UN’INEDITA FUGA A BISANZIO

L’anonimo calabrese del Cod. Vat. Gr. 316

 

 

 


Il cardinale Giovanni Mercati aveva segnalato nel 1923 che il codice Vat. gr. 316 conteneva nell'ultimo foglio, il 167v, il racconto, o piuttosto gli antefatti, di una fuga dalla Calabria di un anonimo cristiano di fede ortodossa.[1] Nonostante ne avesse preannunciato la pubblicazione sul numero 24 di Byzantinische Zeitschrift del 1923/4, essa non avvenne mai, come anche non era avvenuta nel 1914 la pubblicazione di un articolo dello stesso studioso sulla provenienza del codice.[2] Dal momento che, in seguito, nessuno ha ripreso in mano il racconto del calabrese sulla sua fuga e sulle persecuzioni subite, ci è sembrato giusto non lasciare ancora nell'oscurità un documento che certamente contribuisce ad una più esatta conoscenza della storia della Chiesa greca in Italia.Il testo dell'anonimo calabrese è un discorso apologetico, teso a far accettare alla comunità cristiana greca dove era giunto, l'autore, uno sconosciuto proveniente dall'Occidente. A quello scopo venne data poca attenzione ai dettagli biografici e realistici, per sottolineare invece la fondamentale importanza della sostanza teologica alla base del dissidio e della fuga. Le migliori credenziali davanti al suo uditorio egli le otteneva evidenziando la persecuzione subita per la sua professione pubblica di fede ortodossa, che egli in quel frangente rinnovava. Il discorso fu tenuto molto probabilmente in una riunione presieduta dal capo della comunità alla quale il Nostro chiedeva di essere ammesso, un vescovo o un superiore monastico, e fu ritenuto degno di essere conservato e divulgato. Eccone la traduzione italiana:

 

 
 

 

 ANONIMO CALABRESE

[apologia]

 


 

La mia patria, o fratelli, è stata la provincia di Calabria, che si trova nella parte meridionale dell'Italia, [e i miei genitori erano] ricchi sì nel corpo ma non molto nell'anima; infatti aderivano all'eresia dei Latini. Tuttavia, spinti da Dio stesso, mi misero fin dalla tenera età a [ studiare] soprattutto le scienze sacre;[3] crebbi in mezzo ad esse per grazia di Dio, e così compresi esattamente come i Latini siano adulteratori e trasgressori della tradizione degli apostoli e dei padri, osando empiamente confondere le proprietà delle tre ipostasi ed insegnando due processioni del santissimo Spirito. Perciò non cessavo mai dal discutere con i loro sapienti, dimostrando per mezzo della divina Scrittura e dell'insegnamento dei padri che si erano allontanati ed estraniati dalla fede ortodossa e provavo con stringenti sillogismi che essi ora penzolavano verso l'eresia di Sabellio ora verso quella di Macedonio; quelli invece che non potevo incontrare perché vivevano troppo distanti da me, tentavo con lettere e scritti di trarli fuori dall'eterodossia. Dicevo infatti loro, tra le altre cose, che noi non diciamo che la processione sia una specie di fuoriuscita o effusione o flusso fisico o liquido, ma che essa è la modalità stessa dell'essere, secondo la quale esso è senza principio, poiché ha l'essere dalla Causa (il Padre), allo stesso modo della generazione del Figlio. Infatti, Questi è Unigenito, e tale è anche la processione dello Spirito; dunque, come è assurdo affermare che vi siano due generazioni del Figlio secondo la divinità, così è del tutto empio e blasfemo sostenere due processioni del santo Spirito. Perciò i loro capi mi trattavano come un nemico ed un deviato e mi dichiaravano a tutti eretico ed eterodosso. Tutti, quindi, mi evitavano con orrore e paura e non cessavano dal colpirmi con insolenze ed attacchi. Per non dire tutto, tenteremo di chiarire con questo discorso perché me ne andai da lì. Narrare infatti nei particolari quello che mi hanno fatto patire, necessiterebbe di troppo tempo e di troppo spazio. Il papa aveva mandato in Italia degli inquisitori per indagare sui Greci, e se ne avessero trovato uno che non aderiva ai dogmi latini, avrebbero dovuto mandarlo al rogo[4]. Giunti che furono nella nostra città, ed informatisi sul mio conto [........] meditando per l'indomani di trascinarmi al loro tribunale e di farmi bruciare come eretico incallito. Considerando che se avessi abiurato avrei perso la vita futura che ancora non mi ero acquistato, e se resistevo quella presente, non volendo perdere né quella né questa per amore del corpo, prima di andare al loro cospetto, a sera fuggii in anticipo. E così, giunto fino a voi guidato dal favore di Dio, [ rendo grazie] a Dio che mi ha ritenuto degno di quella fuga e di unirmi a voi; a gloria di Dio, al quale spetta l'adorazione nei secoli dei secoli, amen.


