L' EREDITA'

di Ringuet (1895-1960)

Traduzione originale dal francese

Introduzione di Gérard Bessett

Il dottor Philippe Panneton, che scrisse sotto lo pseudonimo Ringuet, nacque a Trois Rivière. Egli fece i suoi primi studi di medicina all’università di Montréal, poi andò a specializzarsi a Parigi in otorinolaringoiatria, cioè sulle affezioni delle orecchie, del naso e della gola. A lui sono dovuti numerosi articoli scientifici in questo campo; ma è soprattutto per il suo contributo letterario che è conosciuto.

Il suo primo romanzo, “30 Arpents,” che apparve a Parigi nel 1938, segna una data nella letteratura franco-canadese. Ringuet è in effetti il primo romanziere a praticare ciò che si può chiamare realismo integrale, a dipingere l’ambiente paesano canadese senza abbellirlo o screditarlo, senza idealizzarlo o abbrutirlo. La novella che segue, intitolata “L'eredità,” è tratta da una raccolta dello stesso nome e, come “30 Arpents,” descrive un ambiente paesano. Nonostante vi si intrufoli un elemento romanzesco forse un po’ troppo evidente, “L’eredità” ci offre un bell'esempio dei doni di osservazione e scrittura accurata di Panneton.

L’uomo si fermò per un istante all’incrocio delle strade che, visibilmente, l’imbarazzavano. Bisognava scegliere se continuare lungo il cammino duro, andando diritto fino a perdersi in fondo al bosco, che affogava all’orizzonte nel calore umido del giorno, oppure girare a sinistra verso la strada polverosa, verso la strada tortuosa e più trascurata, che alcune collinette spoglie sembravano bloccare ad alcuni arpent di distanza. Essa si avviava ai piedi di una terra ricoperta di pini dormienti sotto il sole.

Vi era pure, ma a destra guardando l’incrocio, una casa bassa dietro una fila di aceri, il cui fianco era ulcerato da chiassosi manifesti.

L’uomo scelse di salire sul poggio, la cui ombra invitante si annunciava attraverso la trama dei rami. Egli si arrampicò di traverso con passo solido e stanco. Calpestando il tappeto di aghi che stridevano sotto i piedi pervenne ad un punto sabbioso, oltre il quale il sole era nascosto.

L'abito nuovo e la camicia di colore vivo coprivano la sua buona levatura e le spalle orizzontali, le quali, disegnandosi nel cielo, facevano pensare a un bilanciere di legno duro, fatto per sopportare dei pesi. Egli depose a terra il suo fagotto.

Sotto i suoi occhi si aprì il paesaggio: davanti a lui stava la terra, forse quella che giustamente cercava. Ora che si era fermato, l’ombra e il vento fresco della primavera si interposero tra lui e il proprio calore, che la marcia gli aveva reso quasi penoso.

La terra gli si presentava lunga e ondulata. Essa scendeva con rapida caduta, abbozzava delle piccole vallate, poi affondava in una gola per riaffiorare più in là. Colà vi erano dei lunghi ripiegamenti verdeggianti, l’ultimo dei quali era troppo alto per vedervi oltre. Altrimenti avrebbe dovuto spostarsi un poco sulla destra.

In basso, nel cortile di una casa presso l’incrocio, un gallo si mise a cantare a gran voce il canto di trionfo degli amori soddisfatti, un canto sonoro che voleva imporre la propria gioia a tutto il mondo, alla terra, al sole, al giorno. Esso riempì per un istante lo spazio agreste. Poi egli s'interruppe bruscamente, come stupito di non aver conquistato niente. Subito dopo riprese la calma invitta, maestosa, definitiva. Il fruscio dei rami, il cui soffio non toccava che le cime dei grandi pini verticali molto vicini al cielo, sembrò non essere che un elemento di quel silenzio.

Sulla veranda della casa apparve per un istante una donna in caraco. Poi, dopo un istante venne a unirsi un uomo. La mano sugli occhi, essi osservarono l’uomo in piedi sopra la collinetta, che riempiva con la sua presenza inusuale. Poi si ritirarono.

Essendosi spostato di poco, il viaggiatore scorse infine qualcosa di preciso: un ponte grigio a cavallo della gola. Il fiume era sicuramente là. Egli riprese il sacco e discese. Ma prima di entrare nella bottega esitò ancora una volta. Poi, scrollate le spalle, spinse la porta risolutamente. La donna in caraco s'insinuò dietro il banco sporco, dove in una vetrina erano esposte delle caramelle e delle tavolette economiche di tabacco da cicca.

― Vorrei solo sapere se è per di qua la terra del defunto Baptiste Langelier.

― Che cosa?

― Beh, mi è stato detto che è da queste parti la terra del defunto Baptiste Langelier.

― Ah! La terra di Baptiste Langelier!

― Sì, la terra di Baptiste Langelier!

Egli ripeté macchinalmente, senza sorpresa, da uomo abituato al modo di fare delle persone semplici.

― Com’è la cosa, ― riprese quella, ― è riguardo alla terra di Baptiste Langelier che volete sapere?

Egli non rispose.

La donna scomparve dietro una coperta sporca di polvere che, appesa nel vano di una porta, serviva da paramento. Dopo un istante si mostrò un uomo. Egli fissò lo straniero con occhio inquisitore.

Questi ripeté ancora una volta, senza impazienza:

― Vorrei sapere dove si trova la terra di Baptiste Langelier.

― Baptiste Langelier? Beh, è morto già da qualche tempo.

― Sì, lo so. Ma la sua terra?

― Beh, vi devo dire: voi prendete la strada a sinistra, ai piedi della collinetta. È molto facile, è la terza dopo il rigagnolo di traverso.

― Bene, molte grazie.

Quando riprese il cammino, l’uomo e la donna stavano dietro la tenda.

― Forse è proprio lui, ― disse la donna.

― È molto probabile, ― rispose l’uomo.

Era proprio lui.

Quando il vecchio Baptiste Langelier morì improvvisamente nel mese di febbraio, ognuno si chiese a chi sarebbero andati i suoi beni; poiché era celibe e senza parenti noti nel cantone e nemmeno, per quanto si sapesse, più lontano. Per qualche tempo non si era presentato nessuno. Poi era venuto qualcuno da Saint Alphonse, il quale aveva visto il notaio. Poi si era avuta la notizia che c’era un erede, un uomo di città, chiamato pure lui Langelier. Un cugino?

Ancora meglio! Passo passo, la storia aveva fatto strada: questo Langelier, il nuovo, sarebbe stato il figlio, ma sì, il figlio del vecchio! Del vecchio che non si era mai sposato? bisbigliavano gli uni; il figlio di una donna che Baptiste aveva sposato venticinque anni prima, affermavano con sicurezza gli altri. Essi precisarono: Si trattò di una donna di Montréal con la quale non aveva vissuto che per alcune settimane, allorché si recò alle armi nel 1916. Ciò in cui i rumori erano d’accordo era che il bambino fosse stato allevato presso le Suore come bambino senza genitori, come bastardo.

