IL MIO SERVIZIO MILITARE

Storia di vita vissuta

Resoconto del servizio militare effettivamente compiuto da un cittadino italiano negli anni sessanta, sulla base dei suoi ricordi di quattro decenni dopo. Il protagonista non era di costituzione robusta ed era pure molto delicato riguardo al mangiare. Come se la sarebbe cavata? Il racconto è tratto da alcune lettere scritte in prima persona al fratello risiedente in Canada. I nomi delle persone sono stati cambiati. I nomi di alcuni luoghi che possono rivestire tuttora importanza militare sono stati sostituiti da puntini. All'epoca del servizio il protagonista possedeva solo la licenza media; in quanto al mestiere prima del militare era stato disegnatore edile in uno studio di architettura. Successivamente, studiando dapprima autonomamente e poi frequentando regolarmente l'università, ottenne il diploma di geometra e la laurea in fisica teorica.

Elenco degli episodi narrati

  1. Partenza per il militare

  2. Arrivo alle casermette

  3. Prima giornata: vestizione

  4. Assunzione in fureria

  5. Piccolo problema di una burba imbranata

  6. Primo contatto con un terribile ufficiale

  7. Doccia settimanale

  8. Prime esercitazioni

  9. Vaccinazione antitifica

  10. Preparazione alla prima libera uscita

  11. Prima libera uscita

  12. Un caro amico

  13. Una corsa nella campagna

  14. Ricordi di altre gare di corsa

  15. Trasferimento al poligono di tiro

  16. Passate esperienze con i fucili

  17. Esercitazione con il fucile al poligono

  18. Un nuovo amico ed il lancio della bomba a mano

  19. Un'esperienza scioccante

  20. Delle care visite

  21. Esercitazione con il MAB

  22. Visita parenti

  23. Giuramento

  24. Partenza dei compagni d'armi

  25. I compagni di fureria

  26. Ricovero in infermeria

  27. A casa in licenza

  28. Trasferimento al reggimento

  29. Prima sveglia al reggimento

  30. Assunto nell'ufficio maggiorità

  31. Ambiente nuovo, problemi nuovi

  32. Vita di reggimento ed un incidente

  33. In servizio di guardia presso la porta carraia

  34. Ispezione

  35. Trasferimento alla compagnia mortai reggimentale

  36. Il personale dell'ufficio maggiorità

  37. Trasferimento a Villa Vicentina per il corso di specializzazione

  38. La vita a Villa Vicentina

  39. Un obice molto pesante

  40. Ritorno a Cervignano

  41. Allarme!

  42. Una scappatella finita bene

  43. Una divertente esperienza notturna

  44. Un allarme serio e prolungato

  45. Il caporale maggiore Miravalle

  46. Il compleanno del maresciallo Giuliani

  47. Una gita ad Aquileia

  48. Arrivo del nuovo colonnello

  49. Testimonianza di un incidente stradale

  50. I nuovi compagni d'ufficio

  51. Un generale in visita

  52. Con il plotone d'onore a Redipuglia

  53. Una piccola avventura con il caporale maggiore Miravalle

  54. Gita a Trieste con parenti e amici

  55. Che bello fare l'autostop!

  56. Punizione

  57. Il Winchester lasciato a Villa Vicentina

  58. Il cinturino estivo

  59. Un'azione temeraria

  60. La rivelazione

  61. Un caro compagno delle elementari

  62. Un incarico gravoso

  63. Trasferimento a Padova

  64. Alcuni processi

  65. Tran tran quotidiano tra caserma ed ufficio

  66. Assegnazione a servizi in caserma

  67. Una prestazione particolare

  68. Ricovero in ospedale

  69. Il problema delle iniezioni

  70. Partecipazione al rosario

  71. Conclusione

1. Partenza per il militare

Ti ricordi dove ti trovasti con me e mamma domenica 5 aprile 1964 alle due del pomeriggio? Quel giorno tu e mamma mi accompagnaste alla stazione ferroviaria di Padova per prendere il treno che mi avrebbe condotto a Casale Monferrato per iniziare il servizio militare. Secondo la cartella di chiamata avrei dovuto far parte di un reggimento di fanteria con l'incarico di osservatore goniometrista. Il treno partì poco dopo le due del pomeriggio. A prendere il treno con me c’era Giulio Sacchin, un disegnatore che aveva lavorato per qualche tempo nell’ufficio di architettura assieme a me.

Compiemmo il tragitto in compagnia di un giovane di Este, Ugo De Andrea, pure diretto al C.A.R. di Casale Monferrato. Il viaggio fu un po’ avventuroso. Giunti a Novara scendemmo e prendemmo il treno per Alessandria, dato che Casale Monferrato, la nostra destinazione, si trova in quella provincia. Avremmo invece dovuto proseguire per Vercelli e da lì prendere il treno per Casale Monferrato, che si trova a pochi chilometri da quella città. In treno un controllore ci fece notare l’errore e ci fece scendere a Mortara. Lì dovemmo attendere diverse ore prima che un altro treno ci conducesse infine a Casale Monferrato.

Giungemmo a Casale Monferrato verso le undici e mezza di sera. Ad attenderci alla stazione c’era un camion militare che ci portò nella vicina caserma, il cosiddetto Casermone. Lì ci fu dato il benvenuto con del panettone, caffellatte e varie bibite gassate. Mangiai un po’ di panettone a cui tolsi l’uvetta e bevvi oltre a dell’aranciata, anche della Coca-Cola e del ginger, due bevande che non avevo l’abitudine di bere. Addirittura mi pare di ricordare che quello fu il mio primo assaggio della Coca-Cola.

Dopo il rifocillamento risalimmo sul cassone del camion, che era chiuso da tutti i lati e non permetteva di vedere dove ci conducesse. Come nel tragitto dalla stazione al Casermone avevo cercato di farmi mentalmente una mappa della strada che percorreva, così feci anche questa volta. Dopo alcuni zig-zag il camion voltò a sinistra e proseguì a buona andatura in linea retta per circa tre chilometri; poi rallentò, quasi si fermò, voltò di nuovo a sinistra e, dopo aver percorso ad andatura moderata circa quattrocento metri, si fermò. Ci fu una sosta di alcuni secondi, poi il camion percorse ancora qualche metro e quindi si fermò definitivamente. Eravamo dentro il cancello della nostra destinazione; eravamo giunti, Giulio Sacchin ed io, alle cosiddette Casermette, dove risiedeva l'11° Reggimento Fanteria ‘FERRARA’ (C.A.R.) Ugo De Andrea, invece, era rimasto nel Casermone e non l’avrei più rivisto. Come il camion si fermò, ci fecero scendere. In quel momento mi resi conto che stava iniziando per me una nuova vita e che ormai ero tagliato fuori dalla normale vita civile che avevo conosciuto fino ad allora; senza l’appoggio della famiglia, da quel momento in poi avrei dovuto contare solo su me stesso. Come sarebbe stata quella vita? Che cosa mi attendeva? Mi sentivo emozionato come quando avevo lasciato te e mamma alla stazione di Padova.

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2. Arrivo alle casermette

Al cancello c’erano dei soldati ad attenderci. Ad ognuno di noi fu comunicato a quale compagnia si era stati assegnati. Giulio Sacchin fu assegnato alla decima compagnia, io alla dodicesima. A quel punto dovemmo separarci. Io ed un’altra recluta seguimmo il caporale della dodicesima compagnia, Paolo Tagliabosco, un barbiere di Noale (VE). Voltammo a destra e ci incamminammo lungo una strada fiancheggiata da tre grossi fabbricati a due piani con soffitti molto alti. Dal lato della strada opposto ai fabbricati vi era un prato con alberi piuttosto giovani (le Casermette erano di recente costruzione) e stradine asfaltate che l’attraversavano in vari modi. Oltre il prato si vedevano altri grossi fabbricati, identici a quelli che stavamo costeggiando. Il tutto era discretamente illuminato. Le strade erano sgombre; non c’erano né soldati né mezzi parcheggiati; regnava assoluto silenzio. Giulio fu condotto verso i fabbricati oltre il prato. Noi prendemmo il marciapiede che fiancheggiava quelli sulla destra, da questo lato del prato.

Mentre camminavamo, Paolo colloquiava con l’altra recluta e spiegava come sarebbe stata la vita in caserma. Io ascoltavo e nello stesso tempo osservavo ogni cosa incuriosito. Ogni fabbricato aveva due porte che davano sulla strada. Giunti verso la fine del terzo e ultimo fabbricato, entrammo nella seconda porta di quel fabbricato. Ci trovammo in un ingresso largo circa quattro metri e lungo circa nove. Sulla parete di sinistra c'erano due porte. In fondo sulla destra vi era una larga scala a due rampe; prima di quella si apriva un corridoio. Sulla parete di fronte alla porta d'ingresso c’era una grande porta, in parte a vetri.

Salimmo la scala. Al primo piano, in corrispondenza della porta a vetri del piano sottostante vi era una grande porta a due ante. In opposizione a questa, la zona sopra l’entrata era chiusa da un muro e vi era una porta. Entrammo per la porta a due ante. Ci trovammo in un grande stanzone profondo circa sette metri e molto ampio da entrambi i lati. Era una camerata. Nel muro di fronte all’entrata vi era un’apertura larga quasi due metri che giungeva fino al soffitto; essa conduceva ad un’altra camerata; oltre a questa ve n’era una terza. Di fronte c’era un’altra grande porta, in parte a vetri; essa conduceva ai servizi igienici.

Le camerate erano vuote. Solo nella terza in cui eravamo giunti c’era qualcuno che dormiva. Voltammo a sinistra ed andammo ad occupare le penultime brande sulla destra, non lontano dalla grande finestra. Le brande erano accastellate in coppie. Nell’ultimo castello sulla destra qualcuno stava dormendo. Feci per impossessarmi della branda inferiore del penultimo castello, quando Paolo mi consigliò di prendere l’altra, quella superiore. Così feci, e da allora, ovunque mi recai ed ogni volta che potei, scelsi sempre la branda superiore. Paolo ci aiutò a prepararla. Fatto questo, misi il portafoglio sotto il cuscino e mi coricai con l’orologio al polso. Era quasi l’una di notte. Come ci fummo coricati, Paolo se ne andò e spense la luce principale. Rimasero accese solo delle lucette notturne. Pochi minuti più tardi ero addormentato.

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3. Prima giornata: vestizione

Il mattino seguente fui svegliato verso le cinque e mezza dal canto degli uccelli e dalla luce che cominciava ad entrare dalla grande finestra. Alle sei e mezza suonò la sveglia; mi alzai, mi lavai e mi vestii. Mi ero appena vestito che giunse Paolo per insegnarci a sistemare la branda. Ci disse che essa avrebbe dovuto essere lasciata sempre in perfetto ordine, pena la punizione. Come sai, tolte coperte e lenzuola, bisognava piegare il materassino in due e rivoltarlo verso la testa; sopra di esso si sarebbero poste le lenzuola ripiegate alla giusta dimensione e, sopra il tutto, le coperte, pure ripiegate; l'ultima coperta doveva essere piegata in maniera diversa, così da rimanere abbastanza lunga da poterla infilare ai lati sotto il materassino e coprire stabilmente il tutto. Il lavoro doveva essere fatto con accuratezza per non ricevere rimproveri o punizioni.

Terminato questo lavoro si scese per la colazione. C'era del caffelatte, del pane e della marmellata. Probabilmente forse mangiai solo il pane, se pure mangiai qualcosa e mi ripromisi che non sarei più ritornato per la colazione. Dopo questo, ritornati nella camerata, approfittai del tempo libero per fare la conoscenza delle altre reclute. Poco dopo le otto tornò Paolo e ci condusse nella stanza situata sopra l'entrata. Essa era molto vasta perché non comprendeva solo il corrispettivo dell'entrata. Era il deposito dei corredi delle reclute. Ci venne dato tutto il necessario: vestiti, tute, scarpe, gavetta, indumenti intimi, ecc. Essendo tra i primi arrivati ed in pochi potemmo scegliere i capi di abbigliamento con calma. Lo stesso maresciallo maggiore a capo del reparto, un uomo sulla cinquantina molto scuro sia di capelli che di carnagione, dal forte accento campano-calabrese, si interessò personalmente e ci diede consigli sulle taglie dei vestiti mentre ce li provavamo, in modo che fossero della giusta misura.

Mentre mi provavo i vestiti approfittai dell'occasione per parlare al maresciallo della mia attività da civile e per chiedergli se avesse bisogno di un aiutante che sapesse scrivere a macchina. Mi rispose che era già a posto, ma che forse il maresciallo della fureria aveva bisogno di qualcuno.

Sistemate tutte le cose ricevute nel grosso e robusto zaino a forma di cubo che mi era stato fornito, trasportai il tutto nella camerata. Chiusi lo zaino con la catenella di cui era provvisto e vi misi il lucchetto che mi avevi detto previdentemente di portare con me. Quindi sistemai lo zaino sopra la tavola di legno che era posta dietro la branda a circa un metro e settanta centimetri di altezza dal pavimento. Poi Paolo mi spiegò che dovevo spalmare del grasso sugli anfibi, gli scarponi robusti e pesanti in dotazione all'esercito. Essi portano questo nome perché ad essi non si dà la patina, ma si spalma il grasso che si ha in dotazione; esso è molto utile per proteggerli dall'acqua, cosa molto importante, vista la vita che si conduce sotto le armi.

Gli anfibi che presi mi sembravano della giusta misura; i piedi ci stavano comodamente, a parte solo gli alluci. Infatti, erano un po' stretti di lato. All'inizio non feci caso a questo fatto perché mi sembrava una cosa di poco conto, essendo che il fastidio era minimo (quante volte quando si comperano delle scarpe che sembrano andare bene, ma con il tempo ci si accorge che fanno male!) Con il passare dei giorni, poiché in quella caserma si dovevano calzare sempre gli anfibi, indipendentemente dalla mansione che si svolgeva, poco per volta cominciai a provare delle sgradevoli sensazioni agli alluci. Nel giro di alcuni giorni essi persero la sensibilità, specie dal lato opposto a quello delle altre dita e il toccarli mi produceva una sensazione molto sgradevole. Non dissi niente a nessuno e non cambiai gli anfibi, poiché ritenni che il difetto non riguardasse tanto gli anfibi, quanto il fatto che avevo dei piedi molto delicati che non sopportavano degli scarponi tanto pesanti. Così mi tenni quegli anfibi per tutto il servizio militare (lasciato il C.A.R., usai gli anfibi solo in rarissime occasioni). L'insensibilità agli alluci mi rimase per molti anni anche dopo il completamento del servizio militare. Ora, comunque, essi sono tornati del tutto normali.

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4. Assunzione in fureria

Infilati gli anfibi, feci un pacchetto degli abiti civili e lo consegnai, non ricordo a chi, perché fosse spedito a casa. Poi, sistemata ogni cosa, scesi al piano terreno e mi presentai in fureria. Questa era la prima stanza a destra lungo il corridoio posto a fianco delle scale. Era una stanza delle dimensioni di quattro metri e mezzo di profondità per cinque di larghezza, con due alte finestre. In essa erano disposti alcuni tavoli ed un paio di armadi. Seduto dietro la scrivania posta tra le due finestre stava il maresciallo maggiore Marco Savioli, un piemontese sulla cinquantina, un po' grassottello, dai capelli castano chiari e un poco brizzolati. Mi si disse che amava bere, ma io lo vidi sempre sobrio. Da parte mia non posso esprimere giudizi negativi su di lui, poiché per tutto il tempo che trascorsi in quella caserma fu sempre gentile con me (circa due mesi più tardi, quando tornai a casa con la prima licenza, in un primo tempo pensai di regalargli al ritorno un pacco di biscotti al cioccolato, ma poi cambiai idea).

Seduto presso un tavolo vicino alla finestra di sinistra c'era un soldato, il quale registrava i dati personali delle reclute man mano che arrivavano. Gli fornii ciò che mi chiese; prima di uscire mi rivolsi al maresciallo, gli spiegai il mestiere che avevo svolto da civile e gli chiesi se avesse bisogno di un dattilografo. Egli mi fece scrivere qualche parola in stampatello su un pezzo di carta. Soddisfatto della calligrafia, mi consegnò il ruolino dei dati personali e mi diede l'incarico di registrare quelli delle reclute man mano che arrivavano (il ruolino era un grosso libretto di circa 12x20 centimetri, con i fogli stampati e predisposti per tale registrazione). Così presi il posto del soldato che aveva registrato i miei dati personali ed iniziai seduta stante, la carriera di scritturale nella fureria della dodicesima compagnia dell'11º reggimento di fanteria.

Nei giorni successivi, man mano che arrivavano nuove reclute, registrai i loro dati personali nel ruolino che mi era stato consegnato. Fui occupato per diversi giorni a compiere questo lavoro da mattina a sera, senza un momento di sosta. Frattanto iniziava l'addestramento di quelli già arrivati. Dalla stanza della fureria udivo i comandi che venivano impartiti alle reclute – suddivise per squadre di una ventina di uomini ciascuna – ed il rumore dei loro passi cadenzati.

"Un, duè, un, duè! ... Passo! ... (patapum!) ... Passo! ... (patapum!) ... Cadenza! ... (patapum, ... patapum, ... patapum, patapum, patapum). ... Squadraaa alt! ... Ripp-zò! [riposo] ... Att-hì! [attenti] ... Ripp-zò!" ecc. In questo modo, al comando di un caporale le squadre percorrevano marciando le strade asfaltate che costeggiavano le due file di fabbricati delle compagnie e quelle che attraversavano i prati che separavano queste due strade principali. Come una musica mi giungevano questi suoni cadenzati che si alternavano alla canzone Una lacrima sul viso di Bobby Solo – vincitore del festival di San Remo concluso da poco – proveniente dallo spaccio non lontano.

Ogni tanto una squadra passava davanti alla fureria. Allora osservavo incuriosito per qualche istante le reclute che marciavano. Vedevo solo le loro teste a causa del dislivello di circa 70-80 cm. tra il marciapiedi ed i gradini d'ingresso del fabbricato della compagnia. Ero contento dell'impiego di scritturale che avevo ottenuto, perché altrimenti mi sarei trovato a dover marciare assieme a loro. Ma che cosa sarebbe successo quando fosse terminato l'arrivo delle reclute? Avrei dovuto partecipare anch'io alle marce e agli addestramenti? Allora non ci pensai e vissi tranquillamente. In effetti mantenni l'impiego in fureria per tutto il tempo che trascorsi in quella caserma, salvo che in alcune rare occasioni, perché ovviamente dovetti ricevere anch'io un minimo di istruzioni relative al servizio militare. Questo cominciò ad avvenire solo circa una settimana più tardi, dopo che ebbi terminato buona parte del lavoro di registrazione delle reclute.

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5. Piccolo problema di una burba imbranata

Un problema che mi si presentò fin dall'inizio fu quello della barba. Poiché non avevo mai imparato a farmela con la lametta ed il sapone, avevo portato con me un rasoio elettrico (un Philips ad una testina) sicuro che avrei trovato una presa di corrente da qualche parte. Purtroppo non c'erano prese di corrente né nelle camerate né nei locali dei servizi igienici e nemmeno in fureria! Nonostante la recente costruzione delle Casermette, evidentemente in quei tempi non si sentiva il bisogno di una tale comodità, perché nella compagnia non c'erano apparecchi che abbisognassero della corrente elettrica.

Ne parlai subito al maresciallo Savioli. Senza esitare egli mi parlò di una presa di corrente che si trovava nella prima stanza a sinistra dell'ingresso. Il problema era che quella stanza era sempre chiusa a chiave. Si trattava di una bella stanza arredata con gusto; forse serviva per ricevere in occasioni speciali delle persone di riguardo. L'unico ad aprirla, forse una volta alla settimana, era il soldato che ci andava per fare le pulizie. Visto il mio problema, il maresciallo mi indicò dove si trovava la chiave della stanza e mi diede il permesso di entrarci per usufruire della presa di corrente. L'avevo scampata bella!

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6. Primo contatto con un terribile ufficiale

Un altro problema che mi afflisse fin dal principio fu naturalmente quello del cibo. Nello spaccio vendevano dei panini fatti con un affettato che non avevo mai conosciuto, ma che era molto buono. Di tanto in tanto ne prendevo uno, e questo mi era di aiuto, perché quando si andava in refettorio non mangiavo niente al di fuori del pane e di qualche mela. Infatti c'era sempre chi non mangiava la mela ed anzi me l'offriva in cambio del primo o del secondo. Così mangiavo pane e mele. Alla domenica invece c'era a volte una bistecca, altre volte del pollo arrosto, e questi li mangiavo. Oltre a queste cose non mangiavo nient'altro. Il mio comportamento attirò ben presto l'attenzione di un ufficiale.

La compagnia era divisa in tre plotoni, ognuno al comando di un sottotenente. Quello del primo plotone, Claudio Bertone, avvocato di Floridia, Siracusa, era tremendo. Tutti dicevano che fosse una firma, cioè uno che si trattiene in servizio e compie la carriera militare. Un poco più basso di me, magro, il viso affilato, la voce tagliente, specie quando dava ordini, faceva paura a tutti. Nonostante io appartenessi al terzo plotone, ai pasti si parlava spesso con timore di lui. Un giorno (questo avvenne durante i primi quindici giorni di ferma, prima che ci fosse permesso di uscire dalla caserma) il sottotenente Bertone si presentò in refettorio presso la nostra tavolata perché aveva udito che c'era una recluta che non mangiava niente.

Bertone mi venne accanto, mi fissò con uno sguardo terribile ed esclamò con voce un po' alta, acuta, severa e tremenda:

— Tiongreis! Mangia!

Intimorito, abbassai gli occhi e non feci niente.

— Tiongreis! — disse con un tono più severo ed alzando la voce. — Ti ho detto mangia!

Tutti avevano smesso di mangiare e guardavano ora me, ora Bertone. Rimasi fermo con la testa abbassata sul piatto. Ci furono alcuni istanti di pausa pieni di tensione. Tutti erano in attesa dello scoppio della bufera.

— Vieni! disse.

Lo seguii. Mi condusse allo spaccio. Era chiuso. Bussò. Si affacciò un soldato. Entrammo. Mi chiese che cosa mi piacesse. Gli dissi che a volte comperavo dei panini e gli mostrai quali. Mi chiese se desideravo acquistare un salame intero. Risposi di sì. I salami, però, non erano in vendita, solo i panini lo erano. Egli ordinò al soldato di vendermi un salame intero, del tipo con cui era fatto il panino. Il soldato andò a prenderlo nel magazzino; era un salame grosso almeno una decina di centimetri e pesava più di un chilo. Il soldato lo pesò, fissò il prezzo e lo acquistai.

Col tempo Bertone risultò non essere una firma e nei circa due mesi che rimase in caserma prima del congedo mostrò più volte di avere un cuore d'oro, nonostante nel suo servizio sembrasse un modello di ufficiale duro e inflessibile. Da parte mia, invece, non fui sempre all'altezza delle sue aspettative. Conservo un buon ricordo di lui.

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7. Doccia settimanale

Fin dall'inizio del mio servizio in caserma mi chiesi come avrei fatto a lavarmi tutto il corpo per bene, visto che nei locali dei servizi igienici non vi erano docce e che l'acqua dei rubinetti era solo fredda. Venni a sapere che dietro lo spaccio c'erano delle docce e che di sabato ci si recava con la propria squadra di appartenenza. Nel mio caso, fin dal primo sabato fu il maresciallo a dirmi di volta in volta quando potevo andare, per cui non andavo necessariamente con la mia squadra (appartenevo alla seconda squadra del terzo plotone, comandato dal sottotenente Carlo Volturno di Genova). D'altra parte non frequentavo quasi mai la mia squadra nemmeno nelle esercitazioni; anche ad esse vi partecipavo solo quando me lo diceva il maresciallo. E così pure il sabato mattina andavo a fare la doccia quando lui me lo permetteva, che comunque sceglieva un momento in cui le docce erano assegnate alla nostra compagnia.

Quella prima volta, ricevuto il permesso corsi in camerata, presi tutto il necessario per lavarmi ed asciugarmi, assieme al ricambio della biancheria intima. Quindi, con queste cose in mano mi recai di corsa dietro allo spaccio dove un gruppo di soldati era già in attesa di entrare nei locali delle docce. Durante l'attesa ci fu detto che ognuno avrebbe dovuto prepararsi nudo accanto all'ingresso di una doccia (un locale quadrato di circa un metro e sessanta di lato, senza porta ma con un'apertura da un lato di circa settanta centimetri); lì si sarebbe atteso che venisse fornita l'acqua calda. Ci sarebbero stati concessi cinque minuti per lavarci e sciacquarci, perché poi l'acqua sarebbe stata tolta.

Come il gruppo che ci aveva preceduti liberò i locali, entrammo; ognuno dispose le proprie cose presso l'apertura di una doccia, si denudò in fretta e rimase in attesa. Dopo pochi istanti giunse l'acqua dai manicotti spray posti sul soffitto sopra gli sgabuzzini della doccia. L'acqua era già calda. Entrai subito nello stanzino e presi a lavarmi freneticamente. Non essendoci un mezzo per misurare il trascorrere del tempo, decisi di sforzarmi di fare il tutto in quattro minuti, in modo da non correre il rischio di trovarmi insaponato quando sarebbe stata tolta l'acqua. Calcolai male il tempo, ma mi fu di aiuto l'aver stabilito un limite inferiore a quello concesso. Infatti venne tolta l'acqua senza preavviso proprio nel momento in cui finivo di sciacquarmi. Ce l'avevo fatta! Ora sapevo con quanta rapidità avrei dovuto lavarmi. In futuro avrei dovuto agire nella stessa maniera.

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8. Prime esercitazioni

Come ho già detto altre volte, di tanto in tanto partecipavo alle esercitazioni, perché ci sono delle cose che tutti i militari devono imparare, come marciare, salutare, riconoscere i gradi di ufficiali e sottufficiali, ecc. La prima partecipazione alle istruzioni che ricordo fu infatti quella in cui ci furono spiegati i vari gradi; ad un'altra partecipazione, se non alla prima, alla seconda, si marciò lungo le strade asfaltate che attraversavano i prati compresi tra le due file di fabbricati delle compagnie.

In quanto al marciare, io ricordavo le marce che facevo per gioco da bambino assieme ad Adolfo, il mio compagno di giochi. All'"avanti... marsch!" che ci davamo, partivamo con la gamba destra e procedevamo alzando bene le ginocchia. Così feci quella prima volta. Al comando di "avanti... marsch!" partii con la gamba destra. Mi accorsi subito dello sbaglio; feci un saltino e mi posi subito in sincronia con il resto della squadra. Ma poi continuai a marciare alzando bene le ginocchia. Il caporale se ne accorse e me lo fece notare. Mi disse che si doveva marciare tenendo le gambe sciolte come quando si cammina normalmente. Allora mi corressi e a quel punto tutto sembrò andare bene.

Dopo qualche istante il caporale gridò:

— Chi è che striscia i piedi!

Io non udivo niente. Mi dissi che sicuramente il caporale udiva male. Dopo un po' il caporale ripeté, un poco più irritato:

— Chi è che striscia con i piedi per terra!

Non riuscivo ad accettare quella frase. Chi avrebbe potuto strisciare con i piedi sul suolo senza accorgersene e quindi correggersi? Non la ritenevo una cosa possibile. Perciò continuavo a chiedermi che cosa potesse essere il rumore, di sicuro immaginario, che induceva il caporale a ritenere che qualcuno strusciasse con le suole per terra. Mentre pensavo a questo, il caporale si volse verso di me e gridò:

— Tiongreis! Alza quei piedi!

Ero io quello che strascicava i piedi! Probabilmente sfioravo appena il suolo, tanto da non accorgermene, ma lui, abituato a quelle cose, l'aveva notato. Mi resi conto che ciò era dovuto al fatto che calzavo gli anfibi, i quali erano piuttosto pesanti. A quel punto mi resi pure conto che avrei dovuto, sì, camminare sciolto, ma stando bene attento a che i piedi non strusciassero per terra. Comunque, quella non la ritenni una gran colpa; ero lì per imparare, no?

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9. Vaccinazione antitifica

Una decina di giorni dopo il mio arrivo in caserma, essendo giunti al completo, si procedette ad una vaccinazione, forse l'antitifica. Una mattina ci dovemmo recare a gruppi davanti all'infermeria situata vicino all'ingresso delle casermette. Essa si trovava al pianterreno di un edificio a due piani posto di fronte ai prati tra gli edifici delle compagnie, dalla parte opposta rispetto allo spaccio. Il fabbricato ospitava anche il comando e le stanze degli ufficiali di complemento. L'infermeria serviva solo per le visite; la vera infermeria dove si veniva ricoverati per periodi prolungati si trovava nel Casermone.

La vaccinazione fu fatta lì all'aperto presso l'ingresso dell'infermeria. Ci si mise in fila a torso nudo ed a turno si passò uno per uno davanti al soldato infermiere che inoculava il vaccino. Accanto a lui c'era un altro soldato, il quale ci preparava all'iniezione strofinandoci la mammella sinistra con un batuffolo di cotone imbevuto d'alcool. A controllare il tutto c'era un ufficiale; quella mattina era di turno Claudio Bertone. Non so se ricordo male, ma mi pare che venisse usata un'unica grande siringa, la quale, dopo essere servita per più iniezioni, veniva ricaricata. Sicuramente oggi non si fa più così, visto il pericolo di contagio che ciò comporta, non solo di AIDS, ma anche di molte altre malattie, pericolo che sussisteva anche allora.

L'idea di ricevere un'iniezione nel petto intimoriva molti. Io mi sforzai di non pensarci. Quando toccò il mio turno, Bertone disse qualcosa per incoraggiarmi. Io tesi i muscoli di una gamba, concentrai la mente su di essa e mi volsi verso destra. L'iniezione non fu gran che dolorosa, ma il più sarebbe venuto dopo. Quel giorno, infatti, ci fu ordinato di rimanere in branda. Ad alcuni l'iniezione causò una forte febbre. Ad un soldato la febbre salì tanto che si mise a delirare e fu trasportato in infermeria. Io invece non ne risentii minimamente.

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10. Preparazione alla prima libera uscita

Si avvicinava la data della prima libera uscita. In preparazione di ciò si venne ammoniti che quando ci si sarebbe presentati per uscire si avrebbe dovuto avere la divisa pulita e stirata, con le scarpe pulite e lucidate. Come si sarebbe fatto per stirare i pantaloni? Alcuni li disposero accuratamente alla sera sotto il materassino della branda; in questo modo al mattino seguente li avrebbero trovati ben stirati.

Ci venne insegnato che una volta fuori della caserma non ci si sarebbe mai dovuti togliere la bustina (copricapo usato dai fanti) mentre si stava all'aperto. Bisognava invece toglierla non appena si fosse entrati in un locale chiuso. Con la bustina in testa era d'obbligo il saluto col braccio destro alzato a ufficiali e sottufficiali ogni volta che li si incontrava (in un'occasione il capitano della compagnia, Gino Bertolotto, mi precisò invece che se nell'arco di qualche ora ci si fosse incrociati con la stessa persona, la seconda volta si sarebbe potuto fare a meno di salutarla). Il saluto consisteva in questo: quando si giungeva a circa due-tre metri da un ufficiale o sottufficiale si alzava il braccio destro e si volgevano nello stesso tempo gli occhi verso di lui. Nei luoghi chiusi invece, dove non si portava la bustina, non si doveva fare nessun saluto.

Il giorno che precedette la prima libera uscita partecipai all'esercitazione sul saluto. Dopo che il caporale istruttore ci ebbe spiegato come farlo e ce l'ebbe mostrato, facemmo delle prove. Raggruppati davanti a lui ci mettemmo a fare il saluto, mentre egli ci diceva se andava bene o se ci si doveva correggere. A vederlo fare da lui, la cosa sembrava facile, ma quando tentai di farlo mi accorsi che non riuscivo ad appiattire la mano come richiesto. Il fatto è che quando si tenta di appiattire una mano, le dita tendono a curvarsi verso l'alto e questo non va bene. Solo dopo molte esercitazioni riuscii a mantenere le dita diritte, pur appiattendo la mano, ma con molta difficoltà. Per tutto il tempo che rimasi nel servizio militare il problema delle dita non divenne mai semplice e spontaneo, tanto che ogni volta che salutavo un graduato dovevo andare sempre con la mente alle dita e fare uno sforzo per mantenerle diritte mentre appiattivo la mano.