 


 

 

 
 

Il testo parla succintamente dell'ambiente di provenienza del protagonista; ciò nondimeno, è possibile rimettere a posto qualche tessera:


1)  l'autore era una persona di notevole cultura, come si evince dalla ricercatezza lessicale del suo greco e dalla tecnicità teologica della sua apologia;

2)   probabilmente era di giovane età, come si deduce dal suo breve curriculum vitae e dall'ingenuo idealismo che lo pervade: pensare di poter convincere con le sue sole forze i Latini dominanti, testi alla mano, dell'inesattezza delle loro posizioni e di poter venire a capo dell'interminabile logomachia.


3)  non c'è traccia nel racconto dell'atto punitivo più importante ed inevitabile, se l'autore fosse appartenuto al clero greco regolare o monastico: la degradazione e l'espulsione dal clero come eretico da parte dell'istituzione ecclesiastica latina egemone. Era dunque, con ogni probabilità, un laico.

4)  egli abitava in una delle più importanti città calabresi, a maggioranza latina ( un "asty" dove c'erano ricchezza diffusa e cultura);

5)  proveniva da una famiglia latina o latinofrona. La sua conversione viene descritta come la logica conseguenza della sua acribia di studioso ricercatore della verità e non viene fatta rimontare ad una eredità religiosa della famiglia o dell'ambiente. Infatti, nella sua apologia egli non usa a suo vantaggio la tecnica del chiamarsi fuori, cioè non si vanta di appartenere ad una stirpe, come quella italogreca, rimasta sempre fedele all'ortodossia, al contrario di tutti gli altri; tecnica usata p. es. nell'Opusculum contra Francos: "I calabresi, invece, sono ortodossi da sempre e cresciuti nella disciplina della nostra Chiesa apostolica"[5]. Egli usa, invece, la metonimia, indicando la parte latina per il tutto, ingenerando l'impressione che Greci ortodossi nella Calabria dove lui viveva non ve ne fossero e che lui emergesse solitario nella polemica. Ma proprio la conversione all'ortodossia di un "latino" testimonia la forza di attrazione religiosa e culturale che ancora nel XIII secolo possedeva la grecità italiana, e d'altra parte questa vicenda dimostra che la sottomissione formale era un imperativo per chi volesse rimanere in quella terra, e ciò creava certamente nelle comunità greche tensione e sofferenza sotterranee che riaffioravano talvolta, suscitando repressioni come quella in cui incappò l'anonimo. In questo contesto si può anche verosimilmente immaginare che l' attività di polemista del Nostro non fosse stata molto gradita agli stessi Italogreci, proprio per il fatto di mettere allo scoperto una cripto-opposizione e di attirare così su tutti loro attenzioni e reazioni violente.


 

Come fonti del suo repertorio teologico l'anonimo elenca la Scrittura, la conoscenza patristica e la dialettica (i sillogismi). La Scrittura, in realtà, giovava assai poco nella controversia filioquista e quindi egli avrà basato le sue argomentazioni su citazioni di espressioni ed assiomi patristici. Potrebbe sembrare più verosimile che il suo repertorio argomentativo non derivasse da una conoscenza diretta della vastissima letteratura patristica, ma fosse una conoscenza mediata da un'opera teologica bizantina che circolava tra gli Italogreci (p. es. il primo syntagma antilatino di Nicola/Nettario di Casole), contenente la dottrina dei padri orientali più autorevoli, formulati anche in forma sillogistica. Il linguaggio del nostro profugo dimostra però, ad un immediato confronto con il trattato antilatino di Nettario, basato a sua volta sui Sillogismi di Nicola di Metone della fine del secolo XII, pur nella ovvia concordanza delle tesi principali, una certa diversità.[6] Caratteristica, ad esempio, è la mancanza assoluta dei termini probolé e proagogé, intesi come "produzione/emissione", fondamentali invece per i sillogismi attribuiti al patriarca Fozio.[7]Egli inserì, invece, (linee 15-17), un paragrafo sulla definizione della processione che non ha riscontro in Nicola di Metone, e che rimanda direttamente come lessico e come argomentazione alle opere più famose della patristica greca sulla Trinità e lo Spirito santo: egli adattò alla processione dello Spirito il rifiuto di ogni analogia materiale che i Padri usavano per difendere la soprannaturalità della generazione del Figlio e la sua divinità.[8] Questo calco teologico era assolutamente non funzionale alla polemica in corso, in quanto la divinità dello Spirito non era ufficialmente messa in discussione da nessuna delle parti in causa. Se però colleghiamo la ripresa di questo tema patristico al silenzio sulla probolé ed ancora di più, alla conclusione del paragrafo stesso, dove i termini teologici classici sono richiamati alla loro funzione simbolica e metaforica, sembra emergere nel nostro esule una particolare originalità nel tentare di uscire dalla logica di "produzione" che inquinava tutta la problematica sullo Spirito Santo, sottolineando al contrario l'uguaglianza e l'equieternità delle Persone divine.