Comunque fosse, Albert Langelier ottenne l'eredità. Egli prese possesso della casa di cui possedeva la chiave: Prese possesso degli edifici, con l’aspetto sicuro del proprietario; prese possesso della fattoria, con l’aspetto esitante di colui che non se n'intende per niente. E quel giorno stesso aprì tutte le grandi finestre, comprese quelle del salone.

Per alcuni giorni i vicini si mostrarono inquieti e amabili. Dame! Vedendo la casa abbandonata, non ci si sarebbe fatto a meno di andarci di notte “per vedere”, e se il vecchio Langelier fosse ritornato avrebbe dovuto cercare a lungo un certo numero di cose che non erano più al loro solito posto.

Per qualche tempo i Vadenais non osarono servirsi del “loro” tagliere del tabacco e madre Caron, quella della casa dell’angolo, custodì in fondo alla cantina il grande paiolo del sapone.

Il vicino Langlois, lui, arrivò tutto sorridente a portare la spanditrice di letame; l’aveva custodita nel suo fienile “per timore che altri la rubassero.”

Fu così che ritornarono successivamente un vecchio cavallo, due vacche, un maiale che delle buone anime avevano ospitato perché non morissero di fame e di freddo. Ciò aveva comportato delle spese per il nutrimento. Il nuovo venuto aggrottò le sopracciglia, non discusse minimamente e pagò. Ciò parve un po’ sospetto.

In quanto ai polli, essi dovettero essere stati divorati dalle volpi, perché nessuno seppe dire che cosa ne fosse stato di loro. A Grands Pins, la terra è magra e ostile alla coltura ordinaria; così essa rimase quasi abbandonata per lungo tempo. Non fu che quando venne la coltura del tabacco giallo che delle persone tanto povere quanto il suolo vi s'insediarono. Con pena e miseria all’inizio, poi un po’ più facilmente, il tabacco fece vivere le famiglie.

Padre Langelier fu uno dei primi a dedicarvisi. Poiché non era giovane e non chiedeva alla vita come prezzo del suo lavoro che qualche anno di tranquillità, egli aveva compiuto poche spese. Si era costruito un ottimo essiccatoio, il fabbricato quadrato classico con due fori, che si riscaldava dall’esterno. Egli si accontentava di mettere per terra qualche migliaio di piante fatte germogliare preliminarmente. Ma quando arrivava il momento di trapiantare o di togliere i polloni, egli pagava alcune giornate a un figlio del vicino o a un girovago. La stessa cosa per le ore affannose del taglio.

Egli era fiero del suo tabacco, di una specie che coccolava gelosamente da anni e del quale raccoglieva il seme ogni anno; come tutti, egli insaccava sette o otto piante che lasciava crescere coperte dal sacco di carta. Ma aveva le sue idee. Così egli sosteneva ostinatamente che non bisognava raccogliere il seme se non quando soffiava il vento dell’est!

Nella cucina in cui era entrato, Albert Langelier trovò le lunghe bottiglie da semina. Tutto si era rovinato; non restava che una terra polverosa e granulosa, una terra morta, e là sopra alcune fibre stoppose, tutto ciò che rimaneva del “famoso tabacco scombinato.”

L’inverno aveva bagnato la stufa, attorno alla quale stavano delle scatole di conserva vuote. Egli le spinse via con il piede e vi mise le sue, piene.

Entrando dal didietro, dall’entrata familiare, si passava dalla cucina a un salone in abbandono quasi vuoto, salvo due poltrone di crine sventrate e una credenza. Sul muro, un vecchio calendario offriva agli occhi la pagina di febbraio, quella che il vecchio non aveva potuto strappare.

Delle due camere superiori, Albert scelse la più piccola, la meno scura. Era là che il vecchio doveva aver abitato, poiché il letto portava ancora un lenzuolo sgualcito e, stesa in parte per terra nella polvere, una brutta copertura. Al nuovo venuto parve che si sarebbe sentito meno spaesato in quel posto dove qualcosa mostrava che si era vissuto.

Macchinalmente egli fece l’ispezione dei mobili e aprì uno dopo l’altro i cassetti della cassettiera. Un grande armadio di abete, le cui porte stavano aperte come la bocca di un morto, coprivano un lato del muro. Vi gettò un colpo d’occhio: un bicchiere sbrecciato, un crostino di pane coperto di muffa e, immerso nelle ragnatele dell’angolo, un vecchio numero dell’Almanacco del Popolo. Presa una pezzuola informe, Albert spolverò i ripiani prima di deporvi il contenuto del suo sacco. Egli vide pure infilato in una fessura un pezzo di carta che si mise a leggere macchinalmente. Era un frammento di lettera.

“… a Montréal, non potei vederti. Mi trovai tra amici. Ma l’avrei ben voluto, perché n'ebbi veramente bisogno. Costa così tanto. Non avrei dovuto ascoltarti e fare come Violetta, invece di sobbarcarmi da solo. É vero che se mantieni la promessa ciò basterà. Sono stato in visita dalle Suore…”

La lettera era strappata obliquamente:

“non male. Ma ho finito per acc…”

“mutandine, un berretto…”

“buon senso…”

Egli volse il foglio, ma l’umidità aveva fatto colare l’inchiostro. Non c'era niente che potesse avere un senso.

Seduto ai piedi del letto, la lettera tra le mani, egli la rilesse e poi lasciò vagare la mente. Era proprio di lui che si trattava? del bambino che era stato? del povero bambino rinchiuso in un orfanotrofio senza parlatorio, il solo decoro infantile di cui avesse ricordo?

Di sua madre non ricordava minimamente di averla mai vista; e le Suore non si fecero il minimo scrupolo di dirgli che lei non aveva mai avuto cura di lui, che la comunità non aveva ricevuto niente da nessuno.

Egli guardò di nuovo il pezzo di carta, poi lo accartocciò e lo gettò a terra con un getto meccanico di celibe. Ma no, non bisognava, perché quella era la sua casa; la sua casa! Egli fece scivolare la carta nella tasca della camicia.