Rimase poi il problema della disposizione del braccio destro con cui si faceva il saluto. Anche questo all'inizio non fu facile, ma una volta che ci riuscii, poi non incontrai altri problemi. La difficoltà consisteva nel disporre il braccio esattamente sul prolungamento del corpo; esso non doveva essere spostato né in avanti né all'indietro e doveva essere piegato in modo che le dita della mano giungessero all'inizio del sopracciglio destro, appena al di sopra di esso. Oltre a questo, la mano doveva essere perfettamente allineata con l'avambraccio e non doveva mostrare a chi stava di fronte né il palmo né il dorso. A queste esercitazioni prestammo tutti la massima attenzione per non correre il rischio di essere scartati quando ci si sarebbe presentati per l'uscita.

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11. Prima libera uscita

Finalmente si giunse alla prima libera uscita. Erano trascorse circa tre settimane dal mio arrivo alle Casermette. Quella prima sera si presentò all'uscita un gran numero di reclute. Inquadrati dopo il rancio verso le 18:30 davanti alla compagnia, si procedette marciando verso il cancello d'uscita. Giunti là si venne divisi in gruppi più piccoli disposti in fila per uno. L'ufficiale di picchetto ci passò davanti esaminando rapidamente con sguardo inquisitore l'abbigliamento e le scarpe di ognuno. Quando ci giungeva accanto gli si doveva fare il saluto ed egli l'osservava attentamente. Fatta la verifica e scartato chi non era idoneo, il caporale che ci aveva accompagnato ci diede l'"avanti marsch" e si procedette marciando fin fuori del cancello. A quel punto egli diede il "rompete le righe" e per la prima volta dopo tre settimane si fu liberi, fuori dalle mura della caserma.

Quella prima sera mi unii ad una recluta di S. Pietro Viminario (PD) che prima del servizio militare aveva fatto il cameriere in un albergo di Abano Terme e a due suoi amici. Si fu subito unanimemente d'accordo di andare a mangiare in un ristorante. Percorsi i trecento metri della stradina d'ingresso alle Casermette voltammo a destra in direzione di Casale. La strada e i marciapiedi erano molto larghi. Infatti, poiché quello era un percorso obbligato per recarsi in paese, specie dal lato della caserma il marciapiede era molto ampio, tanto che si poteva camminare comodamente in quattro o cinque affiancati. La caserma distava alcuni chilometri dal centro del paese; impiegammo più di mezz'ora per arrivarci. La camminata fu comunque esilarante, sia perché si era felici della libertà concessa, sia perché il cameriere di Abano, di cui mi sfugge il nome, era un giovane molto loquace e spassoso che da solo riusciva a mantenere allegra l'intera compagnia.

Giunti a Casale cercammo un locale modesto in cui cenare. Quella sera i bar e ristoranti furono presi d'assalto. Anche se le reclute del Casermone ci avevano preceduto, poiché noi eravamo stati tra i primi ad uscire dalle Casermette riuscimmo a trovare dopo un paio di tentativi infruttuosi un tavolino libero in un piccolo ristorante del centro. Io feci l'ordinazione secondo quello che sarebbe diventato il menù fisso del periodo militare: bistecca ai ferri con patatine fritte e mezzo litro d'acqua minerale non gassata. Prezzo: 600-650 lire. La serata trascorse in fretta. Il tempo a disposizione era poco, perché si doveva rientrare per le 21:30. Alle 21:45 ci sarebbe stato il contrappello in camerata e alle 22:00 sarebbero state spente le luci principali. Finita la cena fu quasi ora di ritornare. Tuttavia, nonostante il poco tempo a disposizione, quella prima uscita dalla caserma fu molto rallegrante.

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12. Un caro amico

Man mano che passava il tempo, di tanto in tanto facevo conoscenza con nuove reclute, o meglio, erano loro che prendevano l'iniziativa di parlare con me. Infatti, allora, anche se durante il servizio militare manifestai sempre maggiormente un carattere piuttosto spigliato, ben diverso da quello mio solito, non mi riusciva facile attaccare discorso con qualcuno.

Un giorno, alla fine del rancio di mezzogiorno, fui avvicinato da Luca Simoni, una recluta di bell'aspetto, sempre ben pulito ed ordinato, laureato in chimica, sempre sorridente, ma di un sorriso calmo e sereno, il sorriso moderato di una persona non frivola. Era originario di Occhiobello, l'ultimo comune prima del Po sulla statale Rovigo-Ferrara. Quel giorno mi contattò perché spinto dalla curiosità nei miei riguardi per il fatto che al rancio non prendevo mai niente, a parte le mele e la bistecca o il pollo della domenica. Oltre a questo, egli fu spinto anche da un'esperienza personale in fatto di cibo, esperienza che evidentemente desiderava raccontarmi.

Da bambino, mi disse, era stato tanto debole di collo da non riuscire a mantenere ritta la testa, tanto che spesso questa gli si piegava di lato. Qualcuno consigliò i suoi genitori di dargli da mangiare dei pomodori, perché, dissero, erano molto energetici, contenevano molte vitamine ed avevano tante altre buone proprietà. I genitori misero in pratica il consiglio ed iniziarono ad aggiungere pomodori alla sua dieta quotidiana. A Luca i pomodori piacquero molto fin dall'inizio, tanto che da allora essi non mancarono più sulla sua tavola. Grazie ad essi, egli risolse il problema della debolezza di collo. Nel nostro rancio, però, come contorno venivano portate sempre e solamente patate lesse (tra l'altro, erano già condite, per cui io non le prendevo). Ma egli provava un grande desiderio di mangiare dei pomodori. Perciò mi disse che aveva intenzione di acquistarne in paese per poi mangiarli in disparte dopo i ranci. Se avessi voluto avrei potuto unirmi a lui. Egli parlò con così tanto entusiasmo della bontà dei pomodori e delle molte altre loro qualità che decisi di fare la prova. Se li avessi trovati gradevoli al palato, essi sarebbero stati di grande beneficio anche per me, perché allora avrei avuto qualcos'altro da alternare alle solite cose che mangiavo tutti i giorni.

Quella sera mi recai in libera uscita assieme a lui. In paese acquistammo dei pomodori, una boccetta d'olio, del sale, dei piatti di carta e delle forchette di plastica. Il giorno dopo, al termine del rancio di mezzogiorno salimmo nella camerata, prendemmo i nostri acquisti e ci sistemammo presso le scale. Lì, tra la fine della rampa, dal lato della salita inferiore, e la porta delle camerate, c'era un tavolino rotondo con delle sedie. Sistemata ogni cosa sul tavolino, Luca prese un pomodoro, lo depose sul piatto e con mano esperta lo tagliò a fette usando il coltello in dotazione. Prima di condirlo, poiché l'avevo avvisato che non mi piacciono i cibi conditi, lasciò a me l'onore di assaggiare la prima fetta. Emozionato, ne presi una con le dita. Già vedevo in essa una valida aggiunta al mio scarso menù e ciò mi rallegrava moltissimo. La portai alla bocca. L'addentai.

— Ah, che schifo!

La gettai subito nel cestino. Imperturbato, Luca abbozzò un mezzo sorriso. Preso un altro pomodoro, lo affettò, condì il tutto e, visibilmente compiaciuto, si sedette e mangiò con calma tutto il contenuto del piatto. Il mio sogno era stato di breve durata. Tuttavia avevo acquistato un caro amico. Per tutto il tempo che trascorse in quella caserma Luca rimase il mio migliore amico.

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13. Una corsa nella campagna

Nel frattempo, di tanto in tanto partecipavo a nuove esercitazioni. Una volta ci fu detto che avremmo fatto una corsa di cinque chilometri. Una mattina il sergente della compagnia radunò davanti al fabbricato della compagnia una squadra costituita da un paio di dozzine di reclute. Quindi, al suo comando, ed accompagnati da un caporale, ci incamminammo verso la porta carraia situata all'angolo opposto rispetto all'ingresso delle Casermette, non lontano dallo spaccio. Essa dava su una stradina sterrata di campagna. Percorse alcune centinaia di metri, giungemmo al punto da dove sarebbe iniziata la corsa. Percorrendo dei sentieri che costeggiavano siepi e fossatelli e, percorso un tragitto di circa cinque chilometri, avremmo concluso la corsa ad un centinaio di metri dal punto di partenza. Lo scopo della corsa non era quello di arrivare primi ma, immagino, quello di rafforzare il fisico.

Partimmo in gruppo, ma dovemmo porci subito in fila indiana, perché il sentiero di terra battuta e pluricalpestata era largo solo circa un metro. Per un certo tratto rimanemmo vicini, ma dopo neanche due chilometri cominciai a rimanere indietro. Ciò non costituiva un problema, perché il percorso era ben visibile, ed anche rimanendo da solo non c'era il pericolo che sbagliassi strada. Percorso un altro chilometro vidi il caporale che mi attendeva lungo il sentiero. Accortosi che mancavo si era fermato e mi stava attendendo. Compiemmo il resto del percorso assieme. Quando giunsi al traguardo ero trafelato, senza fiato e sentivo uno stringimento sulle ganasce ai lati della bocca. Le altre reclute, invece, avevano già avuto il tempo di riposarsi. Mi furono concessi alcuni minuti per riprendermi e poi ritornammo in caserma.

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14. Ricordi di altre gare di corsa

In quell'occasione mi chiesi se la mia cattiva prestazione fosse dovuta al fatto che fino ad allora avevo condotto una vita sedentaria. Certamente ciò ebbe il suo ruolo, ma nel corso degli anni ho avuto altre esperienze che mi hanno mostrato che il correre non è la mia specialità. Una di queste, sono certo che la ricordi anche tu, avvenne quando sfidai Dino Longo a percorrere di corsa il tratto lungo l'argine che va da Mezzavia a Battaglia Terme. Tu ci accompagnasti in auto e ci seguisti per tutto il tragitto. Dino Longo mi superò con facilità e giunse al termine del tragitto alcuni minuti prima di me. Quando giunsi al traguardo, cioè all'incrocio del lungo argine con via Catajo, stavo così male che credetti di essere sul punto di fare un infarto. Ricordo infatti che appena giunto all'incrocio con via Catajo mi lasciai cadere sull'erba dell'argine e lì, per quanto mi sforzassi di respirare, per alcuni minuti mi parve di soffocare e provai un forte stringimento alle ganasce ai lati della bocca.

Un'ultima esperienza di questo tipo, che decisamente mi convinse di non avere la stoffa del maratoneta la feci in Canada. Una domenica pomeriggio nell'estate del 1977 si andò in un parco con un gruppo di tuoi amici. Lì si fecero vari giochetti di gruppo e poi venne proposto di compiere tre giri di un percorso lungo circa quattro-cinquecento metri. Si presentarono adulti, bambini ed anche delle donne grassocce di una certa età. Vedendo quelle donne mi chiesi se ce l'avrebbero fatta a compiere tutti e tre i giri, e quando sarebbero giunte. Sicuro di me stesso, invece, perché in quel periodo compivo spesso lunghe passeggiate, mi allineai con gli altri. Venne dato il via. Partimmo. Il primo giro lo percorsi assieme agli altri. Il secondo lo conclusi stando in coda. Giunsi al traguardo del terzo giro una ventina di secondi dopo tutti gli altri. Fui superato anche dalle donne grassocce ed attempate! A quel punto non potei più farmi illusioni.

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15. Trasferimento al poligono di tiro

Un'altra esercitazione di cui porto un vivo ricordo è quella in cui si andò in un poligono di tiro a sparare con il fucile Garand in dotazione alla fanteria. Mi sembra di ricordare che esso usasse pallottole di calibro 7,62, ma non ne sono del tutto sicuro. In preparazione per l'esercitazione erano state date delle lezioni in cui si fu istruiti su come usarlo, ma non vi avevo partecipato. Per tale motivo, quando andai a sparare non conoscevo niente del fucile. Tra l'altro, ero completamente all'oscuro sull'uso dell'alzo, per cui successe ciò che ti vado a raccontare.

Si andò a sparare di mattina. Dei camion ci trasportarono a Ottiglio Monferrato, dov'era situato il poligono di tiro, un paesino a 15-20 chilometri da Casale Monferrato. In quell'occasione venne trasferita tutta la compagnia. Durante il tragitto, di tanto in tanto osservavo con interesse il paesaggio. La vista che mi si presentava era splendida. A destra si vedevano delle collinette basse, dai pendii molto dolci. Le strade erano del tutto prive di traffico. Perciò il viaggio fu un piacevole diversivo dalla routine quotidiana della caserma.

Giunti nei pressi di Ottiglio, i camion si fermarono in aperta campagna accanto ad una dolce collinetta che costeggiava il lato destro della strada. In quel tratto, la strada era un poco più larga del normale, forse per permettere il parcheggio dei camion militari. Però di questo non sono del tutto sicuro, perché il poligono di tiro era ancora piuttosto lontano. Scesi dai camion, proseguimmo a piedi camminando in fila indiana con il fucile in mano lungo il bordo destro della strada. Dopo alcune centinaia di metri giungemmo ad un bivio situato dove iniziavano le prime case del paese. Mentre la strada che percorrevamo proseguiva diritta verso il centro, l'altra voltava verso sinistra.

Prendemmo la deviazione. La nuova strada era ancora più stretta della precedente. Ritengo che non fosse più larga di cinque metri. Percorsi altri sette-ottocento metri, voltammo a destra ed entrammo nella zona del poligono. Inoltratici di alcune decine di metri vedemmo i bersagli a ridosso di una collinetta. Erano dieci tabelloni di circa due metri di larghezza per due e mezzo di altezza. Su di essi erano dipinte due fasce circolari rotonde e concentriche di colore nero, con un cerchio nero al centro. Colpire il cerchio centrale avrebbe significato cinque punti. Chi avesse conseguito il maggior punteggio col caricatore assegnato di dieci pallottole avrebbe ottenuto una licenza premio di tre giorni più il viaggio. I tabelloni stavano allineati sopra un dosso ai piedi della collinetta. Dietro ad esso avrebbero preso posto i soldati, che dopo ogni sparatoria avrebbero riparato i tabelloni e riferito con tabelle numeriche agli ufficiali del comando il punteggi realizzati. Tra gli ufficiali erano presenti il capitano della compagnia ed il colonnello comandante del reggimento.

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16. Passate esperienze con i fucili

Prima di raccontarti come si svolse l'esercitazione ti voglio narrare un paio di esperienze avute precedentemente con i fucili. La prima esperienza degna di nota l'ebbi con il tiro al bersaglio del signor Antonio. Se ricordi, quando venivano le giostre per la sagra del paese c'erano sempre almeno un paio di tiri a segno, uno dei quali era di proprietà di una persona che veniva chiamata ‘signor Antonio’. Questi ci teneva a non apparire uno zingaro e lo mostrava sia con il modo di vestire che di esprimersi e comportarsi. Sembra infatti che non discendesse da zingari ma che avesse semplicemente scelto di condurre quel tipo di vita. Egli inoltre si esprimeva sempre e solamente in italiano, perché non era di origine veneta. La baracca del suo tiro a segno era la più grande di tutte. Colpire i bersagli da lui era più difficile che altrove. Un'altra caratteristica che ricordo del signor Antonio era che quando qualcuno sparava con il fucile a turaccioli alle cose esposte sugli scaffali, se questi sbagliava lui era pronto a dire “legn-gno”, con una pronuncia piuttosto prolungata di 'gn'.

Io non avevo l'abitudine di andare a sparare al tiro a segno, sia perché non me ne sentivo attratto, ma anche per mancanza di soldi. Comunque una sera verso le undici, quando ormai le strade erano deserte e si stava per chiudere, provai a sparare un paio di colpi alla colombina. Come sai, c'era un'asta di metallo, lungo la quale scorreva l'immagine piatta di una colomba pure di metallo, la quale terminava in basso con un punteruolo. Questo, cadendo in una ciotolina in cui era posta della polvere da sparo, la faceva scoppiare. Per far cadere la colombina bisognava colpire con il fucile ad aria compressa il ciondolo di metallo posto sopra di essa, il quale poggiava sopra l'asta. Esso era poco più grande di una grande moneta.

Una sera effettuai un primo tiro e colpii il bersaglio. La cosa mi parve troppo facile, perciò chiesi al signor Antonio se mi permetteva di sparare da più lontano. Egli si guardò attorno, vide che non c'era nessuno nelle vicinanze e mi diede il consenso. Quindi andò a porsi al lato opposto della baracca, ben lontano dalla linea di tiro. La sua baracca era situata nell'angolo fra la casa di Maria ed il capitello. Ricevuto il consenso, attraversai la strada, mi addossai alla siepe dei Tasso e presi la mira... senza chiudere l'occhio sinistro. Avevo preso quest'abitudine con il nostro piccolo fucile ad aria compressa per il fatto che non sparava diritto, ma un po' di lato. Così, a puntare verso il bersaglio vidi due coppie di mirini. Data la distanza e non disponendo di alcun appoggio, la canna oscillava in ogni direzione. Era difficile tenerla puntata sulla patacca rotonda del bersaglio. Allora riflettei. Poiché mi rendevo conto di non riuscire a mantenere i mirini sul bersaglio, decisi di sparare quando mi sarei accorto che le direzioni individuate dai due mirini stessero per dirigersi verso il bersaglio, ma un attimo prima di raggiungerlo. Così feci. Mi sforzai di allineare i mirini verso il cerchietto. Poi, quando mi accorsi che entrambe le linee di mira stavano convergendo verso l'obiettivo, ma un attimo prima che lo raggiungessero, premetti il grilletto. Il signor Antonio si congratulò con me.

Una seconda esperienza di tiro con il fucile che ricordo l'ebbi qualche anno più tardi, forse all'età di tredici-quattordici anni. Bernardo aveva acquistato un fucile che sparava sia pallini che pallottole. Un giorno ce lo presentò e disse che non l'aveva ancora provato con le pallottole. Si decise di provarlo sparando su un barattolo di latta. Ne prendeste uno, lo appendeste alla porta del portico, cioè del magazzino a cui era stato attribuito quel nome, e quindi ci recammo in strada. Da lì, da presso il cancello, avremmo dovuto sparare un colpo ciascuno. Allora mi aspettai di essere l'ultimo a farlo, esse4ndo il più piccolo, invece mi lasciaste sparare per primo. Mi appoggiai al cancello e presi la mira, tenendo entrambi gli occhi aperti. Il fondo del barattolo aveva un diametro di circa una dozzina di centimetri. Da quella distanza (circa quaranta metri) non appariva più grande della patacca del tiro a segno del signor Antonio. Le direzioni individuate dalle coppie di mirini oscillavano in tutte le direzioni ed era difficile tenerle puntate sul bersaglio. Operai come nel caso del tiro a segno. Quando mi accorsi che le coppie stavano per puntare verso il barattolo, ma un istante prima che vi giungessero, premetti il grilletto.

Da quella distanza non si poteva capire se avessi colpito il barattolo o se l'avessi fallito e di quanto. Ci recammo al portone del portico. La pallottola aveva trapassato il barattolo non molto lontano dal centro. Toglieste il barattolo per vedere quanto profondamente la pallottola si fosse conficcata nel legno del portone. La pallottola l'aveva trapassato. Apriste il portone, entrammo nel portico e proseguimmo con gli occhi verso terra per vedere dove fosse caduta la pallottola. Non la trovammo, ma vedemmo un buco nell'intonaco del muro opposto al portone. La pallottola aveva non solo perforato il fondo del barattolo ed il legno del portone ma, attraversato il portico in tutta la sua lunghezza, era andata a conficcarsi profondamente nell'intonaco del muro opposto. Impressionati dalla potenza del fucile rinunciaste a sparare.

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17. Esercitazione con il fucile al poligono

Come ho già detto, il poligono di tiro consisteva di dieci tabelloni posti ai piedi di una collinetta, sui quali erano disegnati dei cerchi concentrici. A centocinquanta metri da essi c'era una lunga tettoia, sotto la quale erano disposti dieci tavolati, ognuno in corrispondenza di un bersaglio, sollevati di circa ottanta centimetri da terra. I cecchini avrebbero dovuto sparare stando sdraiati su quei tavolati. In piedi accanto ad ogni tavolato stava un caporale che aveva il compito di fornire aiuto in caso di necessità. Si andava a sparare in gruppi di dieci. Il cambio avveniva solo dopo che l'ultimo aveva finito di sparare; questo perché durante il cambio avvenivano i conteggi e le riparazioni dei tabelloni e ciò non poteva avvenire se non dopo che tutti avessero terminato di sparare. Quando venne il mio turno, mi consegnarono un caricatore con dieci pallottole. Allora corsi ad uno dei tavolati, tenendo il fucile in una mano ed il caricatore nell'altra. Fu il caporale a inserire il caricatore nel fucile, perché non sapevo come farlo, non avendo partecipato alle esercitazioni preliminari. Preparato il fucile, mi sdraiai sul tavolato e puntai al bersaglio che avevo di fronte. Accortosi che tenevo entrambi gli occhi aperti, il caporale, che stava alla mia sinistra, mi disse:

— Chiudi l'occhio sinistro.

— No, no. Io sono abituato così.

Egli non insisté; evidentemente era un tipo accomodante.

Presi la mira per bene, come ero solito fare, e premetti il grilletto. La prima pallottola era tracciante, cioè avrebbe descritto una scia rossa ben visibile anche agli spettatori. La pallottola uscì, tracciando la sua scia, ma non si diresse verso il bersaglio. Puntò decisamente verso il basso e si conficcò nel terreno a due terzi del percorso.

— L'alzo! — disse il caporale. — Dammi il fucile che te lo aggiusto.

— No, no, — risposi. — Faccio lo stesso.

Risposi in quel modo a motivo dell'imbarazzo e perché non volevo che per causa mia si rallentasse il corso dell'esercitazione. Puntai il fucile alcuni metri sopra il bersaglio e sparai di nuovo. Pur non essendo tracciante, la traiettoria della pallottola fu visibile fino al bersaglio, poiché lasciava una leggera scia lungo il suo percorso. Così vidi che la seconda pallottola aveva colpito la parte inferiore del tabellone. Alzai la mira e sparai una terza volta. Poi di volta in volta cercai di migliorare il tiro sulla base dei risultati precedenti, facendo riferimento a dei grossi sassi sul fianco della collina, verso i quali puntavo il fucile. Terminata la sparatoria, i soldati nel fossato dietro la piccola duna su cui erano posti i tabelloni abbassarono uno ad uno i tabelloni, comunicarono il punteggio e quindi li rattopparono. Il punteggio da me conseguito fu ventitré, un valore di poco superiore alla media degli altri.

Subito mi resi conto che non ero stato io a sparare bene, ma gli altri a tirare male. Non ebbi alcun dubbio che la maggior parte lo avesse fatto di proposito. Più tardi il capitano si congratulò con me per il punteggio conseguito. Da parte mia, insoddisfatto per il tiro giocato dall'alzo, mi ripromisi di ottenere un punteggio più alto alla successiva occasione. Durante il ritorno, però, una recluta mi disse:

— Stai attento, che se continui a sparare bene ti mandano con i fucilieri.

Allora compresi perché si era sparato male. Non si voleva essere messi con i fucilieri. Questo mi intimorì. Non avevo il minimo desiderio di diventare un tiratore scelto. Comunque, non mi si presentarono altre occasioni di giocare con il tiro a segno e non dovetti affrontare l'imbarazzo della scelta se sparare bene oppure male.

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18. Un nuovo amico ed il lancio della bomba a mano

Nella mia camerata, nella branda accanto alla mia, dalla parte opposta alla finestra, c'era un tale non più alto di me, ma corpulento e con una faccia piuttosto larga che incuteva, se non timore, almeno un certo rispetto sia per l'imponenza che per la sicurezza di sé che manifestava. Nelle prime settimane non ebbi occasione di conoscerlo più di tanto perché ci trovavamo solo al momento di andare a dormire, ed allora io usualmente non conversavo con nessuno. Giungevo in camerata al momento del contrappello, poco prima che venissero spente le luci. Come giungevo, mi mettevo a letto senza trattenermi a conversare; tutt'al più ascoltavo le conversazioni degli altri. Forse per qualche tempo non conobbi nemmeno il suo nome, ma alcune sue caratteristiche divennero presto evidenti. Roberto Diotallevi, laureato in economia e commercio, aveva un accento chiaramente ligure (era di Genova) e si rivolgeva ai compagni puntando verso di essi un dito e pronunciando un sonoro e squillante:

— Te!

In tal modo egli attirava l'attenzione della persona a cui voleva parlare, e questa difficilmente poteva sottrarsi dal volgersi verso di lui e rispondere. Un'altra caratteristica di questa recluta era che prima di coricarsi si inginocchiava ai piedi della branda, nel mezzo del corridoietto tra le brande, ben visto da tutti, e recitava delle preghiere con voce non molto alta, ma udibile.

L'occasione di conoscerlo meglio e di fare amicizia si presentò quando ci recammo a compiere l'esercitazione del lancio della bomba a mano. Quella mattina fui associato al mio plotone di appartenenza, il terzo, comandato dal sottotenente di leva Carlo Volturno, un geometra ligure bonaccione. Uscimmo a piedi dalla porta carraia e ci recammo nel poligono non molto lontano. Il luogo era pressoché privo di erba perché evidentemente veniva calpestato spesso. I pochi alberi ed arbusti presenti erano giovani, segno che il poligono non era più vecchio delle casermette. Giunti nel poligono, venimmo inquadrati in fila per tre o per quattro, in posizione di riposo, in uno spiazzo privo di vegetazione e lì attendemmo il turno. La bomba utilizzata era una S.R.C.M., una bomba che produce una grande fiammata ed un forte boato, ma pochi danni, a meno che non scoppi a distanza ravvicinata. Ci era stato insegnato che serviva più che altro per intontire il nemico. Ad una cinquantina di metri da dove eravamo stati inquadrati andò a porsi il sergente della compagnia. Una decina di metri più in là era stato posto un cavalletto di legno. A turno veniva consegnata la bomba a chi si trovava all'estremità del plotone inquadrato. Questi doveva correre presso il sergente. Lì avrebbe strappato la prima sicura con i denti e lanciato la bomba, cercando di colpire il cavalletto. La seconda sicura si sarebbe sfilata da sola in volo; dopodiché un minimo urto avrebbe fatto scoppiare la bomba. Lo scopo del sergente era di aiutare la recluta in caso di bisogno. Effettuato il lancio si doveva correre via senza attendere di vedere l'esito del lancio. Il sergente invece sarebbe rimasto lì in posizione eretta, e per riparo avrebbe portato le mani dietro la schiena ed abbassato il capo. Il berretto e la tuta mimetica sarebbero stati sufficienti a proteggerlo da eventuali schizzi di metallo incandescente. Una volta ritornato, il soldato che aveva effettuato il lancio non sarebbe tornato a inquadrarsi, ma sarebbe stato libero di fare ciò che voleva, pur rimanendo nelle vicinanze.

In attesa che finisse l'esercitazione cominciai a bighellonare nei dintorni. All'improvviso udii un forte:

— Te!

Era Roberto Diotallevi che mi chiamava. Stava in compagnia di alcune reclute e trascorreva il tempo chiacchierando con loro. Con quel "te!" egli mi invitò ad unirmi a loro. Stava mostrando delle immagini di carta in grandezza naturale di medaglie, onorificenze e croci al valor militare.

— Le ho ritagliate da una rivista, — disse.

Egli le mostrava e di tanto in tanto se ne appoggiava una al petto per vedere l'effetto che produceva.

— Se sapeste che cosa mi è successo l'altro giorno! — continuò ridendo. — Mi ero recato nell'ufficio del capitano perché avevo bisogno di parlargli. Lui non c'era, ma vidi una sedia girevole. Mi ci sedetti sopra e nell'attesa, per passare il tempo, cominciai ad appuntarmi tutte queste medaglie. Stavo con la schiena rivolta verso la porta. All'improvviso la udii aprirsi. Mi voltai girandomi sulla sedia. C'era una recluta. Come mi vide con tutte queste medaglie sul petto – non mi crederete – egli cominciò ad impallidire, tanto che credetti che stesse per svenire.

— Ma no!— gli dissi.— Sono io, una recluta come te!

Trascorso un po' di tempo a conversare, Roberto propose di fare delle fotografie. Infatti aveva con sé una macchina fotografica. Allora scattò alcune fotografie e ne fece scattare delle altre da dei compagni, così da farsi riprendere ora con alcuni, ora con altri presenti. In una si fece ritrarre assieme a me, Benito Fontana ed un'altra recluta. Alcuni giorni dopo me ne consegnò una copia. Conservo ancora questa foto, ma non la vedo da una ventina d'anni, perché non ricordo dove l'ho riposta. Comunque, essa segnò l'inizio della nostra amicizia.

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19. Un'esperienza scioccante

Nei giorni successivi, quando ci si incontrava per il rancio, Roberto trovava sempre un'occasione per parlare con me o per attirarmi nel gruppetto dei suoi amici. Dato il suo carattere estroverso, era sempre lui che dominava ogni conversazione. Alcune reclute, tra cui Benito Fontana, pendevano letteralmente dalle sue labbra. Benito, in particolare, assumeva quell'atteggiamento tipico che hanno le persone quando si trovano davanti a un alto prelato religioso. Poiché in effetti Roberto era molto religioso, non tardò molto che mi invitò a partecipare ad un raduno di preghiera che si sarebbe tenuto in una cappellina nel centro di Casale. Egli mi parlò talmente bene di quel raduno che una sera accettai di accompagnarlo. Mi aspettai che si sarebbe partecipato a un normale rosario, con dei fedeli ed un sacerdote. Invece, ciò che trovai mi lasciò del tutto smarrito.

Il luogo era una specie di chiesetta, forse anticamente lo era stata effettivamente. Il locale era largo circa sei-sette metri, lungo una dozzina di metri ed alto circa sette-otto metri. Non aveva finestre ai lati, ma solo sulla parete opposta alla porta, la quale parete era a forma di semicerchio. Le finestre partivano da circa due metri e mezzo di altezza ed erano alte e strette, con vetri intarsiati. La saletta non conteneva banchi per sedersi o inginocchiarsi, ma solo delle specie di troni addossati alle pareti laterali. Ognuno di essi aveva un alto schienale e, se non ricordo male, era anche sovrastato da un catafalco a circa due metri e mezzo di altezza. I troni apparivano antichi ed erano di legno ben lavorato. Il locale aveva un aspetto ricco ed austero nello stesso tempo. Tutto questo appariva splendido. Ciò che mi intimidì moltissimo furono le persone presenti a quel convegno di preghiera. Riguardo ad essi Roberto non mi aveva minimamente avvertito.

Quando giungemmo nella cappellina, trovammo una quindicina di sacerdoti. Roberto bazzicò in mezzo a loro come nel proprio elemento. Parlò ora con l'uno, ora con un altro. Io mi tenevo vicino a lui quasi per ottenere protezione. Dovevo avere lo sguardo impaurito perché nessuno mi rivolse la parola, ma parlarono solo con Roberto. Nel conversare con loro egli manifestava confidenza e grande libertà di parola, come chi si trova tra vecchi amici, conseguenza sia del fatto che forse li frequentava tutte le sere, ma anche a motivo del suo carattere estroverso. Dopo una quindicina di minuti fu annunciato che era tempo di recitare il rosario. Quindi ognuno andò a prendere posto su un trono. Io seguii Roberto e ne scelsi uno alla sua sinistra.

I troni avevano tutti il sedile sollevato. Nella mia mente confusa immaginai che fossero tenuti sollevati da una molla. Così, quando afferrai il sedile, lo spinsi in basso con forza. Tuttavia non vi era nessuna molla. Il sedile mi sfuggì di mano e sbatté, producendo un rumore terribile. In quel momento, la tensione accumulata fino ad allora si scaricò, sfociando in un urlo. Nessuno fiatò, nemmeno Roberto che mi stava accanto. Mi sedetti mogio mogio e subito dopo il sacerdote più anziano iniziò la litania del rosario. Io ripetei meccanicamente le parole assieme ai convenuti, ma ero in trance. La mia mente restava ferma all'istante in cui avevo prodotto quel fracasso ed emesso l'urlo. Infine il rosario terminò. Roberto non si trattenne a chiacchierare; ritornammo subito in caserma. Per strada conversammo su vari argomenti senza menzionare minimamente l'accaduto. Tuttavia Roberto non mi invitò più a partecipare alle riunioni di preghiera.

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20. Delle care visite

Si giunse agli inizi di maggio, e un bel giorno (il 1º maggio? la domenica dopo? non ricordo) tu, assieme a mamma e nonno Giovanni, veniste a trovarmi. Quel giorno ottenni un permesso ed uscii con voi. Prendemmo la strada verso nord, senza alcuna meta. Incontrammo l'argine destro del Po. Girammo a sinistra e ci inoltrammo per qualche centinaio di metri lungo di esso, per una strada stretta, non asfaltata e completamente priva di traffico. Il Po era ad un centinaio di metri più a nord, invisibile da dove ci eravamo fermati in un primo tempo, perché ci separava un boschetto di pioppi. Quello era terreno riservato alle piene. Poi, dopo aver mangiato, ci avvicinammo alla riva e scattasti alcune foto.