Il codice vaticano greco 316, unico testimone del nostro testo, è un palinsesto membranaceo contenente opere filosofiche di Giovanni Italo e Aristotele nella scrittura superiore,[9] mentre quella inferiore è un'importante testimonianza delle opere di  Filone di Alessandria. La scrittura superiore è di tipo otrantino dell'inizio del secolo XIII, alla stessa stregua del codice palinsesto Marc. gr. 265, n.¡ 363 del fondo marciano proveniente dalla donazione del Bessarione, gemello del codice vaticano di cui ci occupiamo, che ha un contenuto pressocché identico e che fu copiato dallo stesso scriba.[10] La scrittura inferiore era invece una minuscola pura del secolo X o dell'inizio del IX che non presenta particolari caratteri italogreci. Il codice, poco tempo dopo la sua riscrittura, fu rinforzato con dei fogli di guardia, i fogli III, IV e 167 che, presi da un codice contenente il testo dei profeti in minuscola greca pura di origine salentina,[11] furono quindi utilizzati in un secondo tempo per trascrivere dei testi di vario genere: una lettera del vescovo Giorgio Bardane di Corfù a Federico II, una supplica anonima, brevi estratti di vario argomento prevalentemente filosofico ed infine il racconto della fuga del nostro anonimo.

Il testo del foglio 167v non è un autografo del protagonista calabrese, come indicano gli errori di incomprensione (vd. n. 7) contenuti nel nostro esemplare. Del resto la scrittura non è calabrese, ma mostra evidenti segni del suo carattere otrantino, come la presenza dell'alfa onciale con la pancia molto allungata verso il basso. Non mostra, però, alcuna traccia degli altri segni caratteristici dello stile dominante la moda scrittoria degli ultimi due decenni del XIII in Terra d'Otranto, come invece ci si dovrebbe aspettare anche da una scrittura otrantina non corrispondente al tipo "barocco".[12] Essa dovrà dunque datarsi anteriormente al 1282. Il foglio 167v fu riscritto da una mano irregolare, a volte trascurata, che nella seconda metà della pagina diventa filiforme e angolosa nell'intento di far entrare tutto il testo in una sola pagina. La scrittura è di difficile decifrazione sia per l'interferenza della scrittura inferiore (Ezechiele: 22, 22 - 23, 12) sia per lo svanire dell'inchiostro, specie nei margini, e per le frequenti abbreviazioni, anche sospensive.

 

 

 

 

 

 

 

E' notevole che gli scribi dei fogli di guardia del vat. gr. 316 abbiano mostrato, inoltre, lo stesso interesse per la corrispondenza greca di Federico II dei copisti di un altro codice salentino: il Laurent. Conv. Soppr. 152 scritto nel 1282. Segno questo di una continuità nostalgica dell'ambiente otrantino che collega il testo contenuto nel primo foglio di guardia del nostro codice vaticano al monastero greco di Casole. Infatti, il foglio di guardia IIIr del vat. gr. 316 contiene la lettera greca di Giorgio Bardane, metropolita greco di Corfù, che voleva distogliere Federico II dalle sue mire sull'isola, in quel momento sotto il potere di Manuele Angelo Comneno. Bardane era stato grande amico del più famoso igumeno di Casole, Nettario, membro di una cerchia filosveva e autore di opere teologiche antilatine. Giorgio Bardane era stato dal 1236 al 1239 a Otranto, ospite del notaio Giovanni, amico di Nettario. Questo primo testo dei fogli di guardia è importante per i tentativi di datazione perché esso fu ricopiato da un altro codice che conteneva l'epistolario del Bardane, costituito dopo la sua morte, avvenuta nel 1240.[13]
 

Oltre agli elementi offerti dall'esame paleografico, l'altra risorsa utile per identificare almeno parzialmente l'ambiente e i personaggi protagonisti è l'unico riferimento storico in esso contenuto, e cioè quello di un'attività di inquisitori papali nell'Italia meridionale diretta proprio contro i Greci e pronta ad applicare le misure più estreme contro i dissenzienti. Il dato ci riporta direttamente all'epoca angioina, in quanto l'Inquisizione, per funzionare, doveva avere un'autorità statale disposta a sostenere la sua attività, soprattutto per l'esecuzione delle condanne a morte che venivano lasciate al braccio secolare.[14] Una struttura di questo tipo non poté, dunque, operare nel periodo 1232/1250,anni in cui Federico II, in completa rottura col papato, non permetteva all'inquisizione degli a lui ostilissimi frati domenicani di entrare nel suo regno. Egli, invece, aveva affidato ad una struttura inquisitoriale alle sue dirette dipendenze il compito di perseguire gli eretici all'interno del Regnum Siciliae.[15] L'eresia contro cui l'imperatore lottava era però il patarinismo di origine settentrionale da lui visto come il fumo degli occhi, per essere fomite e contagio di aspirazioni autonomistiche.