A che pro cercare! A che pro evocare dei fantasmi che non riconoscerebbe mai. All’improvviso egli desiderò istintivamente che sui muri del salone vi fosse qualche ritratto che gli mostrasse i tratti di suo padre, di quel padre di cui non aveva ricevuto che due cose, ma straordinarie: la vita inizialmente, una vita male accolta da tutti e per cui aveva sofferto quando aveva saputo; una vita che aveva sofferto così tanto che non ne aveva neppure iniziata un’altra, la sua, quella che aveva tessuto con le proprie mani, all’inizio maldestre, poi incoraggiate. Secondo dono: quest'eredità inattesa, alla quale si era rifiutato di credere inizialmente, tanto era convinto della propria cattiva fortuna. Gli era giunta in piena disoccupazione, mentre attendeva la riapertura della navigazione sul fiume ancora gelato per riprendere il duro lavoro di scaricatore. Ogni anno egli aveva sfacchinato, guadagnando molto, è vero, ma pure spendendosi; e ad ogni autunno si ritrovava nello stesso punto, osservando con fatalismo il suo ultimo lavoro fuggire con i venienti ghiacci e con in tasca solamente l'ultima paga.

Egli si credette ben ricco quando in pieno mese di marzo si vide in possesso di ottocento dollari. Egli ereditava pure una fattoria a Grands Pins, il diavolo sa dove. Quella era stata per lui la nota buffa: quella fattoria non l'avrebbe sicuramente mai vista!

In alcuni giorni egli aveva sperperato gioiosamente cento dollari che non rimpiangeva minimamente; un piacere unico, folgorante, il cui ricordo gli sarebbe rimasto per tutta la vita come un’apoteosi. Poi gli si era offerta un’occasione. Un amico gli aveva proposto di associarsi con un terzo in un affare di alambicchi, dove tutto quello che mancava era il capitale per acquistare le materie prime. Dopo ciò ci sarebbe stato da guadagnare molto: come sul velluto!

Al momento della prima riscossione, il compare aveva rivelato il segreto per ottenere una ricompensa. C’era stata un’incursione della polizia e il distillatore era stato acciuffato con le mani nel mosto.

Albert pensò a quella fattoria di Grands Pins. Era così lontana, Grands Pins. Non si sarebbe mai venuti a cercarlo in capo al mondo. Egli era fuggito.

Non gli restava dunque che vivere, guadagnare come tanti altri. Non doveva essere tanto difficile; e poiché le persone della campagna riescono, anche lui, uno che in città sa sempre trarsi d'impaccio, sarebbe riuscito. “Una persona in gamba”, si diceva di lui, come il padre che non aveva conosciuto, ma che gli sarebbe diventato qualcosa, una specie di provvidenza intervenuta proprio nel momento giusto e verso cui provò una riconoscenza quasi religiosa.

Infine si sentì di nuovo facoltoso.

Del suo gruzzolo non gli rimanevano più di trecento dollari che non aveva avuto il tempo di rischiare né di sperperare. Egli non aveva mai posseduto una tale ricchezza. A quest’idea egli toccò la bozza che faceva il pacchetto di biglietti sulla cintura.

La sua solidità barcollò quando si vide tra i campi così poco familiari. Egli trovò la terra cupa che beveva i suoi passi, i boschetti misteriosi che nascondevano il fiume, lo spazio inquietante che non offriva niente subitamente. Per acquistare confidenza, si applicò a saggiare tranquillamente il possesso di quel bene che era più tangibile di qualsiasi altra cosa.

Acquistò delle piante dai vicini e ascoltò a lungo le loro spiegazioni, assumendo l'atteggiamento di chi ne sa più di quanto si crede. E a partire dal terzo giorno egli stava nei campi, il cavallo aggiogato all’erpice, quando, sollevati gli occhi, scorse presso la casa qualcuno che guardava attentamente nella sua direzione. Egli provò dell’apprensione. Ma no, quella non era che una donna! Una donna?

― Hééé…! ― gridò quella.

― Ouééé…! ― rispose.

Egli fermò il cavallo e salì verso casa, nel mentre che la donna scendeva senza fretta verso di lui. Appoggiatasi allo steccato, ella attese.

― Buon giorno. Sono io, la Poune.

― Buongiorno…?

― Volevo dirvi, al tempo del vecchio venivo tutte le mattine a fare le pulizie.

― Ah!

― Sì, venivo a fare le pulizie. Scopare, lavare le stoviglie, lavare la roba. Per questo lavoro egli mi dava due piastre al mese…

― Bene.

Imbarazzato, Albert guardò la Poune.

Per lui non c’erano che due tipi di donne: le figlie e le mogli. Le figlie, quelle che portano calze di seta, il rosso alle labbra e che col loro petto ostentano la giovinezza. A quelle ci si poteva accostare. Esse sapevano rispondere e ridere e parlare e mantenere una rumorosa allegria nel paese. Poi c’erano le mogli, da quel momento dedicate alla casa, ai bambini, all’andamento della casa, al marito, le quali non uscivano che la domenica per la messa e che non bevevano niente di “forte”.

Tutto ciò era semplice. Ma questa non rientrava in una catalogazione così semplice. Delle figlie aveva la giovinezza, il viso sorridente e la corporatura sottile che i contadini in generale non amano. Ma mancando il rosso, le labbra gli sembravano pallide. I capelli erano disordinati e le gambe portavano calze di cotone.

― Chi siete voi, dunque?

― Beh, ve l’ho detto: la Poune.

― La Poune, chi?

Da parte sua, ella lo fissò sorpresa. Eh, che cosa? Non basta questo?

― Abito presso i Vaillancourt, il terzo vicino, laggiù, la casa verde.

― Allora, Vaillancourt, questo è il vostro…

― No. Non è niente. Mi presero quand’ero piccola.

― I vostri genitori, di dov’erano?

― I miei genitori?…

Le sue spalle ebbero un moto di meraviglia. Era così tanto tempo che non le veniva posta una domanda simile.

― Presso i Vallaincourt, io sto presso di loro. Sono una Sainte Ange, Marie Sainte Ange. Ma mi si chiama ugualmente, sempre… La Poune.

― Buono, bene. Ascoltate, Marie, se volete fare per me come per il vecchio, vi darò due piastre al mese. Forse di più. Voi non avete l’aspetto scorbutico. Conoscete il lavoro…

― Sicuramente…

― E poi, può essere che conosciate bene il tabacco!... [Nota: Qui il termine “tabacco” sembra indicare il sesso.]

Egli non aveva potuto impedirsi di essere salace.

Ma lei rispose seria:

― Certo che conosco il tabacco. Dappertutto qui è tabacco che si fa. Aiuto sempre, soprattutto per piantare.

Evidentemente lei non aveva compreso. Dopo tutto, si disse, non è che una figlia di campagna!

Non si era ancora installato da una settimana che ricevette la visita di un piazzista di macchine agricole. Era un uomo grande con le lunette, tutto tondo in apparenza, ma acuto negli affari.

Abituato a trattare con i contadini, si era conformato alle loro abitudini. Egli esagerava sul loro linguaggio e le loro esitazioni. Non cercava per niente di stordirli con un’eloquenza che li avrebbe resi sospettosi. E soprattutto non parlava di denaro che all’ultimissimo minuto, dopo aver esaminato – o fatto sembrare che avesse esaminato – la terra, le vecchie macchine, le piante di tabacco.

