LA SFIDA
"La speranza è la decisione militante di vivere con la certezza che noi non abbiamo esplorato tutti i possibili se non tentiamo l'impossibile" (R. Garaudy)
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Maria Cristina ha ereditato dal padre generale l'attitudine al comando. "Chiara sono sei mesi ormai che sei qui, oggi vai a prendere Angela, Maria e Tommaso. Chiedi di salir su." Non saremo mai amiche io e lei. Ha questo modo di fare, è incontestabile. Non mi va giù il fatto che non comprende Beppe; impegnato con gli esami in questo periodo, manca da qualche settimana. D'altra parte l'ammiro incondizionatamente. Senza di lei non ci sarebbe la scuola popolare. Continuo ad andare nel quartiere e trascuro lo studio. A volte credo che i bambini soddisfino soltanto il mio bisogno egoistico di sfuggire alla realtà che mi attende a casa. Voglio che tutto sia normale, continui, mi sembri accettabile. Riesco a non pensare. Angela è figlia di un operaio. A casa di Maria c'è una gran confusione. Suo padre è ambulante, vende "gnumeriedde" sul lungomare di Fesca, spiedini di coratella e altre interiora di agnello arrostiti sulla brace. Il tavolo della cucina è ricoperto di carne sanguinolenta; la madre prepara la merce per la sera. C'è un odore nauseabondo. Vengo attratta da una fila di candele sulla dispensa. "Non abbiamo pagato la bolletta questo mese, ci hanno staccato la luce. Maria non può studiare, anche perché ci sono rimaste solo queste due sedie. Le altre le ha sfasciate mio marito." Guardo la mamma di Maria, solo ora mi accorgo di un grosso livido sul braccio e delle labbra gonfie. "Domani venderò la fede di mia madre buonanima e pagherò la bolletta." Nessun suono riesce a uscirmi dalla bocca. Mancano le sedie, non il televisore, un videogioco, un computer, mancano due sedie e non si trova modo di comprarle o ripararle se non vendendo i ricordi di famiglia. Mancano le sedie e si respira violenza. "Non si preoccupi signora, chiederò io a qualcuno di procurargliele." La terza casa è quella di Tommaso, il bambino dell'incidente, nella parte più brutta e desolata del quartiere. Si entra direttamente in una cucina. Segue un corridoio stretto e corto che sembra portare solo ad una camera e un bagno. Mi accoglie il bimbo, dice che la mamma arriva subito. C'è sporco e disordine dappertutto. La finestra della cucina ha il vetro rotto: "Tommaso quando si è rotto quel vetro?" "Non ricordo, l'ho rotto io con la palla mesi fa, non glielo dire alla mamma che mi riempie di nuovo di botte." Lo accarezzo, sedie mancanti e vetri rotti. Arriva la mamma di Tommaso in vestaglia, i capelli spettinati, occhiaie profonde. Suo marito è in carcere per spaccio. Lei sembra decisamente fatta. "E tu ci si?" "Signora sono Chiara, della scuola popolare, mi scusi, Tommaso ha detto che potevo salire." Mi spinge il bambino contro: "Portatelo, che ho da lavorare ora." Sulle scale incrociamo un uomo. La mamma di Tommaso gli apre la porta. Una sola camera. Fino a che ora lavorerà? E negli altri giorni? Tommaso piccolo mio. "Bambini oggi ho portato un bel libro. Si chiama Bari e parla della nostra città e della sua storia." Nino ridacchia. "Cosa c'è di tanto divertente Nino?" "Hai detto la nostra città, noi siamo al CEP qui, non a Bari." "E' per quello che ho portato il libro. Intanto siamo al quartiere San Paolo e non al CEP. CEP è una sigla, significa case economiche popolari, perché questo quartiere è fatto di case che il comune ha dato alla gente." "Ma ci sta disce Chiara? CEP vuol dire centro elementi pericolosi." Mi copro gli occhi con le mani e faccio finta di piangere: "Che paura, che paura che mi fanno questi bambini pericolosi!" Ridono tutti. Nino si alza, viene verso di me e mi abbraccia forte. Lo siedo sulle mie gambe, comincio a sfogliare il libro. "Guarda questo è il centro, il lungomare, il teatro Petruzzelli. Su questa pagina ci sono i nomi dei quartieri, leggiamo insieme, Ma-don-nel-la, Pi-co-ne, Li-ber-tà……San Paolo…." "Oh Chiara, tenevi ragione allora, c'è scritto pure San Paolo." Sorrido: "Visto? Tu sei barese come me e la prossima volta andiamo tutti a mangiare una pizza in centro." Mi guarda contento. Lui in centro non ci è mai andato. Sapevo che sarebbe arrivato. Il momento in cui Maria Cristina mi avrebbe invitato a partecipare alla preghiera. Hanno avuto in comodato una piccola chiesa abbandonata nella città vecchia e si riuniscono lì per pregare. "Ci farebbe piacere, sono mesi che sei con noi. La preghiera è di sabato e poi rimaniamo lì, compriamo qualcosa da mangiare e passiamo la serata insieme." "Ti ringrazio Cristina, ci devo pensare, lo sai che io non sono credente." "Non devi pregare se non te la senti. Vieni, una serata insieme." Arriva il sabato, non ho voglia di nulla in questo periodo. Voglio stare a casa e voglio fuggire allo stesso modo. Una preghiera, una preghiera a chi? Dio non può esistere perché se esistesse non sarebbe così crudele. Non ci tormenterebbe con mesi di cure e sofferenze, non ci illuderebbe per poi farci ripiombare nel baratro, non ci costringerebbe ad ascoltare urla disumane di dolore nella notte, non obbligherebbe mio cognato a lasciare il lavoro per assistere sua moglie tanto che ora li ospitiamo entrambi a casa nostra perché i soldi sono finiti. E anche la speranza. Non ha più un occhio mia sorella, mangia solo roba liquida, non riesce a parlare a lungo. Io la ricordo sul suo cavallo, forte e libera. Nascondo il mio dolore perché voglio che tutto sia normale, continui, mi sembri accettabile. Riesco a non pensare. E poi il dolore fa paura, non ho trovato nessuno con il coraggio di accoglierlo e di ascoltarlo. Sarebbe bello se Dio esistesse ed ascoltasse, almeno lui. Entro in quella piccola chiesa ed è come un ritorno all'infanzia: la scuola dalle suore, la domenica delle Palme unico giorno in chiesa con mio padre, i pensierini scritti con la mano ancora incerta su fogli a righe e bruciati per arrivare in fumo a quel Dio che non ricordo. Seduta a terra su stuoie ruvide con accanto un Vangelo consunto, ascolto il canto, poi il brano. “Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me” Forse è solo questo Dio, è ascolto ed accoglienza, è il dolore della gente, sono mani, visi, occhi. Gli occhi di quei bambini impressi come un marchio a fuoco sul cuore.
Nino girò un cortometraggio che partecipò ad una delle edizioni di Cinema Ragazzi e Giovani grazie alla collaborazione con l'Associazione Fantarca. Io lasciai la scuola popolare dopo circa tre anni per riprendere a studiare. Continuai da sola l'amicizia con loro per altri due anni. Spero che tutti abbiano una vita migliore oggi. Il mio augurio grande va ai ragazzi di Sant'Egidio che continuano in tutto il mondo a dare testimonianza di quel Dio amico. Per chi avesse tempo e voglia, alcune delle loro attività: |
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