Solo dopo la morte del grande svevo si aprirono nuove possibilità di intervento della Chiesa di Roma nel Meridione: quello che andò dal 1250, anno della sua morte, al 1257, quando il potere fu preso saldamente da suo figlio Manfredi, fu infatti un periodo di debolezza del Regno vantaggioso per il papato che, tra il 1254 ed il 1255, addirittura pose la sua sede a Napoli. Ci fu allora un tentativo da parte della Chiesa di riprendere il pieno controllo del Sud, tanto che nel 1255 la Sicilia e le zone della Calabria meridionale occupate dai Messinesi, insorti contro la monarchia sveva, erano nelle mani del legato papale, il francescano Rufino di Piacenza.[16] Fu però la conquista angioina del Sud nel 1266 che concesse all'apparato ecclesiastico nel Meridione quel pieno sostegno politico necessario ad un'attività repressiva che comportasse anche l'eliminazione fisica dei non conformisti. Sappiamo che le truppe angioine erano accompagnate dal legato papale Rodolfo, cardinale vescovo di Albano, che aveva alle sue dipendenze quei frati domenicani e francescani che erano l'unico personale di cui si serviva l'inquisizione, già a pieno regime nell'Italia centrosettentrionale. La spedizione militare di Carlo d'Angiò era stata concepita dal papa Clemente IV come una vera e propria crociata contro i "cattivi" cristiani.[17] Essa era una crociata cismarina, diretta cioè contro un paese europeo, e i proclami papali che l'avevano preceduta parlavano di Saraceni e di scismatici che nel Regno di Sicilia ottenevano precedenza sui cattolici.[18] Nell'ottobre del 1268, dopo la vittoria nella "crociata" seguente, quella contro Corradino, Carlo d'Angiò nominò quattro grandi inquisitori domenicani in tutto il suo Regno allo scopo di combattere i sospetti d'eresia. In quanto "diversa", la comunità greca dovette certamente rientrare fra gli obiettivi di queste indagini. Nel 1269 toccò anche al prestigioso monastero del SS. Salvatore di Messina di essere "ispezionato".[19] Nel 1270 fu nominato inquisitore in Sicilia e Calabria fra Matteo di Castellamare, un domenicano attivissimo, come dimostra la quantità delle sue "vittime" durante i quattro anni del suo mandato.[20] Lo Stato angioino aveva introdotto di propria iniziativa l'inquisizione, ma innovando rispetto alla tradizione dell'autonomia federiciana in questo campo, col mandato e col beneplacito del Pontefice)[21]. L'Inquisizione papale in senso stretto fu insediata nel Sud Italia per iniziativa di papa Niccolò IV solamente nel 1289.[22] Il nostro Anonimo potrebbe aver assimilato, dunque, l'inquisizione che lo Stato angioino aveva introdotto ad un attacco dell'Inquisizione papale vera e propria, descrivendola per approssimazione al suo uditorio bizantino come diretta specificatamente contro i Greci.


 

 

Che nel periodo anteriore al 1289 non sia stata operativa un'inquisizione papale antigreca, lo dimostra anche il fatto che quello che fu il più deciso tentativo di modifica della tradizione degli Italogreci, il sinodo di Melfi del 1284, non si avvalse di essa per controllare l'osservanza delle sue decisioni. Indetto durante la guerra del vespro dal legato pontificio Gerardo Bianchi, il sinodo aveva preso delle misure ad un tempo di assimilazione e di isolamento. Un'assimilazione che intendeva ridurre la diversità dei Greci a particolarismo rituale:consuetudines inoffensive ed ammissibili. Per il resto, nullius variationis involutum vindicet sibi locum:[23] In particolare il sinodo intendeva costringere i Greci ad aggiungere il filioque nel testo della professione di fede e ad inserirlo in tutti i loro libri liturgici, applicando così in queste regioni quello che si era preteso invano dagli ortodossi di Bisanzio durante l'unione di Lione (1274-1282). L'isolamento serviva come un utile cordone di sicurezza e perciò si volle impedire l'ingresso nel clero di rito greco a chi non avesse avuto dei Greci per genitori ed anche che i sacerdoti greci celebrassero nelle chiese latine. L'osservanza della decisioni sinodali contro i Greci venne affidata ad un regime di visite ed ispezioni, ormai superato nel resto d'Italia e d'Europa: ogni anno i vescovi e gli altri superiori responsabili avrebbero dovuto inquisire diligentemente i Greci sull'accettazione del Filioque.[24]Evidentemente, anche in questo ambito più ridotto si dovevano ripercorrere le stesse tappe che avevano portato alla nascita su più vasta scala dell'inquisizione papale dalle ceneri di quella episcopale: da una impostazione "disciplinare", riformatrice delle consuetudines dei Greci si sarebbe passati ad un'altra di purificazione dottrinale che il fallimento della prima, giustificato dalla perdurante opposizione all'aggiunta del Filioque, e dalla negligenza o dall'impotenza della gerarchia locale ad imporre quella mutazione liturgica.