Ma questa volta egli sapeva di aver a che fare con un altro genere di cliente. E soprattutto aveva odorato quella cosa rara: il denaro contante. Cosa più rara ancora: del denaro prossimo a cambiare tasca.

Insieme avevano rivisto ciò che restava del rotabile: una vecchia spanditrice e una piantatrice vecchio modello.

― Non è possibile, ― ripeteva l’agente, ― non è possibile che padre Langelier sia riuscito a fare del tabacco così buono con anticaglie simili, con anticaglie simili! Queste cose non valgono nulla. Ogni anno quando facevo il mio giro da queste parti venivo a trovarlo. Era un buon vecchio della buona stirpe franco-canadese, ma dei vecchi tempi, dei vecchi tempi! Ciò mi faceva pena.

― Sì! vi faceva pena di non vendere.

― Beh! É il mio mestiere, questo è vero. Ma c’era dell’altro.

Egli assunse un’aria misteriosa e si guardò attorno come se su ciascuna pianta vi fosse un orecchio. Tuttavia la strada era deserta. Non c’era anima viva in tutto il circondario, se non per gli stornelli neri affaccendati sopra i campi; e nell’aria, quella pesantezza opprimente della terra in germoglio che rende la primavera stranamente tonica alle braccia dei contadini.

― Certamente! c’era dell’altro! Sapete voi che i vicini sono sempre stati gelosi di padre Langelier, gelosi di padre Langelier?

― Gelosi! Per quale motivo? Non ha mai fatto male a nessuno, penso.

― Beh no! Ma ve lo vado a dire. Il tabacco di padre Langelier, il suo tabacco, non era ordinario. Sono vent'anni che percorro la terra coltivata a tabacco e ne ho visto di tabacco: di buono e di non buono; di gran rosso, di piccolo rosso e di piccolo blu; di comstock e di cannella. Ma tabacco come quello di padre Langelier… di tabacco simile!…

Egli emise un debole fischio tra i denti grigi.

― Lo vendeva caro? ― chiese Albert.

― Amico mio, voi avete messo proprio il dito nella piaga. Se il padre avesse voluto, sarebbe diventato ricco in pochi anni. Solo, non ha mai voluto cambiare. Egli aveva le sue vecchie macchine. Ecco, ad esempio, la sua taglierina! Strappava le piante che era una desolazione. Non era più vendibile. Più vendibile! Ma vi ha lasciato qualche cosa, il vecchio, qualcosa di raro:…

Egli abbassò misteriosamente la voce.

― ... il seme del suo tabacco!

Camminando, essi erano giunti alla fine del campo, là dove il pendio scendeva bruscamente tra i lamponi selvaggi, poi tra i gigli tigrati del ruscello, per inabissarsi infine nel fiume.

― Se volete fare del denaro – ma ecco, molto denaro – vi servono dei buoni utensili. Voi lo sapete. Siete rimasto per molto tempo in città! Le grosse fabbriche sono quelle che hanno dei macchinari nuovi, non è vero? Per quanto vi costi, si pagherà con il risparmio delle persone, per quanto vi costi.

In breve, egli aveva tanto fatto e tanto parlato che Albert acquistò tutto ciò che era necessario ad una coltura moderna. In quanto al pagamento, le condizioni erano state favorite: cento dollari in contanti, il saldo più tardi.

Le piante vennero bene. Su consiglio dell’agente, che era abile, egli costruì una serra.

Egli vi trascorse delle giornate felici, riscaldato dal buon sole primaverile, sotto il quale si sentiva dolcemente sbocciato come i germogli del suo tabacco. Si meravigliava di vederlo crescere, di veder gonfiarsi le piccole perle verdi di cui non poteva credere che sarebbero diventate delle foglie, delle larghe foglie stese come una mano generosa.

A volte, allorché riparava un recinto sulla sua terra, tutto accaldato, verso la collinetta appuntita dagli abeti neri, sollevando la testa egli scorgeva una nuvola scura all’orizzonte. Allora si precipitava verso la serra e chiudeva il telaio dell’aerazione, terrificato dall’idea che le piante potessero soffrirne.

Dell’uomo di città non gli restavano che le cose di cui non poteva disfarsi. L’una era la sorpresa continua davanti ai giochi inutili o pericolosi della natura: l’invasione tenace delle erbe; i temporali che attraverso la voce del vento battevano improvvisamente i piatti assordanti del tuono; la grandine, di cui amò meno il crepitio, dal momento che ne conobbe il pericolo per le future messi. L’altra era la percezione dell’immensità della terra, di cui la sua ombra non ne copriva che una particella, anche quando il tramonto l’allungava indefinitamente e ne faceva un gigante nero appiattito sotto il sole.

Egli serbava il gusto cittadino di alzarsi tardi. Verso le sei era già in piedi. Trovarsi fuori a quell'ora era sempre per lui una sensazione nuova, soprattutto quella di sentirsi libero, così pieno di vigore e di brio. D’altra parte, ogni volta egli si stupiva di vedere i vicini già al lavoro prima di lui alla luce dolce e pura del mattino.

Era verso le nove che la Poune veniva da lui. Poiché aveva molta sete di compagnia, egli sbirciava il suo apparire sulla strada. E come lei entrava, egli si avvicinava alla casa.

― Dimmi, dunque, non hai visto il mio badile, Marie?

Ella sobbalzava a quel nome che aveva da lungo tempo dimenticato e che lui persisteva nel servirsi.

― Beh! non ditemi che avete di nuovo dimenticato qualcosa! Ad ogni modo, visto che siete qua, volete che vi faccia del caffè? Avete fatto colazione, almeno?

― Ho mangiato questa mattina.

― Beh, ritornate tra qualche minuto e avrete qualcosa di caldo da mangiare.

Lei cominciò a supporre che le pretese dimenticanze gli fossero ispirate piuttosto dalla fame.

Ciò che la stupiva ancora di più era che egli fosse così prudente, così poco intraprendente. Ella aveva uno scatto ogni volta che gli appariva accanto, immaginandosi ogni volta di sentire due mani che la prendessero per la vita e contro le quali avrebbe dovuto difendersi. Dame! Il vecchio, nel tempo… Ma no, Monsieur Albert, come lei ancora lo chiamava con grande scherno dei vicini, aveva altro da pensare. A sera era molto se da lontano le faceva un saluto con la mano, allorché, finita la giornata, si sedeva sulla scalinata a fumare la pipa e giocare col suo cane. Poiché aveva adottato un cane. E che cane!