Mentre ci si intratteneva in quella zona, ebbi modo di soddisfare la vostra curiosità, ma soprattutto quella di mamma, che era molto in ansia per me. Per l'occasione aveva preparato dei cibi da mangiare all'aperto. Non so che cosa mangiaste voi. Per me aveva preparato dei panini con petto di faraona arrostita e contorno di carciofi. Non avevo mai mangiato né faraone né carciofi prima di allora. Per tutto il periodo del servizio militare, quando ne ebbe l'opportunità, mamma mi preparò sempre faraona, anziché pollo. Al ritorno dal militare non ne mangiai più, perché mamma tornò a preparare pollo, quando non preparò altri cibi. Non sono mai riuscito a capire perché durante il servizio militare mi preparasse sempre faraona. Ricordo che diceva che la faraona è più nutriente del pollo. Probabilmente ritenne che durante il servizio militare avessi bisogno di maggiori energie, mentre una volta tornato a casa tornò a preparare il pollo che gradivo maggiormente, forse ritenendo che allora il nutrimento fornito dal pollo sarebbe stato sufficiente per la vita normale.

Il pomeriggio trascorse in fretta. Verso sera mi riportaste in caserma. Tornai rifornito di cibo per alcuni giorni, tra cui una scatola di biscotti ricoperti di cioccolato, i migliori che avessi mai mangiato. Gradirei molto poter disporre ancora di quei biscotti, ma non riesco a trovarli. Non conosco il nome della ditta che li faceva. Forse non li fanno più.

Il giorno dopo il sottotenente Bertone, che aveva saputo della vostra venuta, mi chiese con cipiglio severo se eravamo rimasti entro il distretto (il permesso ricevuto era limitato ad esso). Fui colto di sorpresa. Mi chiesi se mi avrebbe punito se gli avessi confessato che ci eravamo allontanati di una decina di chilometri. Non ebbi il coraggio di esprimermi a parole. Invece di parlare agitai una mano in direzione nord, a significare che eravamo andati piuttosto lontano. Egli scoppiò a ridere.

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21. Esercitazione con il MAB

L'ultima esercitazione di un certo rilievo a cui partecipai durante il C.A.R. fu quella con il M.A.B., il fucile comunemente chiamato mitra. É un piccolo fucile dotato di un caricatore contenente, se non ricordo male, 25 pallottole e che è in grado di sparare a ripetizione. Non so altro riguardo ad esso perché non partecipai ad alcuna esercitazione preparatoria. Per compiere l'esercitazione ci recammo una mattina in un piccolo poligono situato non lontano dalla porta carraia. Esso si trovava entro un boschetto di alberi piuttosto alti e umido, sul cui suolo cresceva dell'erba a foglie larghe, tipiche di quegli ambienti. Il suo aspetto mi portò alla mente il fossato situato dietro la casa dei Vignali, quello che conduceva al cosiddetto Gorgo. Come in quel fossato, anche nel boschetto del poligono c'era un piccolo ruscello a rive squadrate, dove scorreva un po' d'acqua. Oltrepassato il ruscelletto, dopo alcune decine di metri il sentiero si aprì in una piccola radura, in fondo alla quale c'era una collinetta, presumo artificiale, alta non più di sette-otto metri, ai piedi della quale era posto il cartellone-bersaglio. Ad uno ad uno ci fu consegnato il M.A.B. già carico, ci si andò a porre ad una decina di metri dal bersaglio e da lì si sparò a raffica contro di esso. Non si stabilì alcun punteggio, né graduatoria. L'esercitazione aveva solamente lo scopo di farci acquistare un po' di familiarità con il mitra.

Quando toccò il mio turno, andai a pormi nel luogo assegnato, afferrai con la destra l'impugnatura del mitra e con la sinistra il caricatore che sporgeva in basso per quasi il doppio dell'impugnatura, ponendo il calcio contro la spalla destra, appena sopra l'ascella. Diressi più o meno il mitra contro il bersaglio e premetti il grilletto. La reazione del mitra mi colse di sorpresa. Mi ero aspettato, sì, che rinculasse verso l'alto, ma anche se le botte di rinculo non furono tanto forti (in confronto con il Garand, il M.A.B. produceva una reazione di rinculo tale che mi sembrava di stare operando con un giocattolo), tuttavia non mi ero aspettato che producesse una reazione tanto vistosa. Non solo: ad ogni colpo la dirittura di tiro andò spostandosi anche verso destra. Così, prima che me ne rendessi conto, alcune pallottole erano già uscite dal tabellone ed erano andate a conficcarsi nel fianco della collinetta. Allora lasciai il grilletto e da quel momento in poi decisi di sparare solo a piccole raffiche, in modo da poter controllare maggiormente la direzione di tiro. Così feci fino all'esaurimento del caricatore. La strana reazione del mitra, però, mi lasciò perplesso e mi indusse a cercare di comprenderne la causa.

La reazione verso l'alto è facilmente comprensibile, perché la retta individuata dalla canna passa ben al di sopra degli appoggi. Nonostante la reazione di rinculo non fosse molto forte, a motivo del fatto che il braccio tra il fulcro (mano) e la canna era notevole, l'effetto fu vistoso, come ebbi modo di notare. Non mi fu chiaro invece perché la direzione di tiro si fosse spostata anche verso destra. La mente andò al fatto che le canne dei fucili hanno una zigrinatura che ha lo scopo di imprimere un moto rotatorio alle pallottole, in modo da annullare gli effetti dinamici dovuti alle imperfezioni che, se non corretti, potrebbero far descrivere alle pallottole delle traiettorie non rettilinee. Quello era l'unico altro fatto che avrebbe potuto produrre reazioni aggiuntive. Perciò la soluzione doveva essere legata ad esso. Ora il problema sta nel comprendere come quel moto rotatorio agisca sul mitra facendone spostare la canna verso destra. La soluzione è la seguente. Per reazione al moto rotatorio impresso alla pallottola – che dal ragionamento che sto per fare sembra essere stato antiorario – il mitra avrebbe dovuto ruotare in senso orario. Poiché l'asse di rotazione non è la canna, ma quello individuato dalle impugnature e dal calcio, e poiché quest'asse passa sotto la canna ed è rivolto verso il basso, se il moto impresso alla pallottola fu effettivamente di tipo antiorario, allora la rotazione in senso orario attorno a quell'asse avrebbe fatto muovere la parte anteriore della canna verso destra. Infine, le due reazioni combinate avrebbero prodotto la reazione osservata.

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22. Visita parenti

La domenica dopo la tua visita, la caserma fu aperta per ricevere le visite dei parenti. Quel giorno, specie nel pomeriggio, la caserma brulicò di civili. Abituato all'andazzo della vita militare, quell'apertura diede un'aria nuova, veramente di festa, a quella giornata. Non avendo incarichi in fureria mi divertii a passeggiare di qua e di là, osservando le persone in visita. C'erano genitori, fratelli, amici. Tutti apparivano felici, sia i visitatori che i visitati.

A una certa ora nel pomeriggio mi ritirai per un momento nei gabinetti posti al piano terreno all'estremità posteriore del braccio ad U del fabbricato della compagnia. I singoli gabinetti comunicavano con una grande stanza quadrata illuminata da finestre a vasistas, le quali andavano da circa un metro e mezzo di altezza al soffitto. Tenuto conto che il piano terra era sollevato di una cinquantina di centimetri dal terreno circostante, da fuori non si poteva vedere niente dell'interno. Nel centro dello stanzone quadrato c'era un rubinetto in cima a un tubo dell'acqua a circa un metro e venti di altezza dal pavimento. Forse aveva lo scopo di riempire dei secchi, se mai ce ne fosse stato bisogno. Quel giorno c'era una recluta nuda che si stava lavando usando quel rubinetto. Forse attendeva dei parenti o amici e voleva presentarsi ben pulito. Uscito di lì e girato l'angolo notai una ragazza con il volto sorridente che tirava gli occhi a destra e a sinistra cercando di carpire qualche dettaglio della vita di caserma. All'improvviso notò un piccolo cornicione che correva a circa cinquanta centimetri dal suolo. Salendo su quel cornicione avrebbe potuto vedere cosa c'era oltre le finestre a vasistas. Quali segreti avrebbe scoperto! Tutta gioiosa si incamminò verso il cornicione. Io ero troppo lontano per impedirglielo. Posto un piede sul cornicione, si diede uno slancio, afferrò il bordo della finestra, si tirò su e guardò dentro. Subito scese con la faccia stralunata. Era andata cercando di qualcosa di straordinario e l'aveva visto.

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23. Giuramento

La domenica successiva ci fu il giuramento. Verso le nove del mattino vennero dei camion a prelevare le reclute, perché la cerimonia si sarebbe svolta nel Casermone. Su richiesta del maresciallo, io non ci andai. Gli altri due soldati che lavoravano in fureria, Gianmarco Celli di Cantù (una cittadina in provincia di Como, presso il confine con la Svizzera) e Bersani di Vercelli, erano in licenza o permesso. Forse il maresciallo mi chiese di rimanere per non rimanere solo, visto che la caserma sarebbe rimasta vuota per più di due ore. In effetti, quel tempo trascorse in maniera irreale. A differenza del solito brusio, nella caserma regnò un completo silenzio. La giornata di fine primavera era assolata e calma. Forse non cantavano neppure gli uccelli che mi avevano svegliato la mattina del mio arrivo. Il silenzio era totale, a parte di tanto in tanto il ticchettio della macchina per scrivere che risuonava sulle pareti della stanza. La macchina era una vecchia Olivetti nera con il basamento in legno, forse risalente a prima della guerra, che però funzionava perfettamente. In tutta la compagnia rimanemmo solo noi due. Egli stava alla scrivania e leggeva o scarabocchiava qualcosa, mentre io battevo a macchina oppure scrivevo a mano su qualche registro. Quando parlava, il maresciallo si esprimeva a bassa voce, quasi che temesse di disturbare qualcuno.

All'improvviso, verso le undici e mezza si udì un vociare che andava avvicinandosi. Erano i soldati che tornavano dal giuramento. Il loro vociare era animato ed allegro. La compagnia stava tornando alla normalità. Di lì a poco ci sarebbe stato il rancio ed io avrei concluso la mia giornata lavorativa, perché di domenica pomeriggio non si lavorava. Anzi, mi sembra che non si lavorasse per niente di domenica. Forse quella volta il maresciallo dovette venire in fureria affinché la compagnia non rimanesse completamente sguarnita. Questo non lo ricordo. Poco dopo lasciai l'ufficio e mi recai al rancio. Quel giorno venne offerto come secondo, come quasi tutte le domeniche, bistecca ai ferri. Inoltre vennero portate anche delle paste. A me le paste non piacciono, a parte i bigné al cioccolato. Nel vassoio che venne portato nella nostra tavolata ce n'erano alcuni. I commilitoni, che sapevano quanto fossi delicato col mangiare, saputo che a me piacevano i bigné, me ne lasciarono un paio.

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24. Partenza dei compagni d'armi

Si stava avvicinando la fine della permanenza al C.A.R. Entro pochi giorni sarebbe avvenuto il trasferimento ai reggimenti. Qualche giorno prima che questo avvenisse fui informato che non sarei partito. perché era giunta una raccomandazione, ed avrei dovuto attendere che venisse comunicata la mia nuova assegnazione. Quando con gli amici si parlò delle assegnazioni, non feci mistero del fatto che ero stato raccomandato. Nel farlo mi sentii un poco a disagio, perché mi parve di avere carpito illegalmente ciò che gli altri non potevano avere. Nonostante ciò non nascosi il fatto, perché in genere preferisco rendere manifesto ciò che non è strettamente personale, e per questo motivo spesso appaio più ingenuo di quanto non lo sia. Il fatto è che sono contrario ad un'eccessiva privacy. In questo ho oggi il conforto di un versetto che ho notato nella Bibbia (Proverbi 18:1), il quale dice: "Chi si isola cercherà la sua propria brama egoistica, irromperà contro ogni saggezza." Certo, qui non si è esortati a far conoscere agli altri tutti i propri fatti personali, ci vuole un certo equilibrio e soprattutto cautela, visto il mondo in cui viviamo, ma dove tutto viene nascosto abbonda la trasgressione. In effetti, l'isolamento incoraggia a compiere quello che alla luce del sole non si farebbe (esempio: i ladri operano di nascosto), mentre il rendere manifeste le proprie azioni è di protezione (questi sono punti di vista personali; non li ho letti in nessuna pubblicazione).

Giunse il giorno della partenza dei commilitoni. Per motivi che non conosco venne stabilito che sarebbe avvenuta alle tre di notte. La sera precedente stabilii che mi sarei alzato per rivolgere loro un ultimo saluto. Come suonò il segnale della sveglia, mi alzai in fretta e andai a pormi al piano terreno presso il portone d'ingresso. I soldati avevano preparato in precedenza i loro valigioni militari, quelli posti sul ripiano dietro le brande. Perciò non tardò molto che cominciarono a giungere i primi partenti. Giunsero a volte in gruppi di due o tre, a volte singolarmente, a volte in gruppi più numerosi. Li salutai tutti. Strinsi la mano a molti, ne salutai molti per nome, giacché il lavoro di fureria mi aveva portato a conoscerli, ebbi scambi di battute di spirito con chi ero più affiatato. La processione durò per almeno un quarto d'ora. Quando mi resi conto che non c'era più nessuno, chiusi la porta e tornai nella camerata. La stanzona che aveva ospitato un terzo della compagnia ora era vuota. I soldati di stanza nella compagnia ed i caporali dormivano da qualche altra parte, non so dove. Dato un breve sguardo attorno, spensi la luce principale e salii sulla branda. La camerata aveva un aspetto squallido, ma non mi crucciai eccessivamente per la solitudine (in effetti non la temo, avendo condotto fin dalla giovane età, volente o nolente, una vita per lo più solitaria). Riflettei che avrei dovuto cercare di prendere sonno al più presto, altrimenti il giorno dopo mi sarei sentito stanco. Mi girai su un fianco; in pochi minuti mi addormentai e dormii profondamente fino al mattino.

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25. I compagni di fureria

Pochi giorni dopo la partenza dei soldati novelli furono congedati anche i tre sottotenenti ed alcuni caporali e soldati di stanza nella XII compagnia a cui appartenevo, tra cui Renato Bersani che, assieme a Gianmarco Celli e a me, aveva lavorato nella fureria. Con questi due soldati non avevo mai avuto alcun rapporto di amicizia; con Celli perché né lui né io l'avevamo mai cercata, nonostante egli fosse di professione disegnatore come me; la differenza di anzianità di naia ci aveva sempre diviso. Con Bersani perché, nonostante egli fosse magro e di alcuni centimetri più basso di me, incuteva un certo timore, ossia era un tipo da prendere con le pinze, come avrebbe detto Tex Willer. Solo Bertone e qualche nonno gli parlavano, chiamandolo spesso Pirla, un po' per scherzo, un po' per prenderlo in giro. Da parte mia, ricordo di avergli rivolto la parola una sola volta, per curiosità. La cosa andò così. Egli aveva l'abitudine di bere della Coca Cola durante il giorno; ne teneva sempre una bottiglia sotto mano. Desideroso di sapere perché bevesse sempre e solo Coca Cola, un giorno glielo chiesi. In quel momento egli stava addentando un panino. Storcendo il viso egli inghiottì il boccone che teneva in bocca e quindi, mantenendo il viso teso e sotto sforzo, rispose:

— Come posso mandare giù il boccone se non bevo?

Forse egli non aveva compreso la mia domanda. Io comunque non mi azzardai di chiedergli altre spiegazioni.

Gianmarco Celli era un tipo un poco più alto di me, dalla carnagione molto chiara, tanto che sembrava perennemente ammalato. Come carattere cercava di mostrarsi un po' bullo, mentre in realtà si comprendeva che prima del militare doveva essere stato un ragazzo un po' viziato e coccolato. Tuttavia, poiché era più anziano di naia di me, quando poteva, sia pur di rado, faceva sentire tale superiorità. Da parte mia, fin dai primi giorni in caserma ero andato maturando l'idea che il servizio militare fosse qualcosa da non prendere seriamente; che la disubbidienza, quando possibile, costituisse un merito e che quando possibile si dovesse cercare di fare i furbi. Durante i primi due mesi non praticai mai niente di simile, ma ci riflettei solamente. Verso la fine della mia permanenza a Casale Monferrato mi si presentò l'occasione di fare uno scherzetto a Celli. Agii in modo che egli dovesse svolgere una mansione d'ufficio che sarebbe spettata a me. Non ricordo in cosa consisté quella mansione, né come riuscii a combinare la cosa. Anche se si trattò di qualcosa di insignificante, tuttavia essa avrebbe dovuto essere il punto di partenza per azioni ancora più gloriose. Celli lo subodorò, anche se da quello che disse compresi che non ne aveva la certezza. Questo avvenne una mattina mentre eravamo soli in fureria. Mancava anche il capitano nell'ufficio accanto. Più che per il fatto in sé, per timore che gli avessi mangiato i risi in testa egli cominciò a sbraitare. Ricordo che stavamo in piedi nel centro dell'ufficio. Io non risposi niente, sia perché sapevo di essere nel torto, sia perché riconoscevo che lui era più forte di me e sia anche perché sono contrario alla violenza, a ragione o a torto che sia. Anziché calmarsi, egli continuò ad alzare la voce.

— Una burba che pensa di prendermi per il naso: Ti faccio vedere io!

Ed all'improvviso alzò le braccia con i pugni chiusi con l'intenzione di riempirmi di botte.

In quell'istante entrò di corsa il caporale maggiore Ferlani e si frappose fra Celli e me. Ferlani era un lombardone robusto più alto di Celli, una persona integra, ligia al dovere, seria, il quale evidentemente nutriva molta stima verso di me, perché mi sapeva diligente e laborioso. Trovandosi a passare nelle vicinanze ed avendo udito le grida di Celli era corso immediatamente in mio soccorso.

— Se solo gli torci un capello, — disse con un'espressione che lasciava capire che non scherzava, — poi dovrai vedertela con me.

Celli perse immediatamente l'arroganza e cominciò a balbettare, quasi a piagnucolare, incapace di giustificare il suo comportamento. Dopo la ramanzina di Ferlani, Celli assunse un atteggiamento ben diverso nei miei confronti. Per la prima volta cominciò a conversare con me. Ben felice di questo, lo assecondai. Da parte mia ero pentito di ciò che avevo fatto e deciso a non ripetere più quell'errore. Quella sera andammo assieme in libera uscita ed avemmo modo di conoscerci meglio. In effetti avevamo molte cose in comune poiché eravamo entrambi disegnatori. Io gli parlai dei miei disegni ed esperienze di lavoro, ed egli mi parlò delle sue. L'incidente ci aveva fatto avvicinare. Negli ultimi giorni che trascorsi a Casale, Celli ed io rimanemmo ottimi amici e uscimmo spesso assieme.

— Architettai, attuai, accantonai, — potrei dire imitando non altrettanto efficacemente la famosa espressione di Giulio Cesare: "Veni, vidi, vici" (venni, vidi, vinsi). Buon per me che mi ero reso conto della stupidità dei miei pensieri.

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26. Ricovero in infermeria

Frattanto, man mano che il tempo passava, cominciai a non sentirmi bene. Ero afflitto da un torpore alla testa unito ad un malessere generale che, anche se non mi impediva di vivere normalmente, tuttavia era molto fastidioso ed andava aumentando giorno dopo giorno. Non rendendomi conto della causa, smisi di mangiare ogni cosa e mi limitai al solo pane ed alle sempre presenti mele. Presi anche a bere molta acqua presso i lavatoi. Tra le due braccia della U che costituiva l'11-ma e la 12-ma compagnia c'era infatti una tettoia con, sotto, due file di lavatoi separate da un muretto, una rivolta verso l'11-ma, l'altra verso la 12-ma compagnia. Sopra ogni fila di lavatoi, addossato al muretto c'era un tubo bucherellato dal quale zampillava in continuazione dell'acqua fresca e buona. Perciò presi l'abitudine di recarmi là a bere più volte al giorno. Forse quell'acqua mi fu di aiuto per purificare il corpo, secondo ciò che in seguito realizzai costituisse la causa del mio malessere, ma, come dicevo, la situazione andava costantemente peggiorando. Una mattina, sentendomi più male del solito, chiesi al maresciallo il permesso di recarmi in infermeria per una visita di controllo. Egli me lo concesse subito. In infermeria mi fu misurata la temperatura. Non mi fu detto che valore avesse, ma si dispose che venissi ricoverato nell'infermeria del Casermone.

Giunto nell'infermeria fui alloggiato in una stanza con quattro letti. Quando giunsi c'era un soldato ricoverato, ma fu dimesso il giorno dopo. Le uniche visite che ricevetti nei tre giorni che trascorsi in quella stanza furono quelle di un ufficiale medico, dei soldati addetti alle pulizie e di coloro portavano il cibo. Resomi conto che probabilmente il malore era dovuto alle mele, smisi di mangiarle. Il mio unico cibo rimase solo un pezzo di pane per pasto, poiché oltre a quello non c'era niente che mi piacesse, tranne il terzo giorno, quando fu portato dell'ottimo tonno, perché era un venerdì. Anche se non mi fu somministrato nessun medicinale, in quei giorni andai costantemente migliorando. Evidentemente il malore era causato dalle mele. Infatti, da quel tempo e per molti anni, le mele continuarono a causarmi quegli stessi disturbi che soffrii allora: giramento di testa unito ad un malessere generale. Ritengo che ciò fosse dovuto ai vari veleni di cui esse erano imbottite. Infatti le mele non trattate, come quelle che crescono incolte, non mi causavano alcun disturbo. Inoltre, come potei constatare nel corso di varie prove, non serviva a niente sbucciarle. Questo perché, evidentemente, i veleni che vengono spruzzati sulle piante cadono al suolo, in parte quando vengono spruzzate, il resto quando piove, e tali veleni vengono poi assorbiti dalle radici e finiscono nei frutti. Di recente, però, l'uso moderato di mele non mi causa più alcun disturbo. Penso che ciò sia dovuto ad uno di questi due motivi: il mio corpo è diventato resistente a quei veleni, oppure oggi si usano veleni diversi.

Come trascorsi quei giorni da solo? Non c'erano giornali, non c'erano persone con cui parlare (tra l'altro, io non sono un gran conversatore. Anzi, penso che il miglior complimento che mi si possa fare, sia di dire: "Gli manca solo la parola"), non avevo nemmeno una Settimana Enigmistica. Trascorsi quei giorni compiendo mentalmente dei calcoli matematici. In quel tempo prima di andare a compiere il servizio militare avevo iniziato a studiare le materie del primo biennio di Geometra. Nel corso degli studi mi aveva affascinato la soluzione delle equazioni algebriche di secondo grado. Sapevo che esistevano soluzioni anche delle equazioni di terzo e quarto grado. Sapevo anche che era stato dimostrato che non esistono soluzioni generali delle equazioni di grado superiore al quarto. Perciò, mentre ero lì mi sforzai di trovare la soluzione delle equazioni di terzo grado, con lo scopo in futuro di trovare quella delle equazioni di quarto grado ed infine sperando amenamente di trovare un metodo, anche se non la soluzione, per risolvere le equazioni di quinto grado. Non disponendo di carta e penna, abbozzai solo qualche idea, idea che mi piacerebbe sviluppare, ma che a tutt'oggi per pigrizia non ho fatto. Grazie a quel lavoro mentale, il tempo trascorse abbastanza velocemente. Il mattino di tre giorni dopo il mio ricovero fui visitato da un maggiore medico, il quale mi dimise.

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27. A casa in licenza

Tornato in caserma, mi fu annunciato che mi sarebbe stata concessa una licenza di tre giorni. E così, la mattina di un paio di giorni dopo, partii. Alla consegna del biglietto mi si disse che avrei dovuto prendere la linea per Pavia, Cremona, Mantova, anziché quella più veloce per Vercelli, Milano, Padova, perché più breve di una quindicina di chilometri. In effetti, se si guarda la carta geografica, quella linea è più lunga, ma allora non ne ero certo. Per quanto cercassi di obiettare, non servì a nulla. Si insisté che il biglietto era valido per quella linea, non per l'altra. Per timore di venire multato se fossi salito sul treno per Milano, ubbidii e presi quello diretto in direzione opposta. Il treno fece sosta a Borgo San Martino, Giarole, Villabella, Valenza e Valmadonna prima di giungere ad Alessandria. Cito i paesini perché il treno era un accelerato e, come sai, gli accelerati sostavano in ogni stazione. Ad Alessandria scesi ed attesi l'accelerato che, passando per Spinetta, San Giuliano Vecchio, ecc., mi avrebbe condotto a Pavia. Le linee non erano ancora elettrificate ed i treni erano tutti particolarmente lenti. Durante una sosta ad una stazione, forse quella di Pavia, vidi un venditore ambulante che passava con un biroccino sotto i finestrini ed offriva bibite fresche e gelati. Avevo in tasca solo cinquanta lire, tutto quello che mi era rimasto dopo aver pagato il biglietto del treno. Avendo molta strada da compiere, volevo usare quei soldi nella maniera più profittevole. Decisi di sopportare la sete ed attendere ancora un poco.

Ad una stazione successiva ebbi l'opportunità di scendere dal treno. Notato sul marciapiede che divideva i binari un rubinetto di acqua potabile, mi dissetai. A quel punto non ebbi dubbi su come avrei speso le cinquanta lire. Acquistai subito un gelato ai gusti di limone e fragola, i miei preferiti. Ora, però, ero rimasto senza un quattrino. Tuttavia non prevedevo altre spese fino all'arrivo a casa. Ripreso il viaggio, le ore parvero trascorrere sempre più lentamente nell'accelerato che sostava in ogni più piccola stazione. A Mantova cambiai treno un'altra volta. Sperai che quello mi avrebbe condotto senza altri cambi fino a Montegrotto Terme. Dopo innumerevoli soste durante il percorso si giunse finalmente a Monselice. Ancora due stazioni e sarei sceso a Montegrotto. Poi avrei percorso felicemente i due chilometri che mi separavano da casa, forse correndo. Erano le dieci e mezza di sera. La presa in giro di colui che mi aveva consegnato il biglietto mi aveva fatto trascorrere il primo giorno di licenza viaggiando in treno. Esso, però, non ripartì. Dopo qualche minuto, un bigliettaio, che era sceso, tornò nella carrozza. Come mi vide, disse che si era giunti al capolinea. Scesi dal treno ed andai subito ad informarmi sull'orario del primo treno per Montegrotto Terme. Mi fu detto che non sarebbe passato prima del mattino successivo. Forse, se fossi sceso immediatamente appena giunto a Monselice, ci sarebbe stato un treno che avrebbe fatto tappa a Montegrotto, ma non sapendo che si era giunti al capolinea, ero rimasto in carrozza, ed i minuti trascorsi lì in inutile attesa erano stati decisivi. Se ci fu effettivamente una coincidenza per Montegrotto, mi era sfuggita l'opportunità di prenderla.

Sconfortato, uscii dalla stazione, riflettendo se fosse il caso di fare l'autostop almeno fino a Battaglia Terme. Fuori della stazione c'era un bar. Decisi di chiedere al barista se mi avrebbe permesso di fare una telefonata, nonostante fossi senza soldi, dicendo che l'avrebbe pagata chi sarebbe venuto a prendermi. Senza obiettare egli mi permise di telefonare. Chiamai zio Angelo e gli spiegai la situazione. Senza la minima esitazione, egli disse:

— Vengo subito!

Infatti, meno di mezz'ora più tardi egli giungeva con la sua millecento. Prese un caffè, pagò il conto ed uscimmo. Giungemmo a casa verso le undici e mezza. Tu e mamma eravate a letto. Presi il forcone della biancheria, quello che mamma usava per tenere sollevato il filo sul quale stendeva i panni ad asciugare, e bussai alla sua finestra. Trascorsero un paio di minuti senza che si facesse viva. Probabilmente stava dormendo sul lato che ci sentiva bene, e con l'altro orecchio non aveva avvertito i colpi che avevo bussato sulle imposte. Bussai un'altra volta. Questa volta dovette aver udito, ma non venne subito alla finestra perché forse si stava chiedendo con apprensione che cosa fosse quel rumore. Stavo per bussare una terza volta, quando apparve. Come ci vide, esclamò con gioia:

— Oh! Scendo subito!

Qualche istante più tardi era alla porta e ci apriva. Entrammo. Poco dopo scendesti anche tu. Evidentemente, prima di scendere mamma ti aveva informato del nostro arrivo.

L'incontro fu molto gioioso. Ricordo che mi poneste molte domande. Mamma osservò che ero ingrassato. In effetti non ero ingrassato, ma probabilmente la molta acqua che avevo bevuto nelle ultime settimane mi aveva gonfiato viso e corpo, e mamma immaginò che fossi ingrassato e stessi bene. Non le spiegai quello che avevo passato, essendo ben contento che lei mi vedesse in quella maniera. Trascorremmo mezz'ora felicemente. Poi Angelo dovette andare, così andammo a letto anche noi. Trascorsi meno di due giornate a casa, con la gioia di tutti, e poi dovetti ripartire. Dopo qualche giorno mi fu annunciata la nuova assegnazione: 183º reggimento di fanteria "Nembo", divisione "Folgore", di stanza a Cervignano del Friuli, a circa centocinquanta chilometri da Padova. La raccomandazione mi aveva avvicinato notevolmente; da lì mi sarebbe stato facile venire a casa in permesso in qualche fine settimana.

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28. Trasferimento al reggimento

Lasciai Casale Monferrato con il treno che avrei dovuto prendere quando venni a casa in licenza. Il distacco fu definitivo, perché dopo di allora non avrei più rivisto né Casale, né le Casermette. Queste, anzi, non ci sono più. Me lo disse qualche anno fa un amico che risiede a Casale Monferrato.

Poco dopo mezzogiorno il treno fece una breve sosta a Padova. Per qualche istante mi sentii a casa, anche se non potei scendere. Poi, come il treno ripartì, mi sentii di nuovo come un soldato che torna dalla licenza. Qualche ora più tardi ero a Cervignano del Friuli. Questa volta non trovai alcuna camionetta inviata per condurmi in caserma. Dovetti percorrere tutta la strada a piedi, con il valigione che diventava sempre più pesante ad ogni passo che compivo. Appena superato l'ingresso della caserma incontrai l'ufficiale di picchetto, il quale mi indirizzò all'ufficio di maggiorità del reggimento. Esso era situato al primo piano della palazzina del comando. Lasciai il valigione nell'atrio al piano terreno e salii.

L'ufficio era una stanza spaziosa. Sulla sinistra vi era un'ampia finestra che dava su un giardino erboso dove crescevano alberi d'alto fusto. Il giardino era percorso da due stradine acciottolate che si incontravano al centro, dove era posta una fontanella circolare con dei pesci. La stanza dell'ufficio era arredata con due tavoli rettangolari piuttosto grandi, sui quali erano poste delle macchine per scrivere ed un ciclostile; lungo un paio di pareti c'erano degli armadi contenenti libri e documenti; dal lato opposto alla porta, proprio di fronte ad essa, c'era una piccola scrivania e, al suo fianco, in posizione centrale, un'altra scrivania molto più grande. Dietro alla scrivania più grande c'era il maresciallo maggiore Arnaldo Giuliani, un marchigiano di Fano, una persona sulla cinquantina, piuttosto corpulenta, alta circa un metro e settanta, dalla carnagione scura, gli occhi neri e penetranti, i capelli lisci di colore nero ebano, ma con qualche capello bianco, pettinati alla mascagna. Egli aveva sotto il naso una grande spazzola che gli arrivava fino al labbro inferiore. Sembra che tenesse i baffi così lunghi per nascondere il fatto che era senza denti e che non amava portare la dentiera. Lo si capiva anche dal fatto che a volte, mentre era immerso nel lavoro, lo si vedeva muovere le mascelle, a indicare che si grattava le gengive. Oltre a lui nella stanza vi erano alcuni soldati seduti presso i tavoli ed intenti chi a scrivere a macchina, chi a mano.

Lasciai i miei dati personali direttamente al maresciallo Giuliani. Egli mi assegnò alla Compagnia Comando Reggimentale (CCR), l'unica attiva in quei giorni perché il reggimento era al campo sui monti di Alpago in provincia di Belluno. Desideroso di imboscarmi come avevo fatto in precedenza, prima di andarmene spiegai al maresciallo che al C.A.R. avevo lavorato in fureria, e gli chiesi se avesse bisogno di un dattilografo o scritturale. Egli mi rispose di andare a sistemarmi nella compagnia e poi di ritornare, che mi avrebbe messo alla prova.

