alcuno di loro divenne pastore di una luogo particolare nel mondo, come fu il caso di coloro che furono ordinati in seguito; ma essi ricevettero insieme da Cristo Signore, senza intermediario, ciò che era proprio di Cristo, ed ognuno divenne pastore del mondo intero.
Dice il Signore: A te darò le chiavi del regno dei cieli, cioè il potere di legare e sciogliere. Questo fu detto a tutti quanti loro. Però egli disse a Pietro: Pasci le mie pecore, pasci i miei agnelli. Ciò significa: "insegna, porta gli uomini alla conoscenza di Dio, battezza, esorta i battezzati a rispettare le cose che vi ho comandato". Perché questi sono i compiti del pastore di anime, ed essere pastore non può comportare cose diverse da queste. Ma anche gli altri si sentirono dire queste cose: Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. E: Andate in tutte le nazioni. Ed ancora: Insegnate il mio vangelo a tutta la creazione; e: impartite il battesimo ed insegnate ai battezzati di rispettare i miei comandamenti. E: Mi darete testimonianza a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra.

Se perciò ogni apostolo fu inviato direttamente da Cristo Signore come pastore e maestro del mondo intero, è logico che ciascuno di essi, e non solo Pietro, abbia lasciato un successore che abbia nel mondo intero la sua stessa autorità. La preminenza del principe degli apostoli non sarà di impedimento al fatto che il suo successore avrà lo stesso rapporto con i successori degli altri apostoli che Pietro stesso aveva con quelli. Ma in verità non vi è oggi nessun successore degli apostoli in quel tipo di ruolo; perciò non è necessario che vi sia un successore a Pietro, che abbia la sua stessa autorità in tutte le cose.

Potresti dirmi allora: - Tu non ammetti dei successori per gli apostoli!? -
Eccellentissimo amico, invece che negare questo, io andrei ancora più lontano, stabilendo che non vi è un solo successore per ciascun apostolo, ma che tutti i vescovi nelle varie parti del mondo nominati da loro sono i loro successori in egual misura; diversamente da te, che ammetti un unico successore per un solo apostolo e nessun successore per gli altri undici. Tutti i successori di ciascuno di loro sono uguali, in modo che nessuno possiede una dignità superiore a quella degli altri.

Ed ancora, vi è la rivendicazione del fatto che il divino Pietro morì a Roma: questo sarebbe il motivo per cui il vescovo di Roma dovrebbe avere nei confronti degli altri vescovi la stessa preminenza di Pietro. Anche questo dovrebbe essere non meno ragionevolmente applicato agli altri apostoli, dal momento che ognuno di loro ha versato il proprio sangue in qualche località e perciò il vescovo di quel luogo dovrebbe necessariamente avere la stessa autorità che l'apostolo martire aveva avuto nel mondo intero. Piuttosto, questa rivendicazione condurrebbe ad attribuire la massima autorità al vescovo di Gerusalemme, dal momento che in quel luogo fu il Signore stesso ad assoggettarsi alla morte. Ma le cose non stanno così.

Inoltre, se l'apostolo Pietro avesse nominato soltanto il vescovo di Roma, allora si potrebbe sospettare che egli avesse designato quello come suo successore. Ma dal momento che nominò molti vescovi in parecchie altre città, da cosa si evince che egli mise il vescovo di Roma a capo degli altri e lo equiparò a se stesso? Poi, sia nei canoni che nelle leggi il papa è chiamato vescovo di Roma. In essi il principe degli apostoli non viene definito pastore di Roma né di un'altra città, e così pure gli altri apostoli, perché ciascun apostolo fu pastore del mondo intero. Aggiungo anche che Pietro ordinò il vescovo di Roma, ma non è il vescovo di Roma a ordinare il suo successore.  Da questi fatti, quindi, è chiaro che il papa non è uguale al principe Pietro. Perciò Pietro non assegnò al vescovo di Roma né a nessun altro il comando sugli altri.

