il contagio


Giugno 2000.
Spensi il motore dell'auto e senza scendere stetti a guardare l'edificio.
La palazzina era quella, non ne avevo alcun dubbio, avevo riconosciuto la sua caratteristica torretta, ora imbandierata col tricolore. La differenza era che me la ricordavo solitaria ai bordi di un campo sterminato, una superficie verde di almeno 30 o 40 ettari, dall'erba alta che si piegava nel vento sotto il carro del Sole che lo percorreva da est ad ovest. Un paradiso, per un ragazzetto che amava correre guardando la sua ombra.
Negli anni, la palazzina era stata circondata da un curato ed ordinato quartiere residenziale. Un reticolo di strade, un susseguirsi di rotonde, ville, villette a schiera; nelle vicinanze c'era un supermercato, una stazione della Polizia Stradale, un distributore di benzina.
Il fabbricato era stata rimesso a nuovo: gli infissi, le finestre, sembravano verniciate di recente ed anche le grosse pietre rotonde di fiume, con le quali era stata costruita, erano state lucidate. Mi avvicinai alla bassa recinzione che la cingeva e lessi una targa in lega di alluminio ramato:

"Sede del comando del
5° Stormo Caproni fino al 1945..."
L'amministrazione comunale ne aveva fatto un monumento alla memoria da visitare.
Il grande campo, però, non c'era più.

Giugno1956.
Corsi a perdifiato fino alla palazzina del custode e lì all'ombra delle robinie, accanto alle rovine di quelle che erano state le camerate degli avieri, mi sdraiai con la testa appoggiata al tronco di un albero ed osservai l'immenso campo verde.
Dietro le mie spallucce, c'erano le rovine della guerra; ad almeno un paio di chilometri, alle pendici delle colline, s'allungava il piccolo paese dove vivevo. Davanti a me si stendeva la piatta distesa di quello che era stato un campo d'aviazione. Ai lati, a destra e a sinistra, gli scheletri di cemento armato dei grandi hangars sventrati. La guerra era passata distruggendo, seminando le campagne di mine inesplose, di bombe inesplose, di quasiasi trappola esplosiva la mente degli uomini avesse potuto immaginare. Le pareti delle aule nella scuola che frequentavo erano tappezzate da manifesti che spiegavano con disegni molto eloquenti la fine dei ragazzi che raccoglievano da terra oggetti sconosciuti. Gambe strappate dal corpo, moncherini volanti nelle deflagrazioni orrende, punteggiate di occhi e orecchi, ma tuttavia io ero uno di quelli che cercavano, scavavano, raccattavano qualsiasi oggetto sconosciuto. Ed in quella vastità io mi sentivo che qualcosa avrei trovato, una volta o l'altra.
Il rombo arrivò da lontano. Una vibrazione rumorosa nell'aria tersa del pomeriggio estivo. Alzai gli occhi al cielo, stupito.
Dalla parte del sole, neri contro la luce, m'apparvero gli aerei più grandi che avessi mai visto. Volavano con una maestosità distaccata, come consci della loro potenza, del fragore con cui riempivano l'azzurro. Ne contai sei.
Il sole proiettava le loro ombre gigantesche sul terreno. All'improvviso, dei minuscoli punti neri iniziarono ad uscire dalla loro coda. Altrettanto improvvisamente iniziarono ad aprirsi dei grandi ombrelli bianchi. Sbocciavano da tutte le parti del cielo. Scendevano piano, dondolanti, indolenti come petali bianchi nel vento, come piume perdute dalle gigantesche ali di quegli uccelli rumorosi che nel frattempo erano tornati dopo un largo giro e ripassavano e lasciavano un nuovo sciame di quei fiori. Scattai in piedi e corsi addentrandomi nell'immenso campo dall'erba alta e profumata punteggiata dal rosso dei papaveri.
Quando il primo fiore cadde al suolo, io ero là e vidi un uomo svelto come un gatto fare una capriola e rapido mettersi dritto in piedi, ansante come dopo una lunga corsa.
Era un bell'uomo dagli occhi sorridenti, sprizzava allegria da tutti i pori a dispetto dell' arma che gli penzolava a fianco. Mi sorrise, forse per via della mia bocca aperta. Lo osservavo, ed ero un po’ stranito ed anche strabiliato: quell’uomo armato di tutto punto era allegro come se si trovasse ad una festa.
Raccolse dall'erba la grande stoffa bianca che l'aveva fatto galleggiare nel cielo e con sicure e veloci piegature la ridusse ad un piccolo pacco, poi annodò le lunghe funicelle e partì di corsa. Lo inseguii cercando di non perderlo.
Dovunque mi voltassi c'erano uomini che cadevano, uomini che correvano, uomini che gridavano, altri ancora in cielo che scendevano appesi ai loro fiori di seta. Il grande campo era un brulichìo di vita, pieno d’una confusione organizzata, impossibile da controllare ed io non sapevo più cosa fare e dove andare, ma ero là in mezzo a tutti, guardavo tutto, scrutavo i visi ed avrei voluto avere anch’io qualcosa da fare.
Mi guardavano sorpresi, «che ci fai qui?», ma non attendevano risposta, correvano sempre da qualche parte.
Si radunarono in mezzo al campo. Qualcuno zoppicava, qualcuno veniva trasportato in barella. Le grida di comando si susseguivano e si disperdevano nel vento.
Tirarono fuori dai loro zaini del pane e dei barattoli che aprirono con la baionetta e cominciarono a mangiare infilzando il pane e la carne con la punta delle loro lame. Alcuni di loro mi chiamarono. M'accoccolai sull'erba in quel cerchio alla beduina ed ebbi la mia razione di cibo, di odori di nuvole, di sogni. Se n'andarono al tramonto. Li aspettava una lunga marcia di più giorni, su per le colline, nei boschi e chissà dove, ed io che fino ad allora non sapevo proprio chi volevo diventare, mi dissi che un giorno o l'altro li avrei seguiti, e visto che certe cose bisogna pur chiederle per ottenerle, pregai di diventare uno di loro.
Fu così che lanciai il mio cuore nel cielo, ed alla fine gli andai dietro, giusto per riprendermelo.
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