Sceso al piano terreno, l'ufficiale di picchetto mi accompagnò ad una porticina situata sotto il pianerottolo della scala, la quale dava sul giardino alberato; da lì mi indicò la strada da percorrere per arrivare alla compagnia. Non ricordo se lui, o chi altri, mi fece notare che in quel reggimento bisognava andare sempre di corsa. Forse ciò era dovuto al fatto che si trattava di un reggimento di ex paracadutisti – sembra che gli ufficiali e sottufficiali più anziani fossero quasi tutti ex paracadutisti – e perciò si voleva sottolineare questa distinzione rispetto agli altri reggimenti di fanteria. Comunque fosse, di certo non avrei potuto correre avendo con me quel valigione, ma in altre situazioni sarei stato punito se fossi stato colto a camminare. Perciò percorsi camminando normalmente i duecento metri che separavano la palazzina del comando dalla CCR.

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29. Prima sveglia al reggimento

Questa compagnia occupava mezzo primo piano di un lungo capannone dalla volta ad arco, il cui piano terreno era riservato a magazzini, garage e per altri scopi. Si entrava da un'estremità del capannone. L'ingresso, a doppia altezza, dava ai lavatoi ed ai servizi igienici. Accanto alla porta d'ingresso, sulla destra, partiva una scaletta a due rampe non più larga di un metro e dieci. La prima rampa costeggiava il muro esterno, l'altra quello che separava la saletta d'ingresso dai lavatoi, Al primo piano la scala sfociava in un corridoio lungo cinque-sei metri, ai lati del quale si aprivano le porte degli uffici, in particolare quello della fureria. Il corridoio sboccava direttamente nella prima delle tre camerate. Non vi erano porte né dal lato della scala né da quello della camerata. Mi registrai in fureria. Lì mi fu detto a chi rivolgermi per le coperte e le lenzuola. Ottenuto l'occorrente mi sistemai nella prima camerata, al primo piano di un castello. Terminata ogni cosa era già l'ora del rancio. Era tardi per recarsi nell'ufficio maggiorità. Sia pure a malincuore perché ero impaziente di ottenere un impiego, cioè di imboscarmi, decisi che mi ci sarei recato l'indomani mattina.

Il mattino seguente alle sei e mezza ci fu la sveglia. Visto che mi trovavo in un ambiente nuovo, dopo essermi lavato e vestito decisi di rimanere in attesa. Poco dopo le sette fummo tutti radunati e condotti salterellando, gavettino in mano, alla mensa distante un'ottantina di metri dal capannone della compagnia. Il salterellare era il modo di correre quando si era inquadrati. Nel fare ciò, la cosa importante era non tanto di correre velocemente, ma di alzare bene le ginocchia. La sala mensa era un edificio ad un piano situato dalla parte opposta del giardino alberato rispetto alla palazzina del comando. Essa era fornita di lunghi tavoli, ai lati dei quali potevano trovare posto a sedere una dozzina di soldati. Oltre a varie finestre, nel centro di ogni lato della grande sala vi era una grande porta, una delle quali comunicava con le cucine, mentre, delle altre tre, una dava sul giardino alberato. Dopo che ci fummo seduti, un soldato portò del pane ed un altro passò di tavola in tavola con un pentolone e versò della cioccolata calda nei gavettini.

Verso le sette e mezza, dopo colazione, venimmo radunati fuori della mensa e quindi, sempre salterellando, fummo condotti nella piazza d'armi, un ampio piazzale rettangolare posto tra il lungo fabbricato ad un piano dello spaccio, la palazzina del secondo battaglione, in quel momento vuota, e due mura di cinta. Lo spaccio, in effetti, occupava solo un'estremità del fabbricato. Che cosa comprendesse il resto del lungo fabbricato non lo seppi mai, perché non fui mai un frequentatore dello spaccio, essendo che in genere preferivo trascorre il tempo libero fuori della caserma. Il terreno non era asfaltato. Subito mi resi conto del problema che sarebbe stato causato dalla polvere, se asciutto, e dagli schizzi d'acqua e fango in caso di pioggia. Dopo aver salterellato in lungo ed in largo per circa cinque minuti, venimmo disposti in più file, restando rivolti verso l'asta della bandiera che era posta presso il fabbricato dello spaccio. Ci fu ordinato di stendere le braccia e di allargarci in ogni direzione. Quindi un ufficiale prese a spiegarci gli esercizi da compiere e, di volta in volta, compiendo egli stesso gli esercizi, ci diede il ritmo scandendo i numeri: "Uno, due, tre, quattro, uno, due..." Facemmo ginnastica fin verso le otto. Allora fummo di nuovo radunati e posti sull'attenti in perfetto allineamento. La tromba squillò e fu alzata la bandiera. A quel punto fu dato il "sciogliete le righe". Da quel momento si fu liberi di andare per le proprie faccende. Preso il gavettino, tornai alla compagnia, lo lavai e lo riposi. Quindi mi recai all'ufficio maggiorità.

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30. Assunto nell'ufficio maggiorità

Quando giunsi in ufficio, il maresciallo non era ancora arrivato. Ebbi così il primo approccio con i soldati che sarebbero stati principalmente i miei compagni nei mesi successivi. Erano tre, due nonni di origine sarda ed un ferrarese della mia stessa anzianità di naia. Alle otto e mezza giunse il maresciallo. Affidati gli incarichi agli altri soldati, egli mi consegnò una lettera giunta da poco da parte del generale Moscati, comandante del terzo corpo d'armata, ed un manoscritto da dattilografare che doveva essere spedito a quello stesso corpo d'armata. Con tono duro la lettera del generale specificava in ogni dettaglio come doveva essere dattiloscritta la corrispondenza da spedire al corpo d'armata. Essa non doveva contenere né errori né cancellature. In caso di errore nel dattilografare si sarebbe dovuto riscrivere tutto il documento. Un'altra regola da rispettare era quella di anteporre i nomi ai cognomi e di scrivere questi ultimi in caratteri maiuscoli. Così, anziché Giuliani Arnaldo, si doveva scrivere Arnaldo GIULIANI (questa regola mi piacque e a tutt'oggi l'applico molto spesso). Subito mi misi al lavoro. Su indicazione dello stesso maresciallo dattilografai la lettera con estrema lentezza, stando ben attento a non commettere alcun errore. Terminato di scrivere consegnai il foglio al maresciallo. Egli lo esaminò attentamente. Trovatalo soddisfacente, mi assunse. Da quel momento in poi avrei prestato servizio nell'ufficio maggiorità come dattilografo e scritturale.

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31. Ambiente nuovo, problemi nuovi

Raggiunto lo scopo dell'imboscamento, ora dovevo pensare anche alle altre mie necessità. La prima era quella della barba. Durante l'intervallo di mezzogiorno chiesi ai compagni d'ufficio dove avrei potuto trovare una presa di corrente. Non lontano dall'ufficio maggiorità c'era lo stanzino dell'attendente del colonnello del reggimento e lì, mi fu detto, c'era una presa di corrente. Contattai subito l'attendente, Luigi Visentin, un veneto. Con lui feci subito amicizia. Egli stava di servizio in uno stanzino situato nello stesso piano dell'ufficio maggiorità, presso la fine del corridoietto che portava all'ufficio del colonnello. Lì egli aveva un ferro da stiro ed un piccolo fornello elettrico, tutte cose ereditate da chi l'aveva preceduto in quella mansione. Era anche equipaggiato con del caffè solubile, tazzine di carta e tutto il necessario per preparare delle bevande calde. Mi disse che avrei potuto servirmene liberamente, facendo di volta in volta una piccola contribuzione per sopperire alle spese. Gli parlai del rasoio elettrico. Mi disse di andare a prenderlo. Allora corsi subito alla compagnia, presi il rasoio, lo portai nello stanzino e mi rasi. Al ritorno in ufficio nel primo pomeriggio ero soddisfatto: non era ancora trascorso un giorno dal mio arrivo nel reggimento e già le cose si stavano sistemando. Le principali necessità, quelle dell'imboscamento e della barba, erano risolte. Per di più avevo trovato dei buoni amici con cui trascorrere il tempo libero. C'era un altro problema che mi stava a cuore di risolvere, quello delle adunate mattutine, ma la soluzione non sarebbe tardata ad arrivare.

Il mattino successivo mi comportai come quello precedente. Partecipai all'adunata e mi recai saltellando in refettorio assieme agli altri soldati. Quella mattina, però, non servirono cioccolata calda, ma caffellatte. Rifiutai il caffellatte e mangiai solo il pane. Il non aver trovata la cioccolata, che era il motivo principale per cui avrei desiderato recarmi al rancio mattutino, mi spinse ancora di più a cercare una soluzione alle adunate, tanto più che dopo il rancio bisognava andare a saltellare e fare ginnastica sul piazzale sterrato, con ciò che avrebbe comportato per i vestiti e le scarpe. Quella mattina decisi che nei giorni successivi sarei scappato via prima dell'adunata. Dato che non veniva fatto l'appello, calcolai che le persone incaricate di radunare i soldati non si sarebbero accorte della mia assenza. Così, la mattina successiva, non appena suonò la sveglia, mi alzai in fretta, mi lavai e corsi in ufficio. Lì trovai i due nonni sardi, Graziano Cossiga e Giuliano Desogus; anche loro non amavano partecipare all'alzabandiera. Subito diressi la conversazione su di essa. Feci notare che avrei desiderato partecipare al rancio quando veniva distribuita la cioccolata, ma che per non partecipare all'alzabandiera ero costretto a scappare via e rinunciare alla colazione.

I sardi erano due persone simpatiche. Dei due, Graziano Cossiga era oltre che simpatico anche un gran furbone; egli era un tipo sempre allegro che sapeva trovare gli aspetti divertenti di ogni cosa e che sapeva anche evitare tutto ciò che non gli andava a genio. Divenne all'istante il mio principale amico e istruttore. Saputo del problema, che era anche il suo, mi disse che non era necessario saltare il rancio. Per evitare l'alzabandiera bastava mettersi a sedere presso la porta più lontana dalle cucine, presso le quali usualmente sedeva l'ufficiale che ci avrebbe condotti inquadrati al piazzale principale, dove si sarebbero svolte le marce e le esercitazioni. Come sarebbe stato dato l'attenti alla fine del rancio, nascosti dai soldati in piedi ci si sarebbe recati in fretta alla porta e si sarebbe corsi in ufficio. Lui lo faceva regolarmente quando partecipava alla colazione. Riguardo alla cioccolata, l'ufficio maggiorità dattilografava e distribuiva giornalmente alle compagnie il menù del giorno dopo. Mediante esso avrei potuto sapere in anticipo che cosa sarebbe stato servito ai pasti, inclusa la colazione.

Così, il primo giorno che seppi che sarebbe stata servita la cioccolata, partecipai all'adunata assieme a Cossiga e mi sedetti nella sala mensa accanto a lui. Ci sedemmo presso la porta opposta alle cucine. Finita la colazione, come venne dato l'attenti, egli si alzò e si diresse alla porta. Immediatamente, lo seguii. Percorremmo di corsa la sessantina di metri che separavano il refettorio dalla palazzina del comando e salimmo in ufficio. Tutto si svolse esattamente come previsto. A partire da quel giorno, per circa sei mesi agii sempre in questa maniera finché... finché a dicembre non avvenne qualcosa che mi spinse a cambiare programma. Perché? Che cosa accadde? A queste domande risponderò quando giungerò a descrivere quel periodo.

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32. Vita di reggimento ed un incidente

Ora la mia vita di caserma aveva preso un ritmo standard: sveglia alle sei e mezza, riparo in ufficio, lavoro dalle otto e mezza a mezzogiorno e dall'una alle cinque, intrattenimento nei momenti liberi con gli amici che lavoravano nella palazzina del comando, alla sera regolarmente in libera uscita, con ritorno dopo il silenzio, che veniva dato alle dieci. Mi potevo permettere questo perché disponevo di un tesserino di cui erano dotati tutti i soldati in servizio nel comando, il quale ci permetteva di uscire a qualsiasi ora della giornata e di intrattenerci fuori della caserma più a lungo degli altri. In tal modo probabilmente evitai molti incidenti con i nonni. Infatti, quando tornavo trovavo sempre la camerata addormentata. L'unico incidente di cui fui testimone avvenne pochi giorni dopo il mio arrivo nel reggimento. Una notte fui svegliato da un paio di gocce d'acqua sul viso e dal successivo fracasso di un secchio di metallo che balzellava e rotolava sul pavimento. Aperti gli occhi, feci appena in tempo a vedere una figura che fuggiva verso le camerate dei più anziani di naia. Si era trattato di un gavettone d'acqua di cui era rimasto vittima il soldato che dormiva sulla branda alla mia destra. Questi si alzò mogio mogio, senza pronunciare invettive; in silenzio tolse il lenzuolo e lo scrollò sul pavimento. Dopo che ebbi chiusi gli occhi, lo udii trafficare per alcuni minuti; infine tutto tacque.

Durante quel paio di settimane che alloggiai alla CCR (Compagnia Comando Reggimentale) subii anche un paio di incidenti dovuti al fatto che fin dal primo giorno avevo preso l'abitudine di andare sempre di corsa. Lo facevo non solo perché era un comando, ma perché mi piaceva. Mentre gli altri correvano svogliatamente nel cortile, saltellando come facevano durante le marce, io invece correvo a perdifiato, non solo nel cortile, ma anche nei fabbricati, salendo e scendendo le scale a due-tre-quattro gradini per volta. Però, come ti ho già spiegato, la scala della compagnia era composta di due rampe molto ripide. Questo fatto, oltre che rendere un poco più difficoltosa la salita, costituiva un vero pericolo durante la discesa. Così ben presto avvenne che nello scendere appoggiai malamente un piede e persi l'equilibrio. Per mia fortuna fui desto nell'afferrare con la mano destra la ringhiera, così che non ruzzolai. Perso l'equilibrio, feci una piroetta ruotando attorno alla mano che mi sosteneva. Il danno che subii fu di ritrovarmi con la caviglia sinistra slogata. Nonostante ciò non marcai visita e nel giro di qualche giorno il dolore passò. Purtroppo, non passarono molti giorni che la cosa si ripeté esattamente come la prima volta. A quel punto ritenni opportuno usare maggior prudenza nello scendere le scale. Anche in questa seconda occasione il piede guarì da solo, ma rimase leso in una certa misura, per cui a volte, se non sto attento esso tende a ruotare verso l'interno, slogarsi e farmi cadere.

Il peggiore di questi incidenti accadde circa una dozzina d'anni fa. Mi ero recato a Marostica (Vicenza) in compagnia di Luca, la sua fidanzata di allora, Adriana, Alfonso (il giovane che conoscesti alla stazione di Padova), Giorgio ed un nigeriano. Avevamo appena percorso a piedi una stradina che fiancheggiava la cittadina e ci eravamo fermati in uno spiazzo erboso per osservare il panorama dall'alto, quando all'improvviso (ero fermo in piedi) il piede sinistro ruotò verso l'interno. L'azione fu così improvvisa e inaspettata che non riuscii ad alleggerirgli il peso, né a riacquistare l'equilibrio. Vidi il cielo ruotare e caddi sull'erba di schiena. Era inverno e portavo il paletot. Questo attutì in parte il colpo. Ai compagni che volevano aiutarmi ad alzarmi dissi di attendere. Volli accertarmi di non avere qualche osso rotto. Dopo qualche secondo mi resi conto che solo il piede si era in qualche modo danneggiato, perché produceva un dolore terribile. Con difficoltà tornai alle macchine. Quella sera durante la cena con gli amici fui colto da malore e fui sul punto di perdere i sensi. Era sabato sera. Mi sarei recato dal medico il lunedì successivo? No. Invece, nei giorni che seguirono prestai personalmente particolare attenzione al piede. Si vedeva del sangue sotto la pelle. Notai inoltre che esso poteva ruotare liberamente di parecchi gradi verso destra. Probabilmente era uscito un osso dal suo alloggiamento. Perciò ad ogni occasione, giorno dopo giorno, continuai a esercitare forza sul piede in modo spingerlo verso sinistra. Trascorsero un paio di mesi, il piede smise di ruotare; era guarito. Ora, specie se sono stanco, sto bene attento a che non ruoti.

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33. In servizio di guardia presso la porta carraia

Nel periodo in cui il reggimento si trovò al campo, essendo la caserma in forza minima, furono affidati dei servizi anche ai soldati impiegati al comando. A me capitò di dover compiere un servizio di guardia notturna alla porta carraia. Quando ne fui informato rimasi scioccato, perché dal momento della mia assunzione quale dattilografo avevo sperato che non avrei mai dovuto compiere servizi. Alla fin fine, però, l'esperienza non fu così brutta come me l'ero immaginata. Mi fu detto di presentarmi verso le dieci nel locale della guardia situato nello stesso fabbricato che ospitava la CCR, ma all'estremo opposto rispetto alla sua entrata. Dieci minuti alle dieci ero lì. Trattandosi della mia prima esperienza, mi presentai vestito normalmente, cioè con camicia e pantaloni, ma con gli anfibi ai piedi al posto delle normali scarpe. In effetti non c'era bisogno di indossare niente di particolare, se non per il fatto che di notte avrebbe fatto freddo e che sarebbe stato bene mettere qualcosa sotto la camicia. Me lo disse il caporale capo della guardia quando mi presentai, ma non gli diedi ascolto e non tornai nella camerata per provvedere in merito. Tra l'altro, in quel tempo ero solito non indossare nemmeno la canottiera, e fu con tale minimo abbigliamento che mi presentai al posto di guardia.

Quando giunsi, il caporale stava parlando ai due soldati arrivati prima di me; stava dando loro le istruzioni riguardo al servizio e le parole d'ordine. Stabilito che le nove ore che andavano dalle dieci di sera alle sette di mattina sarebbero state fatte con turni di tre ore, assegnò a ciascuno il proprio turno. A me affidò il secondo, quello dall'una alle quattro. Fatto questo, egli si recò con il primo soldato alla porta carraia, situata ad una sessantina di metri dal posto di guardia. Prima di andare ci consigliò di metterci subito a dormire, perché altrimenti all'indomani ne avremmo sentite le conseguenze. Così facemmo. Come lui se ne andò, senza attendere il suo ritorno, io e l'altro soldato ci sdraiammo sulle brande che erano nello stanzino della guardia. Non c'erano lenzuola, ma potevamo prendere delle coperte poste sopra una branda vuota. Inizialmente non ne feci uso, ma dopo un po' dovetti prenderne una e coprirmi, perché la porta dello stanzino doveva rimanere aperta. Fu difficile prendere sonno, sia per il fatto che ero vestito e con gli anfibi ai piedi, sia perché senza coperta avevo freddo, mentre, se mi coprivo, entro breve tempo dovevo tornare a scoprirmi. Quindi, non ci fu modo di stare comodi. In quelle prime tre ore riuscii a dormire solo per qualche breve tratto. Poi all'improvviso, proprio durante uno di quei brevi tratti di sonno il caporale mi pose una mano su una spalla e mi svegliò; era venuto il mio turno. Che velocemente che erano trascorse quelle prime tre ore! Essendo riuscito a prendere sonno avrei desiderato poter dormire ancora per un po'.

Subito mi alzai. Preso il fucile, lo seguii. Ci dirigemmo verso la porta carraia camminando affiancati e mantenendo lo stesso passo cadenzato. Giunti ad una decina di metri dal posto di guardia il soldato ci diede l'alt, nonostante ci avesse riconosciuti; poi chiese la parola d'ordine. Il caporale gliela disse. Quello rispose con la controparola; quindi ci disse di avanzare. Giunti presso di lui, il caporale fece il cambio secondo l'etichetta militare, dando ora a me, ora all'altro soldato l'ordine di avanzare di un passo, di voltarsi, ecc. Come ebbi preso il posto del soldato che avrei sostituito, il caporale diede il dietro-front all'altro soldato e quindi partirono. Ora mi attendevano tre ore da trascorrere da solo.

Il luogo era rischiarato da alcune lampadine. Ad una decina metri dalla porta carraia c'era un piccolo fabbricato ad un piano, il posto di guardia diurno. Ora era chiuso. La notte era molto fredda, nonostante si fosse a luglio. Mi posi presso il fabbricato al riparo dalla brezza fredda di nord-est ed attesi. Ad ogni minimo movimento del corpo il contatto con i pantaloni e la camicia mi facevano rabbrividire. Per evitare il contatto con la stoffa fredda assunsi una posizione perfettamente immobile, simile all'attenti. In questo modo si vennero a creare dei cuscinetti d'aria sia dentro i pantaloni che sotto la camicia, i quali si intiepidirono e mi protessero dal freddo. La notte inoltre era buia e senza luna, ma la porta ed un certo tratto di muro di cinta erano ben illuminati. Il luogo che avevo scelto era riparato dall'aria e mi permetteva di vedere senza muovermi sia la porta carraia che il muro di cinta fin dove giungeva la luce.

Si era negli anni della guerra fredda, il confine non era molto lontano e il Friuli era una regione molto militarizzata, perché doveva essere in grado di fronteggiare un improvviso attacco dall'est. Riflettendo su questo fatto, cominciai a immaginare che qualcuno, il nemico, tentasse di scavalcare il muro per impadronirsi della caserma. Mi chiesi che cosa avrei fatto se avessi visto qualcuno affacciarsi sopra il muro o la porta carraia. Il fucile che avevo era scarico; non c'erano state date le munizioni perché – si diceva – tempo addietro due soldati di guardia lungo il recinto si erano sparati a vicenda ed uno di loro era rimasto ucciso. D'altra parte, mi dissi, se fosse stata fatta una sortita, sicuramente chi l'avesse fatta non sarebbe stato solo. Perciò, anche con il fucile carico avrei potuto fare ben poco. In tal caso, la cosa migliore da fare sarebbe stata di lanciare subito l'allarme e trovare un riparo. Anche se mi rendevo conto che questi pensieri erano solo fantasie, tuttavia essi mi inquietavano. La notte e la solitudine mi facevano paura e mi portavano a pensare a queste eventualità.

Per liberarmi dai pensieri negativi decisi di rivolgere la mente alla matematica. Mi misi a fare dei calcoli, cercando di immaginare un metodo per risolvere le equazioni di terzo grado. Come nell'infermeria, senza carta e penna potevo fare ben poco, ma tale attività mi diede il modo di trascorrere il tempo senza pensare a ciò che avrebbe potuto succedere nel caso di un attacco da parte del nemico. Il tempo trascorreva lentamente. Io continuavo a rimanere perfettamente immobile, perché ad ogni minimo movimento la stoffa ghiacciata mi toccava la pelle, ed il contatto non era per niente piacevole. Di tanto in tanto tornavo in me. Allora giravo gli occhi attorno, senza muovermi, per vedere se qualcuno stesse tentando di scavalcare il muro o la porta carraia. Nel perlustrare i dintorni con lo sguardo rimanevo totalmente immobile, non solo per il freddo, ma anche perché se mi fossi girato per guardarmi attorno mi sarebbe parso di apparire impaurito ad un osservatore che fosse stato a spiarmi. Muovendo solo gli occhi, invece, quello mi avrebbe visto fermo e tranquillo, per niente impaurito e sicuro di sé. In questa maniera trascorsi circa due ore. All'improvviso, verso le tre, udii dei passi. Qualcuno si stava avvicinando. Per un istante fui colto da un brivido, ma subito mi ripresi. Volsi l'attenzione nella direzione da cui udivo venire i passi e sollevai il Winchester con la baionetta innestata.

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34. Ispezione

Pochi istanti dopo vidi due persone avvicinarsi. Era il caporale accompagnato dal capitano d'ispezione. Come giunsero ad una decina di metri pronunciai ad alta voce:

— Alt! Chi va là!

Mi rispose il capitano con voce calma e bassa:

— Ispezione.

— Parola d'ordine, — dissi, mantenendo un tono di voce piuttosto alto.

— Gallarate, — rispose il capitano con lo stesso basso tono di voce.

Allora gli diedi la controparola:

— Mondovì.

Pronunciai la controparola abbassando la voce. 'Non si sa mai', pensai tra me. 'Ci potrebbe essere qualcuno in ascolto dietro il muro'. Dopo aver dato la controparola, aggiunsi rialzando la voce:

— Potete venire avanti.

Quindi abbassai il Winchester. Il capitano ed il caporale mi si avvicinarono. Giuntimi accanto, il capitano chiese di ispezionare il fucile. Operando secondo le disposizioni ricevute, staccai la baionetta e glielo porsi, offrendoglielo dalla parte della canna. Egli lo esaminò per qualche istante e quindi me lo restituì, offrendomelo pure dalla parte della canna. Allora battei con la baionetta sulla canna affinché lo voltasse. Egli lo voltò e me lo porse dalla parte del calcio. Poi mi chiese di esaminare la baionetta. Gliela porsi, tenendo la punta rivolta verso di lui. Egli la prese, la rigirò tra le mani per un istante e tornò a ridarmela, offrendomela dalla parte della punta. Con la canna del fucile battei contro la lama finché non voltò la baionetta e mi porse il manico. Allora la presi e tornai ad infilarla sulla canna del fucile. Fatto questo, il capitano e il caporale si volsero e se ne andarono. Avevo agito esattamente secondo le istruzioni ricevute; tutto si era svolto per il meglio. Al termine dell'ispezione provai la soddisfazione che si acquista giocando, quando tutto va per il verso diritto. In quel momento il servizio militare era solo un gioco per me e provavo piacere ad agire secondo le regole stabilite.

Come il caporale ed il capitano se ne furono andati, mi ritrovai solo con gli stessi problemi che avevo avuto fino al loro arrivo. Per evitare pensieri che avrebbero potuto recarmi timore tornai ad immergere la mente in calcoli matematici, risolvendo equazioni di terzo grado relative a casi particolari di cui avevo scoperto le formule risolutive. L'ultima ora passò in fretta. Alle quattro si ripresentò il caporale in compagnia del soldato che mi avrebbe sostituito. Altra trafila con l'alto là, la parola e la controparola d'ordine e quindi il cambio. Tornato nella stanzetta del posto di guardia mi stesi sulla branda e mi sforzai di dormire. Nonostante la scomodità riuscii a dormire a tratti in misura maggiore che nella prima parte della nottata. Infine, alle sette ci fu detto che potevamo andare. Tornato in compagnia, mi tolsi gli anfibi, cambiai i vestiti e mi lavai. Quindi mi recai di corsa in ufficio. Ero un po' stanco, ma meno di quanto avessi temuto il giorno prima.

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35. Trasferimento alla compagnia mortai reggimentale

Qualche giorno più tardi il reggimento ritornò dal campo. Allora tutti i soldati che erano risieduti temporaneamente nella CCR (Compagnia Comando Reggimentale) furono trasferiti alle rispettive compagnie di appartenenza. Poiché la mia qualifica era di osservatore goniometrista, una specialità associata ai mortai, fui aggregato alla CMR (Compagnia Mortai Reggimentale da 107). Questa compagnia era situata in un capannone parallelo alla CCR, con ingresso dalla parte opposta del capannone ed era un po' più lontana della prima dall'ufficio in cui lavoravo. I capannoni erano lunghi almeno un'ottantina di metri, per cui venni a trovarmi quasi alla parte opposta della caserma rispetto all'ingresso principale. La costituzione interna del fabbricato era esattamente l'immagine speculare della CCR, a parte la porta d'ingresso, che era di lato. Come nell'altra compagnia, vi era un ampio ingresso, con la scaletta composta da due rampe; di fronte all'ingresso i gabinetti e i lavatoi; al piano superiore la fureria, un paio di altri uffici e tre grandi camerate.

La notte prima del trasloco mi fu rubato il cinturino estivo, il bel cinturino dei pantaloni che si usava d'estate per andare in libera uscita, oppure quando a motivo dell'incarico ci si doveva vestire bene. Per me quel cinturino era indispensabile, visto che lavoravo in un ufficio del comando. Così dovetti andare subito a prenderne un altro al deposito. Caso strano, mi fu consegnato un cinturino nuovissimo. Perché dico questo? Perché in genere i cinturini erano corti, non perché lo fossero per costruzione, ma perché di solito i soldati li tagliavano alla lunghezza strettamente necessaria. Quello che mi fu consegnato, invece, essendo veramente nuovo, era tanto lungo che potevo fargli compiere quasi due giri attorno alla vita. Io comunque non lo tagliai e di volta in volta lo infilavo sotto tutti i passanti dei pantaloni. Questo fatto, per quanto di poco conto, avrebbe significato qualcosa per me nei mesi successivi.

Quando andai a registrarmi nella fureria della CMR fui accolto da un maresciallo maggiore strafottente di cui non ricordo il nome, un uomo di circa quarantacinque anni, dotato di un gran trippone, il quale fin dal primo momento si diede a prendermi in giro, dicendo ad ogni occasione e sforzandosi di ostentare un forte accento veneto:

— Ciò! Ciò Tiongreis!

Io non gli diedi peso e non reagii in alcuna maniera. Ma lui, sia in quella prima occasione sia ogni volta che gli capitava di vedermi transitare davanti all'ufficio della fureria, non faceva che ripetere verso di me:

— Ciò! Ciò Tiongreis! Ciò!

Incuriosito dal suo comportamento mi chiesi di che regione fosse. Dopo qualche tempo venni a sapere che era veneto.

Col tempo egli si accorse che avevo un cinturino nuovo, non accorciato. Allora mi chiese di scambiarlo con il suo. Quello che indossava giungeva a malapena a fare il giro della pancia e d'altra parte non voleva comperarne uno nuovo. Gli risposi di no. Così, ogni volta che mi vedeva, invece di "ciò" prese a dire:

— Tiongreis, dammi il cinturino! — al che continuavo a rispondergli: — No, maresciallo.

Il tono di beffa che aveva sempre mostrato nel pronunciare "ciò" fu sostituita da un tono di rabbia che andò aumentando ogni volta che mi vedeva. Ma io non cedetti. La cosa andò avanti fin verso dicembre. Poi avvenne un fatto nuovo che a suo tempo ti racconterò.

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36. Il personale dell'ufficio maggiorità

Frattanto in ufficio mi ero familiarizzato con l'ambiente. Dei soldati, ti ho già descritto in parte Graziano Cossiga, di cui non conosco il titolo di studio, e Giuliano Desogus, un geometra, entrambi di origine sarda, anche se Cossiga risiedeva a Torino. Perciò egli era sardo-piemontese. Simpaticissimo e di una loquacità straordinaria Cossiga era il promotore di ogni iniziativa. Ben presto divenimmo pressoché inseparabili. In libera uscita uscivamo quasi sempre assieme. Qualche volta ci accompagnava Desogus. Questi era di poche parole, parlava meno di me, ma era sempre pronto a fare una breve risatina in risposta alle frequenti battute di Cossiga. Il terzo soldato in ufficio con noi, Aaronne Levi, era un geometra ferrarese del mio stesso scaglione. Egli non aveva amicizie al comando, nonostante cercasse di mostrarsi amichevole con tutti. I suoi discorsi ed i suoi sorrisi, però, erano sempre sarcastici, pieni di ironia e ad ogni paio di parole egli alternava una bestemmia o una parola oscena; inoltre fumava come un turco. Forse a motivo dei suoi vizi era magro, incartapecorito e dimostrava il doppio dell'età che aveva. Credo che partecipasse regolarmente all'alzabandiera, perché in genere si presentava in ufficio solo durante gli orari di lavoro. Al di fuori di essi lo si vedeva raramente.

Come già sai, l'ufficio era diretto dal maresciallo maggiore Arnaldo Giuliani, un marchigiano di Fano. Questi era una persona molto benvoluta da tutti. Quando dei maggiori o colonnelli di altri reggimenti venivano a colloquio con il colonnello del nostro reggimento spesso si fermavano prima a conversare con lui. Le loro conversazioni erano amichevoli come tra vecchi amici, nonostante di solito esistesse una barriera tra ufficiali e sottufficiali. Io mi chiesi più volte se non ricoprisse una carica più alta, segreta. Infatti, oltre al grado di maresciallo maggiore so che esiste una categoria di marescialli con incarichi speciali. Perciò a volte mi chiedevo se egli non fosse una di questi e che incarico avesse.

Accanto alla scrivania del maresciallo ce n'era un'altra più piccola. Quando giunsi al reggimento non c'era nessuno dietro a quella scrivania, perché la persona che normalmente l'occupava era temporaneamente assente. Questi era il sergente maggiore Giacomazzi, un campano della provincia di Salerno. Biondo, con i capelli un po' ricci, sulla trentina, tozzo e un po' più basso di me, era una persona molto abbordabile, nel senso che non faceva mai pesare il suo grado nei nostri confronti. Ci si rivolgeva a lui chiamandolo maggiore, nonostante questo fosse un titolo che spettava agli ufficiali, ma non ci fu mai nessuna obiezione al riguardo né da parte sua né da parte del maresciallo. Forse era usanza chiamare così i sergenti maggiori, considerandola come un'abbreviazione del titolo.