 

 


 Infatti, i documenti che già conoscevamo su dei cristiani di rito orientale perseguitati dall'Inquisizione in Italia non risalivano a prima del pontificato di Clemente V (1305-1317),[25] quando la Chiesa romana si era ormai decisa a classificare gli scismatici greci insieme agli eretici ed agli infedeli; la separazione, infatti, in quanto motivata dottrinalmente dal rifiuto dei dogmi del filioque e del primato papale, appariva piuttosto un'eresia che, come tale, poteva essere combattuta anche con l'inquisizione e la crociata.[26] Appena due anni dopo l'elezione del primo papa avignonese, nel 1307 il Meridione divenne la retrovia del fronte antigreco: nel marzo di quell'anno, gli uomini del papa percorsero il Regno di Napoli e la Sicilia, come pure Marche, Veneto e Romagna, predicando la crociata contro l'impero bizantino, per la restaurazione dell'impero latino d'Oriente rivendicato dal fratello del re di Francia, Carlo di Valois. Si promettevano le indulgenze a chi avesse preso le armi contro gli eretici o a chi avesse aiutato finanziariamente l'impresa. Non è inverosimile che l'arrivo dei predicatori papali si sia tramutato in una caccia ad eventuali quinte colonne del nemico tra la comunità italogreca e che i sermoni abbiano preso un andamento persecutorio. Pochi anni dopo, nel 1312 l'inquisitore domenicano Roberto di San Valentino arrestava per eresia alcuni chierici armeni vicino Siponto, distruggendo la loro chiesa.[27] Al 1320 risale un documento che testimonia una continuativa presenza dell'inquisizione papale nella Sicilia e nella Calabria meridionale rioccupata dagli Aragonesi nel 1307.[28] A metà del secolo, la città di Reggio era il teatro dell'accesa attività antigreca dell'arcivesco latino Pietro de Galganis, mentre nel 1363 papa Urbano V indicava ai frati minori di Cirò la comunità greca come una delle due comunità anticonformiste da inquisire insieme ai fraticelli.[29]

 Il riferimento storico del testo, quindi, da solo fornisce un'indicazione molto ampia, che legittimerebbe l'assegnazione della fuga dell'Anonimo ad un qualsiasi anno del periodo che va dal 1266 ad oltre la metà del XIV secolo; così, ad esempio, T. Hoffmann preferisce la datazione più tarda, prendendo come elemento essenziale il crescendo del sentimento antigreco testimoniato nella metà del XIV.[30] Bisogna perciò giovarsi, per ridurre l'eccessiva ampiezza della forbice cronologica, della datazione della memorizzazione documentaria dell'evento la quale fornisce il terminus ante quem della fine del XIII secolo. Oltre a ciò, ci sembra che internamente il testo porti i caratteri dello spirito libero e confidente in st stesso della grecità italiana del tempo della dinastia sveva, che venne posto di fronte al traumatico momento di passaggio rappresentato dall'arrivo del potere guelfo. Un regime angioino avanzato certo non avrebbe permesso il fenomeno di una dissidenza cos prolungata e provocatoria come quella dell'Anonimo. Né l'ipotesi dell'attività dell'Anonimo come reazione alle decisioni di Melfi, seppure autorizzata dalla presenza esclusiva della problematica del Filioque come argomento del dissidio tra le due Chiese, sembra ammissibile: il comportamento dell'anonimo non era di tipo reattivo ma attivo; egli non si ribellava ad una imposizione altrui, ma cercava lui di convertire gli altri. Un tipico atteggiamento da neofita, che entusiasta della verità da lui trovata, cercava di farne partecipi tutti, incurante delle difficoltà, dei conflitti, delle violenze. Il suo proselitismo richiama quello di Nicola/Nettario, igumeno di Casole, che nel 1236 aveva tradotto immediatamente in latino le sue opere teologiche antioccidentali. I dati a nostra disposizione rendono, quindi, molto verosimile la collocazione dell'avvenimento narrato agli inizi della dominazione angioina, precisamente tra la fine del 1268 e l'inizio del 1269, dato che il testo si riferisce all'inizio dell'attività inquisitoriale in Calabria.

 

 

 

 

 

 

 

Se l'identità del nostro protagonista è destinata a rimanere senza nome, non possiamo fare a meno di accostargli quattro personaggi noti che fecero anch'essi il gran passo di lasciare l'Italia per la Grecia per poter professare liberamente l'ortodossia.


Il primo esempio lo diede l' italiotes Niceforo, che fu esule in Grecia a motivo della sua fede ortodossa e vi divenne monaco ed esponente di spicco del movimento spirituale dell'esicasmo, presente all'Athos nella seconda metà del XIII secolo. Abbiamo un suo scritto di argomento spirituale: il Logos perì nepseos kai phylakes kardias, che è contenuto nel tomo 4° della Filocalia. Il maggiore teologo dell'esicasmo, Gregorio Palamas, ci ha dato di lui un breve cenno biografico:


"Quel Niceforo che rese la bella testimonianza (dell'ortodossia) e fu per questo condannato all'esilio sotto il regno del primo dei Paleologhi, che aderiva alla dottrina dei latini; quel Niceforo che, benché originario dell'Italia, abbandonò l'errore degli abitanti di quel paese e si unì alla nostra Chiesa ortodossa, rinunciando alla fede della sua patria e della sua famiglia e preferendo il nostro paese al suo, perché è presso di noi che si dispensa correttamente la parola di verità. Arrivato nelle nostre contrade, egli scelse il genere di vita più austero, cioè la vita monastica, e come luogo d'abitazione quello che porta il nome della santità, cioè l'Athos, ricettacolo della virtù, posto al confine tra la terra ed il cielo."[31]


Dall'appellativo di italiano che il testo gli assegna, non abbiamo la certezza che Niceforo provenisse dalla Calabria, anche se la descrizione che Palamas fa del suo ambiente originario somiglia per la sua latinofronia a quello dell'anonimo. La partenza di Niceforo dall'Italia viene però fissata da A. Rigo al 1240, una datazione troppo alta per farla coincidere con l'attività dell'inquisizione antigreca del nostro testo.[32] Lo ritroviamo nel 1277, già affermato maestro spirituale, quando dovette subire in quell'anno un processo a S. Giovanni d'Acri per la sua ostilità all'unione con Roma, sottoscritta dalla Chiesa greca nel 1274 su pressione dell'imperatore Michele VIII. Questo, se l'identità con l'anonimo fosse confermata, sarebbe stato il proseguimento delle sue disavventure giudiziarie italiane. Abbiamo il resoconto del processo a cui fu sottoposto: però, se esso rappresentasse fedelmente ciò che Niceforo disse nella realtà, sarebbe un indizio contro l'identificazione con l'anonimo, in quanto il discorso di Niceforo presenta delle argomentazioni teologiche condite di una pointe di popolare irrisione contro il filioque (il Padre diventerebbe "nonno" dello Spirito, se Esso procedesse dal Figlio), che non sembrano essere allo stesso livello del discorso del nostro anonimo; inoltre non dà al tema trinitario l'importanza esclusiva del testo del Vat. Gr. 316.[33]Dal punto di vista stilistico, invece, sia nel Perì nepseos che nella Dialexis, Niceforo mostra uno stile vivace, simile a quello della nostra fuga, con una tendenza al tono epico.


Punti di contatto con l'esule del codice li ha un igumeno del monastero del SS. Salvatore di Messina, Giacomo II (1282-1290), che si dimise dalla carica ed andò in Oriente a continuare la sua vocazione monastica.[34] Dotato di quella stessa cultura teologica e di quella familiarità linguistica col greco che l'Anonimo dimostra, Giacomo II sembra invece essere andato in esilio del tutto volontariamente, per una personale riflessione e presa di coscienza del fatto che in Italia non c'era più spazio per una monachesimo che volesse seguire in tutto lo spirito degli antichi Padri. A diversificare la situazione, c'era anche il fatto che il nuovo regime aragonese in Sicilia aveva grande considerazione del monachesimo greco e non permetteva la creazione di situazioni apertamente persecutorieLo storico bizantino.

Giorgio Pachymeres riferisce anche di un monaco Nilo, proveniente dalla Sicilia, che si era fatto numerosi discepoli ed aveva acquistato molto credito presso Giovanni Paleologo, fratello dell'imperatore Michele VIII. Questo Nilo venne curiosamente accusato di aver introdotto nello Stato bizantino il virus della spilorceria, perché sosteneva che non c'è merito nel dare a chi non ha veramente bisogno e condannava i doni e i benefici come nezzo per legare a sé i sottoposti e per incentivarli. Forse il rigorismo di questo monaco intendeva sostenere un'etica del disinteresse che rifiutava motivazioni utilitaristiche dello spirito di lealtà  e dedizione. Il fatto che lo si dicesse "proveniente dalla Sicilia", comunque, non esclude che potesse venire anche dalla Calabria, dato che nel XIII-XIV secolo col termine Sicilia spesso si indicava l'intera Italia meridionale. Almeno cronologicamente, questa figura di rilievo nel mondo bizantino tra il 1263 e il 1274, è la più vicina alla datazione proposta per la presenza del nostro Anonimo nell'Impero d'Oriente.[35]


Infine, pure la vicenda del famoso Barlaam potrebbe corrispondere in qualche aspetto a quella dell'anonimo: trasferitosi in Oriente intorno al 1326, in comune con il nostro transfuga aveva la provenienza da un ambiente parzialmente latinizzato e la valentia teologica, ma proprio quella data imporrebbe la datazione al pieno XIV secolo della pagina manoscritta che riporta il nostro testo, cronologia resa impossibile, come si è visto, dall'esame paleografico che indica invece il secolo precedente. Ci sono, inoltre, due considerazioni che ci fanno distinguere sostanzialmente Barlaam rispetto al protagonista del vat. gr. 316:

1)  Barlaam pott usare l'argomento apologetico del pedigrée genealogico, cioè della nascita in una famiglia greco-ortodossa di Calabria;[34]

2)  cosa ancor più decisiva, nel 1325, un anno prima del suo "trasferimento" in Oriente, l'Inquisizione era pienamente insediata ed efficiente in Calabria e non avrebbe tollerato neppure per un momento la presenza dell'eretico. Nel nostro testo, invece, non solo c'è come minimo un anno di attività polemica, senza altri danni che "terra bruciata" e intimidazioni, ma quando alla fine l'Inquisizione arriva, essa è del tutto all'oscuro della clamorosa attività dell'Anonimo.

