Elenco degli episodi narrati
Partenza per il militare
Arrivo alle casermette
Prima giornata: vestizione
Assunzione in fureria
Piccolo problema di una burba
imbranata
Primo contatto con un terribile
ufficiale
Doccia settimanale
Prime esercitazioni
Vaccinazione antitifica
Preparazione alla prima
libera uscita
Prima libera uscita
Un caro amico
Una corsa nella campagna
Ricordi di altre gare
di corsa
Trasferimento al
poligono di tiro
Passate esperienze con
i fucili
Esercitazione
con il fucile al poligono
Un nuovo amico ed il lancio della bomba
a mano
Un'esperienza scioccante
Delle care visite
Esercitazione con il MAB
Visita parenti
Giuramento
Partenza dei compagni
d'armi
I compagni di fureria
Ricovero in infermeria
A casa in licenza
Trasferimento al
reggimento
Prima sveglia al
reggimento
Assunto nell'ufficio
maggiorità
Ambiente nuovo, problemi
nuovi
Vita di reggimento ed un incidente
In servizio di
guardia presso la porta carraia
Ispezione
Trasferimento alla compagnia
mortai reggimentale
Il
personale dell'ufficio maggiorità
Trasferimento a Villa
Vicentina per il corso di specializzazione
La vita a Villa Vicentina
Un obice molto pesante
Ritorno a Cervignano
Allarme!
Una scappatella finita
bene
Una divertente
esperienza notturna
Un allarme serio e prolungato
Il caporale maggiore
Miravalle
Il compleanno del
maresciallo Giuliani
Una gita ad Aquileia
Arrivo del nuovo
colonnello
Testimonianza di un
incidente stradale
I nuovi compagni d'ufficio
Un generale in visita
Con il plotone d'onore a Redipuglia
Una piccola avventura con il
caporale maggiore Miravalle
Gita a Trieste con parenti e amici
Che bello fare l'autostop!
Punizione
Il Winchester lasciato a
Villa Vicentina
Il cinturino estivo
Un'azione temeraria
La rivelazione
Un caro compagno
delle elementari
Un incarico gravoso
Trasferimento a Padova
Alcuni processi
Tran tran quotidiano tra caserma
ed ufficio
Assegnazione a
servizi in caserma
Una prestazione
particolare
Ricovero in ospedale
Il problema delle
iniezioni
Partecipazione al rosario
Conclusione
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1. Partenza per il militare
Ti ricordi dove ti trovasti con me e mamma domenica 5 aprile 1964 alle due
del pomeriggio? Quel giorno tu e mamma mi accompagnaste alla stazione
ferroviaria di Padova per prendere il treno che mi avrebbe condotto a Casale
Monferrato per iniziare il servizio militare. Secondo la cartella di
chiamata avrei dovuto far parte di un reggimento di fanteria con l'incarico
di osservatore goniometrista. Il treno partì poco dopo le due
del pomeriggio. A prendere il treno con me c’era Giulio Sacchin, un
disegnatore che aveva lavorato per qualche tempo nell’ufficio di
architettura assieme a me.
Compiemmo il tragitto in compagnia di un giovane di Este, Ugo De Andrea,
pure diretto al C.A.R. di Casale Monferrato. Il viaggio fu un po’
avventuroso. Giunti a Novara scendemmo e prendemmo il treno per Alessandria,
dato che Casale Monferrato, la nostra destinazione, si trova in quella
provincia. Avremmo invece dovuto proseguire per Vercelli e da lì
prendere il treno per Casale Monferrato, che si trova a pochi chilometri da
quella città. In treno un controllore ci fece notare l’errore e
ci fece scendere a Mortara. Lì dovemmo attendere diverse ore prima che
un altro treno ci conducesse infine a Casale Monferrato.
Giungemmo a Casale Monferrato verso le undici e mezza di sera. Ad attenderci
alla stazione c’era un camion militare che ci portò nella vicina
caserma, il cosiddetto Casermone. Lì ci fu dato il benvenuto
con del panettone, caffellatte e varie bibite gassate. Mangiai un po’
di panettone a cui tolsi l’uvetta e bevvi oltre a dell’aranciata,
anche della Coca-Cola e del ginger, due bevande che non avevo
l’abitudine di bere. Addirittura mi pare di ricordare che quello fu il
mio primo assaggio della Coca-Cola.
Dopo il rifocillamento risalimmo sul cassone del camion, che era chiuso da
tutti i lati e non permetteva di vedere dove ci conducesse. Come nel tragitto
dalla stazione al Casermone avevo cercato di farmi mentalmente una
mappa della strada che percorreva, così feci anche questa volta. Dopo
alcuni zig-zag il camion voltò a sinistra e proseguì a buona
andatura in linea retta per circa tre chilometri; poi rallentò, quasi
si fermò, voltò di nuovo a sinistra e, dopo aver percorso ad
andatura moderata circa quattrocento metri, si fermò. Ci fu una sosta
di alcuni secondi, poi il camion percorse ancora qualche metro e quindi si
fermò definitivamente. Eravamo dentro il cancello della nostra
destinazione; eravamo giunti, Giulio Sacchin ed io, alle cosiddette
Casermette, dove risiedeva l'11° Reggimento Fanteria
‘FERRARA’ (C.A.R.) Ugo De Andrea, invece, era rimasto nel
Casermone e non l’avrei più rivisto. Come il camion si
fermò, ci fecero scendere. In quel momento mi resi conto che stava
iniziando per me una nuova vita e che ormai ero tagliato fuori dalla normale
vita civile che avevo conosciuto fino ad allora; senza l’appoggio della
famiglia, da quel momento in poi avrei dovuto contare solo su me stesso. Come
sarebbe stata quella vita? Che cosa mi attendeva? Mi sentivo emozionato come
quando avevo lasciato te e mamma alla stazione di Padova.
