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trasferta







Scriverò di settembre.
Mi sto trasferendo.
Armi e bagagli a mano.
A sera, non sosto più nel parcheggio davanti al mare, a rimirare l'ultimo rosso del tramonto e ad invidiare i gabbiani. Quando il sole naviga già sull’Atlantico, emergo stralunato dal mio pomeriggio notte mentre gli ultimi raggi mi sfiorano dalla finestra del bagno. Mi rado coscienziosamente e lotto per recuperare una parte ragionevole di colui che mi guarda dallo specchio. Devo confessare che ha sempre l’aria un po’ schifata: si vede che spesso non corre buon sangue tra di noi. Mi domando perché. In fondo, è una vita che ci conosciamo e mi sorge il dubbio che sia proprio questa la ragione dei nostri attriti: ci siamo venuti a noia.
Mi sto trasferendo, dicevo.
Mi trastullo per una mezz’ora, prima di entrare in albergo, seduto nell'auto parcheggiata sotto un grande tiglio e per ora - l’autunno si fa sotto veloce - sempre di gran fronda. E’ l’angolo più buio di questa parte del lungomare, trascurato dalla gente e dalla nettezza urbana. La luce di un alto lampione, sull’asfalto abbastanza dissestato e decorato di diversi strati di bitume multigrigiastro, disegna silhouettes nette ed ingrandite delle foglie sotto la cui ombra incendio un paio di sigarette una dietro l’altra. Per la verità un paio di fioriere giganti e fitte di palme nane dalle foglie aguzze e taglienti, in mezzo alla strada, tentano di confondere le idee al passante sul grado di amenità del luogo, ma lo fanno da distratte, senza nessun impegno.
La fine dell’estate lascia sempre una sensazione di incompiuto, in aria. La stagione dei bagni inizia in sordina e cresce di giorno in giorno: con l’aumento delle temperature ed il sole che lascia sempre meno spazio alla notte, sempre più persone sfilano sul lungomare e sciamano sulla spiaggia. Fino al culmine del Ferragosto.
La fine invece, arriva di colpo, ed è come una scomparsa improvvisa ed inaspettata.
Per qualche mese, la costa ha vissuto nei ritmi cittadini, nel frastuono e nell’affollamento, galvanizzata, frenetica, seducente, dissipatrice di denaro, d'amori e di sonno. A pochi passi dalla mia auto, un uomo ha ingoiato spade e mangiato fuoco tutte le sere, un altro ha spaccato i timpani con la musica latino americana, un altro ha camminato sui trampoli, qualche donna ha sventolato la gonna.
Ora, sul lungomare, solo anime in pena, perdigiorno che fan notte, cani in passeggiata igienica che trascinano padroni riottosi strappati alle lusinghe della televisione, rari stranieri inebetiti dal silenzio.
Mi sto trasferendo.
Ammucchio i miei bagagli. Oh, niente valigie, pour moi. E' solo un grande sacco da spinnaker o bigboy, non ricordo bene. Non è una cosa semplice da farsi. Si comincia con le scarpe e poi si viene su: per ultimi i cappelli. Tutti gli anni c’è sempre qualcosa in più messo da parte ed il carico comincia a diventare ingombrante.
Non essendo metodico, ho fatto un carico cosiddetto alla ‘rinfusa’ e così, non sono mai sicuro che mi sia ricordato di prender tutto.
A volte si finisce per metter le cose più importanti sotto quelle inutili ma, quel che conta di più, è tenere a portata di mano il presente. E’ ciò che serve per andare avanti, per proseguire nel viaggio se non si vuole solo vivacchiare, sopravvivere o vegetare. Il resto lo impacchetterò, con calma ma senza metodo.
Mentre rari passanti mi sfiorano senza vedermi, ed il bar sulla curva spegne le sue luci, e un cane latra di solitudine, e qualche onda si rovescia, per fare scena, senza tanta convinzione, aspetto, come al solito.
Che qualcosa cambi, per te, per me.













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