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Ritorno a casa





Uscire: era proprio quello che volevo? Uscire dal rifugio, andare all'esterno? Là davanti, non avrei saputo dire perché, aprii la porta: un vento urlante come un animale in agonia s'infilò nel vano aperto alle mie spalle, spiaccicandomi le vesti e facendomi traballare.
Un'acquerugiola fine scivolava sulla mia pelle sotto la tuta: le goccioline tremavano all' unisono della mia mente e delle mie membra. Avanzai: ero fuori.
La massa della costruzione in cemento armato mi pesava dietro come una minaccia, ora che lo spazio vuoto d'una strada si apriva dinanzi a me. La città sembrava deserta: i suoi marciapiedi erosi dal vento erano screpolati e spaccati, divelti, come se fossero stati calpestati da un gigante. Le insegne una volta appese alle facciate dei palazzi erano morte al suolo, corrose dalla ruggine e squarciate. Le auto si erano come accatastate l'una sull'altra con le loro vernici smerigliate dal vento polveroso che mulinava agli incroci. La polvere sottile teneva la città immersa in un acquario torbido e giallognolo.
Il reattore era esploso.
Il mio cuore s'era quasi fermato in quel momento. Avevo gridato in preda al terrore. Poi venne il lampo e compresi che tutti avevamo perso e me ne resi conto con una disperazione amara, un orribile senso di disfatta.
Ero corso verso il fondo del lungo corridoio. Laggiù c'era la salvezza ma il mostro che m' inseguiva guadagnava terreno e costrinsi le mie gambe doloranti e piombate dall'acido lattico a dimenticarsi del dolore, ad inventarsi qualcosa; il mostro andava più veloce di me anche se non guaiva come una torma di lupi affamati e quasi mi stava raggiungendo e tutt' intorno c'erano le desolate terre del grande nord e la nebbia e la bufera.
Stavo correndo per sopravvivere, crudele come la cosa che m'inseguiva e non mi sarei fermato, correvo con la bava alla bocca e la lingua di fuori. Il branco di lupi non ululava, era silenzioso e concentrato sull'odore della preda umana. Feci un allungo disperato.
Non la sentii ululare e nemmeno frusciare contro il pesante battente d'acciaio mentre tremante e sconvolto, ad occhi sbarrati come una bestia braccata mi barricavo nel rifugio, ossessionato dal terrore della morte; no, non la sentii bussare, nemmeno spingere: sentii solo il silenzio, e non sapevo se era per la morte fuori o per la tomba nella quale m'ero interrato.
I miei piedi sentivano l'umidità fredda insinuarsi mentre avanzavo tremando. Inciampai, e mi sorressi al calcestruzzo di un edificio: schifato allontanai la mano, quindi ripresi la mia marcia meccanicamente. Non c'era nulla a vedere: le costruzioni si succedevano di numero in numero, brutte ed identiche nella loro apparente normalità. Il timore mi afferrò nuovamente: Qualcuno sarà sopravvissuto, qualcuno avrà ripulito dai cadaveri questi palazzi anonimi o erano diventati monumentali tombe comuni? Dove dovevo andare? avrei trovato qualcuno? come l'avrei potuto trovare? dove l'avrei trovato ?
Mi sedetti al suolo, improvvisamente spiaccicato dalla solitudine e piansi nella maschera facciale che s'appannò.
Singhiozzavo ancora quando le mie dita aumentarono il flusso d'aria per asciugarla.
Osservai, inebetito, i contorni familiari del mio vecchio quartiere, la palazzino dove abitavo, ne scorsi il portone aperto ed il mio sguardo salì alla fila di finestre del secondo piano. Degli stracci penzolavano dal terrazzo della cucina. La portafinestra era aperta come una bocca sdentata. Pochi passi tra me e la mia casa, pochi passi tra me e la porta di casa mia che non avrebbe mai potuto proteggere la vita al suo interno dalla morte invisibile.
Non singhiozzavo più quando le mie mani allentarono il casco. Me lo tolsi e respirai...





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