Il diretto superiore del maresciallo, il capitano Vittorio La Fede, aiutante maggiore in prima, cioè aiutante di campo del colonnello comandante del reggimento, era originario di Taranto e lavorava nell'ufficio accanto. Il suo ufficio era dirimpetto alla scala, all'inizio del corridoio che portava all'ufficio del colonnello. Quindi era praticamente porta a porta con l'ufficio maggiorità. Fra il capitano e il maresciallo pare che non scorresse buon sangue, anche se cercavano di nasconderlo. Per qualche motivo che non conosco il maresciallo non nutriva molta stima nei confronti del capitano, e questi usava sempre molto tatto nel trattare con il maresciallo, quasi che lo temesse, anche se gli dava del tu, in quanto suo subordinato. A prima vista questo atteggiamento avrebbe potuto apparire come semplice rispetto, ma dopo che Cossiga me l'ebbe fatto notare dovetti convenire che aveva ragione. Quando veniva lui direttamente a passi veloci per chiedere qualcosa senza chiamare me pronunciando a voce alta "Tiongreis!" (le porte degli uffici erano sempre aperte), egli si rivolgeva al maresciallo dicendo con un tono che sembrava più una richiesta di favore che un comando:

— Giulia', fammi questo, fammi quest'altro. — E subito se ne usciva con lo stesso passo veloce.

Il capitano La Fede, di circa 35 anni, era un po' più basso di me e dotato di una corporatura robusta. Guardandolo di spalle, sembrava di vedere due persone affiancate, tanto era largo il suo torace. Era una persona molto ligia al suo lavoro e nel parlare sapeva usare a seconda dei casi sia un tono dolcissimo che molto forte. Con questo intendo dire che quando si arrabbiava urlava in modo tale che lo si udiva in tutta il palazzina... e oltre. Il tono più dolce lo si udiva specialmente quando riceveva telefonate dalla moglie. Nonostante fosse sposato da alcuni anni, quando lei gli telefonava egli si trasformava tanto che sembrava una persona appena tornata dal viaggio di nozze. Con me usava quasi sempre un tono di voce piuttosto dolce. Tornerò a parlarti di lui quando figurerà in qualche episodio. Fin dai primi giorni egli mi prese in simpatia e, forse per questo motivo, quando c'era da andare nel suo ufficio per qualche pratica il maresciallo mandava me. Il capitano aveva anche un'altra caratteristica: non si pettinava mai. I suoi capelli castano scuri e lisci erano sempre corti, ma scarmigliati. Dopo alcuni giorni dal mio arrivo nel reggimento smisi anch'io di pettinarmi, forse perché lo ammiravo e volevo assomigliargli. Probabilmente nel reggimento noi eravamo gli unici due matti con i capelli costantemente aggrovigliati.

A completare il quadro del nostro ufficio, c'era il colonnello comandante del reggimento, Armando Munari. Grassottello, non molto alto, era sempre serio, e forse anche per questo motivo incuteva parecchio timore. Lo si vedeva raramente, perché come giungeva al comando si ritirava subito nel suo ufficio. Ti racconto subito un'esperienza che ebbi con lui.

Mentre camminavo a ridosso della palazzina del 1º battaglione, a fianco del giardino alberato, un giorno, visto che non c'era nessuno nei dintorni, decisi che per una volta avrei percorso camminando gli ultimi dieci metri che mi separavano dall'angolo della palazzina. Poi avrei ripreso a correre. Giunto presso l'angolo, stavo già per mettermi a correre quando vidi ad una decina di metri il colonnello ed il maggiore capo dell'ufficio O.A.I.O. che mi venivano incontro. Anche loro mi videro. La mia reazione fu istantanea: invece di mettermi a correre decisi di continuare a camminare. Giunto a tre metri da loro li salutai bellamente. Il colonnello non mi guardò, né mi salutò, ma era nero in volto. Il maggiore mi fissò nel salutarmi, ma vidi che sudava freddo. Fatto qualche altro passo, come li vidi voltare l'angolo, ripresi a correre. Per il resto del tempo che trascorsi nel reggimento, ad eccezione di una sola volta, non avrei più camminato dentro la caserma.

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37. Trasferimento a Villa Vicentina per il corso di specializzazione

Si giunse alla seconda settimana di agosto. Come ho già riferito, mi era stato assegnato l'incarico di osservatore goniometrista. Ciò comportava che frequentassi un corso, dopodiché avrei ricevuto il grado di caporale. Dopo qualche altro mese sarei stato nominato caporale maggiore ed infine sarei stato congedato con il grado di sergente. Tutto questo mi lusingava, ma nello stesso tempo mi impensieriva. Infatti, prima o poi avrei dovuto fare il campo. Che cosa avrei mangiato durante quel periodo? Inoltre sono di costituzione debole: a quali fatiche sarei stato sottoposto? Comunque, per quanto possibile cercai di evitare di pensarci. A ciò mi fu di aiuto una piccola biblioteca di cui era dotata la fureria della compagnia in cui fui trasferito.

Il corso ebbe luogo a Villa Vicentina, un paesino a circa cinque chilometri da Cervignano del Friuli. Vi fui trasferito un lunedì mattina. La caserma era più piccola di quella di Cervignano; in essa risiedeva il primo battaglione dello stesso reggimento "Nembo" a cui appartenevo. Tutte le compagnie erano alloggiate nella palazzina del comando situata presso il fronte strada. Io fui assegnato ad una compagnia che occupava il piano rialzato della palazzina. Come dicevo, fin dal mio arrivo scoprii che in fureria c'era uno scaffale pieno di libri di fantascienza di cui ero ghiotto. Poiché il corso si teneva di pomeriggio, ed essendo che quale partecipante al corso non dovevo compiere alcun servizio, presi l'abitudine di trascorrere tutte le mattine ed ogni altro momento libero leggendo i romanzi tratti da quella libreria. Ciò m'impedì di pensare a cose spiacevoli e nello stesso tempo mi fu di grande diletto.

Il corso si svolse in una stanza di una casetta ad un piano posta all'altra estremità della caserma. Poiché faceva caldo, quando non c'era bisogno della lavagna si andava fuori e ci si sedeva per terra all'ombra di un albero accanto alla casa. La prima settimana di corso consisté in lezioni di trigonometria, a me allora ignota. Per gli altri partecipanti, che erano tutti ingegneri o geometri, le cose erano sicuramente ben note. Però nessuno mostrò impazienza mentre l'insegnante, un capitano sulla cinquantina coadiuvato da un tenente veneziano, Bonantonio, spiegava la materia. Devo dire che quel capitano era un insegnante molto bravo – certo, non era la prima volta che teneva quel corso – e io seguivo la lezione con molta attenzione, non perdendo neanche una parola di quello che diceva. Quelle cognizioni mi sarebbero tornate utili due anni più tardi quando mi sarei preparato per sostenere l'esame del terzo anno di geometra.

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38. La vita a Villa Vicentina

Nella caserma, come tu sai, incontrai Daniele Facciolati, figlio di Maria detta Santona, un ex compagno di scuola delle elementari. Egli prestava servizio in quella caserma. Fu lui a scoprirmi il mercoledì in sala mensa al termine del rancio di mezzogiorno. Quella sera uscimmo assieme. Mi portò in una specie di agriturismo situato ad un paio di chilometri fuori del paese. Era una casa colonica dove vi erano nel cortile dei rozzi tavoli e panchine lunghi 4 - 5 metri poggianti su pali conficcati per terra. Al nostro arrivo vi erano già alcuni militari. In breve tempo vi fu ressa. Venivano offerti in continuazione, oltre al pane ed alla polenta abbrustolita, uova sode, prosciutto, melone, mortadella, salsicce, formaggio ben stagionato, bibite gassate e non, il tutto a volontà, come in una specie di smorgasbord. Non appena mancava qualcosa bastava gridare: "Manca la polenta!" oppure: "É finita l'aranciata!" E subito giungeva il padrone o la padrona di casa con le cose richieste. Trovai tutti i cibi molto buoni ad eccezione della mortadella, che nemmeno assaggiai. Perfino il formaggio, che io non amo, era buono. Un formaggio simile mi capitò di mangiarlo solo in Canada. Era un formaggio tenero che Severino Giovenale acquistava in forme e faceva invecchiare in casa per alcuni mesi tenendolo al fresco in cantina, mantenendolo costantemente coperto di olio misto a pepe e togliendovi di tanto in tanto la muffa che si creava sopra. Prova a farlo anche tu. Un formaggio del genere non è paragonabile con quelli che si comprano. Dopo che ci fummo rimpinzati per bene andammo a pagare. Quale sorpresa quando ci chiesero solo poco più di trecento lire, pressappoco la metà di quello che avevo speso a Casale per mangiare una bistecchina con delle patatine fritte e bere mezzo litro di acqua minerale. Per me quella fu una serata memorabile, paragonabile ad una festa, e mi ripromisi di ritornare. Purtroppo non ne ebbi più l'opportunità.

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39. Un obice molto pesante

Sabato venne svolta l'ultima lezione; riguardava l'applicazione pratica di ciò che si era imparato durante la settimana. A tale scopo vennero portati presso la casetta all'altra estremità della caserma un mortaio da 81 ed un teodolite, e a turno ci applicammo a determinare angoli e distanze e a calcolare i dati da fornire al mortaista. Ovviamente, in quell'occasione non si sparò, ma ci fu detto che il lunedì successivo si sarebbe andati a fare il campo, dove avremmo veramente messo in pratica tutto quello che avevamo imparato e si sarebbero effettuati dei tiri con il mortaio. L'annuncio mi lasciò desolato per i motivi già citati, ma d'altra parte non c'era niente che potessi fare per evitare l'esercitazione al campo.

Giunta l'ora della mensa serale si dovette portare indietro il teodolite ed il mortaio. Si era in tanti e non avrebbero dovuto esserci problemi a trasportare il mortaio, che si divideva in due pezzi, la piastra di base e l'obice. Per qualche motivo che non conosco, in pochi istanti sparirono tutti i partecipanti e mi ritrovai a dover portare indietro l'obice tutto da solo. Tenendo in mente il campo e le fatiche che avrei dovuto sopportare, pensai che avrei dovuto cercare di arrangiarmi, se non altro per rendermi conto di quali fossero le mie effettive capacità. Così afferrai l'obice e feci per alzarlo, ma era pesante e mi sfuggiva di mano. Allora, afferratolo vicino alla bocca, con uno strappo lo spostai di un metro. Poi di un altro metro. Dato lo sforzo fatto dovetti fermarmi per riprendere fiato. Dopo qualche altro metro riflettei e decisi che se fossi riuscito a porlo sugli avambracci disposti a mensola avrei potuto trasportarlo camminando. Così feci, ma, percorsi alcuni metri, dovetti lasciarlo andare a terra perché mi ammaccava le ossa. Non mi diedi per vinto. Ripresi a fargli fare un passo alla volta dandogli degli strattoni, come avevo fatto all'inizio, e fermandomi a riposare dopo ogni strattone. In questa maniera percorsi i duecento metri che mi separavano dal fabbricato della compagnia, passando accanto all'edificio ad un piano della mensa. Ero a pochi metri dalla compagnia quando udii i soldati uscire vociando dalla mensa; avevano già finito di cenare. Senza che glielo chiedessi, un paio di soldati mi si accostarono, afferrarono l'obice e lo portarono via. Allora corsi alla mensa per prendere almeno il pane e la frutta, tutto quello che prendevo di solito, salvo rari casi, perché di tutto il resto raramente c'era qualcosa di mio gradimento. Con mio disappunto mi dissero che non c'era più niente da mangiare, né un tozzo di pane, né un frutto. Dispiaciuto, mi volsi e feci per tornare alla compagnia. Riflettendo, decisi che, anche se non faceva parte dei miei piani, quella sera sarei andato a mangiare all'agriturismo. Le cose, però, andarono diversamente.

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40. Ritorno a Cervignano

Stavo dirigendomi verso la palazzina della compagnia, quando da essa uscì di corsa un soldato, che gridò:

— Tiongreis! Tiongreis! Presto! Ti vogliono al telefono... da Cervignano.

Corsi in fureria. Era il maresciallo Giuliani.

— Tiongreis, — mi disse non appena risposi. — Vuoi ritornare a lavorare in ufficio?

Non mi parve vero.

— Sì sì, maresciallo! — risposi immediatamente quasi con le lacrime agli occhi.

— Sali sul camion della frutta e torna a Cervignano. Al resto ci penso io.

Messo giù il ricevitore, corsi ad avvisare i soldati del camion della frutta che sarei ritornato a Cervignano assieme a loro. Quindi corsi in camerata, misi assieme in fretta le mie cose e le portai presso la sala della mensa dove i due soldati mi stavano aspettando. Mi fecero salire sul cassone posteriore, in mezzo alle mele – e mi avevano detto che non era rimasto neanche un frutto! – perché i due posti anteriori erano riservati all'autista ed al capomacchina (ogni auto militare ha accanto all'autista un capomacchina, il quale deve prendere le decisioni riguardo alla strada da percorrere ed alla velocità del mezzo. Se il conducente va troppo veloce e viene scoperto, il primo responsabile è il capomacchina).

Nella fretta dimenticai il fucile Winchester personale. Quando me ne accorsi, alcune settimane più tardi, non ci feci caso, ma alcuni mesi dopo questa dimenticanza mi sarebbe tornata utile. Durante il breve viaggio di ritorno a Cervignano mangiai un paio di mele. Quelle di Cervignano non erano velenose come quelle di Casale, forse perché provenivano da zone d'Italia dove i coltivatori usavano minori quantità di insetticidi e altri veleni. Per strada, come vidi allontanarsi la caserma di Villa Vicentina mi resi conto che quel capitolo era chiuso e che con quel gesto avevo dato l'addio agli avanzamenti di grado ed al congedo da sergente, ma non ne provai alcun rammarico. Giunto a Cervignano, mi misi in tasca un paio di mele per mangiarle il giorno dopo, perché la troppa frutta senza un po' di pane produce acidità di stomaco. Riposte le mie cose, mi recai in paese e lì completai la cena con un toast.

———

Di recente ho trovato il vecchio portafogli usato durante il servizio militare. É zeppo di fogli di permessi, tesserini per uscire dalla caserma e rientrare dopo la ritirata. Contiene anche nomi e indirizzi di commilitoni ed altri documenti. Questo mi permette di stabilire con una certa confidenza alcune date. Dai dati in mio possesso ritengo che il corso teorico di Villa Vicentina si sia tenuto tra lunedì 10 e sabato 15 agosto 1964.

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41. Allarme!

Dopo il ritorno, in qualche occasione ebbi motivo di sentirmi a disagio per il fatto che ritenevo che la mia presenza a Cervignano non fosse regolare e che secondo le registrazioni militari continuassi ad essere aggregato alla compagnia di Villa Vicentina. Detto tra parentesi – solo in termini ipotetici perché non l'avrei mai fatto – mi capitò di riflettere sul fatto che, se ne avessi avuto i mezzi, ciò mi avrebbe permesso di andare a dormire in una pensione, non solo perché nel contrappello non veniva mai fatto il mio nome, poiché disponevo del tesserino che mi permetteva di rientrare più tardi, ma anche perché pensavo di non risultare più effettivo a Cervignano e che nessuno mi avrebbe cercato al di fuori delle ore d'ufficio. Riflettei su questo fatto perché un soldato, Marco Galdini (avrò ancora occasione di parlare di lui) che lavorava in un ufficio del comando, una volta mi disse che in occasione di un allarme riuscì ad uscire dalla caserma e trascorse la notte in una pensione. Allora mi chiesi se fosse stato saggio agire in quella maniera, sia perché se l'allarme si fosse prolungato e il reggimento si fosse trasferito, egli sarebbe diventato un disertore; in ogni caso, se fosse stato scoperto sarebbe andato incontro a dei grossi guai. Tornando a me, quella situazione di residente non regolare continuava a crearmi delle apprensioni, anche se ingiustificate.

Questo timore durò per un periodo di tempo limitato, durante il quale ebbi questa esperienza. Una sera, al ritorno dalla libera uscita c'era il colonnello Armando Munari presso la porta, una cosa del tutto inconsueta. Questo fatto mi intimorì. Io e Cossiga percorremmo di corsa senza fiatare i trecento metri che ci separavano dalla compagnia. Nel percorrere quel tragitto mi sentii come un ladro che per poco non era stato scoperto. Come giungemmo nella camerata udimmo gli squilli di tromba, acuti e ripetuti, del segnale d'allarme. Era la prima volta che li udivo, ma non ebbi alcun dubbio sul loro significato.

— Me l'ero immaginato quando ho visto il colonnello, — disse Cossiga.

Quello fu il primo allarme a cui partecipai. In un istante Cossiga sparì (lui alloggiava nell'ultima camerata, quella dei nonni). Essendo vestito, attesi che anche gli altri si vestissero. Quindi li seguii fuori della compagnia. Lì c'era un tenente che non avevo mai visto prima, né avrei più rivisto. Cominciò a gridare di mettersi in ordine, che doveva fare l'appello. A quel punto cominciai a provare timore. Sapevo che, qualunque cosa fosse capitata, poi sarei stato scagionato, ma per il momento cominciai a chiedermi come avrei dovuto comportarmi se il tenente si fosse accorto che non ero effettivo in quella compagnia. Oggi mi rendo conto che quel timore era assurdo, ma allora non la pensavo così e cercavo costantemente di mettermi nei luoghi più nascosti. Frattanto vi era molta confusione ed il tenente non riusciva mai a portare a termine l'appello per quanto gridasse, perché mancava sempre qualcuno. Come si trovava un assente ed il tenente ripeteva l'appello, succedeva che mancava qualcun altro. All'improvviso arrivò l'annuncio che l'allarme era cessato. Allora ritornammo nelle camerate. In tutto quel tempo non vidi mai Cossiga e non immaginai dove si fosse recato. Comunque in quell'occasione presi la decisione che al successivo allarme sarei andato a rifugiarmi in ufficio.

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42. Una scappatella finita bene

Un paio di settimane dopo il ritorno dal corso di Villa Vicentina, domenica 30 agosto, una splendida giornata assolata di fine estate, per qualche motivo che non conosco fu proibito a tutti di uscire dalla caserma. Questo è ciò che ci fu riferito dall'ufficiale di picchetto quando ci presentammo per uscire. Allontanatici dal cancello, Cossiga disse a voce bassa:

— Io non rimango dentro; esco dalla porta carraia.

Accettavo sempre quello che Cossiga proponeva, quindi lo seguii. Attraversammo di corsa il giardino alberato, girammo attorno alla sala mensa e quindi smettemmo di correre, perché si era vicini al muro di recinzione e fuori dagli eventuali sguardi di militari graduati. La stradina non asfaltata che conduceva alla porta carraia costeggiava il muro di cinta compiendo un'ampia curva. Alla sua destra c'era un prato dove forse venivano svolte delle esercitazioni; a sinistra, oltre il muro di cinta, si vedeva una palazzina messa di sbieco. Ricordo che come la vidi da lontano riflettei su di essa e mi chiesi: 'Come mai i militari permettono a delle abitazioni civili di stare così vicine alla caserma, così che la gente può vedere ciò che avviene all'interno?' Dopo un po' allontanai questi pensieri e percorsi la strada conversando tranquillamente con Cossiga. Avevamo appena oltrepassata la palazzina, quando all'improvviso la conversazione fu interrotta da una voce non molto lontana che mi chiamava. Mi guardai attorno, ma non vidi nessuno. Di nuovo la voce chiamò:

— Tiongreis!

Alzai gli occhi. Di là del muro, appoggiato al parapetto della lunga terrazza del secondo piano della palazzina c'era il tenente Bonantonio, l'aiutante del corso di Villa Vicentina. Subito mi misi sull'attenti ed esclamai a voce alta:

— Comandi, signor tenente!

— Stai cercando di uscire dalla porta carraia, eh?

Invece di rispondere, gli chiesi:

— Lei abita lì?

— Sì. Questa palazzina è tutta abitata da ufficiali.

Dopo queste parole conversammo amichevolmente ancora per qualche istante. Quindi il tenente Bonantonio mi salutò alla maniera civile, si volse e rientrò in casa. Eh, sì! il tenente Bonantonio era davvero un bonaccione. Col suo intervento ci aveva fatto sapere da chi era abitata la palazzina e ci aveva messi in guardia dal compiere altri tentativi di uscire dalla porta carraia. Dopo ciò Cossiga ritenne opportuno di non uscire. Così ritornammo sui nostri passi.

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43. Una divertente esperienza notturna

Come ho già detto, a parte le due occasioni già citate, io correvo sempre dentro la caserma, non come facevano gli altri, che fingevano di correre, mentre in pratica si muovevano saltellando. Io correvo veramente, non solo perché mi piaceva, ma anche perché provavo piacere nel mostrarmi diverso dagli altri. In genere, quello che facevano gli altri io non lo facevo, mentre facevo quello che gli altri non facevano. Una sera stavo rientrando dalla libera uscita. Ero solo ed era piuttosto tardi perché, grazie al tesserino che mi era stato dato in quanto impiegato all'ufficio maggiorità potevo trattenermi fuori più a lungo. Così evitavo i problemi che si poteva incorrere con i nonni. Stavo percorrendo velocemente il solito tragitto che costeggiava la palazzina del secondo battaglione quando, girato l'angolo dove tempo addietro avevo incontrato il colonnello ed il maggiore, vidi ad una decina di metri il tenente Guantoni della CCR che veniva verso di me. Era strano incontrare un ufficiale a quell'ora. Il tenente Guantoni era un tipo un po' avanti con gli anni per il grado che aveva. Di media statura, con i baffi, carnagione scura ma un po' rossiccia, era uno di quegli ufficiali che incutevano un certo timore, o forse era solo un'impressione che derivava dal fatto che in genere non esistevano rapporti di amicizia fra ufficiali e soldati. Nel vederlo fui ben contento di non aver approfittato della tarda ora per procedere al passo. Quando gli fui vicino feci il saluto con il braccio alzato e mano alla fronte senza fermarmi e lui mi rispose nella stessa maniera. 'É passata,' dissi tra di me. Il mio pensiero fu interrotto dalla sua voce che esclamava in tono di comando:

— Ehi, tu!

Subito mi volsi e, messomi sull'attenti, gridai:

— Comandi, signor tenente!

— Come ti chiami?

Allora pronunciai ad alta voce, quasi gridando, la pappardella che avevo imparato al C.A.R.:

— Fante Dave Tiongreis, Compagnia Mortai da 107, 183º Reggimento Fanteria "Nembo"!

Il tenente mi fissò incredulo per qualche istante. Probabilmente non gli capitava spesso udire un soldato agire esattamente secondo le istruzioni e con tale baldanza. Dopo un po' scosse la testa in segno di assenso ed esclamò con forza:

— Bravo!

Quindi si volse e riprese la sua strada. A mia volta ripresi a correre verso la mia compagnia, divertito per quanto era accaduto.

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44. Un allarme serio e prolungato

Una notte (saranno state le undici e mi sembra che fosse lunedì), mi ero appena addormentato quando fui svegliato dagli squilli acuti del tatà tatà tatatatatatàaa, tatà tatà tatatatatatàaa. Era il segnale d'allarme. Con l'esperienza dell'allarme avvenuto non molto tempo prima stabilii subito che sarei andato a rifugiarmi in ufficio. Così mi vestii in fretta e corsi via. In ufficio trovai il maresciallo con un altro soldato, e nel giro di pochi minuti lo staff fu al completo, ad esclusione del sergente maggiore Giacomazzi che in quel tempo era fuori per un corso. Senza saperlo, perché nessuno mi aveva mai detto niente al riguardo, avevo fatto la cosa giusta scappando in ufficio; in caso di allarme quello sarebbe stato il mio posto. Vedendo che avevo le scarpe di libera uscita ai piedi, quelle che usavo quotidianamente, il maresciallo mi disse di andare a mettere gli anfibi, perché se si fosse andati nel campo quelle scarpe non sarebbero state adatte. Allora tornai di corsa nella compagnia, indossai gli anfibi e quindi ritornai in ufficio. Là vi era un'atmosfera di suspense. Tutti stavano in piedi come se si fosse in attesa di qualcosa di cui non si sapeva nulla. Anche il maresciallo appariva serio, come se quello fosse un allarme diverso dai soliti. Era un allarme vero? un'altra prova? Era scoppiata una guerra? Nessuno lo sapeva, nemmeno il maresciallo. Gli scambi di parole pieni di congetture erano fatti a voce bassa, con un tono ben diverso da quello che si usava di giorno durante le ore di lavoro. Attendemmo una quindicina di minuti per vedere se l'allarme sarebbe cessato. Vedendo che non cessava, il maresciallo disse che forse si trattava di un allarme NATO, che sarebbe durato più a lungo del solito e che avremmo dovuto lasciare la caserma. Nel frattempo erano giunti dei camion presso il comando, uno dei quali a disposizione dell'ufficio maggiorità. Caricammo su di esso alcune macchine per scrivere e tutto il necessario per il funzionamento dell'ufficio per almeno qualche giorno e infine vi salimmo anche noi. Il camion era chiuso ai lati con della tela. Infine venne chiuso anche il lato posteriore da cui eravamo saliti. Presso le due sponde erano sistemate due panchine per sedersi. Vi prendemmo posto assieme al maresciallo. Quindi in camion partì verso l'ignoto.

Il viaggio durò circa mezz'ora, poi il camion si fermò. Dalle scosse dell'ultimo tratto compresi che eravamo in campagna. Dall'interno non si vedeva niente, perché il cassone era chiuso da tutti i lati. Forse eravamo parcheggiati ai lati di una strada o in una capezzagna, ma in ogni caso si era lontani da una strada, a meno che non si fosse nei pressi di una stradina poco frequentata, che a quell'ora di notte era normale che rimanesse deserta. Infatti, durante tutto il tempo che trascorremmo in quel luogo non udimmo passare neanche un mezzo. Nessuno di noi uscì dal cassone del camion, ma solo il maresciallo per due o tre volte durante il tempo che trascorremmo lì. Forse lo fece per rendersi conto di cosa stesse effettivamente accadendo. Non lontano da noi si era appostata un'unità delle comunicazioni, perché per tutto il tempo che rimanemmo fermi in quel luogo si continuarono ad udire le parole del marconista e le risposte della radio. Anche questo – le parole del marconista, i suoni incomprensibili, i fischi della radio, l'ora tarda – contribuirono a rendere l'atmosfera irreale. Il maresciallo ci incoraggiò a sdraiarci e cercare di riposare, perché non si sapeva quanto ci si sarebbe fermati, né se l'allarme sarebbe continuato anche il giorno successivo. Egli fece menzione più volte che doveva trattarsi di un allarme giunto dalla NATO, forse per il fatto che tutto lasciava intendere che si trattava di un allarme serio, non come quello che si era sperimentato pochi giorni prima. Allora ci sdraiammo sul pavimento del cassone del camion, ci coprimmo con una coperta e ci sforzammo di dormire.

La notte era molto fredda. É strano come nel Friuli le notti siano così fredde, a meno che le due notti che mi capitò di trascorrere all'aperto non fossero dei casi eccezionali. Comunque, a causa del freddo non riuscii a prendere sonno. Il freddo maggiore lo provai ai piedi. Più il tempo passava e più mi sentivo i piedi congelare, tanto che nel dormiveglia mi capitò di temere di perderli per congelamento. Forse la gran sensazione di freddo fu causata in parte dal fatto che gli anfibi erano un po' stretti, come ti ho già raccontato in un'altra occasione, ed impedivano il regolare afflusso di sangue. Comunque, il freddo era davvero intenso e mi rendevo conto di questo fatto ogni volta che il maresciallo usciva o rientrava. Come spostava il tendone sul retro del camion, entrava dell'aria veramente gelida. La notte era davvero fredda nonostante si fosse solo a fine estate o inizio autunno. Nel dormiveglia mi capitò di chiedermi anche come avrei potuto sopportare d'inverno una situazione simile. Nel frattempo c'era quel vociare continuo del marconista e della sua radio. Anche questo era di ostacolo al prendere sonno. Finalmente verso le cinque del mattino venne annunciato che l'allarme era cessato. Qualche minuto più tardi il camion si mise in moto e ci ricondusse a Cervignano. Lì scaricammo subito ogni cosa. Allora il maresciallo ci disse di andare a dormire e di tornare nel pomeriggio. Mi recai nella compagnia, mi misi in branda e finalmente potei riposare. Prima di mezzogiorno, però, ero di nuovo sveglio e mi alzai, anche se non venne suonata la sveglia. Poi attesi. Un po' per volta si risvegliò tutta la compagnia e si andò al rancio.

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45. Il caporale maggiore Miravalle

Durante il rancio Cossiga ed io fummo avvicinati dal caporale maggiore Miravalle, un militare di carriera sulla trentina, basso, tarchiato, originario del meridione. Ci disse:

— Domani si dovrà andare al deposito di munizioni di ... a scaricare un camion di bombe. Dovete venire anche voi. É tempo che facciate anche voi qualche cosa. Presentatevi presso la compagnia subito dopo il rancio di mezzogiorno.

Subito la cosa mi preoccupò, sia per la fatica (chissà quanti quintali di bombe ci sarebbero stati da scaricare), sia per il timore che me ne sfuggisse una di mano, vista l'esperienza avuta un mese prima con l'obice. Già mi vedevo sfuggire di mano una bomba e tutto il deposito di munizioni andare in aria. Cossiga non si preoccupò minimamente. Come lasciammo la sala mensa, disse:

— Io non ci vado.

Quest'affermazione mi tranquillizzò, ma nello stesso tempo mi chiesi quali sarebbero state le conseguenze se non ci fossimo presentati. Vista la cosa a posteriori, mi rendo conto che in effetti il caporale non aveva alcun diritto di ordinarci di compiere quel servizio, perché eravamo impiegati in un ufficio. Egli avrebbe eventualmente dovuto chiedere prima il permesso al maresciallo dell'ufficio maggiorità, cosa che non fece, e se l'avesse fatto si sarebbe preso le sue, come avvenne con un graduato in un'altra occasione che non ricordo chiaramente e che non ti racconterò. La maggiorità era un ufficio dove si lavorava molto e dove si richiedeva operosità, riservatezza e, naturalmente, anche presenza. Non ci si poteva assentare per un nonnulla. Noi facevamo il nostro dovere e da parte sua il maresciallo ci avrebbe sicuramente protetti qualora avessimo avuto delle beghe con dei sottufficiali, tanto più con un semplice caporale maggiore. Allora non mi rendevo conto di questo. Tuttavia, anche se un po' intimorito, il giorno dopo scappai dalla sala mensa prima del solito. Quando rividi Miravalle qualche giorno più tardi, esclamò:

— Eh voi! Fate sempre i furbi, eh?

La cosa sembrò finire lì, ma ci sarebbe stato un seguito circa un mese e mezzo dopo.

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46. Il compleanno del maresciallo Giuliani

Negli intervalli prima della sessione mattutina, o tra il rancio di mezzogiorno e l'inizio del turno pomeridiano, in genere ci si intratteneva in ufficio oppure nello stanzino dell'attendente del colonnello e si conversava amichevolmente. Un giorno Cossiga annunciò che il maresciallo Giuliani stava per compiere gli anni e propose di fargli un regalo. Quella volta eravamo presenti tutti e quattro (forse si trattò di mattina, perché c'era anche Levi). Fummo subito tutti d'accordo. Il maresciallo avrebbe compiuto gli anni la domenica successiva, quindi Cossiga propose di uscire il sabato tutti assieme ed effettuare l'acquisto. Avendo notato che quando fumava il maresciallo si accendeva le sigarette con i cerini, egli propose di acquistare un accendino. Così quel sabato ci recammo in paese presso un orefice tutti e quattro assieme. Probabilmente Cossiga aveva già notato l'accendino, perché ci condusse direttamente nel negozio dove era esposto un bell'accendino placcato in oro che non aveva un costo eccessivo per le nostre tasche. Osservatolo per un po' alla vetrina, convenimmo di acquistarlo. Detto, fatto, pochi istanti dopo uscivamo dal negozio con il nostro prezioso pacchettino.