Non è da escludere, comunque, che Barlaam abbia conosciuto la vicenda del nostro sconosciuto e che da essa abbia tratto incoraggiamento a tentare a sua volta la via verso Bisanzio.


 

 


 

 

 
[1]G. Mercati- P. Franchi de' Cavalieri: Codices vaticani graeci I:Codices 1 - 329 , Roma, 1923, pag. 469.

[2]G. Mercati: Opera minora III, Roma, 1937, pag. 485.
[3]Manthanein ta ierˆ grammata un'espressione del mondo religioso bizantino per indicare lo studiodi tuttele manifestazioni scritte del patrimonio della tradizione ecclesiastica, cio� la Bibbia , i Padri, i canoni, i testi liturgici. Vd. J. Goar: Euchologion sive Rituale Graecorum,I ed.Parigi, 1647, pagg. 720-721. [4]Un precedente di condanna a morte col rogo di Greci avvenne in Oriente, a Cipro, dove nel 1231 furono martirizzati tredici monaci (vd. K. Sathas: Mesaionike bibliotheke II, Venezia 1872, 20 - 39.
[5]Opusculum contra Francos, praefatio. ed. J. Hergenroether: Monumenta graeca ad Photium ejusque historiam pertinentia, Ratisbona, 1869, pag. 62/63.
[6]cf. Nicola di Methone: Sillogismi, ed. A. Demetrakopulos (Ekklesiastikè bibliotheke, Leipzig, 1865, pagg. 359 - 380). Per Nettario, vd. J. Hoeck-R. Loenertz: Nikolaos- Nektarios von Otranto, abt von Casole, Ettal, 1965
[7]cfr. Photii patriarchae: De Spiritu Sancto mystagogia, PG 102, coll. 279 - 400; eiusdem:Contra veteris Romae asseclas libellus, PG 102, coll. 392 - 400.
[8]cf. Basilio di Cesarea: Contro Eunomio II, 5, PG 29, 581b; Gregorio di Nazianzo: Oratio Theologica V, 31, PG 36, 169a; Hier. Gr. Dialogus de sancta Trinitate, PG 40, col. 853b.
[9]G. Italo: Questiones; Commento ai topici di Aristotele; De methodo dialectica ad regem Andronicum; De methodo rhetorica; Duas esse Christi naturas post unionem, non unam compositam. Ps. Aristotele:De mundo; De tribus syllogismorum schematibus.
[10]E. Mioni (ed.): Codices graeci manuscripti Bibliothecae Divi Marci Venetiarum, vol. I, Roma, 1981, pagg. 381-383. Rispetto al Vat. gr. 316 è assente il Duas esse Christi naturas ed è presente invece un index quaestionum.
[11]G. Cavallo: Manoscritti italogreci e cultura benedettina (sec. X- XII) pagg. 175-176, in L'esperienza monastica benedettina in Puglia , vol. I, pagg. 169-195; P. Canart: Le livre grec en Italie mtridionale sous les règnes normand et souabe: aspects mattriels et sociaux pag. 153, "Scrittura e civiltà" 2, 1978, pagg. 103- 162.
[12]A. Jacob: Les écritures de Terre d'Otrante, in La paleographie grecque et byzantine, (Colloques internationaux du Centre national de la Recherche scientifique), Paris, 1974, pagg. pag. 275-276.
[13]A. Acconcia Longo: Per la storia di Corfù nel XIII secolo, pag. 210, "Rivista di studi bizantini e neoellenici" 32-34 (1985-87), pagg. 209-243.
[14]G. Miccoli: La Storia religiosa, in Storia d'Italia, vol. 2, t. 2, Torino, 1974, pag. 690.
[15]ibidem: pag. 609.
[16]A. Potthast: Regestum Pontificum Romanorum , vol. II, n¡ 15994.
[17]N. Housley: The italian crusades. The Papal - Angevin alliance and the Crusades against Christian Lay Powers, 1254 - 1343 , Oxford, 1982, pag.18.
[18]ibidem, pag. 63. Vd. Regestes de Urbane IV, n¡ 809 (ed. J. Guiraud, Paris, 1901).
[19]M. Scaduto: Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza sec. XI - XIV, Roma, 1982, pagg. 291-292.
[20]I. Guiraud: Histoire de l'Inquisition , vol. II, Paris, 1938, pagg. 529-532.
[21]G. Del Giudice: Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d'Angiò, vol. II, Napoli, 1869, pag. 342.
[22]Vd. Regestes de Nicolas IV, n° 892 (ed. E. Langlois, Paris, 1905).
[23]Gerardo di Sabina: Costituzioni di Melfi 1. (P. Herder, art. cit. pag. 46).
[24]idem: Costituzioni di Melfi 1 (P. Herder, art. cit. pag. 47). A differenza di quanto afferma T. Hofmann: Papsttum und griechische Kirche in Sueditalien in nachnormannischer Zeit  (13. - 15. Jahrundert), Bamberg, 1994, pagg. 106 e 115, l'obbligo di inserimento del filioque era un'applicazione su scala locale dell'interpretazione romana dell'unione di Lione, ed esso rappresentava una rottura con la prassi latina precedente.