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Al contrario, colui che occupa la cattedra di Roma, stabilita dal divino Pietro come abbiamo detto, ricevette il primato su tutti successivamente, per decisione del grande Costantino e del primo Concilio. Egli ottenne questo rango perché Roma era la capitale dell'impero e perché era necessario negli affari ecclesiastici come in quelli politici, che l'autorità suprema fosse attribuita ad una sola persona. Porto, a questo proposito, la testimonianza dei nostri 630 padri, partecipanti al quarto Concilio, che dicono nel 28° canone: In completo accordo con le decisioni dei santi padri, e adeguandoci al canone dei 150 devotissimi vescovi, letto adesso davanti a noi, anche noi approviamo e stabiliamo le stesse cose sui privilegi della santissima Chiesa di Costantinopoli, nuova Roma. E infatti i padri diedero la precedenza alla sede della vecchia Roma perché quella era la capitale. Così essi, seguendo lo stesso criterio, attribuirono gli stessi privilegi alla santissima sede della nuova Roma, ritenendo giustamente che una città onorata dalla presenza dell'imperatore e del senato ricevesse gli stessi privilegi della più antica capitale ed avesse grande autorità negli affari ecclesiastici, al secondo posto di quella.
Noi veniamo a sapere due cose sulla cattedra di Roma da questo canone, apprendiamo chi le diede il primo posto e per quale motivo: furono quei santi padri con la motivazione che Roma era la capitale dell'impero.

Ma quando fu trasferita la sede dell'imperatore a Bisanzio, e questa città divenne quella che domina sulle altre, i padri allora decretarono, di nuovo per la stessa ragione, che il vescovo di questa città meritasse lo stesso onore del vescovo di Roma ed ottenesse la stessa predominanza negli affari ecclesiastici. Però, in modo che la Chiesa non fosse spartita fra due autorità supreme e non aver l'aria di contraddire le norme stabilite in precedenza a riguardo, essi definirono Costantinopoli seconda nella gerarchia. E' chiaro da questo canone che il papa non ottenne il primato a motivo del divino Pietro, ma a motivo dell'essere il pastore di Roma. Fu successivamente, quindi, per la decisione dei padri e dei piissimi imperatori, che divenne la massima autorità. Anche il vescovo di questa città, Costantinopoli, è chiaro che anche lui ottenne la prima posizione subito dopo il papa non dalla tradizione apostolica, ma piuttosto per i motivi che avete appreso.
La "bolla d'oro" concessa da Costantino il grande a S. Silvestro dimostra anch'essa che in origine il papa non aveva il primato. Con quel privilegio il pio imperatore fece di Silvestro una sorta di imperatore ecclesiastico. Sicuramente egli non poteva dare a quello che l'altro già possedeva, ma ciò che non aveva. E così, avendo Silvestro il titolo di vescovo di Roma, Costantino non glielo conferì; non aveva però autorità sugli altri e fu quella ad essergli conferita. In maniera simile, nella novella 130, Giustiniano dice: Noi decretiamo, in conformità alle definizioni dei santi Concili, che il santissimo vescovo della vecchia Roma sia il primo fra tutti gli ecclesiastici e che il beatissimo vescovo della nuova Roma, Costantinopoli, ottenga il secondo posto dopo la cattedra della vecchia Roma ed abbia maggiori distinzioni che tutti gli altri. Vi è ancora qualcuno, dunque, che a conoscenza di questa legge possa negare la vera origine dell'autorità della sede romana? Infatti, nota che Giustiniano dice: Noi decretiamo in conformità ai sacri concili, egli non dice: "Dal momento che occupa il luogo del divino Pietro"; invece: "dal momento che ciò è stato deciso dai concili". Ma i Concili dicono che le è stato dato il primato perché Roma è la capitale, e perciò in origine essa non aveva tale primato.

In conclusione, io ho dimostrato che al papa di Roma, come agli altri vescovi delle altre città, dagli apostoli gli viene trasmesso solo il titolo di vescovo, mentre il primato sugli altri lo riceve dagli imperatori e dai Concili. Appare perciò chiaro che egli non è l'unico successore dell'apostolo Pietro e vicario di Cristo Signore, ma che tutti i vescovi ordinati da Pietro e dagli altri apostoli sono di pari grado, vicari di Cristo Signore e successori di tutti gli apostoli, partecipi della stessa dignità e autorità. Questo perché il grado di vescovo è superiore a quello di prete ma, secondo la tradizione apostolica, tutti i vescovi sono uguali tra loro, senza alcuna differenza; così, se uno di loro, sia il papa sia chiunque altro, non segue la retta dottrina, la Chiesa non scompare necessariamente come tu dici, perché essa si preserva nei vescovi rimasti fedeli. Che il papa, dunque, non si esalti della sua carica, e non consideri ortodossa una cosa per il semplice fatto che rappresenta la sua opinione; sappia, invece, che fino a quando egli ritiene suo dovere mantenere inalterati i dogmi dei santi Padri, egli sarà il primo fra tutti; in caso contrario, nel momento in cui egli li viola, verrà di conseguenza fatto decadere dalla sua primazia senza che ciò comporti alcun danno per la Chiesa di Dio, che rimarrà unita sotto la guida degli altri vescovi.