L'indomani mattina ci recammo dopo dopo le nove a casa del maresciallo. Cossiga, che era informato di tutto, ci condusse senza esitazione alla sua abitazione. Osservammo le finestre: erano aperte. Evidentemente, anche se di domenica e in giorno di compleanno, difficilmente un militare si alza tardi, in specie Giuliani, che non era un pigrone. Suonammo. Trovammo alzati sia lui che sua moglie. Nel vederci, subito ci invitò a salire in casa. Quando seppe il motivo della nostra visita, apparve visibilmente commosso, forse per due motivi. Primo, certamente a motivo dell'apprezzamento che stavamo mostrando nei suoi confronti con quel pensiero e, secondo, forse non meno importante, per il fatto di trovarsi davanti a dei soldati nella propria casa, alla presenza di sua moglie. Infatti, mi capitò di osservare più volte nel periodo del militare che sia gli ufficiali che i sottufficiali appaiono molto diversi fuori del loro ambiente, specie se in presenza di familiari. Quando capita che vengano a trovarsi a contatto con dei soldati in presenza dei propri familiari essi diventano timidi, quasi vergognosi, in poche parole non sono più le stesse persone. In quell'occasione, forse per reazione a questi sentimenti, il maresciallo cominciò col chiedere ripetutamente se gradivamo qualcosa e col dire alla moglie "dai, prepara qualcosa, del caffè, del tè," manifestando grande premura, con atteggiamenti piuttosto impacciati, ben diversi da quelli che mostrava in ufficio davanti a graduati e soldati. Accettammo un tè e subito dopo uscimmo. Ci rendemmo conto che se ci fossimo trattenuti un po' di più l'avremmo fatto sentire a disagio. La nostra parte l'avevamo fatta e fummo ben contenti di avergli mostrato in quel modo che per noi egli non era semplicemente un superiore, ma che gli volevamo bene. Nei giorni successivi egli smise di usare i cerini.

Mi viene da chiedermi se egli usasse i cerini semplicemente perché li preferiva agli accendini. Il problema con i regali è che spesso quando si sceglie quello che uno non ha, potrebbe essere che quell'oggetto non ce l'ha proprio perché non lo desidera. A me capitò una volta che zia Carmela mi regalò un bel maglione a girocollo, perché aveva osservato "che non ne avevo neanche uno," come lei stessa disse. In effetti, non avevo maglioni a girocollo perché non mi piacevano e non mi trattenni dal dirglielo. Assieme al mio, lei ne aveva acquistato uno anche per suo marito, zio Angelo, quest'ultimo senza girocollo. Quindi propose, e Angelo fu d'accordo, di effettuare lo scambio. Accettammo entrambi. Mi chiedo se Angelo amasse i maglioni con girocollo. Spero di sì. Resta il fatto che, secondo la mia opinione, quando si fanno regali sarebbe bene fare una piccola indagine prima di procedere all'acquisto. Non è bello che una persona debba sentirsi forzata a sorridere e ringraziare per un oggetto che non avrebbe nemmeno voluto ricevere. Ad ogni modo, il maresciallo non mostrò minimamente di non aver apprezzato il dono ricevuto, perché per tutto il tempo che trascorsi a Cervignano non usò più i cerini.

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47. Una gita ad Aquileia

L'episodio che adesso ti vado a raccontare forse avvenne domenica 27 settembre, perché mi sembra che in quell'occasione si fosse già tornati all'ora solare, ma che d'altra parte la giornata fosse ancora piuttosto lunga (ricordo che in quegli anni il cambiamento dell'ora avveniva l'ultima domenica di settembre). Quella fu una splendida giornata di sole, anche se non delle migliori, nel senso che si andava già manifestando l'autunno con leggere foschie che andavano intensificandosi verso le ore serali. Poiché di lì a poco sarebbe andato in congedo, Cossiga propose di fare una passeggiata fino ad Aquileia, una cittadina storica a circa 7 chilometri da Cervignano, lungo la strada che porta alla città balneare di Grado. Non avevamo alcun permesso per uscire dal distretto. Lo feci notare a Cossiga, ma egli insistette perché ci si andasse ugualmente, e così accettai di unirmi a lui. Non c'erano autobus che portassero ad Aquileia, o perlomeno noi non ci informammo al riguardo, e così ci avviammo a piedi. La strada era composta da lunghi tratti rettilinei, con alberi da entrambi i lati della strada. Nonostante la stagione non fosse tarda, la strada era deserta. Questo ci consentì di camminare quasi sempre nel centro, tranne le rare volte in cui sentivamo giungere un'auto. Quando ciò avveniva, ci si portava temporaneamente da un lato. Percorremmo il tragitto conversando amichevolmente, senza affrettarci, tanto che impiegammo circa due ore per giungere a destinazione. Essendo preoccupato, di tanto in tanto andavo sull'argomento del fatto che eravamo privi di permesso, ma ogni volta Cossiga mi tranquillizzava. Essendo un nonno prossimo al congedo, egli aveva la scorza dura e non provava alcun timore.

Giungemmo ad Aquileia verso le cinque del pomeriggio. Data la rinomanza della località, mi ero aspettato un paesotto piuttosto grande. Invece non trovammo che quattro case, o forse il paese vero e proprio era distaccato dalla zona storica che visitammo. Il paesino era pressoché deserto; solo di rado vedemmo qualcuno percorrere un breve tratto di strada a piedi e quindi scomparire in qualche abitazione. Tuttavia il paesino era splendido e la pace di quel luogo non fece che accrescere il piacere che provammo nel visitarlo. Trascorremmo del tempo presso il porto romano. Ora il mare non c'è più, ma sono rimaste alcune strutture antiche e pilastri a testimonianza dell'antico lustro. Poi visitammo l'antica basilica di Aquileia, anche quella deserta. Lì trovammo dei dépliant che ci permisero di apprezzare maggiormente i mosaici e le opere d'arte contenuti in essa.

Nonostante le poche case, c'era un ristorante sulla strada principale. Verso le sei, venuto il momento di partire, Cossiga propose di fermarsi a cenare in quel ristorante. Il locale aveva un nome che ricordava la caccia. Infatti, come fummo entrati, notammo che la grande sala aveva le pareti addobbate con trofei di quel tipo. Il mobilio era antico e tenuto molto bene. Nel vedere quelle cose cominciammo a temere che il conto sarebbe stato salato. Tuttavia ci trattenemmo ugualmente, sia pure con una certa titubanza. Il locale era deserto, forse a motivo dell'ora o perché si era fuori stagione. Non c'era nessun avventore né al bar né in sala, né si presentò alcuno durante tutto il tempo che trascorremmo nel locale. Dopo che ci fummo seduti ad un tavolino, venne un cameriere in livrea a chiedere che cosa desideravamo per cena. Sembrava il servitore di un nobile ed aveva il comportamento di un maggiordomo inglese. Io ordinai la solita bistecca con patatine fritte e mezzo litro d'acqua minerale. Fummo serviti da gran signori, non solo in quanto al cibo, ma anche per come si venne serviti. Cibo e servizio furono veramente ottimi. Mentre ammiravamo il locale, il come si era serviti, il cibo ed ogni cosa, Cossiga ed io non facevamo che chiederci quanto infine avremmo pagato. Più il tempo passava, più temevamo la resa dei conti... letterali, cioè monetari. Essa venne puntuale quando il cameriere ci portò il conto. Lo esaminammo. Esso consisté in poco più di quattrocento lire a testa. Nell'osservare la cifra, il nostro timore si trasformò in euforia, ed il viaggio di ritorno non fu che un ripassare a parole con gioia ciò che avevamo visto in quel paesetto e a fare commenti sull'ottimo locale, dove con una spesa modesta avevamo ben cenato ed eravamo stati serviti come dei gran signori.

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48. Arrivo del nuovo colonnello

Nel periodo che sto narrando, si cominciò a parlare che presto ci sarebbe stato un cambio al comando del reggimento. Il colonnello Armando Munari sarebbe stato sostituito da un altro colonnello, Giorgio Rossi de Docentis. Il nome stesso dava adito a fantasie, così nelle conversazioni si cominciò a fantasticare su di lui. Poi giunse la notizia che era già giunto in paese. Dopo qualche giorno ci sarebbe stata una cerimonia, dove sarebbero state effettuate le consegne. Gli impiegati in ufficio non vi parteciparono, per cui non ho la minima idea di come si svolse. Comunque, un paio di giorni prima che avvenisse il cambio accadde che si dovette recapitare un messaggio al nuovo colonnello. La sua abitazione non aveva telefono o non ne era ancora stato effettuato l'allacciamento. Inoltre l'attendente era assente, per cui l'aiutante maggiore, il capitano La Fede, inviò me. Egli mi diede l'indirizzo, qualche indicazione per arrivarci, mi comunicò il messaggio a voce e mi spedì via.

L'abitazione del colonnello si trovava dalla parte opposta del paese, ben lontana dal centro. Era un bel pomeriggio assolato, per cui fu veramente piacevole compiere quella lunga passeggiata, tanto più in un orario di servizio. Giunto alla villetta indicatami, suonai. Venne ad aprirmi colui che immaginai fosse il colonnello. Subito mi misi sull'attenti ed esclamai:

— Comandi, signor colonnello!

— Riposo, riposo! Entra!

Il colonnello era in abiti borghesi e non sembrava per niente un militare. Magro, alto, nerboruto, di circa quarantacinque anni di età, aveva un modo di muoversi ben diverso da quello piuttosto rigido di alcuni militari. Oltre a lui in casa c'era solo Luigi Visentin, l'attendente del colonnello uscente, ora passato all'entrante. Del tutto disinvolto, il colonnello aveva l'aspetto di una persona sicura di sé, ma al tempo stesso bonaria. L'avrei detto un uomo d'affari. Egli fu molto gentile nei miei confronti. Mi offrì un caffè e nel lasciarmi mi diede pure mille lire per ricompensarmi del disturbo. 'Oh, che bel disturbo!' pensai tra me. 'Magari tutti i giorni!' Quella non fu l'unica occasione in cui ricevetti mille lire per qualche servizio reso. Anche il capitano La Fede ogni tanto mi dava mille lire. Comunque, sia per i soldi, sia per la bella passeggiata, lasciai quella casa che ero alle stelle.

Rientrai in caserma che stavano uscendo i primi soldati per la libera uscita serale. Vicino al cancello incontrai un soldato della mia compagnia che stava uscendo. Ci salutammo. Poi, essendo che ormai era già trascorso l'orario del rancio serale, mi recai in ufficio, deserto in quel momento, a mangiare qualcosa. Infatti, lì conservavo l'affettato che acquistavo ed i cibi che mi dava la mamma quando venivo a casa in permesso. Non avendo pane, il fatto che mi sia recato in ufficio a mangiare mi fa comprendere che l'episodio menzionato dovette essere avvenuto uno o due giorni dopo una mia visita a casa, forse otto-dieci giorni dopo la gita ad Aquileia. Dopo cena mi trattenni in ufficio fin verso le nove e mezza, perché incontrai un soldato impiegato al comando, il quale per qualche ragione che non ricordo non poteva uscire; perciò rimasi in sua compagnia, visto che quel giorno un'uscita dalla caserma l'avevo già fatta. Verso le nove e mezza non me la sentii più di rimanere in caserma, anche perché in tal caso non avrei più potuto continuare a trattenermi in ufficio. Infatti, di lì a poco, alle nove e quarantacinque, sarebbe suonata la ritirata. Che cosa sarebbe successo se un ufficiale avesse visto la luce accesa e fosse venuto a vedere? Così, grazie al tesserino, uscii di nuovo. Sul cancello incontrai il soldato che avevo incontrato rientrando. Lo salutai.

— Eh tu! — mi disse sorridendo divertito, ma forse provando anche un po' d'invidia. — Tu rientri quando noi usciamo ed esci quando rientriamo!

Gli risposi con un sorriso. Non ero uscito per farmi vedere. Se ci avessi pensato, forse sarei uscito in un altro momento.

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49. Testimonianza di un incidente stradale

C'è un episodio avvenuto forse verso la metà di settembre che ho tralasciato di raccontare, ma che mi lasciò una profonda impressione. Avevo pensato di tralasciarlo perché non ha niente a che vedere con il militare, a parte il fatto che ne fui testimone durante una libera uscita. Ripensandoci ho cambiato idea e adesso te lo racconto.

Una sera, Cossiga, Desogus ed io decidemmo di recarci in un bar situato fuori del paese, all'incrocio della circonvallazione con una strada di uscita da Cervignano. Si trattava di un locale frequentato probabilmente da camionisti durante il giorno, essendo che si trovava sulla circonvallazione – infatti, il locale possedeva un ampio parcheggio all'angolo fra le due strade – ma di sera, invece, il locale era pressoché deserto. Con Cossiga e Desogus si trascorse del tempo guardando la televisione e quindi si uscì, visto che il locale non offriva nient'altro (in paese di solito si frequentava un bar dotato di un'ampia sala di biliardo, e lì, ora giocando, ora osservando altri che giocavano, si trascorreva il tempo piacevolmente). Usciti sul piazzale, con la mente intorpidita dalla televisione, ci dirigemmo verso l'incrocio. A quell'ora il traffico era quasi del tutto inesistente. Giunti all'angolo vedemmo un'auto giungere dalla direzione di Venezia. Fermatici per attendere il suo passaggio, la seguii distrattamente con lo sguardo. L'auto procedeva a circa sessanta chilometri l'ora, una velocità moderata per quella strada.

All'improvviso mi accorsi che un'altra auto, giunta da Cervignano e che si era fermata allo stop, aveva iniziato ad attraversare la strada. Forse per distrazione, oppure pensando di avere la precedenza, visto che proveniva da destra, questa seconda auto tagliò la strada all'altra che stava sopraggiungendo. All'improvviso la mia attenzione si ravvivò e vidi la scena svolgersi come al rallentatore davanti ai miei occhi. La partenza dell'auto ferma avvenne quando l'altra era molto vicina, tanto che essa neppure frenò. Le auto cozzarono. Udii un rumore che non avevo mai udito prima. Il cozzo di due auto non produce un rumore stridente, come per l'urto fra due metalli, nonostante le carrozzerie fossero di lamiera. Produsse invece un rumore sordo, ovattato, forse per il fatto che le lamiere si deformano sotto l'urto. Questa fu la prima cosa che mi colpì e sbalordì. Poi seguì lo svolgersi della scena.

Colpitesi anteriormente, le auto ruotarono di 180 gradi. Quella proveniente da Cervignano si volse verso il paese e l'altra, dopo aver compiuto un dietro-front, proseguì in retromarcia per alcuni metri e finì nel fosso laterale. Per effetto dell'urto le porte di quest'auto, una millecento, si aprirono, e il guidatore, un uomo sulla cinquantina, finì nel fosso privo d'acqua, mentre l'altra occupante, una donna grassoccia pure sulla cinquantina, rotolò sulla strada per parecchi metri come un birillo, tenendo le braccia diritte sopra il capo. Quando ci penso rivedo ancora la donna rotolare sull'asfalto. Quella posizione delle braccia si rivelò provvidenziale, perché le protesse la testa e se la cavò con solo delle ammaccature.

Uscito dal fosso, l'uomo si diresse con calma al bar e chiamò i carabinieri. Quindi, ritornato sul luogo dell'incidente, si mise a ragionare con il conducente dell'altra macchina. Non ci furono grida, né discussioni accese. La donna grassoccia nel frattempo continuava a tastarsi per vedere se c'era qualcosa di rotto. Sembra che a parte le ammaccature l'incidente non avesse prodotto altri danni fisici alle persone. Dopo pochi minuti giunsero i carabinieri e noi, trattenutici ancora per alcuni istanti, riprendemmo la nostra strada.

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50. I nuovi compagni d'ufficio

In previsione del congedo di Graziano Cossiga e Giuliano Desogus, il maresciallo assunse due altri soldati come dattilografi. Non ricordo di averli visti presentarsi come me, né che avessero chiesto di essere assunti, ma arrivarono un giorno in ufficio come soldati già assunti in servizio. Questo mi fa comprendere che probabilmente venivano su raccomandazione, e che l'assunzione era avvenuta senza metterli alla prova, come invece era successo nel mio caso tanto al C.A.R. che in maggiorità. Uno si chiamava Guido Cricetti ed era di Roma. L'altro era napoletano. Non ricordo il suo nome, né si trova nel mio elenco di indirizzi. Quest'ultimo era un tipo paffuto, non molto alto, con grosse ciglione tipiche di molti napoletani, una persona schiva che non si vedeva mai al di fuori delle ore di lavoro. Ricordo di essere uscito con lui una sola volta, forse la stessa sera del giorno del suo arrivo. Di lui ricordo una sola esperienza che ti racconterò più avanti. Riguardo a Cricetti, questi era un tipo magro, dai capelli castani, un po' più alto di me, gioviale; egli divenne ben presto un compagno per molte uscite serali..

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51. Un generale in visita

Di tanto in tanto giungeva in caserma un generale in visita. Forse egli si recava a colloquio con il colonnello e dopo ciò ripartiva. Quando giungeva, si era tutti informati per tempo. Allora tutti gli uffici chiudevano le porte e per tutta la durata della visita nessuno si azzardava ad uscire. Non so se questo corrispondesse ad un ordine o se fosse semplicemente una consuetudine originata dal timore. Comunque un giorno, forse verso metà ottobre, fu annunciata la visita di un generale di divisione. In quell'occasione erano temporaneamente assenti sia il maresciallo che il sergente maggiore. Come sempre, non appena si udirono i tre squilli di tromba che annunciavano l'arrivo del generale vennero chiuse tutte le porte degli uffici. In quel tempo Cossiga era già in congedo, ma i mesi trascorsi in sua compagnia mi avevano reso coraggioso quasi come lui. Così quel giorno uggioso, tipico delle giornate autunnali senza sole, incoraggiato dalla mancanza dei superiori, ad un certo momento mi venne l'idea pazza di andare a vedere il generale. L'idea fu di uscire come se avessi qualche ragione per farlo (per esempio, quando si aveva bisogno di andare al gabinetto, si chiedeva il permesso al maresciallo, si correva nei servizi della propria compagnia e poi si ritornava, perché ai soldati non era permesso usare i due servizi igienici presenti nel piano, essendo essi riservati agli ufficiali e sottufficiali che lavoravano in quello stesso piano). Così pensai di uscire, fare una corsetta fino allo spaccio e ritornare indietro, con la speranza di incontrare per strada il generale. Alzatomi dalla sedia dove stavo dattilografando, mi diressi alla porta. Nel vedermi intenzionato ad uscire, qualcuno, forse Levi, esclamò sbalordito:

— Dove vai! Sei pazzo?

— Vado a vedere il generale — risposi, non avendo modo di nascondere la mia intenzione.

Non ricordo la risposta del soldato, ma un attimo dopo ero alla porta e mi dirigevo verso la scala. Scesa la prima rampa, come mi volsi per scendere la seconda, quella più lunga che dava direttamente alla hall del piano terra, vidi a metà rampa l'aiutante maggiore e il generale, l'uno presso la parete e l'altro dal lato della ringhiera, i quali stavano colloquiando. Non c'era spazio per una terza persona, né tra i due, né dal lato del muro, né da quello della ringhiera, perché la scala era stretta. Che fare? Non mi passò neppure per la testa l'idea di tornare indietro. Invece scesi ancora di qualche gradino e, giunto a circa tre gradini da loro, mi misi sull'attenti battendo fortemente con il piede destro sul gradino, come si è soliti fare quando ci si mette sull'attenti, ed esclamai ad alta voce:

— Comandi, signor generale!

Nell'esprimere il termine "comandi" mi rivolsi al generale, perché è regola che ci si debba rivolgere sempre al graduato di grado più elevato. Entrambi si volsero verso di me. All'aiutante maggiore dovettero essersi rizzati i capelli in testa, perché lo vidi fare una faccia spaventata. Ma si ricompose in fretta, prima che il generale tornasse a voltarsi verso di lui e potesse accorgersene. Allora l'aiutante maggiore mi disse:

— Tiongreis! Corri... (e mi indicò un locale situato all'estremità opposta della caserma) e di' al signor colonnello che è giunto il signor generale.

— Signorsì!

L'aiutante maggiore ed il generale si appiattirono per fare spazio e lasciarmi passare. Scesi di corsa gli ultimi gradini, uscii dalla porticina situata sotto il pianerottolo delle scale e mi diressi di gran carriera al luogo indicato. Ero così contento che percorsi la strada volando. Entrato nel fabbricato indicatomi, mi trovai in un ampio ingresso lungo una dozzina di metri, parallelo al quale c'era una saletta; la parte finale dell'ampio e lungo ingresso comunicava direttamente con essa. Avendo udito qualcuno entrare, si affacciò un tenente. Gli spiegai che avevo un messaggio per il signor colonnello. Il tenente mi condusse nella sala. In quel momento erano lì radunati tutti gli ufficiali del reggimento, seduti in file parallele come in un piccolo teatro. Davanti a loro, su un basso podio lungo quanto la sala, stava in piedi il colonnello Rossi de Docentis. Come mi vide, smise di parlare e tutti si volsero verso di me. Messomi sull'attenti e battendo con forza sul pavimento con i tacchi del piede destro, dissi ad alta voce:

— Comandi, signor colonnello!

Quindi gli spiegai che era giunto il generale.

— Digli che vengo subito.

— Signorsì!

Quindi compii una perfetta rotazione di novanta gradi verso sinistra e partii. Ritornai a passo veloce nell'androne, uscii, e di nuovo percorsi di gran volata la strada di ritorno. Trovai l'aiutante maggiore nel suo ufficio. Evidentemente egli aveva fatto accomodare il generale nell'anticamera dell'ufficio del colonnello. Gli riferii la risposta e ritornai in ufficio. Nessuno mi chiese dov'ero stato, né io lo spiegai loro. Più tardi l'aiutante maggiore mi chiamò nel suo ufficio e mi diede mille lire. Probabilmente l'avevo sollevato da un pasticcio, essendo che il colonnello non era presente a ricevere il generale. O forse la mia azione produsse sul generale l'impressione che fosse stato tutto architettato in precedenza e che quindi l'aiutante maggiore avesse fatto bella figura davanti a lui e al colonnello. Comunque fosse, la mia bizzarria aveva prodotto un buon risultato.

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52. Con il plotone d'onore a Redipuglia

Un giorno, verso la fine di ottobre, mi recai nella compagnia per fare i miei bisogni. Prima di ritornare in ufficio salii in camerata a prendere qualcosa. Lì c'era il capitano che a suo tempo era venuto in ispezione la notte che ero stato di guardia. Come mi vide esclamò:

— Tu!

— Comandi, signor capitano.

— Sei arruolato per il picchetto d'onore che si farà mercoledì prossimo a Redipuglia (il 4 novembre, festa delle forze armate).

— Ma io sono impiegato all'ufficio maggiorità. Quel giorno lavoro.

— Non ci sono 'ma'. Da domani fino a martedì presentati ogni mattina dopo l'alzabandiera presso la CCR (Compagnia Comando Reggimentale) per l'esercitazione.

— Ma...

— Non ci sono 'ma'.

— Signorsì.

Il capitano stava raccogliendo soldati tra i più alti del reggimento ed ero capitato nella camerata proprio nel momento in cui ne stava cercando tra gli effettivi della CMR. Forse ti stupirai che abbia preso me, che non sono poi tanto alto (a quel tempo ero alto un metro e 74 centimetri). Il fatto è che sembra che in quel tempo venissero assegnate alla fanteria per lo più persone non molto alte, per cui ero compreso in quel dieci per cento dei soldati più alti del reggimento. Oltre a questo, il capitano non era riuscito a beccare altri soldati più alti di me, che ce n'erano sicuramente. Cricetti ad esempio era un po' più alto di me. Ad ogni modo, non potei far altro che accettare. Tornato in ufficio, ne parlai al maresciallo, ma egli disse che non si poteva fare nulla. Il picchetto d'onore era un incarico troppo importante, per cui non era il caso di molestare l'aiutante maggiore perché venissi esonerato. Essendo il grado di maresciallo inferiore a quello di capitano, egli non poteva mettersi contro gli ordini di quest'ultimo. Solo l'aiutante maggiore avrebbe potuto farlo, ma il maresciallo non prese nemmeno in considerazione quell'opportunità. Perciò, a partire dal giorno successivo mi recai tutte le mattine nel luogo indicato, e per mezz'ora egli ci addestrò a fare ripetutamente l'attenti, il riposo e tanti altri esercizi di ubbidienza ai comandi militari.

Venne la mattina del 4 novembre. Subito dopo l'alzabandiera salimmo su dei camion e fummo trasportati a Villa Vicentina, dove vennero fatti salire altri soldati. Dopo Villa Vicentina fummo trasferiti a Gradisca d'Isonzo, dove risiedeva il terzo battaglione del Nembo e dove salirono altri soldati ancora. Complessivamente venne formata una squadra di una cinquantina di uomini, più i musicanti. Lasciata Gradisca, venimmo condotti a Redipuglia. I camion parcheggiarono ad alcune centinaia di metri dall'ossario, in corrispondenza di uno slargo della strada. Da lì proseguimmo a piedi in fila indiana con il fucile in mano. A quel tempo non avevo ancora recuperato il mio che avevo lasciato a Villa Vicentina, per cui ne presi uno tra quelli in dotazione nella camerata. Giunti all'ossario, salimmo la lunga rampa e ci disponemmo a sinistra di una specie di altare centrale che si trovava al termine della rampa d'ingresso, proprio all'inizio degli alti gradoni dove sono conservati i resti dei soldati morti durante la prima guerra mondiale (lo puoi vedere nella foto scattata assieme a zia Elsa, Antonio e Carletto in occasione di una gita compiuta alcuni anni addietro). Dalla parte opposta rispetto all'altare si dispose la banda. Non erano ancora le nove quando giungemmo all'ossario. La giornata era assolata e piuttosto calda per quella stagione.

In attesa dell'arrivo del generale che avrebbe presenziato alla cerimonia, di tanto in tanto il capitano ci esercitava impartendo i comandi: att-hi! fianco destr ... destr! per fila sinistr ... sinistr! dritti! rip-zo!. Intanto l'aria andava riscaldandosi sempre più e si cominciò a sudare. Infine – erano circa le dieci – udimmo tre lontani squilli di tromba che annunciavano l'arrivo del generale. Subito il capitano ci diede il comando di metterci sull'attenti. Dopo un paio di minuti trascorsi in quella posizione, con la coda dell'occhio vidi il generale salire la rampa a passi veloci. Egli andò a porsi davanti all'altare, a circa tre metri da esso, e si mise sull'attenti. Due soldati, i più alti di tutti, scelti per quello scopo, andarono a prendere una corona d'alloro alta circa due metri e la portarono al generale. Questi appoggiò una mano su di essa, ed i soldati, accompagnati dal generale che continuava a tenere una mano sulla corona arretrarono fino a giungere ad appoggiarla all'altare. Quindi i soldati si misero sull'attenti di fianco all'altare, continuando a stare rivolti verso la rampa d'ingresso. Il generale indietreggiò di alcuni passi e a sua volta si mise sull'attenti, stando rivolto verso l'altare. Ora si era tutti sull'attenti. Un paio di visitatori si fermarono ad osservare la scena.

Durante le esercitazioni il capitano ci aveva spiegato che a quel punto egli avrebbe dovuto pronunciare tre parole ad alta voce, e ci aveva detto quali. In quel momento, però, forse a causa dell'emozione, continuava ad indugiare. Trascorsero alcuni secondi. Infine il generale, continuando a rimanere sull'attenti, agitò le dita della mano sinistra, quella che era rivolta verso di noi. Allora il capitano gridò con voce rotta dall'emozione:

— Patria! Onore! Gloria!

E subito la fanfara attaccò l'inno nazionale.

Terminato l'inno, il generale rimase sull'attenti ancora per qualche istante. Quindi fece un perfetto dietro-front e si diresse a passo spedito lungo la discesa che conduceva alla strada. Dopo la sua scomparsa rimanemmo sull'attenti ancora per un paio di minuti. Quindi ci fu impartito il comando di riposo, ma continuammo a rimanere sul posto. Sembrava che il capitano avesse una grande paura di rincontrare il generale. Trascorso ancora qualche minuto, egli ci diede l'ordine di incamminarci a nostra volta in fila indiana lungo la discesa e verso i camion. La festa era finita. Si ritornava alla routine quotidiana.

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53. Una piccola avventura con il caporale maggiore Miravalle

In quel tempo avvenne anche questo episodio. Recatomi come al solito nella compagnia, nell'uscire incontrai il caporale maggiore Miravalle, il quale come mi vide disse:

— Stiamo andando a raccogliere le foglie lungo il muro di cinta. Devi venire anche tu (vi era infatti un lungo filare di pioppi verso la parte interna del muro di cinta opposto alla porta carraia e in quel tempo stavano cadendo le foglie).

— Non posso. Devo tornare in ufficio. Sono venuto qui solo per fare i miei bisogni.

— No, no! Devi venire anche tu. É inutile che fai il furbo. Tu non fai mai niente. É venuto anche per te il momento di lavorare.

Tentai di ribattere qualcosa, ma fu inutile. L'alternativa sarebbe stata di salire in fureria e telefonare al maresciallo Giuliani, ma il maresciallo della fureria non mi avrebbe sicuramente permesso di usare il telefono. Anzi ho motivo di credere che fosse questo stesso maresciallo a indurre Miravalle a crearmi dei problemi, a causa del cinturino estivo che voleva che gli consegnassi. Lo intuisco da una frase che mi disse quando lasciai il reggimento. Così, di malavoglia, dovetti trattenermi, mentre Miravalle continuava a chiamare tutti i soldati che vedeva e li faceva radunare in doppia fila davanti alla compagnia. Io venni a trovarmi tra i primi della fila di destra. Come ebbe radunate una ventina di persone, si mise alla destra dei due soldati di testa, diede l'“avanti, march!” e partì salterellando, continuando a pronunciare "un due, un due", mentre tutta la squadra lo seguiva. All'estremità del lungo capannone della compagnia avremmo voltato a sinistra, verso il muro di cinta. Per andare in ufficio, invece, avrei dovuto girare a destra. Di fronte c'era il lungo fabbricato ad un piano in cui si trovava lo spaccio e chissà cos'altro (non ebbi mai l'occasione di accertarmi).

All'improvviso, fatti pochi salti, mi venne un'idea. Continuando a salterellare, mi volsi verso il soldato che mi seguiva e gli feci cenno di passarmi davanti. Così feci pure con il successivo, continuando a scalare un soldato per volta, finché poco prima di giungere alla fine del lungo capannone della compagnia venni a trovarmi ultimo della fila. Quivi giunti, Miravalle diede il "fianco sinistr! sinistr!" e quindi lui per primo, e poi tutta la fila dietro di lui man mano che giungeva al punto dove aveva dato il comando, voltò a sinistra e si riallineò con la parte che aveva già voltato. Quando venne il mio turno, feci quattro lunghi balzi ed entrai nello spaccio. Lì attesi un minuto. Quindi uscii e mi recai in ufficio. Dopo di allora Miravalle non mi diede più fastidio.

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54. Gita a Trieste con parenti e amici

Si giunse all'8 novembre, una delle domeniche in cui, alternativamente, non venivo a casa in permesso. Per quel giorno chiesi un permesso per recarmi a Udine. Per quale motivo? Perché in occasione della precedente mia visita a casa tu e mamma avevate programmato di venirmi a trovare con la vecchia, ma bella, Fiat millecento. Non so perché scelsi Udine. Tu, comunque, avevi dei piani diversi. Giungesti a metà mattinata assieme a mamma e in compagnia di Maria Facciolati, la cosiddetta Santona, madre di Daniele Facciolati di cui ho già parlato, il quale stava compiendo il servizio militare a Villa Vicentina. Anche lui era stato avvisato per tempo, probabilmente mediante lettera. Così, dopo aver preso me, ci si recò a Villa Vicentina. Parcheggiata l'auto presso l'entrata della caserma, tu entrasti e dopo pochi minuti uscisti accompagnato da Daniele. Evidentemente, egli era già pronto e dotato di permesso per restar fuori tutta la giornata. Fu allora che comunicasti l'intenzione di andare a visitare Trieste, anziché Udine. La cosa mi intimorì un poco, poiché il mio permesso non era stato fatto per quella città. Anche se a volte in caserma facevo delle cose che altri avrebbero considerato temerarie e nel compierle non provavo alcun timore, tuttavia il trasgredire in certe altre maniere, specie se le decisioni erano prese da altri, mi affliggeva. Comunque, anche se ribadii il desiderio di andare ad Udine, se ben ricordo non mi opposi più di tanto al tuo progetto, ed alla fine ci si diresse verso la capitale friulana.

Come al solito quando si compivano delle gite, mamma pensava a tutto. Poiché nell'approssimarsi a Trieste si stava avvicinando mezzogiorno, ci fermammo in un tratto di strada prima di giungere al mare, un tratto fiancheggiato da un bosco, nel luogo in cui alcuni anni prima si era pranzato con gli zii Ettore ed Elsa ed i loro figli Antonio e Carletto, in occasione di una gita. In quel tratto tra la strada ed il bosco c'era una zona spaziosa priva di alberi dove ci si poteva intrattenere liberamente. Lì pranzammo felicemente con ciò che le mamme avevano portato da casa. Dopo pranzo ci recammo a Trieste e visitammo la città, in particolare il castello di S. Giusto. Dopodiché si passeggiò sul lungomare. Anche lì, specie sul lungomare, di tanto in tanto mi tornava il timore di incontrare qualche ufficiale, ma mi rincuorava il fatto che in vostra presenza probabilmente nessuno ci avrebbe disturbato per verificare se eravamo in regola con i permessi. Forse possiedi delle foto scattate in quell'occasione. Se le trovi, mi farebbe piacere riceverle tramite e-mail.