L’aveva trovato una mattina alla porta, misero, ansante, sporco. Oltre a ciò puzzava come una vera puzzola. Da dove veniva? Da lontano, probabilmente. Si indovinava la “tragedia.” Egli aveva inseguito imprudentemente una “bestia puzzolente” che, voltatasi, si era difesa con le sue armi abituali. Un getto e il cane se n’era fuggito impazzito, soffocando, cercando di spogliarsi di quell’odore orrendo che aderiva al suo pelo; rotolandosi nel fango, gettandosi nei ruscelli, senza potersi liberare di quell’obbrobrio.

Albert dovette scacciarlo, tanto l’odore era infetto. Il poveraccio si rifugiò nella profonda valletta dove scorreva il ruscello, trascorrendo delle ore in una pozza d'acqua a purificarsi del suo meglio, ma ritornando sempre verso casa. Così si finì per nutrirlo e poi accettarlo.

L’uomo, che non aveva mai conosciuto bestie, s'abituò a questa. E ciò gli parve tanto anormale che ne parlò alla Poune, la sola persona con la quale aveva l’occasione di chiacchierare un po’.

― È buffo, parlo della campagna. Sì, è buffo come questa possa cambiare le persone.

― Sicuramente, non si può essere gli stessi sulla terra e in città.

― Proprio vero. Chi avrebbe mai detto che avrei avuto un cane. Senza contare che non è molto bello…

― É vero che non è bello….

― Né molto intelligente…

― È vero che non è molto intelligente…

― Ma comunque, non è pazzo! La sera, quando fumo sulla scalinata, gli parlo. Si ha bisogno di parlare con qualcuno.

La Poune si stava accingendo a stendere la biancheria che aveva poco prima lavato. Ella stese la corda tra la tettoia e un giovane salice e si chinò sulla vecchia cesta per prendere i pezzi. Poi, tenendoli in cima al braccio come un drappo, li fissò con delle mollette prese nella tasca del grembiule.

Ella si stagliava così nel sole, un sole che disegnava la sua silhouette sul lenzuolo bianco e faceva dei suoi capelli un’aureola che il vento animava. Un sole indiscreto faceva pure immaginare per trasparenza le sue gambe affusolate e tese per lo sforzo.

Albert si fermò per un istante, con una facezia sulle labbra, ma disse semplicemente:

― Beh, sì. Io parlo al mio cane. Gli parlo della città e poi gli parlo anche di me. Non dico che mi comprenda, ma mi fa sentire bene.

― Comunque, dev'essere noioso pure con lui.

― A volte, ma comincio ad abituarmi.

― Non è una vita d’uomo questa, sulla terra, tutto solo.

Ma diceva questo senza secondi fini.

― Beh, non è ben certo che rimarrò sulla terra; nonostante che, se gli affari andranno bene, forse attenderò a venderla fin quando sarà buona da vendere.

― Vendere la vostra terra? È vero. Ci sono molte persone che vendono la loro terra in questo tempo.



Tuttavia egli cominciava ad abituarsi a quella vita così strana. Ciò che soprattutto lo soddisfaceva era di mostrare a quegli abitanti che un uomo della città avrebbe potuto coltivare la terra. Dame! Egli si era fatto spiegare ogni cosa a lungo dal commerciante di macchine agricole e l'aveva fatta sua. E nelle rare serate in cui vi aveva partecipato, non aveva mancato di udire discutere di terra e di tabacco e della prossima azione da compiere.

Ciò che soprattutto gli piaceva era l’irregolarità della sua vita. Ora godeva di un riposo datogli dalla pioggia, ora ne era travolto, chiamato per un certo tempo a lavorare senza riposo dal levar del sole fino a notte fatta, particolarmente all’epoca del trapianto. Ciò era duro.

Egli aveva assunto un uomo e la Poune, di cui sapeva che era forte e resistente, una delle poche donne della regione che potesse piantare nel corso di tutta una giornata.

Egli aveva pure trascorso tre giorni in ansia, seduto sul sedile di guida, sopra la cisterna d'acqua riscaldata dal sole. Alle sue spalle, sulle due seggioline a raso terra, Jérémie Béland a sinistra e la Poune a destra tenevano sulle ginocchia la scatola delle pianticelle. Sotto i loro occhi la parte anteriore dell'aratro apriva il solco. A turno essi deponevano una pianticella e la mantenevano così per appena un secondo. L’autoinnaffiatrice schizzava un fiotto d’acqua e la parte posteriore dell’aratro chiudeva il solco sulla pianta. Bisognava procedere velocemente e ciò rompeva i reni. Ma avevano piantato in tal modo milleduecento pianticelle il primo giorno, millequattrocento il secondo e seicento il terzo, finché venne la pioggia.

Tutto era avvenuto molto velocemente. Eppure egli aveva provato uno strano malessere. Bisognava tenere gli occhi fissi sulle bestie, perché procedessero diritte, con i due piantatori dietro di sé. Durante tutto il loro duro lavoro essi non scambiarono che delle rare riflessioni. Ma sin dall’inizio Gérémie aveva lanciato delle rozze punzecchiature amichevoli verso la Poune, che aveva ribattuto senza timidezza.

Poi era salito il sole, asfissiandoli col suo calore. I loro gesti erano diventati meccanici. Di tanto in tanto uno dei piantatori rubava un po’ d'acqua tiepida destinata alla terra e beveva in un lampo nel cavo della mano sporca di terra.

C’era stato il riposo di mezzogiorno, dopo lo spuntino, presso il fiume, il quale sotto il calore opprimente e il sole a picco appariva come un flusso di stagno fuso. Albert aveva proposto di bagnarsi e l’uomo, che inizialmente aveva rifiutato, sorpreso da una tale idea, o forse pensando di avvicinarsi alla Poune, aveva finito per seguirlo. Essi si erano gettati tra le canne, poi in piena corrente, offrendo alla luce vitrea i loro corpi muscolosi di uomini robusti. In quanto alla Poune, aveva fatto un sonnellino.

Ma nell’ultimo giorno, prima dello scoppio del temporale, l’aria si era fatta più snervante. Sentendo venire la tempesta, si affrettarono. Il cielo era così opprimente che nel solco cadevano le gocce di sudore come una pioggia umana. E, senza dubbio infastidito dall’elettricità dell’aria, Gérémie si era messo a punzecchiare di nuovo la vicina, approfittando del fatto che le mani di lei erano occupate, per sfiorarle le ginocchia.

La schiena di Albert stava tesa bizzarramente dinanzi a loro.



Qualche giorno dopo egli notò un taglio sulla fronte della Poune.

― Di’ un po’, Marie, ti sei sbattuta?

Lei continuò a lavorare senza rispondere.

― Credo proprio che tu abbia festeggiato. Che cos’hai là?

― Non è niente, ― fece lei con voce abbattuta.

Egli fiutò qualcosa di anormale.

― Sei caduta su qualcosa?

Questa volta ella volse i suoi occhi stanchi verso di lui.

― No! Non sono caduta… È Jean Jacques che mi ha fatto questo.