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[1]R. Sinkewicz: A new interpretation for the first episode in the controversy between Batlaam the Calabrian and Gregory Palamas, "The Journal of Theological Studies", XXX, 1980, 490.
[2]Barlaam Calabro: Opere contro i Latini. Introduzione, storia dei testi, edizione critica, traduzione e indici, a cura di A. Fyrigos, Città del Vaticano, 1998,
vol. II, 448-465 e 614-625. Per i primi due trattati usiamo la sua numerazione, per il terzo quella tradizionale del Fabricius, seguita nell’edizione critica di T. Kolbaba: Barlaam the Calabrian's . Three treatises on papal primacy, introduction, edition and translation, "Revue des Études Byzantines ", 53, 1995, 93-115.
[3]A. Fyrigos ne propone la datazione alla fine del 1334 (1335 seconso il computo bizantino). Vd. A. Fyrigos, I, 218, n 41.
[]Cfr. Fyrigos, I, 30.
[5]Questo argomento polemico cominciò ad essere utilizzato dagli autori bizantini al principio del xiii secolo. Vd.  J. Spiteris: La critica al primato romano nel secolo xii,  “Orientalia Christiana Analecta” 208, Roma, 197.
[6]J. Zizioulas: Being as communion. Studies in Personhood and Church, Crestwood (NY), 1997, 201.
[7]M. Maccarone: Fundamentum apostolicarum sedium, in "La Chiesa greca in Italia",  Padova, 1972, vol. II, 606. Quello che viene di solito inesattamente chiamato primato d’onore, per indicare la concezione ortodossa dell’esercizio del primato di Roma o di Costantinopoli, appare quindi più giustamente un vero potere, limitato da precisi confini canonici e soprattutto dalla consapevolezza della propria origine storica e della propria marginalità spirituale.
  [8] F. Dvornik: The idea of apostolicity in Byzantium, Cambridge, Massachusettes, 1958, 44.
  [9] Ireneo: Contro le eresie, III, 2 (S.Ch. 34, Paris 1952).
  [10] idem: Lettera a Vittore (frg. 3), in Eusebio: Storia Ecclesiastica V, 24, 14 S.Ch. 41, Paris 1953).
  [11] Vd. Cipriano: Epistula LXXI, 3,1: Infatti Pietro, che il Signore scelse per primo e sul quale edificò la sua Chiesa…non riservò a se stesso in maniera insolente la competenza su qualcosa o non fece mostra d’arroganza dicendo di possedere un primato..; in Saint Cyprien, Corrispondance, t. II, Paris, 1925, 258.
Firmiliano di Cesarea: Epistula LXXV, 6: Ci si può rendere conto che i Romani non osservano in tutto le tradizioni originarie ed invano si appellano all’autorità degli apostoli perché, in ciò che riguarda la celebrazione delle feste pasquali e molti altri aspetti del culto divino, è evidente che presso di loro alcune cose sono state mutate e che a Roma non si seguono le stesse pratiche di Gerusalemme…Da ciò è chiaro che questa è una tradizione umana.…ibidem, 293.
 [12] Breviarium Hipponense, Can. 25, (Corpus Christianorum CXLIX, Concilia Africae 345-525): "Che il vescovo della prima sede non si chiami principe dei sacerdoti o sommo pontefice o con altri nomi simili, ma solamente vescovo della prima sede".
Nel latino cristiano sacerdos indicava il vescovo, per il quale, almeno dal III secolo, era usato anche il titolo di pontefice. Vd. A. Di Berardino: L’immagine del vescovo attraverso i suoi titoli nel codice teodosiano, in “L’évêque dans la cité du IV  au V siècle. Image et autorité” (Collection de l’École française de Rome –248), Roma, 1998, 46. Cfr. J. Zizioulas: op. cit., 143-169. L’autore sottolinea che l’unità tra tutte le Chiese, pienamente cattoliche perché comunità eucaristiche, è data invece dalla mistica appartenenza all’unico Corpo di Cristo.
 [13] Cfr. T. Kolbaba, art. cit., 55-56.
 [14] L’opera latina dove più si diffonde a favore del primato papale è Ad eosdem amicos Graecos et de primatu Ecclesiae romanae et de processione Spiritus sancti, PG 151, coll. 1271-1280.

[15] Barlaam: ibidem, col. 1278.
[16]Ibidem, col. 1272.
[17]ibidem, col. 1280.
Mt. 16:19.
  Mt. 18:18.
  Lc. 22:19; 1 Cor. 11:24,25.
  Gv. 21:16.
Act. 1:8.
  Mt. 28:19-20.
  Ps. Dionigi,  De ecclesiastica hierarchia, par. 4 (PG 3, 1093.
 

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