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55. Che bello fare l'autostop!

La settimana successiva avrei dovuto venire a casa come di consueto. Di solito ricevevo il permesso il sabato mattina dalla fureria della compagnia. Quella volta, non so perché, il permesso venne firmato dall'aiutante maggiore, ed io lo ricevetti il venerdì pomeriggio. Più tardi uscii con Marco Galdini e Guido Cricetti, e noi tre ci si recò al bar della circonvallazione, quello di cui ti raccontai l'episodio relativo all'incidente di cui fui testimone. Dopo qualche tempo entrarono due soldati che non conoscevamo. Il bar era praticamente vuoto, perciò fu del tutto naturale unirsi a loro e conversare assieme. Nel corso della conversazione accennai al fatto che l'indomani mi sarei recato a casa e che possedevo già il permesso. A quel punto Galdini, il soldato già menzionato, quello che aveva trascorso una notte in una pensione durante un allarme, mi disse:

— Perché non vai a casa stasera?

Non ricordo come proseguì la conversazione. Comunque, essendo che il permesso iniziava dal giorno successivo, avrei avuto timore di partire in anticipo. Forse Galdini mi fece notare che in quanto impiegato al comando non avevo bisogno di essere presente al contrappello serale, per cui nessuno si sarebbe accorto della mia assenza. Ma c'era anche il fatto che probabilmente a quell'ora (erano passate da poco le nove) non ci sarebbe stato alcun treno diretto a Padova. Riguardo a questo, forse egli ribatté che avrei potuto fare l'autostop. Sia come non sia, un po' per volta fui convinto a partire, e dissi stupidamente che avrei iniziato a fare l'autostop proprio lì, sulla circonvallazione. A quel punto uno dei soldati incontrati nel bar disse che possedeva un'auto e che mi avrebbe portato ad alcuni chilometri da Cervignano, dove sarebbe stato meno probabile che venissi scorto da dei militari graduati. Ormai era deciso e non seppi dire di no. Così poco dopo fui lasciato sul bordo della statale a due-tre chilometri da Cervignano, in direzione di Venezia. Si era tra le nove e un quarto e le nove e mezza.

Come mi trovai solo, sul bordo di quella statale buia e deserta (a quell'ora passava in media un'auto ogni minuto), provai un senso di imbecillità. Se avessi voluto fare la scappata in autostop, l'avrei fatta appena uscito dalla caserma; anzi, sicuramente non avrei fatto l'autostop, ma avrei preso il treno. Invece, per non aver saputo dire di no alle insistenze di Galdini e successivamente anche degli altri amici, mi trovai ad affrontare un'avventura che non sapevo come sarebbe finita. Dopo alcuni tentativi inutili di stendere il braccio destro, con il pollice rivolto verso Venezia, cominciai a chiedermi fino a che ora avrei continuato a tentare, ossia quando avrei desistito e sarei ritornato a Cervignano. Ci fu un istante in cui pensai di rinunciare subito e di tornare indietro. Ma mi parve una cosa sciocca; a quel punto avrei almeno dovuto tentare. Dopo alcuni minuti feci il calcolo che per tornare in caserma mi ci sarebbe voluta circa un'ora. Perciò valutai che se per le dieci e un quarto non fossi riuscito ad ottenere un passaggio, mi sarei incamminato verso Cervignano. In tal modo sarei giunto in caserma verso le undici e un quarto, ed avrei usufruito di un lasco di una quindicina di minuti che mi avrebbe permesso di far fronte ad eventuali imprevisti o errori di valutazione. Ma anche questo non mi soddisfaceva, perché se fosse stato necessario attendere circa circa tre quarti d'ora prima di ottenere un passaggio, fin dove sarei giunto con quel primo passaggio? Quante volte avrei dovuto fare l'autostop prima di giungere nelle vicinanze di casa? E c'è da dire che più si sarebbe fatto tardi e più sarebbe stato difficile ottenere un passaggio, perché il traffico si sarebbe ridotto ulteriormente. Perciò decisi che non mi sarei trattenuto fin oltre le dieci.

Ad ogni auto che passava continuai a fare il segnale con la mano ed il pollice, ma inutilmente, per cui cominciai a chiedermi come facessero ad ottenere il passaggio le persone che a volte si vedono fare l'autostop lungo le strade principali (in quegli anni era più comune di oggi vedere qualcuno fare l'autostop). A causa del mio insuccesso cominciai a pensare che fosse per qualche mia mancanza o incapacità che le auto non si fermavano. Intanto la temperatura si andava abbassando. Anche se indossavo la divisa invernale, tuttavia non avevo il cappotto, e il freddo cominciava a farsi sentire. Dopo una quindicina di minuti, una FIAT Seicento diretta a Cervignano, come mi ebbe sorpassato frenò all'improvviso e in poche decine di metri si fermò. Voltatasi, si diresse lentamente verso di me. 'Adesso cominciano i guai,' pensai. 'Sicuramente è un ufficiale. Ora non andrò più a casa e mi prenderò anche una bella punizione.' Come l'auto mi fu accanto, si aprì il finestrino opposto al guidatore, quello rivolto verso di me, ed una voce disse:

— Tiongreis! Sei impazzito! Non sai che un po' più avanti ci sono due caserme e che questa zona pullula di militari?

Mi avvicinai al finestrino e guardai dentro. Era il sergente maggiore Giacomazzi dell'ufficio maggiorità. Lo guardai a bocca aperta, non sapendo che cosa rispondere. Dopo un attimo di esitazione il sergente disse:

— Sali, che ti porto più avanti, dove c'è meno pericolo di incontrare degli ufficiali.

Sbigottito, salii in auto, dimenticando il proposito di ritornare a Cervignano. Giacomazzi mi condusse sei-sette chilometri oltre San Giorgio di Nogaro e quindi si fermò. Lo ringraziai, scesi e lui ritornò indietro. Tornato in me, mi ritrovai di nuovo solo in una strada fredda, buia e deserta. Allora riflettei sulla mia condizione. Ora non avevo più la possibilità di rientrare a Cervignano. Bisognava assolutamente che ottenessi un passaggio, altrimenti la prospettiva sarebbe stata di trascorrere la notte... Non sapevo immaginare che cosa avrei fatto se i miei tentativi avessero continuato a mostrarsi infruttuosi. Vista la maggiore necessità cominciai a cambiare tattica. Anziché sporgere semplicemente la mano con il pollice in fuori, cominciai ad agitare il braccio in avanti e indietro, come per dare maggior forza alla mia richiesta. Niente. Allora adottai la pratica di mettermi a correre in direzione di Venezia quando vedevo avvicinarsi un'auto, come per dare un senso di urgenza, continuando nello stesso tempo a fare segno con la mano perché l'auto si fermasse. Ma anche questo modo di agire continuò a mostrarsi infruttuoso.

Non so per quanto tempo io abbia continuato ad operare in questa maniera. Ad un certo punto smisi di correre e di agitare il braccio, ma tornai a fare semplicemente il segno tipico degli autostoppisti. Trascorso ancora un po' di tempo, finalmente accadde che si fermò un'auto di cilindrata medio-alta. Aperto lo sportello, il conducente mi chiese dov'ero diretto.

— Verso Venezia, — risposi vagamente. Sarei stato ben contento se solo mi avesse portato nelle vicinanze di quella città. Poi con un altro paio di autostop forse sarei giunto nelle vicinanze di casa.

— Sali! — mi disse.

Entrai nell'auto e mi sedetti. Il conducente era un uomo sulla cinquantina. Dopo essere partito, mi chiese:

— Abiti a Venezia?

— No. Abito a Montegrotto, in provincia di Padova.

— Io sono di Solesino. Ti lascerò a Mezzavia. Va bene?

— Benissimo!

Non avrei potuto trovare di meglio! Da Mezzavia il tragitto sarebbe stato breve e non avrei più avuto bisogno di fare l'autostop. La mia situazione disperata si era risolta per il meglio. A rendere la situazione ancora più piacevole c'era il lieve tepore dell'auto. Il conducente disse che offriva quasi sempre un passaggio ai militari, perché sapeva che cosa significasse stare sotto le armi, essendo che aveva fatto a suo tempo il militare. Forse aveva fatto anche la guerra, questo non me lo disse, però provava simpatia per i militari e per quanto possibile cercava di aiutarli. Dopo questo primo approccio in cui mi chiese qualcosa di me, per il resto del viaggio non parlammo molto. Evidentemente, al pari di me non era neanche lui un gran parlatore. Però i nostri silenzi non si protrassero mai troppo a lungo, tanto da divenire imbarazzanti, ma di tanto in tanto si trovò qualche argomento comune di conversazione. Infine, verso le undici e mezza giungemmo a Mezzavia. Scesi e ringraziai sentitamente il buon solesinese, il quale ripartì. Attraversato il ponte, mi misi a correre. Ero così contento, che percorsi il tragitto fino a casa alternando tratti al passo ad altri di corsa. Giunsi poco prima di mezzanotte. Entrato nel cortile, presi il solito forcone della biancheria e bussai al balcone della finestra di mamma. Il resto lo puoi immaginare.

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56. Punizione

In una mia visita a casa, non ricordo se a fine ottobre o fine novembre, appresi che in occasione delle elezioni che si sarebbero tenute la domenica successiva, chi aveva già compiuto vent'anni e non abitava molto lontano, se di buona condotta, aveva diritto ad un permesso per recarsi a votare. Al ritorno feci la richiesta al maresciallo. Egli rispose che non me lo poteva concedere, perché era di turno Levi di andare a casa in permesso, ed egli non poteva permettersi che ce ne andassimo entrambi. Forte del mio diritto, insistei. Il maresciallo continuò a dirmi di no, ma io, non pensando alle conseguenze per l'ufficio, non cedetti. In effetti, se me ne fossi andato in permesso il maresciallo si sarebbe trovato per due giorni in brache di tela, disponendo solo di Cricetti e del napoletano. Quest'ultimo era un gran fannullone e Cricetti non avrebbe potuto fare gran che da solo, tanto più che non aveva ancora acquistato molta esperienza. Purtroppo, questi fatti non mi passarono minimamente per la mente, perché avevo davanti agli occhi solo la possibilità di tornare a casa. Non riflettei neppure sul fatto che, essendo impiegato all'ufficio maggiorità godevo già di molti privilegi, non solo di uscire e star fuori molto più degli altri, di non dover compiere servizi, ma anche di venire a casa regolarmente ogni due settimane. Ad un certo punto il maresciallo non trovò altra soluzione che quella di punirmi. Solo in tal modo egli avrebbe potuto impedirmi di non ottenere il permesso garantito dallo Stato.

Pensando a quel fatto non provo alcun rammarico nei suoi confronti. Egli aveva una responsabilità, a motivo della quale non poteva rinunciare a me per quei due giorni. Egli fu anche tanto buono da non avvisare la compagnia del fatto mi aveva inflitto tre giorni di consegna. Se l'avesse comunicato, mi sarei trovato nella condizione, non solo di non venire a casa e di non poter uscire dalla caserma durante quei tre giorni, ma mi sarebbero stati anche affidati dei servizi da compiere al termine dell'orario d'ufficio, come il pulire i gabinetti. Il maresciallo della compagnia sarebbe stato ben lieto di darmi quegli incarichi. Non avendo Giuliani avvisato nessuno, la punizione mi impedì soltanto di venire a casa e di usufruire delle libere uscite serali. Ciò però comportò un ulteriore problema per me. Avevo bisogno di uscire almeno ogni due o tre giorni per acquistare del cibo – ossocollo o altro – perché al rancio in genere non prendevo niente al di fuori del pane e della frutta. Infatti, quando fui punito avevo terminato o stavo per terminare la mia scorta di cibo. Che cosa avrei mangiato durante quei tre giorni?

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57. Il Winchester lasciato a Villa Vicentina

Proprio il giorno che fui punito mi ricordai del Winchester che avevo lasciato a Villa Vicentina. Non lo misi in relazione con la punizione e con la possibilità di uscire dalla caserma, perché non sapevo in che modo si sarebbe risolta la questione. Come espressi al maresciallo il fatto che ero senza fucile, senza esitare egli mi assegnò una camionetta per andare a prenderlo e mi nominò capomacchina. Prima di partire mi raccomandò di ordinare all'autista di non superare i sessanta chilometri orari, perché è responsabilità del capomacchina stabilire il comportamento da tenere sulla strada. Così, quel pomeriggio, verso le tre, mi recai al luogo stabilito presso la sala mensa, dove la camionetta stava in attesa. Uscimmo dalla porta carraia e ci dirigemmo verso Villa Vicentina. Incredibile! Non solo uscivo dalla caserma, ma con una camionetta tutta a mia disposizione! Appena partiti dissi subito al soldato alla guida di non superare i sessanta chilometri l'ora. Quello ubbidì senza fiatare. Evidentemente era abituato ad ubbidire al capomacchina, anche se questi era un semplice soldato come lui. Cinque minuti dopo eravamo a Villa Vicentina. Entrati con l'auto in caserma, la feci parcheggiare presso l'ingresso posteriore della palazzina del comando, dove era situata la compagnia in cui avevo alloggiato. Sceso dalla camionetta, salii al primo piano, avvisai la fureria, presi il Winchester nella camerata accanto, scesi e ripartimmo. Tutto filò liscio come in un copione.

Nel percorrere la strada di ritorno riflettei sulla mia necessità di acquistare del cibo. Allora, come passammo davanti all'ingresso principale della caserma, anziché ordinare al guidatore di girare verso la porta carraia, gli dissi di proseguire verso il paese. A circa un chilometro dalla caserma, un po' prima del centro di Cervignano c'era il negozio di alimentari in cui ero solito fare la spesa. Feci parcheggiare la camionetta davanti all'ingresso del negozio, entrai, acquistai l'ossocollo e tornai alla camionetta. Il tutto avvenne in meno di cinque minuti. Quindi facemmo dietro-front e ci recammo alla porta carraia della caserma. Ora una parte dell'impaccio causato dalla punizione era stato risolto. Quella sera, però, siccome mi recai in camerata prima del solito, dovetti vedermela con le angherie dei nonni, perché questi avevano l'abitudine di creare problemi ai più giovani di naia per qualche tempo dopo il silenzio, e c'era il fatto che con l'arrivo dei nuovi non mi ero trasferito nella camerata dei vice-nonni, ma ero rimasto nella prima camerata, per cui si poteva pensare che fossi giovane di naia. Oltre a questo, ero poco conosciuto, perché alla sera giungevo in camerata quando tutti dormivano, mentre al mattino me ne scappavo via al più presto. Per mia fortuna un nonno che forse mi conosceva venne in mio soccorso e non dovetti subire conseguenze.

Riguardo alla punizione, da sciocco che ero mi sentii irritato. Perciò nei giorni successivi mi misi a fare un po' il lavativo come un buon soldato indurito dalla naia. Non ricordo che cosa feci di preciso o cosa non feci, ma il maresciallo Giuliani lo notò. Egli era buono e nell'accorgersi che ero offeso, forse già il lunedì o al più il martedì, al momento del rancio mi trattenne per un istante in ufficio. Come gli altri furono usciti, mi disse che se mi fossi comportato bene per altri due mesi mi avrebbe trasferito a Padova. Immediatamente i miei occhi si ravvivarono. Non mi chiesi neppure se egli sarebbe stato in grado di mantenere la promessa. Gli risposi subito di sì. Immagino che più delle parole il mio sguardo fosse stato oltremodo convincente e comprovante che mi sarei messo sicuramente a lavorare di buona lena. Nel vedere la mia reazione, anche lui si rallegrò. Da quel momento, tornai a lavorare come prima, meglio di prima. Il maresciallo aveva compreso quanto desiderassi avvicinarmi a casa e si era mostrato disposto ad assecondarmi, anche se ciò avrebbe significato perdermi dopo poche settimane. Nel frattempo Cricetti sarebbe diventato più affidabile ed evidentemente il maresciallo contò anche di ottenere a gennaio altri aiuti con l'arrivo di un nuovo scaglione di soldati.

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58. Il cinturino estivo

Qualche tempo dopo, in occasione di un mio turno per venire a casa, un venerdì pomeriggio (forse il 27 novembre) verso le quattro e mezza giunse in ufficio un soldato di servizio presso l'ingresso principale ad annunciare che al piano terreno un civile aveva chiesto di me. Ottenuto il permesso dal maresciallo, scesi. Proprio sotto l'ufficio c'era la stanza dei visitatori. Entrato, trovai Riccardo Brugnolo, il quale, trovandosi a passare per Cervignano e non essendo l'ora tarda, aveva pensato di venirmi a trovare. Dopo un caloroso saluto da parte di entrambi e dopo aver conversato per qualche minuto, essendo ormai prossima l'ora di chiusura dell'ufficio, mi chiesi se avrei potuto farmi portare a casa da lui quella sera stessa. Gli feci la proposta ed egli accettò prontamente, perché non aveva nient'altro da fare per quella giornata. Purtroppo il mio permesso era in fureria. Per poter uscire avrei dovuto andare a prenderlo, ma lì c'era il maresciallo che mi odiava. Come avrei fatto? Decisi di tentare. Lasciai Riccardo e corsi alla compagnia. Lì, al piano terreno, trovai il caporale che conoscevo, quello della notte di guardia alla porta carraia. Essendo che lui aveva libero accesso alla fureria, gli chiesi di andare a prendermi il permesso senza farsi vedere dal maresciallo. Egli accettò immediatamente senza opporre alcuna obiezione. Saliti al primo piano dov'era situata la fureria, io mi posi dietro lo spigolo della porta aperta ed egli entrò. Dopo qualche istante udii il maresciallo dire:

— Che cosa cerchi?

Il caporale non aprì bocca, ma essendo che aveva già il permesso in mano, il maresciallo lo vide ed immediatamente esclamò: /P>

— Tiongreis? No, no! Non va a casa stasera. Che venga domani mattina a prenderlo!

Resomi conto che il tentativo di procurare il permesso all'insaputa del maresciallo era fallito, senza pensarci due volte entrai in fureria e mi rivolsi al maresciallo, chiedendogli per favore di darmi il permesso, essendo che avevo ricevuto la visita di un amico, il quale mi avrebbe portato a casa in auto.

— No, no! Niente da fare, Niente da fare! Non vai a casa stasera.

A quel punto giocai l'ultima carta.

— Maresciallo, — gli dissi. — Se mi da il permesso, le do il cinturino.

Immediatamente il maresciallo cambiò espressione. Fissandomi con occhi bramosi disse:

— Dov'è? Vai a prenderlo!

Allora corsi nella camerata lì accanto, presi il cinturino estivo e tornai. Egli lo ammirò sorridendo e se lo fece passare attorno alla vita. Era della giusta misura, anzi ne avanzava un pezzettino. Subito si tolse il suo (ufficiali e sottufficiali portano il cinturino estivo anche d'inverno) e me lo consegnò, Quindi si infilò il cinturino nuovo e si ammirò sorridente, voltandosi per qualche istante a destra e a sinistra. Tornato serio e guardandomi con aria cattiva, prese il permesso e me lo consegnò.

— Ecco, puoi andare! — disse con espressione dura. Il patto tra noi era concluso, ed egli tornava al vecchio astio verso di me.

Senza badargli, afferrai il permesso e corsi via. Tornato da Riccardo che mi stava attendendo nella stanza dei visitatori, uscii dalla caserma assieme a lui ed egli mi condusse a casa con la sua FIAT 500.

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59. Un'azione temeraria

Si era agli inizi di dicembre, quando giunsero al reggimento due sergenti AUC (Allievi Ufficiali di Complemento). Uno di questi era molto zelante. Originario della Puglia, era alto pressappoco quanto me. Aveva i capelli castano-chiari un po' ricci e la faccia da bambino di buona famiglia. Una mattina egli ricevette l'incarico di compiere il servizio alla mensa, per portare poi i soldati sul piazzale principale a marciare, fare ginnastica ed alle otto presenziare all'alzabandiera. Quella mattina mi recai anch'io alla mensa, perché avevo saputo che ci sarebbe stata la cioccolata. Giunti in sala, non appena ci fummo tutti seduti, egli disse ad alta voce che aveva udito che qualcuno scappava al termine del rancio. Evidentemente, doveva essere stato un ufficiale a dirglielo, ufficiale che poi all'atto pratico ignorava tale fatto. L'AUC aggiunse in tono minaccioso, per quanto il viso da bambino glielo consentisse:

— Guai a chi tenterà di scappare!

Attesi la fine del rancio ed il comando di attenti. Quando tutti si sarebbero alzati in piedi sarei scappato, sperando di non essere visto. Si giunse all'attenti. Tutti si alzarono in piedi. L'AUC stava presso le cucine ad una decina di metri da me. Fra me e lui si ersero parecchi soldati. Subito mi diressi alla porta, l'aprii ed uscii. Era quella che dava al giardino alberato, al di là del quale c'era la palazzina del comando. Immediatamente udii dietro di me:

— Fermo! Alt!

Evidentemente l'AUC sapeva che in quel momento qualcuno avrebbe tentato la fuga ed aveva tenuto d'occhio le porte d'uscita. Io non diedi ascolto alle sue parole, ma mi misi a saltellare come facevano normalmente i soldati, compiendo tre saltini in un quarello. Pochi istanti dopo la porta della mensa si aprì e dalla porta l'AUC gridò:

— Ehi, tu! Alt! Fermati!

Senza dargli ascolto, continuai a salterellare. Se lui avesse voluto mi avrebbe raggiunto con quattro salti. Ma gli ufficiali, e lui quale futuro ufficiale era come loro, odiavano correre, visto che era un obbligo della truppa. Invece di corrermi dietro l'AUC si volse verso la mensa e gridò:

— Chi è quel soldato? Chi lo conosce? Chi è?

Non udii altro. La porta della mensa si richiuse ed io giunsi saltellando al comando senza intoppi.

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60. La rivelazione

Alcuni giorni addietro avevo scoperto che un soldato che lavorava al comando, e col quale non ero mai uscito in precedenza, era amante di musica classica. Saputo che avevo la sua stessa passione, egli mi disse che non lontano dal centro del paese c'era un bar, il cui proprietario teneva nel retro un impianto acustico ad alta fedeltà con parecchi dischi di musica classica. Udito questo, non persi tempo e mi recai assieme a lui in quel locale. Il barista, un uomo sulla cinquantina, saputo della nostra intenzione, ci fece accedere al retro. Nella stanza vi era un tavolo con alcune sedie, e sopra il tavolo un giradischi stereo ad alta fedeltà, il migliore che avessi mai visto. Presso due angoli della stanza vi erano due casse acustiche alte più di un metro. Da quella sera presi l'abitudine di recarmi spesso in quel bar, dove con un'aranciata potevo trascorrere tutta la serata ascoltando sinfonie e concerti.

La sera dell'incidente alla mensa, dopo una decina di minuti che mi trovavo in quel bar entrò l'AUC pugliese. In qualche modo aveva udito riguardo al barista che permetteva ai soldati di usare il suo impianto stereo, ed era venuto a trascorrere la serata ascoltando quel genere di musica. Egli non mi riconobbe, o comunque non lo diede a vedere. Trascorremmo assieme una splendida serata, ascoltando della eccellente musica e commentandola negli intervalli. Dopo un paio d'ore trascorse in quel luogo, divenimmo grandi amici (se non fosse per la mia ritrosia a dare del tu ai superiori, avrei potuto farlo liberamente). Data la passione comune, ci apprezzavamo a vicenda, ed era piacevole ascoltare assieme la bella musica e conversare.

Verso le undici uscimmo e ci dirigemmo a piedi verso la caserma. La notte non era particolarmente fredda ed essendo accaldati era piacevole anche percorrere il tragitto a piedi verso la caserma. Preso dalla confidenza, ad un tratto gli chiesi:

— Sergente, sa chi era quel soldato che questa mattina scappò dalla mensa?

L'AUC si fermò di botto e mi scrutò con il viso attento e serio. Forse aveva avuto il dubbio fin dall'inizio della serata che fossi io, ma aveva preferito credere che non lo fossi. Quando gli dissi: “Ero io,” l'AUC proruppe in un urlo:

— Aaah!

Egli sollevò le braccia con i pugni chiusi e, preso da una forte conflitto, si mise ad agitarli in aria. Lo fissai sbalordito. Quando gli avevo detto che ero stato io non mi ero minimamente immaginato che ciò avrebbe prodotto quell'effetto su di lui. Tuttavia, l'aver davanti a sé la persona che aveva ammesso spontaneamente la propria colpa, per cui avrebbe dovuto punirla, mentre nello stesso tempo provava simpatia per la piacevole serata trascorsa assieme, gli creava evidentemente un forte conflitto interiore. Dopo qualche istante, come si fu calmato ed ebbe abbassate le braccia, disse con un filo di voce:

— Dovrei punirti.

Ma non lo fece. Scioccamente avevo rotto l'incantesimo. La nostra grande amicizia si era incrinata. Il resto della strada lo percorremmo parlando quel tanto che era necessario per non mostrare il broncio. Dopo di allora non ebbi altre occasioni di trascorrere delle serate assieme a lui, e nemmeno un mese dopo lasciavo definitivamente il reggimento.

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61. Un caro compagno delle elementari

Dopo ciò che era successo al rancio del mattino, non mi arrischiai più a frequentarlo per andare a prendere la cioccolata. In effetti, non succedeva tutti i giorni che ci fosse questa a colazione e non sarebbe stata una grande perdita. Però in quei giorni, non ricordo se a pranzo o a cena, mi si avvicinò Nanni Ceolin, un ex compagno di scuola delle elementari. Era la prima volta che lo vedevo e fu una sorpresa per me come per lui scoprire che facevamo il militare nella stessa caserma. Stranamente, pur vivendo nella stessa caserma da mesi, non ci eravamo mai incontrati prima di allora.

Quella sera andai in libera uscita assieme a lui, e per strada parlammo della nostra situazione, di quali compiti avevamo e di come ce la passavamo. Venni così a sapere che faceva il cameriere presso il circolo ufficiali. Forse fu per questo motivo che non ci si incontrava mai, perché avevamo orari ed abitudini diversi. Comunque, per il fatto che gli raccontai che non mi recavo più a fare la colazione presso la mensa (non lo faceva nemmeno lui), egli disse che quando al circolo preparavano il tè per gli ufficiali trattenevano la bustina e con quella se lo facevano poi per se stessi. Quindi aggiunse che, se avessi voluto, avrei potuto recarmi alla mattina sul retro del circolo ufficiali, nella stanza occupata dagli inservienti e lui mi avrebbe preparato un tè usando le bustine che trattenevano. Non sarebbe costato niente. In quanto alla fettina di limone ed allo zucchero, questi non erano soggetti a controllo e li si poteva prendere liberamente. Da allora presi l'abitudine di recarmi alla mattina a prendere il tè nel (retro del) circolo ufficiali. Lì m'intrattenevo un poco con Nanni e con chi altri stava con lui, prendevo il tè al limone e poi me ne andavo, dopo aver lasciato una piccola mancia per loro che mi avevano servito. Così coltivai l'amicizia con Nanni e nello stesso tempo presi a fare colazione, non saltuariamente come prima, ma tutte le mattine.

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62. Un incarico gravoso

Qualche tempo dopo, forse verso la metà di dicembre, un giorno il maresciallo Giuliani mi trattenne per alcuni istanti al momento del rancio. In quel periodo mancava il sergente maggiore Giacomazzi, che stava frequentando un corso di addestramento, forse in vista di una futura promozione a maresciallo. Giuliani mi disse che il giorno dopo egli non avrebbe potuto venire in ufficio e mi chiese se me la sentivo di prendere il suo posto. Ciò avrebbe significato compiere il suo lavoro alla scrivania e dirigere i lavori di battitura a macchina degli altri soldati. Ovviamente, per senso di dovere non ci pensai due volte e risposi subito affermativamente, ma dentro di me mi sentii friggere la testa. Fino ad allora, non solo durante il servizio militare, ero sempre stato dipendente e sottomesso ad altri. Fare o non fare quello che mi veniva ordinato era una cosa, e c'ero abituato, ma assumermi la responsabilità verso altri era tutt'altra cosa, e mi intimoriva. C'era anche il fatto che quello era l'ufficio più importante del reggimento, in quanto alle dipendenze del colonnello, ed era un ufficio dove si svolgeva molto lavoro. Sicuramente non sarei stato biasimato se tutto non avesse funzionato alla perfezione, ma una volta assunto l'incarico avrei desiderato che tutto andasse effettivamente per il meglio. Probabilmente quando mi aveva chiesto di tornare a comportarmi bene e mi aveva offerto la possibilità di essere trasferito a Padova, il maresciallo sapeva già di questa eventualità, e voleva poter contare pienamente su di me. Io, però, non solo mi sentii a disagio per la responsabilità che mi affidava, ma non mi sentii nemmeno degno di tale incarico, perché che a mio avviso Levi sarebbe stato più adatto, essendo egli più anziano d'ufficio di almeno un mese ed avendo il titolo di geometra, mentre io possedevo solo la licenza media. Ma evidentemente il maresciallo la pensava diversamente, per cui in fin dei conti, nonostante il timore, mi sentii molto onorato di tale fiducia. Nel pomeriggio egli avvisò anche gli altri soldati che il giorno dopo l'avrei sostituito e che avrebbero dovuto ubbidire a me. A sera prima di lasciare l'ufficio egli mi diede le ultime raccomandazioni e mi ricordò le cose che si sarebbero dovute fare il giorno dopo. Di nuovo provai quella sensazione che solo in poche altre occasioni ebbi modo di sentire, un friggimento alla testa. Mentre da un lato mi sentii esaltato, nello stesso tempo provai timore. Sarei riuscito a soddisfare le aspettative del maresciallo? Avrei sicuramente fatto del mio meglio per riuscirci.

Il giorno dopo come iniziò l'orario d'ufficio, presi posto presso la scrivania del maresciallo ed assegnai ad ognuno il lavoro di battitura da compiere. Subito Levi e Cricetti si misero al lavoro come di consueto. Il napoletano dalle ciglione scure invece rimase seduto tranquillamente davanti alla macchina per scrivere, senza fare alcuna cosa. Lasciai trascorrere alcuni minuti, poi mi avvicinai e gli chiesi perché non lavorasse.

— Mi fa male o bracc(e). — rispose indicandomi un braccio.

Subito fui colto da una grande ira, poiché mi resi conto che si trattava di una bugia. Tuttavia mi controllai ed accettai la sua spiegazione. Lo feci alzare, mi sedetti al suo posto e feci il suo lavoro. Poi tornai alla scrivania e per il resto della giornata mi alternai tra questa e la macchina per scrivere, visto che egli non voleva fare niente. Mi chiedo che cosa sarebbe successo se l'aiutante maggiore ne fosse venuto a conoscenza, essendo che, se proprio avesse avuto male, avrebbe dovuto marcare visita e recarsi in infermeria. Invece egli trascorse tutta la giornata seduto del tutto immobile presso la macchina per scrivere, non facendo assolutamente niente. Questo fu il primo incidente che mi capitò di affrontare, il quale ridusse ulteriormente il numero di effettivi dai normali sei a tre. Ciononostante sono contento di essermi comportato in quella maniera, perché se avessi agito d'impulso, forse sarei incorso in problemi più seri.

Un piccolo problema sorgeva a volte quando rispondevo al telefono. Di solito era il maresciallo Giuliani a rispondere o, in sua mancanza, il sergente maggiore Giacomazzi. Perciò, quando nel rispondere dicevo: "Pronto, ufficio maggiorità del reggimento, fante Dave Tiongreis," colui che chiamava, di solito un ufficiale o un sottufficiale, mi chiedeva del maresciallo. Quando gli dicevo che non c'era e che poteva parlare a me, questi rimaneva perplesso, ma dopo un momento di riflessione mi comunicava ugualmente il messaggio. Se non si fosse mostrato disposto a parlare l'avrei indirizzato all'aiutante maggiore, ma per quel che ricordo ciò non avvenne mai.

