LA LETTERA DEL GOVERNO

di Yves Thériault

Traduzione originale dal francese

Yves Thériault

Yves Thériault, che ha del sangue indiano nelle vene, nacque a Québec. Egli fu un vero autodidatta. Dopo aver abbandonato gli studi all'età di 17 anni, esercitò i mestieri più diversi: venditore di formaggi, camionista, agente pubblicitario, annunciatore alla radio, ecc. Questa vita così varia gli permise di percorrere il Québec in tutti i sensi e di accumulare esperienze.

La sua carriera letteraria si aprì nel 1944 con la pubblicazione di “Contes pour un homme seul“, da cui è tratto il racconto che segue. A questo volume ne seguì un'altra ventina, tra cui undici romanzi e tre raccolte di novelle, il che fa di Thériault uno dei più prolifici narratori franco-canadesi. Il suo romanzo più celebre, “Agaguk“ (1958), che racconta le avventure di un giovane cacciatore esquimese, è stato tradotto in almeno otto lingue.

In cucina, la presenza del sole non si manifesta che per un solo raggio.

Esso parte dall'orizzonte, attraversa quasi un oceano, si appoggia per breve tratto sull'orlo di una scogliera e fa scintillare una roccia di pirite, poi viene a rannicchiarsi in cucina, dalla finestra alla stufa.

É talmente potente, talmente forte, talmente riposato questa mattina, che crea come un muro là dove passa. Se vi si guarda sopra, di là del fascio di luce o più lontano, esso abbaglia, la sua luce fa scoppiare gli occhi, e non si può vedere che questo lato dell'appartamento, quello in cui ci si trova.

La stanza è deserta.

Un gatto dorme presso la stufa. Un gatto e tre gattini.

Una grande cucina, dove dei buoni odori certamente si addensano, e vengono a solleticare le narici all'ora dei pasti, quando tutte le pentole cuociono sul fuoco, e la madre si affaccenda a preparare il pranzo. Sui tavolati, dei tappeti puliti, meno puliti, e uno – quello davanti al lavandino – veramente sporco.

Dei muri divisori di legno, e dei calendari religiosi, altri che lo sono di meno, un almanacco del Dr. Chase appeso presso una pila dell'acqua santa. Una mensola sul muro di sinistra, e un Sacro Cuore, davanti al quale arde un lumicino che non fa molta luce.

Delle finestre, quattro – no cinque – in tutto, e due porte. Una che si apre sulla loggia anteriore, l'altra che dà sull'uscita di lato.

Nessun'altra stanza nella parte bassa della casa.

La cucina è grande, ma occupa tutta la casa, e ciò fa sì che la casa non sia per niente grande.

Dopo un po', dopo che è apparso il sole, si odono dei rumori venire da sopra. Uno stivaletto che si raccoglie, che si rigetta perché non è del piede giusto. Lo scricchiolio del tavolato che cede sotto il peso di qualcuno che si alza dal letto.

Uno sbadiglio che termina con un sonoro “aaah”.

Riprende la vita. Poco dopo essi scendono.

Il padre per primo – d'altronde eccolo qui – sonnolento, gli occhi gonfi, tarchiato. Egli scende la scala lentamente, tenendo la camicia con una mano.

Poi c'è la madre.

É grassa, e ha una corporatura cadente. É una donna priva di eleganza, floscia, ma il cui viso riflette la buona semplicità delle donne che abitano presso le rive, quelle che rimangono a casa quando il marito va a pescare.

Ella discende più lentamente del marito, e questo gli dà il tempo di sedersi, prima che quella non sia giunta in cucina.

Non si scambiano una parola. Non è per indifferenza, si tratta piuttosto di un'abitudine che si ripete quando si levano alla mattina. Essi non vedono la bellezza dei gesti che compiono. Non ne vedono più la grandezza.

Da sempre essi scendono, ogni mattina, uno dietro l'altra, ancora insonnoliti e non molto coscienti, la bocca pastosa, e piena di ragnatele, come disse la piccola Irma del vicino, che a dieci anni sa già dire le cose che fanno ridere o riflettere.

(Andrà lontano quella là, nel bene o nel male!)

Ogni volta, che nevichi, o che soffi il vento; che il cielo sia grigio oppure blu; che il sole sia là, splendente, o nascosto dietro la foschia, essi scendono così, perché rompere una tale abitudine costituirebbe un attacco a trent'anni di routine. E ciò non si fa.

E anche questa mattina, anche se fa bel tempo, e il sole splende come un grosso diamante, non hanno una parola l'uno per l'altra. Perlomeno, non una parola che conti.

Infilando la camicia, in effetti egli ha detto:

“Questa sarà una bella giornata!”

Ma ciò non vale. Si potrebbe dire piuttosto che ha pensato a voce alta, non che abbia parlato a qualcuno.

Così, anche se sua moglie non ha risposto, non significa niente. Egli non si aspettava una risposta.

Egli si è diretto verso il secchio d'acqua e vi ha affondato le mani. Con le palme si è bagnato il viso e ha scosso la testa a sinistra e a destra, velocemente e vigorosamente, facendo “arrrroumph,” come un cavallo. É la sua toeletta. Così per tutta la settimana. La domenica, egli aggiungerà del sapone, poi si asciugherà con un tovagliolo. Si farà anche la barba.

Quel mattino solo le mani.

Ella fa come lui, ma due volte. In passato egli considerava civettuolo far ciò per due volte. Oggi non ne sorride più. Ma non pensa nemmeno che non sia la civetteria a farglielo fare due volte.