― Jean Jacques?

― Beh, sì, uno dei garzoni presso i Vaillancourt, quello che ha sedici anni.

― Che cosa gli ha preso? É proprio un vero stupido!

― Si è accapigliato!

― Raccontami la cosa.

Egli insisté più per il gusto di spettegolare che per curiosità. Ciò gli veniva di tanto in tanto, questo bisogno di un contatto umano, per la noia del tu per tu con la grande natura così freddamente silenziosa.

― Vi siete accapigliati. Penso che non sia male il tuo intraprendente, Jean Jacques. Tu ami i cavalieri giovani, a quanto pare.

― Egli non è il mio cavaliere; è un malvagio. Mi ha tirato una tazza in testa. Avrebbe anche potuto uccidermi.

― Che cosa gli avevi fatto, dunque?

― È lui che mi aveva importunata. Poiché ieri nella latteria non mi ero lasciata abbracciare, mi disse ogni sorta di ingiurie. Eppure io non ho mai fatto male a nessuno. Non chiedo niente a nessuno, solo che mi si lasci in pace. Per vendetta disse che avevo fatto apposta a lasciare il vitello in mezzo al tabacco. Poi quando gli dissi che era stato lui, poiché un altro l’aveva visto farlo, mi lanciò contro delle cose. Poi mi disse delle cose…

― Ma cos’è che ti disse, Marie?

Mai ella si era messa a raccontare in tal modo di se stessa. Ella aveva imparato a tenere per sé le sue miserie; le gettava semplicemente le une sulle altre in un angolo oscuro della memoria, così oscuro che le sembrava di non vederle e non sentirle più. Ed ecco che le domande di Albert aprirono una finestra e tutte le cose ammassate risalirono agli occhi e al cuore.

― Che cos’è che ti disse, dunque?

― Mi disse delle parolacce!… Che ero una buona a nulla… che non avevo genitori.

― Ah!… che cos’è che gli rispondesti?

― … Non risposi niente…

Entrambi si volsero. Marie si volse verso il tegame dove si cuocevano i piselli per la minestra. Ma egli l’udì singhiozzare impercettibilmente, più volte. In quel momento il cane, che dormiva, si alzò lentamente, la grande bocca aperta, mostrando il rosso vivo della lingua, il nero del palato e il bianco delle zanne.

― Vieni qui, Pâtira.

― Perché lo chiamate Pâtira?

― Perché lo chiamo Pâtira? Beh, te lo dico, Marie. É un nome che ho visto in un libro.

― Avete letto un libro?

― Sì. L’avevo trovato su una panchina. C'era in esso un disgraziato come me. Si chiamava Pâtira. Era sempre in miseria. Questo cane l’ho trovato, era tutto solo, senza padre né madre. L’ho chiamato Pâtira.

― Ah! ecco che un Pâtira ha finito per avere una fortuna alla fine.

― Sì! Che cosa ne pensi, cane? Per ora può andare, è sopportabile. Finché durerà. Ma se sei come me… hai poco da sperare!

Marie lo fissò. Aveva sentito qualcosa muoversi dentro di sé, qualcosa di dolce e di fraterno. Posò la mano sulla testa della bestia e disse: “Buon cane!”



Ed ecco che scese sulla terra una grande siccità. Il cielo fu di uno splendore costante e crudele. Ogni sera un sole enorme si schiantava sull’orizzonte, le cui braci annunciavano per il giorno dopo una nuova giornata limpida e micidiale.

Tutto il giorno si udiva l’archetto delle cicale, le cui migliaia di cri-cri facevano un solo e stridulo clamore. Esso cominciava al mattino, per non terminare che tardi nella notte, sotto i fuochi più dolci ma sempre nudi delle stelle. Il calore, abbattendosi sui campi, premeva con tutto il suo peso invisibile per schiantare le fiacche messi degli uomini.

Inizialmente i ruscelli avevano continuato a gorgogliare e a scorrere incuranti, confidenti in una prossima pioggia che avrebbe riempito il loro letto in pendenza fino a tracimare. Poi i loro gorgoglii si fecero più fiacchi, non furono che un mormorio. Là dove c’erano stati degli stagni non si videro che delle lastre lebbrose, che nel mezzo di ogni giornata si screpolavano ancora di più.

All’inizio il tabacco era cresciuto sotto il gran calore, le cui radici divenute profonde si bagnavano ancora nell’umidità sotterranea. Poi il calore era penetrato nella terra sabbiosa, seccandola ogni giorno di più. Le pianticelle avevano lottato, spingendo più a fondo le loro radichette alla ricerca dell’umidità che oscuramente immaginavano. Ben presto esse non avevano trovato più niente; c'era ovunque una crosta indurita dal calore che a poco a poco si sbriciolava diventando polvere.

Allora le fibre si erano afflosciate e così le foglie. Era scomparso il loro colore verde e i bordi avevano cominciato a orlarsi. Ogni giorno gli steli cedevano un po’ di più, stanchi, disperati, morenti.

I contadini avevano inizialmente atteso, poi lottato. Essi venivano nei campi fin dall'alba; scendevano affrettatamente lungo gli scoli fino al fiume per riempire le botti. Ad ogni pianta essi davano un po’ d’acqua misurata che, caduta a terra, spariva subito come per i buchi di un colabrodo. Ma il sole, salendo, aveva la meglio su di loro. Allora l’acqua non faceva in tempo a toccare il suolo, che veniva aspirata con forza verso il cielo. Tutta la famiglia si ostinava lavorando rabbiosamente. Poi, quando mezzogiorno trionfava, immancabilmente il padrone di casa si fermava davanti al suo campo. Egli alzava la fronte madida verso il cielo di bronzo, cercando dei segni, sperando soprattutto in un colpo di vento che infine si sarebbe volto verso sud-est.

A volte l’aria si faceva più spessa, satura di quell’acqua che la terra divorata dalla sete chiedeva. Si respirava vapore come in una caldaia. Nacque una nuvola all’orizzonte, dapprima imprecisa, che a poco a poco mangiò un pezzetto d'azzurro. Allora si poterono vedere i contadini fuori di casa, uomini, donne, bambini, gli occhi volti verso il temporale promesso, che osservavano l’immenso uccello scivolare nel cielo sulle sue ali frangiate, sperando che si posasse infine su di loro e sulle loro messi, trascinando dall’orizzonte i fiotti di pioggia. Ma ohimè! altrove, sempre altrove. Piovve una pioggia dell’ultima ora, fino al tempo in cui la terra condannata non sperava più la sua grazia, una pioggia abbondante, stimolante. Ma questo non avvenne a Grands Pins, ma in qualche parte nei pressi di Saint Sulpice, là dove le terre meno magre erano meno bisognose.