Un altro problema insorse verso sera. Ogni pomeriggio si ricevevano dalle compagnie e battaglioni gli elenchi degli automezzi che sarebbero usciti il giorno dopo, i quali avrebbero dovuto essere approvati e firmati dal colonnello. In essi era compreso anche il mezzo sempre a disposizione del comando, con il quale mi ero recato a Villa Vicentina a prendere il Winchester dimenticato. Di solito poco dopo le quattro e mezza il maresciallo consegnava il rapporto dattilografato, assieme ad ogni altro incartamento, all'aiutante maggiore La Fede, il quale si recava dal colonnello con esso e con quant'altro doveva sottoporre alla sua firma. Non si doveva tardare, perché alle cinque il colonnello lasciava l'ufficio, e per quel tempo egli doveva avere avuto il tempo non solo di firmare, ma anche di esaminare ogni cosa. Purtroppo, il tenente che svolgeva l'incarico di aiutante maggiore in seconda del primo battaglione di Villa Vicentina spesso tardava a comunicare il suo elenco. In tali casi, il maresciallo, pur essendo di grado inferiore, alzava la voce, e dopo ciò il tenente forniva i dati. Come si sarebbe comportato questa volta? Avrebbe approfittato del fatto che non c'era il maresciallo?

Poco dopo le quattro chiamai l'aiutante maggiore in seconda del battaglione di Villa Vicentina, un tenente.

— Ufficio maggiorità del reggimento, fante Dave Tiongreis. Comandi signor tenente. Telefono per le macchine.

— Non sono ancora pronte. Chiama più tardi.

Cinque minuti più tardi avvenne la stessa cosa e così pure dopo altri cinque minuti. Dopo qualche altro minuto il capitano La Fede chiamò dal suo ufficio con voce non molto alta:

— Tiongreis, le macchine.

Allora richiamai Villa Vicentina, ma la risposta fu sempre la stessa. Trascorso qualche minuto, il capitano chiamò con voce un po' più alta:

— Tiongreis, le macchine!

Richiamai Villa Vicentina, ma il tenente mi ripeté che non erano ancora pronte. Dopo altro un po' il capitano La Fede mi chiamò con voce adirata:

— TIONGREIS, LE MACCHINE!

Allora corsi nel suo ufficio e gli spiegai che il tenente di Villa Vicentina continuava a dirmi che non erano ancora pronte. Il capitano afferrò il ricevitore del suo telefono, fece fare un paio di giri alla manovella di richiamo del centralino e, sforzandosi di apparire calmo, chiese di essere messo in comunicazione con l'aiutante maggiore di Villa Vicentina. Come quello rispose, il capitano proruppe in una sfuriata con voce così alta, che mi capitò di pensare che se solo avesse aperto la porta-finestra dell'ufficio, il tenente l'avrebbe udito ugualmente anche senza telefono, essendo che Villa Vicentina si trova a soli quattro chilometri in linea d'aria. Finita la sfuriata, il capitano mi disse con voce forzatamente calma:

— Va in ufficio che ora te le passa.

Infatti, non feci in tempo ad arrivare in ufficio che il telefonò squillò e l'aiutante maggiore in seconda mi passò l'elenco delle macchine del primo battaglione che sarebbero uscite di caserma il giorno dopo. Presone nota su un foglio di carta, mi recai subito ad una macchina per scrivere e le aggiunsi alla lista. Quindi mi recai nell'ufficio dell'aiutante maggiore e gli consegnai ogni cosa. Ritornato in ufficio tirai un grosso sospiro. Le cose più importanti per quel giorno erano state portate a compimento. Nel tempo rimanente fino al rancio serale si sarebbe fatto del lavoro di routine con scadenza non immediata.

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63. Trasferimento a Padova

Si giunse alla fine di dicembre ed il maresciallo mi annunciò che sarei stato trasferito al tribunale militare di Padova. Ora qui c'è un piccolo mistero. Io possiedo il documento Trasporti militari - persone rilasciato dal comando del reggimento e datato mercoledì 30 dicembre, che mi avrebbe consentito di viaggiare gratis fino a Padova, ed un permesso per il presidio di Cervignano, datato giovedì 31 dicembre. Perché mi fu dato quel permesso di presidio? Non lo ricordo. Se mi fu dato per poter uscire di caserma ed andare fino alla stazione, non ne vedo la necessità, perché ero uscito altre volte senza alcun permesso durante l'orario d'ufficio. Comunque sia, probabilmente presi effettivamente il treno proprio quel giorno, il 31 dicembre 1964, non il 30, ma non ricordo quando mi presentai al tribunale. Forse lo feci il giorno dopo, il primo gennaio (venerdì), e quando lo feci mi si disse di tornare il lunedì successivo. Infatti ricordo che iniziai a lavorare al tribunale a partire da lunedì 4 gennaio. Come impiegai quei giorni intermedi? Molto probabilmente li trascorsi a casa, recandomi in caserma solo per dormire, poiché non c'era alcuna limitazione in quanto ad uscire dalla caserma Piave dove fui alloggiato, e in qui primi giorni non mi fu assegnato alcun servizio.

Come venne il lunedì e mi recai in tribunale, feci la conoscenza di Pietro Zavoli, un soldato più giovane di naia di me che già prestava servizio lì, e con i graduati con cui avrei lavorato nei mesi successivi. Zavoli era un bravo giovane originario di Bergamo o Brescia, un pelo più alto di me, carnagione chiara, capelli castani leggermente tendenti ad un biondo-rosso e la erre moscia. Quando mi pronunciò il suo nome ebbi difficoltà a capirlo, perché disse: "Pieo Zavo(l)i". Lo compresi solo dopo che l'ebbe pronunciato una seconda o una terza volta.

Il reparto dove lavorai era composto da un breve e stretto corridoio, ai lati del quale c'erano due uffici ed un servizio igienico. Il corridoio sboccava nell'ufficio più grande di tutti, quello del generale Galuppi, il nostro capo, un uomo prossimo alla sessantina, dai capelli grigi, magro ed alto più o meno quanto me. Entrava in ufficio ogni mattina borbottando sottovoce qualche canzoncina. Per il resto lo si vedeva molto di rado. Il suo era un ufficio splendido, arredato con bei mobili, quadri e varie suppellettili. Io, Zavoli e un maresciallo maggiore occupavamo invece uno stanzino non molto grande, dotato di una piccola scrivania, un tavolino, una macchina per scrivere ed alcune sedie. Il maresciallo però lo si vedeva di rado, per cui quell'ufficietto era tutto per noi due, Zavoli ed io. Nell'altro ufficio, dal lato opposto del corridoio, ben più grande e meglio arredato del nostro, lavorava il tenente Russo, un ufficiale di origine meridionale, forse calabrese, una persona straordinariamente affabile che non faceva pesare minimamente il suo grado. Ma naturalmente ci si comportava verso di lui come richiesto, mettendosi sull'attenti quando lo si incontrava e pronunciando: "Comandi signor tenente". Per la sua età egli avrebbe dovuto già essere capitano, ma aveva impiegato i suoi primi anni di servizio militare come carabiniere, e come passò alla fanteria dovette riprendere dal grado inferiore.

Come ho già detto, il tenente Russo era una persona molto affabile. Nel giro di pochi giorni divenne ancora più amichevole nei miei confronti, quando scoprì che ero nipote del suo sarto, Andrea Giovannini, con il quale aveva un buonissimo rapporto. Evidentemente in occasione di una sua visita gli aveva detto che era giunto a compiere il servizio militare in tribunale un giovane soldato padovano. Così, una parola tira l'altra, venne a sapere che ero suo nipote.

A parte lui e Zavoli, avevo pochi rapporti con le altre persone impiegate nel tribunale, perché non si aveva occasione di vedersi, essendo che l'ufficio in cui prestavo servizio era al piano terreno, del tutto isolato dagli altri uffici del tribunale, che risiedevano al piano superiore, nei quali forse lavoravano anche altri soldati. Lo stesso bar del tribunale, in cui prestava servizio un soldato, si trovava in un luogo del tutto isolato presso il portone d'ingresso. Questi lo vedevo per pochi istanti al mattino quando mi recavo a prendere il caffè. Al di fuori di quell'orario non mi azzardavo mai a metterci piede, perché non desideravo incontrarmi con gli ufficiali.

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64. Alcuni processi

C'era però un soldato addetto alle pulizie, un veneto di cui non ricordo il nome, il quale svolgeva anche l'incarico di piantone nella sala delle udienze durante i processi. Una volta mi chiese se avrei gradito essere presente ad un processo. Accettai. Così, come avvenne che una mattina in cui ci furono delle udienze mi trovai senza lavoro ed ebbi del tempo libero, presi il suo posto. Non avrei dovuto far altro che stare in piedi presso la porta della sala delle udienze ed essere pronto ad intervenire qualora mi fosse stato chiesto qualche servizio. Non mi fu chiesto niente, ma ebbi l'occasione di essere spettatore di alcuni processi. Non accadde niente di speciale. Si trattarono per lo più processi per diserzione, ossia ritardi nel presentarsi alla leva, e la pena consisté in un periodo di detenzione più o meno lungo da trascorrere nel carcere di Peschiera sul Garda. Anche le arringhe degli avvocati furono standard, cioè pressoché tutte uguali. Se mi aspettai qualcosa di straordinario, come ciò che si vede nei film, rimasi deluso.

In effetti, ritengo che i processi siano per lo più tutti altrettanto deludenti. Qualche anno fa mi recai nel tribunale civile di Padova a motivo del processo contro un tizio, Achille Brandolin di Anguillara (Rovigo), che aveva rotto una finestra di casa ed era entrato per rubare. Fui invitato a presentarmi alle nove. Il processo si fece poco dopo mezzogiorno, ma non fui interpellato. Al momento del processo il Brandolin era assente e fu giudicato in contumacia. Giunse nel momento in cui la giudice stava leggendo la sentenza. Egli aveva altri precedenti non ancora scontati, perché ricevuti con la condizionale. A motivo di questa nuova infrazione egli ricevette complessivamente sette mesi di carcere, che furono ridotti ad un terzo, cioè a due mesi e dieci giorni, che avrebbe dovuto effettivamente scontare. Non gli fu richiesto nemmeno di compensarmi del balcone che aveva rotto per entrare in casa.

Gli altri processi dei quali fui spettatore tra le nove e mezzogiorno furono tutti più o meno scialbi, con arringhe pressappoco tutte uguali. Se ricordo bene, gli unici a ricevere una pena da scontare effettivamente furono il mio ladro ed un'altra persona che già stava in carcere per omicidio. Negli altri casi, le lievi pene vennero ridotte ad un terzo e soggette a condizionale. Un processo diverso dagli altri e che ruppe la monotonia della mattinata, fu quello di un uomo che avrebbe dovuto consegnare dei mobili di casa ad un suo parente, perché gli appartenevano. Ad ogni domanda della giudice, invece dell'imputato interveniva sempre sua moglie che gli stava accanto, la quale non lasciava parlare né il marito e a volte nemmeno la giudice. Essa disse con voce alta e bisbetica che per non dover consegnare i mobili al parente li aveva già bruciati nel proprio cortile. A quel punto la giudice chiese alla parte lesa se era disposto a rinunciare alla causa e questi, su consiglio del proprio avvocato, accettò. Ci rimise sia le spese giudiziarie che i mobili.

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65. Tran tran quotidiano tra caserma ed ufficio

A differenza di Cervignano, a Padova la vita di caserma era pressoché priva di disciplina. Riguardo a questo preferivo il reggimento, nonostante gli inconvenienti. Come in tutte le caserme d'Italia, la sveglia suonava alle sei e mezza, ma a Padova si continuava a rimanere a letto, perché non c'era nessuno che ci facesse alzare, e se anche ci si fosse alzati non ci sarebbe stato niente da fare. Il primo impegno comune era l'alzabandiera alle otto. Ci si cominciava ad alzare un quarto d'ora prima di quell'ora e ci si presentava nel piazzale in cui si compiva la cerimonia vestiti della sola maglietta da ginnastica, indipendentemente dal freddo, dalla pioggia o dalla neve: ordine del comandante della compagnia, il tenente Gioacchino De Carolis. Odiavo quel modo di fare. Avrei voluto alzarmi prima. Se fossi stato nonno l'avrei fatto, ma per timore degli altri soldati, non lo facevo. Comunque, non appena qualcuno si alzava, balzavo dalla branda e mi recavo di corsa a lavarmi il viso, prima che giungessero gli altri.

Subito dopo l'alzabandiera ci si recava al rancio, dove in genere non prendevo niente, a meno che non ci fosse la cioccolata. Visto che il rancio avveniva dopo l'alzabandiera, non avevo motivo per evitarlo, come facevo a Cervignano. Al termine del rancio, verso le otto e mezza, Zavoli ed io ci si incamminava verso il tribunale militare. Si giungeva una decina di minuti prima delle nove. Lì, in genere prendevo il caffè, e quindi mi recavo in ufficio. Zavoli non lo faceva, perché aveva già fatto colazione in caserma. A volte la macchina del caffè non era ancora in pressione e dovevo attendere alcuni minuti. In quel frattempo a volte giungevano uno o due ufficiali, dei tenenti. Questo accadeva di rado e non creava alcun problema.

Non ricordo fino a che ora si dovesse rimanere in ufficio; forse fino alle due del pomeriggio. Riguardo ai pasti, non ricordo chiaramente come avvenissero. Da parte mia verso mezzogiorno mangiavo i panini portati da casa, mentre Zavoli probabilmente si portava qualcosa dal rancio del mattino. Infatti, essendo che tutti i residenti della compagnia lavoravano in uffici, probabilmente c'era la possibilità di portare qualcosa con sé per il pranzo di mezzogiorno, ma non ne sono sicuro. Al termine dell'orario di lavoro prendevo l'autobus che mi avrebbe portato a casa, dove avrei trascorso il pomeriggio. A sera avrei cenato in famiglia e poi tu mi avresti portato con l'auto in caserma. A scanso di imprevisti, si partiva con un certo anticipo. Sarebbe stato un guaio se fossi giunto dopo la chiusura del cancello. Come giungevo in camerata, mi mettevo a letto, anche se non era stato ancora suonato il silenzio. Così si concludeva la mia routine quotidiana.

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66. Assegnazione a servizi in caserma

Per quel che ne so, tutti gli effettivi della caserma Piave dove alloggiavo erano impiegati in uffici. Perciò nessuno era esente dai servizi. Così una volta mi capitò di dover pulire il pentolone usato per cucinare. Che cosa non avrei fatto per evitarlo! Mi fu spiegato che dapprima avrei dovuto dargli una pulita superficiale con un getto d'acqua. Poi l'avrei pulito con una spugna impregnata di detersivo. Infine l'avrei risciacquato, usando ancora una volta il getto d'acqua. Le prime due parti furono le più difficili. Il solo avvicinarmi al calderone puzzolente mi faceva rivoltare lo stomaco. Se avessi dovuto rifarlo, penso che avrei cercato di farmi sostituire compiendo in cambio qualche altro servizio.

Un secondo servizio che mi toccò compiere fu la guardia notturna. Correva la voce che in precedenza essa venisse svolta da guardie civili (lo dubito) e che in seguito per risparmiare quella spesa la si fosse affidata agli effettivi della caserma. Comunque fosse, nei due mesi che trascorsi in quella caserma ricevetti due volte quell'incarico. Come richiesto, mi presentai alle dieci di sera presso la stanzetta assegnata alla guardia. Vi trovai un caporale ed un altro soldato. Ad orari prestabiliti avremmo dovuto compiere un percorso che ci avrebbe fatti passare per alcuni punti chiave della caserma, dove erano collocati dei congegni ad orologeria. Non appena giunto al posto di guardia il caporale mi spiegò in che cosa consisteva il servizio e mi fece subito compiere l'intero giro della caserma, per mostrarmi il percorso da compiere ed i luoghi dov'erano sistemati i congegni di registrazione. Lì avrei dovuto attestare il passaggio inserendo una chiavetta nel meccanismo, il quale avrebbe praticato un foro su un rotolo di carta che ruotava lentamente dentro l'apparecchiatura. In questo modo si sarebbe registrato l'orario del passaggio. Il giorno dopo tutte le registrazioni sarebbero state esaminate e confrontate con l'elenco degli orari di percorrenza che ci erano stati consegnati (essi variavano di notte in notte). I giri d'ispezione sarebbero stati percorsi a turno da ognuno di noi, alternandoci. Tra un giro e l'altro si sarebbe cercato di dormire vestiti sulle brande presenti nella stanzetta.

Per compiere il servizio di guardia ci fu dato un fucile Winchester, poiché non se ne aveva in dotazione, dal momento che il compito degli effettivi nella caserma era di servire in uffici. Ci fu consegnato anche un caricatore di pallottole, che però non si doveva inserire nel fucile. Lo si sarebbe inserito solo in caso di necessità, qualora avessimo incontrato qualche estraneo durante il giro d'ispezione. In tal caso avremmo dovuto dare l'alt una prima ed una seconda volta. Quindi, se ciò non fosse servito a nulla, avremmo sparato un colpo in aria. Infine, se anche questo non fosse servito a niente... avremmo deciso in base alle circostanze. Negli intervalli tra i giri d'ispezione ci si sdraiava su una branda e si cercava di dormire. Non c'era riscaldamento nella stanzetta, ma non ricordo di aver provato freddo. La coperta a nostra disposizione sembrò sufficiente. Tuttavia non fu facile dormire vestiti su una branda priva di lenzuola. Quando toccava il turno successivo, non bisognava sdraiarsi per non prendere sonno. Allora si stava seduti, controllando di tanto in tanto l'orario, finché non veniva il momento di andare a compiere il giro d'ispezione. Allora si avvisava il soldato del turno successivo, si compiva il giro e quindi ci si sdraiava sulla branda.

Nel compiere i giri d'ispezione avevo più paura di quando avevo fatto la guardia a Cervignano. La caserma era illuminata con poche lampadine, ed il percorso comprendeva cortili e androni. Ad ogni giro d'angolo mi chiedevo che cosa avrei trovato di là, e quando camminavo nei cortili mi chiedevo se qualcuno mi stesse osservando. Come a Cervignano, per non mostrare di avere paura e provare un maggior senso di sicurezza evitavo di guardarmi attorno. Se l'avessi fatto avrei provato ancora più paura. Come giungevo ad un angolo dove c'era il meccanismo ad orologeria, prendevo la chiavetta, l'inserivo nel buco simile a quello di una serratura, gli facevo fare un giro e quindi l'estraevo. Il rotolo di carta veniva bucato in corrispondenza dell'ora dell'operazione. Quelli erano i momenti in cui provavo meno paura, forse perché l'attenzione era tutta concentrata sulla macchinetta. Al ritorno mi rimettevo in branda e mi sforzavo di dormire. Ricordo di aver dormito molto poco, a tratti di un quarto d'ora o al massimo mezz'ora. Comunque, in entrambi i casi che compii il servizio, al mattino non mi sentii eccessivamente stanco e perciò la guardia notturna non m'impedì di compiere il giorno successivo il normale servizio al tribunale.

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67. Una prestazione particolare

A parte queste brevi descrizioni di vita di caserma, ho pochi altri ricordi del periodo che trascorsi a Padova servendo presso il tribunale militare, per il fatto che come lasciavo l'ufficio prendevo subito l'autobus e venivo a casa. Ricordo solo alcuni piccoli fatti d'ufficio che non vale nemmeno la pena menzionare. Ne cito solo uno avvenuto pochi giorni prima che lasciassi il servizio, il quale ha relazione con il generale Galuppi.

Un giorno egli mi consegnò una lettera o documento da dattilografare. Avrei dovuto consegnarglielo il giorno successivo. Quel giorno avevo poco da fare, per cui decisi di fare qualcosa di straordinario. Anni addietro avevo scoperto una tecnica per giustificare anche il lato destro dei testi dattiloscritti. Ottenevo questo risultato dattilografando una prima copia del documento. Poi su di essa tracciavo a matita una riga verticale in corrispondenza del testo più sporgente, la quale mi avrebbe permesso di vedere quanti spazi avrei dovuto aggiungere ad ogni riga per far sì che il testo risultasse allineato. Poi ridigitavo la pagina spartendo i semispazi aggiuntivi su tutta la riga. Perché semispazi e non spazi interi? Perché con le macchine meccaniche c'era la possibilità di spostare i caratteri di solo mezzo spazio. Si otteneva questo risultato tenendo premuto il tasto degli spazi mentre si digitavano i caratteri. I semispazi aggiuntivi erano poco appariscenti e l'effetto che ne risultava era molto bello, tanto più se si tiene conto che a quel tempo non esistevano testi dattilografati giustificati su entrambi i lati.

Perciò digitai il documento usando questa tecnica. Quando il generale venne a prenderlo, glielo consegnai senza dirgli niente. Egli lo prese in mano e si mise ad esaminarlo. Seguendo con attenzione ogni sua reazione, notai che come lo scorse egli spalancò per un istante gli occhi per la sorpresa. Tuttavia non disse nulla. Finito di leggerlo, mi ringraziò e ritornò nel suo ufficio, senza menzionare il fatto che il testo era giustificato anche a destra.

Perché non disse niente? Pensò forse, non essendo esperto di macchine per scrivere, che quel tipo di digitazione fosse del tutto normale e che di solito non la si compisse per mancanza d'istruzione? O pensò che non fosse dignitoso da parte sua complimentarsi con me per una bazzecola del genere? Quale che fosse il motivo, mi dispiace per lui. Se avesse parlato, avrebbe potuto richiedere che si digitassero i testi sempre in quella maniera. Allora avrei potuto insegnare la tecnica a Zavoli, il quale a sua volta avrebbe potuto un giorno fare la stessa cosa con i soldati che sarebbero venuti a compiere il servizio in quell'ufficio ed il generale avrebbe fatto un'egregia figura con i documenti e le lettere che sarebbero usciti dal suo ufficio. Purtroppo non ebbi altre occasioni di mettere in pratica quella tecnica. Se mi avesse dato un altro documento da dattilografare e non l'avessi digitato in quella maniera, forse egli avrebbe chiesto una spiegazione, ma non ne ebbi l'opportunità, perché pochi giorni dopo accadde un fatto straordinario che avrebbe mutato definitivamente il corso del mio servizio militare.

Quella tecnica di scrittura con la macchina per scrivere la usai un'ultima volta qualche anno più tardi per compilare la mia tesi di laurea. Sotto questo aspetto la mia tesi fu senz'altro rimarchevole.

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68. Ricovero in ospedale

Domenica 28 febbraio provai un grande malessere al risveglio. Probabilmente nei giorni precedenti avevo avuto l'influenza, ma non in misura tale da creare eccessivi problemi. Ricordo solo che il giorno prima non mi ero sentito bene. Quella mattina invece mi sentii veramente male. Come ogni domenica, presi l'autobus e venni a casa. Ricordo che quel giorno lo trascorsi quasi tutto a letto, con la febbre alta. Un altro particolare che ricordo di quella giornata e che in seguito ebbe delle conseguenze è che mi facesti ascoltare una registrazione dei Swingle Singers, i quali cantavano della musica di Bach. Quel modo di cantare musica scritta per strumenti era del tutto nuova e mi piacque molto. A sera, quando venne il momento di ricondurmi in caserma, si convenne di farmi ricoverare in ospedale, perché durante la giornata la febbre era ulteriormente aumentata ed aveva raggiunto livelli molto alti. Perciò, anziché in caserma, mi conducesti all'ospedale militare di Padova, dove fui immediatamente ricoverato.

Quella prima notte la trascorsi in una specie di dormiveglia delirante, in cui ero costantemente ossessionato da uno dei bei pezzi di Bach che avevo ascoltato durante la giornata. Esso aveva un ritmo oscillante, e mentre si ripeteva nella mente sembrava che mi facesse muovere le gambe in su e in giù. In realtà non le muovevo, ma nel delirio mi sembrava che andassero su e giù come quando si pigia l'uva nei tini, e non riuscivo ad eliminare quella fastidiosa sensazione, né a distogliere la mente da quella musica che era diventata ossessionante. Il mattino successivo fui visitato da un medico, il quale mi prescrisse i raggi al torace. Poco più tardi, in mattinata, mi recai barcollando per la debolezza nel reparto radiologia ad effettuare i raggi prescritti. Come giunsi lì cominciai a perdere la vista: delle macchie nere sempre più numerose cominciarono a coprirmi la visuale. Mi ricordai che anni prima avevo vissuto un'esperienza simile e che a seguito di ciò ero svenuto. Resomi conto di questo, mi accucciai prontamente, in modo da non farmi male cadendo. Persi la conoscenza che ero quasi seduto sul pavimento. Mi risvegliai poco dopo. Due infermieri mi stavano accanto. Essi mi sollevarono e mi fecero fare le lastre rimanendo sdraiato, poiché il reparto offriva anche quella possibilità. Quindi mi deposero su una barella e mi trasportarono in camerata. Poco più tardi fui informato che mi erano state prescritte delle iniezioni – tre al giorno – e delle pastiglie.

Verso mezzogiorno venisti a farmi visita e mi portasti un litro di succo d'arancia. In quei primi giorni che non mangiai niente, quei succhi d'arancia quotidiani furono davvero provvidenziali e mi impedirono di indebolirmi ulteriormente. Probabilmente facilitarono anche la guarigione. Successivamente, quando fui in grado di mangiare, mi portasti quotidianamente dei cibi solidi, come panini e frutta, perché non mangiavo niente di ciò che l'ospedale offriva. Forse lì i cibi erano migliori di quelli delle caserme, ma tu sai che sono molto delicato e che a tutt'oggi non mangio mai alcun primo né secondo, a parte una bistecca o del pollo arrosto, e tali cibi venivano offerti solo nei giorni festivi. Per questo motivo, le cose che mamma preparava e tu regolarmente mi portavi furono davvero molto utili.

La cura prescritta produsse i suoi effetti fin dal primo giorno. Infatti, la notte successiva dormii normalmente. Forse era stata la febbre alta a farmi delirare, e le medicine l'avevano fatta abbassare.

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69. Il problema delle iniezioni

Un problema che dovetti affrontare fin dall'inizio fu il dover ricevere tre iniezioni al giorno, una delle quali produceva un forte bruciore. Io avevo sempre temuto le iniezioni; il sapere di doverne ricevere tre al giorno mi parve un mezzo incubo. A questo riguardo ricordo un fatto curioso. Quando l'infermiere mi faceva l'iniezione, per non sentire il dolore rilasciavo il muscolo della zona dove avrei ricevuto la puntura e nello stesso tempo concentravo la mente su un'altra parte del corpo e tendevo i muscoli di quest'altra zona. A sua volta l'infermiere, immaginando che avessi i muscoli tesi, prima di inserire l'ago mi dava uno schiaffetto. Agendo in tale maniera, normalmente chi riceveva la puntura rilasciava il muscolo e in quell'istante egli inseriva la siringa. Purtroppo, nel mio caso avveniva l'opposto, perché stavo già con il muscolo rilassato. Resomi conto di questo fatto, cominciai a prestare particolare attenzione in modo che quando mi dava il colpetto il muscolo non si tendesse. Stranamente non pensai minimamente di dirgli di non darmi lo schiaffetto.

Fin dai primi giorni, però, per sopportare meglio le iniezioni mi resi conto che la cosa migliore da fare fosse di illudermi che ero forte e che non le temevo. In questo fui aiutato da Veggiù, un veneto, un lazzarone, fonte di parolacce ed azioni oscene, il quale risiedeva in un letto non lontano dal mio. Quando doveva ricevere un'iniezione, egli scendeva dal letto e se la faceva fare stando in piedi. Così pensai che, se avessi fatto la stessa cosa, avrei mostrato a me stesso di non temere le iniezioni, anche se in effetti ciò non avrebbe comportato nessuna differenza in quanto al dolore, e le avrei sopportate meglio. Così presi ad imitare quel lazzarone, nonostante non fosse una persona da imitare in altre cose, e da allora in poi ricevetti tutte le iniezioni rimanendo in piedi. Anche quando con il tempo la zona dei reni si indurì per le molte iniezioni ed esse divennero ancora più dolorose, continuai ad agire in questa maniera, sforzandomi allo stesso tempo di non prestare attenzione al male.

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70. Partecipazione al rosario

Non appena fui in grado di alzarmi da letto fui invitato a partecipare al rosario che si teneva in una chiesetta, a cui si accedeva dallo stesso corridoio che dava alla camerata. Ogni sera, non ricordo a che ora, forse poco dopo le sei e mezza, dopo cena, il caposala faceva sloggiare tutti affinché ci si recasse nella cappellina. Io non ero tanto propenso ad andarci, ma non potei farne a meno. La chiesetta era piuttosto antica, ma in ottimo stato. Aveva perfino un armonio, con il quale si veniva accompagnati nel canto che veniva fatto al termine del rosario.

Complessivamente, trascorsi in ospedale circa un mese e mezzo. Fui dimesso mercoledì 14 aprile, ma circa una settimana prima venne dimesso il caposala e mi trovai ad essere il soldato più anziano sia di naia che di degenza, per cui la madre superiora mi nominò caposala, nonostante le mie timide proteste. Non desideravo essere investito di quell'incarico perché, come ho già detto in un'altra occasione, mi sentivo, come mi sento tutt'ora, più consono ad ubbidire che a comandare. Non ci fu verso: divenni caposala. Tra le mansioni, forse l'unica, c'era quella di far sì che tutti partecipassero al rosario serale. Così la prima sera, quando venne l'ora, sollecitai tutti a voce e battendo le mani a recarsi nella chiesetta. Non dovetti ripetere l'ordine, perché si era abituati ad andarci. Quando gli ultimi stavano per uscire, però, mi accorsi che un soldato, un siciliano, se ne stava sdraiato tranquillamente a letto. Mi avvicinai. Aveva uno sguardo torvo e minaccioso. Nel frattempo erano tutti usciti. Cosa fare? 'Se adesso gli dico di uscire, questo mi riempie di botte,' pensai. Mi feci coraggio. Mi sforzai di assumere un'espressione dura. Quindi, usando un tono secco e imperioso gli dissi:

— Sù! Alzati! Vieni al rosario!

Assunse l'aspetto di un cagnolino bastonato. Con calma si alzò dal letto e si diresse a testa bassa verso la porta. Dentro di me tirai un grosso sospiro. Dopo di allora non ebbi più alcun problema: come veniva l'ora del rosario e sollecitavo a voce o battendo le mani, tutti continuarono a dirigersi senza fiatare verso la chiesetta, con me al loro seguito.

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71. Conclusione

Che cosa avvenne poi, penso che lo ricordi anche tu. Il resto del periodo di ferma lo trascorsi a casa in convalescenza. E c'è anche questo fatto che sicuramente ricordi. Ricevuto il congedo, riflettei sul fatto che nella camerata della compagnia c'era lo zaino del mio corredo militare chiuso con una catenella ed un lucchetto, di cui solo io possedevo la chiave. Perciò mi parve giusto tornare in caserma, aprire il lucchetto e consegnare ogni cosa alla compagnia. Per l'occasione mi accompagnasti in auto. Qui però accadde un fatto inaspettato. In compagnia si rifiutarono di accettare il corredo. Mi si disse che avrei dovuto arrangiarmi personalmente e farlo pervenire al reggimento di Cervignano. (Che cosa avrebbero fatto se non mi fossi presentato per consegnarlo?)

Chissà che cosa ti passò per la mente quando mi vedesti uscire dalla caserma con il valigione militare che conteneva tutto il corredo, incluso perfino il gavettino. Ti chiedesti forse se mi fosse stato ordinato di riprendere il servizio, perché senza di me la sicurezza dello Stato sarebbe stata in serio pericolo? (Detto tra parentesi, nel corso dei passati decenni mi sono sognato più volte di essere tornato a fare il servizio militare, ed in una di queste occasioni lo feci a nome tuo, perché, per qualche motivo che non ricordo, tu non potevi tornare a compierlo. Ogni volta mi ritrovavo a farlo con l'età che avevo all'epoca dei sogni, per cui i militari mi chiedevano perché mi trovassi a fare il soldato così avanti negli anni.) Giunto all'auto e messoti al corrente dei fatti, mi consigliasti di consegnare ogni cosa ai carabinieri. Così ci rivolgemmo alla stazione dei carabinieri di Abano Terme. Entrato con il valigione e spiegata ogni cosa al carabiniere di turno, questi mi disse che non era di loro competenza ritornare il corredo militare al reggimento e che dovevo arrangiarmi.

Che cosa pensasti quando tornai fuori ancora una volta con il valigione? Forse che mi veniva lasciata ogni cosa come souvenir? L'intenzione del carabiniere non fu quella, ma il corredo divenne in effetti un souvenir, il quale risiede tuttora nella soffitta di casa. Se dovesse scoppiare una guerra, grazie ad esso, in un quarto d'ora mi potrò vestire adeguatamente e, anche se non possiedo un fucile, tuttavia con il bambù che cresce nel campetto vicino, mi potrò fare una cerbottana per sparare frecce di carta sugli occhi dei nemici, così da indurli a ritirarsi, a salvezza della patria.

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Fine