[25]T. Hofmann: op. cit. pag. 122-123. L'attività antigreca divenne normale routine degli ordini mendicanti nell'Italia meridionale. Ce lo testimonia A. Galateo nel suo De situ Japigiae, Basilea, 1558, pag. 112, con riferimento al secolo XIV: Poiché alcuni Latini, i frati vagabondi di questi ordini mendicanti perseguitavano i Greci e li costringevano ad usare come pane per il sacramento quello azimo al posto di quello fermentato...
[26]W. De Vries:Die papste von Avignon und der christliche Oesten, pag. 90. "Orientalia Christiana Periodica" 30 (1964), pag. 85-128. Barlaam di Seminara, convertitosi al cattolicesimo nel 1341, recep il punto di vista avignonese dell'ortodossia greca come eresia: vd. la sua Epistula ad Alexium Calochetum, PG. 151, coll.1310/1314. Dal canto loro, gli Orientali avevano cominciato a definire eretici i Latini dal tempo di Fozio.
[27]Vd. Fontes, series III, vol. VII/1, 69.
[28]Giovanni XXII (1316-1334):Epistula n° 137 del Regesto vat. 70. ed. G. Mollat: Johannis XXII,Epistulae communes, n°12222, vol. III. Paris, 1906: (Mgro Guillelmo de Balaeto, archidiacono Foroiulien, Papae capellano,) mandat ut ab inquisitoribus haereticae pravitatis Ord. Praed. in regno Siciliae et terra eiusdem regni quae est citra Farum et a substitutis et delegatis ab eis exigat omnia bona, quae ratione officii inquisitionis receperunt et Romanae Ecclesiae spectant; et quia nonnulli inquisitores tam superstites quam defuncti praedicta bona fratribus, nepotibus et aliis consanguineis legasse dicuntur, ad restitutionem, etiam heredes, per censuras compellat. Dat. Avenione, X kal. Septembris, anno quarto. F. Russo ( I fraticelli in Calabria nel secolo XIV. Fatti e personaggi, "Miscellanea francescana" t. 65, 1965), pagg. 348-368), ipotizza che la presenza dell'Inquisizione in Calabria fosse motivata dall'arrivo dei fraticelli (francescani sostenitori della regola autentica di S. Francesco d'Assisi). In realtà, la persecuzione dei fraticelli cominciò nel gennaio del 1318, e i fraticelli toscani che erano fuggiti in Sicilia non comparvero in Calabria prima del 1325 (cf. G. L. Potestà: Angelo Clareno, dai poveri eremiti ai fraticelli . Roma, 1990, pag. 148 e 217). Questa ipotesi, tra l'altro, non prende in considerazione il testo che parla di una presenza consolidata degli inquisitori e di ricchezze da spartire; questo secondo elemento dimostra in maniera evidente che non potevano essere i Fraticelli francescani l'oggetto di questa inquisizione, percht essi erano perseguitati proprio per il rispetto del voto di assoluta povertà richiesto da Francesco. Né è verosimile l'apparire improvviso di una massa di sostenitori dei fraticelli, ben dotati di fortune ma scarsi di prudenza.
[29]Fontes series III, vol. XI, 39.
[30]T. Hofmann: op. cit. , pag. 185.
[31]G. Palamas : Triade II, 2,2 (ed. J. Meyendorff: Défence des saints hésychastes, Louvain, 1959).
[32] A. Rigo: Niceforo l'esicasta (xiii sec.): alcune considerazioni sulla vita e le opere, in "Amore del bello. Studi sulla Filocalia. Atti del simposio internazionale sulla Filocalia", Pont. Coll. Gr., Roma, 1989, Bose, 1991, pag. 85.
[33]Dialexis emon, tou legatou, Klementou, femì, kai Nikeforou, perì tes orthodoxou pisteos, pag. 495, in: V. Laurent e J. Darrouzes: Dossier grec de l'union de Lyon, Paris, 1976, pagg. 486-507.
[34]Ad partes transtulit transmarinas prosecuturus inibi votum suum. cit. in: M. Scaduto: Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza. Sec. XI-XIII, Roma, 1982, pag. 448-449.
[35]G. Pachymeres, Syngraphikai Historiai, III.21 (A: Failler, Paris 1984, 289).
[36] Crf. Barlaam, Trattato A II, 10 (A. Fyrigos, Barlaam Calabro. Opere contro i Latini, II, 536): Tale è la mia fede nella Trinità e la religione nella quale fui allevato da bambino.

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