Albert si abbandonò ad una voluttuosa mollezza. Inizialmente anche lui come gli altri aveva tentato il salvataggio, portando sui suoi campi sotto le mazzate del sole quell’acqua che le fontane celesti rifiutavano. Poi ci aveva rinunciato. Presso i vicini si era in sei, otto, dieci; lui era solo.

E soprattutto un disgusto s'era impadronito di lui, un disgusto sereno e forte, originato dalla sua impotenza. Ora si rendeva conto che la natura non era per niente semplice e che per lui il libro era illeggibile.

Inizialmente egli aveva creduto che uno spirito vivo di città avrebbe potuto trionfare senza difficoltà là dove riuscivano quegli “abitanti,” dei quali non conosceva che il viso calmo e, secondo la sua opinione, ottuso. Gli parve chiaro ora che l’uomo dei campi sapeva più cose e più difficili dell’uomo della fabbrica; e che sapeva essere più paziente, come pure più ingegnoso, più riflessivo.

Allora si levò subdolamente sul cantone un vento cattivo, un vento duro sugli animi, come quello che a volte strappava le piante, le cui radici indebolite non tenevano più ancorate al suolo.

Ad alcuni, Albert aveva lasciato intendere che il destino gli era stato ingrato e che mai aveva conosciuto il sorriso della fortuna. Ne conseguì che non l’amarono minimamente: questi, a cui egli aveva ripreso alcune delle spoglie della fattoria; altri, alcuni lontani cugini di Baptiste Langelier, perché avevano sperato nell’eredità; e soprattutto due che avevano adocchiato la terra, sperando di ottenerla a buon mercato.

Era Albert che aveva portato quel tempo della malora!

E poi, da dove veniva quello lì? Da quale orizzonte sornione era scaturito, un giorno, inaspettatamente? E l’assurda credenza nella magia, che risiede dappertutto nelle campagne, in mezzo ai valloni di notte, nel fondo dei boschi segreti, nel cuore degli uomini sospettosi, si mostrò come sempre nei tempi di calamità. Si era pregato, non si era ottenuto nulla. Si era cantato l’officio speciale contro la siccità, si era pagata messa sopra messa: non ne era venuto alcunché. Qualcosa faceva dunque da ostacolo al cielo, poiché con tali mezzi non ne era venuto niente. E la disperazione rifece dell’uomo quello che era nei tempi antichi: una bestia paurosa e cattiva, pronta a nascondersi o a mordere.

L’infernale bellezza del cielo sembrava aver sciupato ogni gioia. Bonaccioni di abitudine, più pronti alla gaiezza che alla collera, essi sentivano il loro umore appesantito da tutte le tempeste che avrebbero voluto vedere abbattersi sui loro campi.

All’inizio ciò si tradusse in un’attitudine semplicemente impacciata, diffidente. Albert, che non conosceva per niente gli uomini della campagna, si sentì disorientato. Lo si salutava ancora, ma se, avendo incrociato per strada un gruppo di contadini, ritornava sui suoi passi, li vedeva irrigiditi mentre che lo fissavano bisbigliando.

Ma fu tramite la Poune che apprese.

Una mattina ella mancò di venire; e quando egli scese dai suoi campi dove aveva tentato modestamente di ridare qualche vigore al suo raccolto agonizzante, non trovò la buona figlia, né il caffè che sempre l’attendeva a quell'ora.

Lei non venne che l’indomani e lo servì senza dire una parola, irrigidita, in un silenzio carico di cose sospette.

― Penso che… io… non tornerò più, monsieur Albert.

― Come mai, Marie?

― Non posso più ritornare.

― Sei forse malata?

― No, non sono malata.

― Beh…?

Lei si mise a lavare le stoviglie, stando con la schiena voltata. Egli non vedeva che le spalle curve sulla vaschetta con, sopra, una grossa crocchia di capelli color bruno rossiccio e la nuca morbida, dove tremava la peluria. Per un momento, guardandola, egli si dimenticò di sé stesso; era rimasto solo per così tanto tempo! Poi gli tornò il senso del momento e del problema che si poneva.

― Qual è il motivo per cui non tornerai più? È perché non ti pago abbastanza?

― Ah, no! A me basta poco denaro. È tutto quello che ho, perché i Vaillancourt non mi danno niente. Lavoro per il nutrimento e l’alloggio.

― Allora?

Questa volta lei si volse, gli occhi offuscati. Egli le vide un viso cambiato, e per la prima volta, perché era stinto, si rese conto di quanto luminoso fosse ordinariamente il suo sorriso.

― È dei malvagi, monsieur Albert. È dei malvagi che vi parlo. Essi dicono, essi dicono…

― Che cos’è che dicono?

― Beh, dicono che voi siete uno scalognato, poi che siete voi che avete portato la scalogna nel cantone. Dicono… che non pioverà finché non sarete partito.

― È questo dunque… Sì…!

Per la porta aperta entrò Pâtira, che venne ad accucciarsi ai piedi del padrone. Questi si chinò macchinalmente:

― Buon cane…! Buon cane…!

― ... Poi i Vaillancourt mi hanno detto che non ho motivo di venire qui.

Per la porta entrò il coro trionfale e terrificante delle cicale annuncianti un’altra giornata di calore, un’altra giornata di disfatta.

― Tuttavia ciò non ha gran senso, ― replicò Albert. Poi rise, ma di un riso superficiale: ― So bene che non sono mai stato fortunato. Ma non trovi tu, Marie, che ciò non è molto sensato?

La Poune esitò. Ella si affaccendò a sistemare il canovaccio, per non guardarlo in faccia.

― Io non so, io… Non so… Ma in ogni modo, non è normale un tempo del genere!… Una cosa del genere non si è vista quasi mai… Si dice mai!

Ciò durò ancora per alcuni giorni. I vicini cominciarono il trapianto delle piante che sopravvivevano, il lavoro duro in cui per tutta la giornata ci si china per togliere i germogli inutili che, bevendo la linfa, impediscono alle foglie buone di crescere e di spiegarsi.

Ma quando Albert cercò dell’aiuto, non ne trovò alcuno. Gli uni risposero che erano già impegnati, altri lo fissarono senza dire niente e, vedendo che non se ne andava, gli voltarono la schiena.

Ed ecco che ricevette una lettera dall’agente; lo si avvertiva che avrebbe dovuto effettuare un versamento per le macchine che aveva acquistato. Eppure, quando si era trattato di firmare gli aveva lasciato intendere che il pagamento si sarebbe fatto quando avrebbe raccolto, quando avrebbe venduto, quando sarebbe stato pagato, non importa quando.

Una sera, un’altra sera in cui l’aria era densa e amara, egli sentì che era la fine.

Egli discese attraverso il suo campo, dove gli steli ingialliti si allineavano come delle offerte appassite sopra delle minuscole tombe. Discese di traverso senza guardare dove posasse il piede, schiacciando il tabacco, la cui morte faceva il rumore della seta quando la si sgualcisce.

