ilgrandesonno


la terra fu creata per dare un approdo alle barche









L’isola ormai prendeva tutto l’orizzonte apparentemente strampalato. Sarebbe stato buio pesto al nostro arrivo. La natura poteva annoiarsi, forse, non certo noi nel sottosopra e neanche nel dentro, cioè nel cranio l'attività era particolarmente scatenata ed i capelli tendevano a drizzarsi elettrizzati e congestionati ancorchè inumiditi, poichè l'anemometro aveva cominciato a salire, a sbalzi, fino a segnare i 40 nodi, indicando il vento da diverse direzioni. Veniva da pensare beati quelli che navigano in un mare formato, cattivo ma deciso a venirti addosso da una sola direzione. Beati quelli che sanno da dove viene il vento e poi, piove all'ingiù o all'insù?
Il porto altro non era che una spaccatura della roccia dove il mare da millenni si insinuava, s’innalzava, spumeggiava. Una furia incessante che aveva creato un’ insenatura stretta e profonda, dalle ripide coste: un fiordo, un’ eccellente porto naturale ma dai fondali pericolosi, a volte traditori nell’avvicinamento notturno, giustizieri dell'insipienza, vendicativi sulla iattanza. Quando si dice la fortuna, hurrah.
La costa adiacente all’insenatura era costellata di innumerevoli fari, fanali, illuminazioni pubbliche, luci di locali e negozi. Tutta gente tranquilla, che certo non andava per mare di notte in una primavera invernale, che badava ai fatti suoi, apriva l'ombrello se pioveva e s'affrettava verso casa in tempo per il telegiornale, caso mai fosse avvenuta qualche bella disgrazia, o sapere se i rapporti diplomatici col Perù o lo Yemen andavano così e così o se la moglie del presidente degli Stati Uniti aveva o no picchiato il gatto di casa personalmente o se ci avrebbe dovuto pensare il servizio segreto, così, tanto per rompere la monotonia serale.
«Dov’è l’ingresso del porto?», strillo a Giovanni mentre osservo baluginare le luci della costa ogni volta che la prua scende nel cavo di un’onda. «Siamo intorno alle quattro miglia. Prendi tu la barra. Tieni sempre questa rotta mentre io vado a fare un po’ di carteggio», mi risponde, gridando a sua volta.
Mi attacco al timone come un bimbo disperato s'attacca alla gonna della mamma considerando che se fosse dipeso da me, non avrei saputo scegliere tra il navigare su e giù per la costa tutta la notte in attesa dell'alba o arrischiare l'ingresso notturno in un porto che é una specie di percorso di guerra, ma la mamma direbbe sapete, è fatto così, da piccolo non c'era verso di farlo dormire, appena chiudeva gli occhi subito si risvegliava e piangeva; chissà che gli passava per la testa.
Giovanni s'infila nel tambucio e scende nella cambusa. Alza la seduta d' una panchetta e tira fuori la carta nautica del quadrante. La stende sul tavolo fermandone i bordi arrotolati con un posacenere ed un coltello. La carta riporta una specie di "sentiero" da seguire con precisione nell’avvicinamento all’ingresso dell’insenatura ed anche dentro, disseminato com'è di bassi fondali fuorché al centro. Individua subito il faro di riferimento e comincia a tracciare i punti di posizione. Improvvisamente schizza via come centripetato da una specie di vortice e me lo ritrovo ansimante nel pozzetto:«Prua al vento! – strilla – alla voce! (che vuol dire: ferma tutto!)», e mi strappa il timone dalle mani.
«Che è successo?», gli domando timoroso d'averne combinata una grossa, eppure mi sembrava d'aver timonato come uno di quelli dei capitani coraggiosi, vedi come succede che si possa rovinare fior fiore di gioventù.
«Accidenti - dice - sono un cialtrone», é ansioso e guarda la costa rocciosa che incombe vicinavicina. Io mi sento riavere, nel senso che riprendo un po' di spirito: per un attimo ho creduto che m'avrebbe costretto a fare un giro di chiglia per qualcosa di sbagliato tra me ed il timone. Allora anche i maestri sbagliano, ridacchio dietro la faccia di questa consapevolezza, mentre la faccia davanti assume un'aria seriosa e preoccupata, anche se non c'è un gran bisogno di mascherarsi sotto un cappuccio gocciolante e con la luce ambiente simile alla fiammella di una candela in una cantina del castello della Triana. Scavata nelle budella d'una roccia.
«Ho sbagliato faro. Avremo sì e no un metro e mezzo d’acqua, sotto la chiglia». A questo punto nella colonna sonora fatta di scrosci d'onda e di pioggia, di sbattere di vele e di raffiche ventose uggiolanti ci starebbe bene un bel basso albertino, non so se mi spiego.
Mica è facile riflettere su una barca che rolla e beccheggia mentre scendi nel cavo di un onda che improvvisamente diventa un burrone ed immagini il fondale ad un palmo dallo scafo, improvvisamente diventato fragile come un wafer. Cosa ci sarà la sotto? Melma, sabbia o una morzata di scoglio? Scruto nel nero che ci circonda e le onde m'appaiono come denti affilati ed improvvisamente vorrei andare a controllare il funzionamento della pompa del cesso, tanto per fare qualcosa, o anche perchè sento il bisogno di dare un certo contributo ma non é quello il momento, così provo a ricordare le capitali dell'Europa ma non arrivo granchè lontano da San Marino, però mi ricordo quasi tutti i pianeti del sistema solare e tutti i giorni della settimana, incespico forse un po' nei capoluoghi delle regioni ma l'Italia è troppolunga, dei Beatles non me ne manca uno, dei Rolling Stones invece ne ricordo sei eppure qualcosa mi dice che siano cinque, e nella prossima vita vorrò essere un senatore per promulgare una legge che vieti alle imbarcazioni di navigare nottetempo ma quel che mi figge nel cuore è sentirmi inutile mentre spio una figura dentro una cerata verde su cui scorrono gorelli d'acqua che si raccolgono nel pozzetto per andare a finire chissà dove dentro lo scafo, quella fragile crosticina che ancora galleggia in quel malefico mare nero. Non vedo il viso di Giovanni, nascosto nell'ombra del cappuccio. Mi domando quali siano i suoi pensieri, i suoi ragionamenti, quali saranno le sue deduzioni primordiali ed innate, quel qualcosa che gli é maturato sotto la tesa del cappello, sotto il bavero della vecchia cappotta da marinaio, con la sigaretta che gli penzola dalle labbra tetre mentre cammina per ore intere lungo i vicoletti semibui del fronte del porto.
Giovanni spia la costa, vola verso terra legato al suo filo astrale e recupera due punti luminosi ed indubitabili quindi scende di nuovo in cambusa per cercarne le conferme sulla carta nautica.
Risale e riprende la barra.
«Andiamo a casa», mi fa ed io gli dico, casa? Ma casa è dall’altra parte del mondo, Giovanni.
«Dai retta a me, casa è dove trovi riparo. Sempre casa», concordo, certe soffitte possono sembrare case immense, a me sembra casa anche la pista d'un aeroporto, gli dico, ma te non sei normale, mi fa. Detto da lui lo ritengo un complimento, un segno d'amicizia, ma infine siamo sul "sentiero".
Navighiamo solcando l’insenatura come un vomere solitario solca un campo piatto. Portovecchio sembra sorriderci beffardo con tutte quelle luci tranquille che si riflettono sul mare fattosi improvvisamente calmo come una laguna, al riparo del vento e delle onde che sono già dimenticate: é proprio vero, i marinai non hanno memoria.
Intanto piove, ma sul bagnato non si vede.












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