LA SFIDA
"La speranza è la decisione militante di vivere con la certezza che noi non abbiamo esplorato tutti i possibili se non tentiamo l'impossibile" (R. Garaudy)
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A turno andavamo ad occupare i posti in aula. Se era bel tempo pantaloni, basco del colonnello, orecchini di ogni forma, tipo e colore e bicicletta; se era brutto minigonna, basco del colonnello, orecchini di ogni forma, tipo e colore e "papà mi accompagneresti in facoltà?". Noi del corso di elettrotecnica non eravamo più di cinquanta, tre donne. Seguivamo le lezioni del biennio insieme ai colleghi di elettronica. Aule stracolme, credo almeno 400 studenti in totale. Le ragazze si contavano comunque sulla punta delle dita di due mani. Ricordo giorni passati a casa dei miei colleghi fuori sede. Ripetevamo decine di volte le dimostrazioni dei teoremi. Avevamo una lavagna abbastanza grande, ci scrivevamo con il pennarello, interrogandoci a vicenda. Ci interrompevamo solo per pranzo: paste al forno cucinate di fresco dalla mia mamma o strane pietanze, trasportate in valigia il lunedì mattina e messe lì, sul lavello, nei loro vasetti ermetici, a scongelare. Quando si rimaneva in facoltà, si andava a studiare alla biblioteca di matematica; la motivazione addotta dai compagni di sventura era che lì c'era più spazio, la verità che c'erano più femmine! Gli esami, semestrali. Prima gli scritti per la maggior parte delle materie, ore e ore a risolvere problemi di chimica e fisica, e poi integrali, equazioni differenziali, matrici. E quando arrivavi lì al momento dell'esame, caso mai affrontato prima. Sembra che i professori abbiano un gusto sadico innato, ti propongono sempre l'unica cosa che non hai mai letto da nessuna parte o quella che proprio non hai capito! Scorrevamo gli elenchi degli ammessi agli orali sapendo già in partenza che per qualche esame al primo tentativo avremmo letto un NON AMMESSO. E così puntualmente accadeva. E di nuovo lavagna, esercizi, pasta al forno, passeggiate nel parco lì vicino, che intanto era arrivata l'estate. Orali, cominciavano la mattina alle 8.00 e non si sapeva mai quando terminavano e quando era il tuo turno. Io avevo la mia personalissima regola: niente studio il pomeriggio prima e niente libri da portare nel corridoio per ripetere fino all'ultimo secondo. E nessuna minigonna o orecchino. Dopo il fatidico voto annotato sul libretto, cercavo un ciondolino adeguato e pertinente da appendere al mio cappello nero a punta. E così ho passato una buona parte di anni della mia vita, tra libri sparsi ovunque, pennarelli consumati, alzatacce, lezioni mal spiegate che non tutti i docenti sono veramente degni di questo nome, scherzi e gare di automobiline per rilassarsi ogni tanto. Non c'era maschilismo, in facoltà no, ero coccolata direi, un po' la mascotte del gruppo. Quello vero l'ho sperimentato nel mondo del lavoro più tardi. E' finita un giorno di ottobre, allo stesso modo di come è cominciata, in un'aula gremita di gente che non sapeva dove sistemarsi e non riusciva ad ascoltare o poco comprendeva di quello che raccontavo sulla generazione eolica. Mio padre assisteva sorridente alla realizzazione del suo sogno. Non ho voluto festeggiare: io avrei voluto diventare un architetto, una biologa, un'interprete e solo per un caso fortuito mi trovo ad essere un ingegnere. Vita spericolata - V. Rossi |
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E per il maschilismo, hai ragione: non c'è quando la donna ha un ruolo "decorativo", ma quando si è in competizione è un altro paio di maniche. Spunta ad esempio il problema del "rischio" dell'assenza per maternità, come se poi un imbecille perennemente presente fosse un'alternativa valida a una persona capace che torna al lavoro tra un anno :))
Ciao!