In fondo al gran vallone egli osservò il fiume che dormiva di un sonno dolce, il fiume assottigliato tra le sue rive troppo grandi per esso. Si fermò a mangiare un pugno di lamponi, macchinalmente.

Il sole, un sole sanguinante, scendeva su un letto di vapore. La sua luce metteva a fuoco i prati non più verdi come avrebbero dovuto essere in quel periodo dell’anno, ma ingialliti, tutti pronti a infiammarsi. L’aria era vischiosa di umidità e il sudore, colando dalla fronte, alla quale la sera non aveva portato alcuna frescura, metteva del sale negli occhi dell’uomo. Quando raddrizzò la testa, egli sentì sulla nuca il fresco dei suoi capelli bagnati. Al suo fianco, Pâtira ansimava, la lingua pendente a raso della terra che beveva la sua saliva.

Albert si stupì di trovarsi ancora in quell’ambiente che aveva l’impressione di avere già lasciato. Si ritrovò davanti ai suoi campi come il giorno della sua venuta: uno straniero. Gli parve di non riconoscerli per niente e che essi non lo riconoscessero più, che la siccità avesse distrutto la loro alleanza temporanea, dopo aver bevuto avidamente i suoi sudori inutili. Gli parve che la sua stessa ombra non aderisse più a quel suolo.

In piedi sulla sabbia cocente, egli osservò il sole che scompariva. L’astro danzò per un istante sul filo dell’orizzonte. Poi la sua faccia apoplettica scomparve d'improvviso.

Il cielo rimase stranamente plumbeo. Laggiù, la casa e gli edifici apparivano leggermente sfumati.

― Vieni, Pâtira!

Essi risalirono entrambi verso casa, il padrone con la testa alta e vuota, il cane con il naso alle calcagna del padrone. L’uomo si sedette sulla scalinata e attese che si facesse buio.

Allora egli accese il lanternone. Passò di luogo in luogo, chiudendo dietro di sé ogni porta, tirando le tende di ogni finestra. Della propria biancheria fece un fagotto simile a quello che aveva portato nel venire, né più grande, né più piccolo.

E quando la notte fu discesa completamente, si mise a giacere. Quando si svegliò gli parve di non aver dormito per niente; tuttavia l'orologio indicava le quattro del mattino.

Di fuori, la notte volgeva al termine senza frescura.

Egli cercò nel cielo e non trovò nessuna stella. La terra gli parve bizzarramente silenziosa. Che facevano gli uccelli, che non cantavano?

Rimaneva dalla vigilia un fondo di fagioli: li mangiò freddi con un po’ di pane e d'acqua.

All’esterno, un’alba incerta impallidiva verso est tra le nuvole basse. Bisognava fare in fretta.

Pâtira stava sdraiato nel canile presso la porta. Egli l’udì muoversi nel sonno, esitò, ma non lo chiamò.

Egli rientrò a casa, afferrò il suo fagotto e partì lungo la strada, nella luce smorta dell’aurora.



Ed ecco che ad alcune case più lontano si distaccò un’ombra da un gruppo di abeti. La Poune dovette averlo visto venire dalla finestra del granaio che si trovava proprio da quel lato. Si era messa una vestaglia, ma le scarpe non erano allacciate e i capelli, cadendo a cascata sulla schiena, le facevano tenere la testa sollevata.

― Come! Sei tu, Marie?

― Dov’è che ve ne andate in questo modo? Col dito ella indicò il fagotto poggiato al termine del braccio.

― Beh, sì!… beh, sì!… ― disse, sicuro che avesse indovinato.

― Ah! Ve ne andate… Dov’è che ve ne andate?

― Ritorno in città. Questo posto non fa per me.

Egli riprese a camminare. La Poune esitò un istante, poi fece qualche passo al suo fianco.

― Non vi dispiace di andarvene cosi?…

Egli scrollò le spalle e non rispose.

― … Avrei preferito saperlo in anticipo.

― Perché? ― Egli disse tentativamente, per scherzo: ― Saresti forse partita con me?

Ella si fermò un istante, muta; poi gli toccò dolcemente la spalla e pure lui s'immobilizzò.

― Partire con voi?… Partire con voi!…

Si fece silenzio. Si udì del rumore nella casa dei Vaillancourt. La Poune volse da quel lato i suoi occhi inespressivi. Ella disse dolcemente, e le parole scaturirono dal fondo di lei come acqua pura dal cavo di una sorgente:

― Forse… sì… sarei partita con voi… se aveste voluto.

Allora egli la fissò direttamente in tutto il suo aspetto: i suoi occhi chiari che mai si erano visti volitivi come in quel mattino desolato; la bocca fresca, le cui labbra sorridevano stranamente; la taglia sottile; la gamba pura uscente dalle scarpe sfatte.

Egli sentì che lei era la sola cosa di quel paese che non gli fosse estranea, la sola cosa vivente per lui, la sola che fosse amica, la sola che, senza che ne avesse mai avuto il dubbio, gli fosse preziosa. La sola cosa di quella terra che avrebbe voluto portare nel suo cuore.

― Allora… vieni?

Egli la vide esitare per un momento, poi, volgendosi, osservare ancora la casa che non era la sua, ma dove aveva vissuto così tanto a lungo. Egli pensò che se fosse rientrata, non foss'altro che per andare a prendere qualcosa, ciò avrebbe significato che sarebbe partito da solo.

Ma lei si chinò solamente e legò i cordoni delle scarpe. Poi con un gesto accurato fece un grosso nodo con suoi capelli, un nodo pesante e rozzo sulla nuca.

Partirono.

Non fecero una pausa che più lontano. Avevano camminato per più di un’ora senza dire niente e avevano raggiunto la cima della lunga salita. Ripresero fiato per un momento. Albert, in piedi, guardò verso est; la sua compagna si era seduta sulla sabbia a un lato della strada.

Macchinalmente ella tracciò con dito maldestro: “Albert”, “la Poune.”

Egli abbassò gli occhi su ciò che stava scrivendo ed ella arrossì.

Allora dolcemente, col piede, cancellò: “la Poune” e, chinatosi, scrisse: “Marie.”

Essi si rialzarono.

Per un buco nella cappa di nuvole cadde su di loro un raggio di sole. Essi volsero lo sguardo lontano verso ovest. Sopra Grands Pins scendeva una nuvola grigia, spessa, gonfia di pioggia benefattrice. E nei raggi obliqui si vedevano ondeggiare le lunghe vele scure dell’acquazzone.

― Ecco, ― disse Marie, ― essi hanno della pioggia…

E aggiunse con voce più bassa:

― … essi hanno della pioggia… ora che siete partito.

― Sì, ― disse lentamente Albert… ― E noi, noi abbiamo il sole.