DI QUESTO MONDO E DEGLI ALTRI – José Saramago
Il gruppo
Sono dieci o
dodici persone spaventate - un gruppo. Si siedono attorno a
un sacco pieno di paure: la paura della solitudine, la paura del passato, del
presente e del futuro. Sono un certo numero
di persone trepidanti che per decisione unanime fingono di ignorare la presenza
del sacco - e questo, lo chiamano coraggio. Persone mute di
terrore, che lanciano risa, domande e risposte - e questo, lo chiamano
comunicazione. Ma il sacco sta
lì.
Il gruppo
si agita, provoca, organizza, ha idee, discute, pone, dispone e
contrappone, si lancia in interminabili
conversazioni durante le quali il mondo è disfatto e rifatto – mentre dentro il
sacco si arrotolano le paure, viscide come lumache, in attesa del loro momento.
Sono dieci o dodici struzzi che nascondono prudentemente la testa sotto la
sabbia e dimenano di concerto le code piumate. E sono
intelligenti. Sono tutti venuti da
lontano e sanno molto. Hanno letto tutte le biblioteche,
visto tutte le pitture, ascoltato tutte le musiche. Hanno nella tasca
della giacca o nella borsetta le trentasei maniere radicali di trasformare
l’universo prossimo o remoto – ma nessuno di loro ha
trasformato la sua piccola vita personale e, in qualche caso, infelicemente
trasmessa.
Quando il gruppo si disperde (cosa
che non può evitare, ogni tanto, per ragioni di igiene), continua da lontano a
gravitare attorno al sacco di paure. E la paura della
solitudine fa di nuovo convergere i dodici pianeti verso il centro focale del
sistema. Ciascuno allora espone la propria debolezza e si spera che da dodici
debolezze nasca una forza. Il gruppo ha di queste illusioni.
Ma è proprio della natura
profonda dell’uomo (e sua responsabilità) che il confronto di se stesso con la
vita debba passare attraverso una battaglia personale con le paure che la
negano. E a nulla serve per la soluzione del problema ultimo (essere, restando
integro) questa ubriacatura in comune, questo paradiso
artificiale che è il gruppo. La paura della solitudine può essere vinta solo
dopo un corpo a corpo con la totale nudità dell’anima
(se è chiaro quel che dico) o dell’astrazione a cui diamo questo nome. Una vittoria mai raggiunta, forse neppure cominciato il
combattimento, se si va a cercare nel gruppo il mitico rimedio, la panacea
universale. E’ accettare la sconfitta prima della scaramuccia iniziale.
Ci sono
anche la vecchiaia e la morte. Qui sta lo specchio e il suo linguaggio. Qui il braccio che ormai più non cinge con l’antica forza. Qui il cuore che comincia ad accusare la salita. Qui il dolore sordo che annuncia l’irrimediabile. Qui il
tempo e la fine del tempo. Del nostro. Del tempo che è toccato a ciascuno di noi e del quale non
conosciamo la durata ma che suona come il canto veloce dell’acqua che sale
dall’orcio. Qui stanno, dunque, la vecchiaia e la morte. Di fronte a
questa paura saremo soli. E’ la nostra battaglia personale, quella in cui, a
conti fatti, più rischiamo, perché è il corpo che è in gioco, il corpo che perde la freschezza e il vigore, la bellezza, se
l’aveva – la splendida macchina fatta per la luce e che la luce abbandona. Ma
sono tali le virtù de gruppo che in esso cerchiamo la
cecità proficua, aiutati dallo spettacolo consolatorio della decadenza altrui.
Infine, c’è la paura del passato,
del presente e del futuro, generatrice delle angosce quotidiane, ombra e
minaccia costanti. Il gruppo mette in comune tre o
quattro scheletri del passato di ciascuno, e ciò permette l’instaurarsi di una
benevola aristocrazia di sentimenti attraverso, naturalmente, la lusinghiera
pratica dell’elogio mutuo. Ma l’armadio degli scheletri difettosi nell’osso,
quello, continua a restare ben chiuso, e la chiave la custodisce lui stesso, o
il suo socio, se il patrimonio dell’ossame è comune a
entrambi. Quanto al presente, la paura è a portata di mano, a portata del
gruppo, perché niente di tutto ciò dura, perché il gruppo secerne dalla sua propria contraddizione il veleno che lo distruggerà. Nel
futuro. Domani. Fino al prossimo gruppo.
O finché
ciascuna delle dieci o dodici persone scopra che è in se stessa il male e forse
il rimedio. E che il gruppo è, in fin dei conti, un po’ d’acqua torbida dove va
a dissolversi e scomparire, come fragile zolletta di zucchero, la roccia amara
e vertiginosamente lucida (perciò capace di gioia perfetta) che è la cosa
migliore di quella grandezza che siamo soliti chiamare
condizione umana.