Poi lei si è messa a preparare la colazione, ed egli è uscito a prendersi cura degli animali.

Quando è ritornato, ella stava seduta a tavola, davanti al piatto di semola.

Ella non mangiava.

Guardava diritto davanti a sé, gli occhi fissi e vaghi.

Egli osservò:

— Fa caldo, apro la porta sul davanti.

Ella non disse nulla.

Fu quando l'apri che si fece sentire la campanella.

Persistente, chiara nel nuovo mattino, veniente dal basso della piccola collina.

— Monsieur il curato che va a visitare un malato.

Nel dire ciò, ella si è alzata per andare alla porta, a vederlo passare. E quando egli è giunto davanti alla casa, si sono inginocchiati, marito e moglie, perché sul petto del loro pastore c'era il buon Dio.

Nell'alzarsi, ella scosse la testa.

— É padre Babin. La servitrice del presbiterio dice che non passerà la giornata.

A sua volta egli scosse la testa.

— Dicono così, ma si sbagliano di molto. É un mese che non deve passare la giornata.

Ella difese la sua informazione.

— Ha avuto una ricaduta ieri a mezzogiorno. Anzi peggio, è in giorno di morte.

Egli, che era ritornato a tavola, e che era già seduto, s'alzò in piedi, d'improvviso.

— Non dire ciò! Non sono cose da dire.

Ella lo fissò per un istante, le mani alle anche, scosse le spalle, poi ritornò al suo piatto di semola.

Il raggio di sole si raccorciava.

Esso non copriva più che la metà del percorso di prima. Presto non sarebbe più che un ornamento d'oro e di gioielli scintillante sul fondo della finestra, e la cucina non sarebbe più troncata da quella freccia abbagliante che illumina tutto sulla tavola, e lascia il lavandino, la stufa e le sedie in un'ombra che il fulgore del sole quasi sfuma.

Ora, essi hanno ripreso la colazione, e a rompere il silenzio non si ode che lo sciabordio delle labbra, e quello che fanno i cucchiai nel muovere la semola nei piatti.

L'orologio àncora il suo tic-tac nel subconscio, oltre il timpano, in un suono percepito, ma non inteso.

Così per dieci minuti.

Forse un po' di più.

Poi...

— Ho ricevuto una lettera.

Prima di dire ciò ella si era alzata, e manipolava un paiolo sulla stufa.

Distratta.

Egli rispose solo con un brontolio inintelligibile.

— Hai compreso, Cléophas, ho ricevuto una lettera. C'era una lettera per noi all'ufficio postale.

E aggiunse:

— Ieri sera.

Cléophas, appoggiato con i gomiti sulla tavola, per un istante emise un nuovo brontolio.

Ella continuò, spazientita:

— Non una lettera di Claude, una lettera del governo.

Questa volta, egli rispose:

— Lo so.

— Come, lo sai?

— Lucille me l'ha detto, all'ufficio postale.

Ella si diresse verso la tavola.

— Quindi?

Egli non la guardò subito. Aveva gli occhi fissi di fuori, attraverso la finestra, e guardava il mare. La sua voce era sorda, e mancò di fermezza quando aggiunse:

— É una lettera del governo. Lo stesso tipo che ha ricevuto Léon per dirgli che il suo Paul si era fatto uccidere sull'altra sponda.

— Lo sapevi?

— Sì.

— Non ne hai parlato?

— No.

— Perché non ne hai parlato? Il nostro Claude è morto, non è una grande disgrazia?

Egli ricadde nel silenzio di prima.

— Tu sapevi che ero io che avevo ricevuto la lettera. Non ti capisco, Cléophas, non hai mai agito in questa maniera. Il nostro Claude è morto!

Ella non piangeva ancora. Fremeva solamente, e tremava.

Di lì a poco, dopo qualche secondo, ella sarebbe scoppiata in pianto, ma non subito.

— Non ne ho parlato perché non lo credo...

— Tu non lo...

— No. Non lo credo. L'hanno almeno visto? Non ci hanno mostrato il cadavere, eh? Vai tu a farmi credere che un ragazzo in gamba come Claude si uccide così facilmente? Ci vuole altro che un tedesco per ucciderlo! Egli non è morto, te lo dico io; finché non avrò visto il suo cadavere, non ci crederò. Nell'altra guerra, mio cugino Firmin era stato supposto morto. Il governo aveva scritto a sua moglie, poi basta. Egli arrivò all'improvviso nel '18, in salute come prima. É la stessa cosa per Claude... Considera, un ragazzo robusto, forte come dieci...

Ella assentì, togliendo una lacrima col rovescio della mano.

— É vero che è robusto.

— Da Castoux egli aveva abbattuto il Grand Louis con un pugno. Senza conoscenza per una mezz'ora. Il Grand Louis è un tipo forte, battagliero, che colpisce. Claude l'ha steso. Vuoi dirmi che un ragazzo come questo va a farsi uccidere da un ... tedesco? Ma va', non siamo pazzi...

Egli si alzò e prese il cappello appeso a un chiodo presso la porta.

Con un colpo repentino, se lo ficcò in testa.

— Stracciala quella lettera! Mettila nella stufa. Quando il governo vorrà raccontare delle frottole, che vada a raccontarle altrove. Un valoroso come Claude, non lo si uccide!

E uscì camminando eretto, fermo nella sua cocciutaggine.

Ella rimase per un istante pensierosa, poi se ne andò a prendere la lettera riposta nell'armadio. Con mano lesta la strappò in due e la gettò nel fuoco. E, mentre la fiamma cresceva con rinnovato furore, esclamò:

— Branco di bugiardi, via!