Su
2. Arrivo alle casermette
Al cancello c’erano dei soldati ad attenderci. Ad ognuno di noi fu
comunicato a quale compagnia si era stati assegnati. Giulio Sacchin fu
assegnato alla decima compagnia, io alla dodicesima. A quel punto dovemmo
separarci. Io ed un’altra recluta seguimmo il caporale della dodicesima
compagnia, Paolo Tagliabosco, un barbiere di Noale (VE). Voltammo a destra e
ci incamminammo lungo una strada fiancheggiata da tre grossi fabbricati a due
piani con soffitti molto alti. Dal lato della strada opposto ai fabbricati vi
era un prato con alberi piuttosto giovani (le Casermette erano di
recente costruzione) e stradine asfaltate che l’attraversavano in vari
modi. Oltre il prato si vedevano altri grossi fabbricati, identici a quelli
che stavamo costeggiando. Il tutto era discretamente illuminato. Le strade
erano sgombre; non c’erano né soldati né mezzi
parcheggiati; regnava assoluto silenzio. Giulio fu condotto verso i
fabbricati oltre il prato. Noi prendemmo il marciapiede che fiancheggiava
quelli sulla destra, da questo lato del prato.
Mentre camminavamo, Paolo colloquiava con l’altra recluta e spiegava
come sarebbe stata la vita in caserma. Io ascoltavo e nello stesso tempo
osservavo ogni cosa incuriosito. Ogni fabbricato aveva due porte che davano
sulla strada. Giunti verso la fine del terzo e ultimo fabbricato, entrammo
nella seconda porta di quel fabbricato. Ci trovammo in un ingresso largo
circa quattro metri e lungo circa nove. Sulla parete di sinistra c'erano due
porte. In fondo sulla destra vi era una larga scala a due rampe; prima di
quella si apriva un corridoio. Sulla parete di fronte alla porta d'ingresso
c’era una grande porta, in parte a vetri.
Salimmo la scala. Al primo piano, in corrispondenza della porta a vetri del
piano sottostante vi era una grande porta a due ante. In opposizione a
questa, la zona sopra l’entrata era chiusa da un muro e vi era una
porta. Entrammo per la porta a due ante. Ci trovammo in un grande stanzone
profondo circa sette metri e molto ampio da entrambi i lati. Era una
camerata. Nel muro di fronte all’entrata vi era un’apertura
larga quasi due metri che giungeva fino al soffitto; essa conduceva ad
un’altra camerata; oltre a questa ve n’era una terza. Di fronte
c’era un’altra grande porta, in parte a vetri; essa conduceva ai
servizi igienici.
Le camerate erano vuote. Solo nella terza in cui eravamo giunti c’era
qualcuno che dormiva. Voltammo a sinistra ed andammo ad occupare le penultime
brande sulla destra, non lontano dalla grande finestra. Le brande erano
accastellate in coppie. Nell’ultimo castello sulla destra qualcuno
stava dormendo. Feci per impossessarmi della branda inferiore del penultimo
castello, quando Paolo mi consigliò di prendere l’altra, quella
superiore. Così feci, e da allora, ovunque mi recai ed ogni volta che
potei, scelsi sempre la branda superiore. Paolo ci aiutò a prepararla.
Fatto questo, misi il portafoglio sotto il cuscino e mi coricai con
l’orologio al polso. Era quasi l’una di notte. Come ci fummo
coricati, Paolo se ne andò e spense la luce principale. Rimasero
accese solo delle lucette notturne. Pochi minuti più tardi ero
addormentato.
Su
3. Prima giornata: vestizione
Il mattino seguente fui svegliato verso le cinque e mezza dal canto degli
uccelli e dalla luce che cominciava ad entrare dalla grande finestra. Alle
sei e mezza suonò la sveglia; mi alzai, mi lavai e mi vestii. Mi ero
appena vestito che giunse Paolo per insegnarci a sistemare la branda. Ci
disse che essa avrebbe dovuto essere lasciata sempre in perfetto ordine, pena
la punizione. Come sai, tolte coperte e lenzuola, bisognava piegare il
materassino in due e rivoltarlo verso la testa; sopra di esso si sarebbero
poste le lenzuola ripiegate alla giusta dimensione e, sopra il tutto, le
coperte, pure ripiegate; l'ultima coperta doveva essere piegata in maniera
diversa, così da rimanere abbastanza lunga da poterla infilare ai lati
sotto il materassino e coprire stabilmente il tutto. Il lavoro doveva essere
fatto con accuratezza per non ricevere rimproveri o punizioni.
Terminato questo lavoro si scese per la colazione. C'era del caffelatte, del
pane e della marmellata. Probabilmente forse mangiai solo il pane, se pure
mangiai qualcosa e mi ripromisi che non sarei più ritornato per la
colazione. Dopo questo, ritornati nella camerata, approfittai del tempo
libero per fare la conoscenza delle altre reclute. Poco dopo le otto
tornò Paolo e ci condusse nella stanza situata sopra l'entrata. Essa
era molto vasta perché non comprendeva solo il corrispettivo
dell'entrata. Era il deposito dei corredi delle reclute. Ci venne dato tutto
il necessario: vestiti, tute, scarpe, gavetta, indumenti intimi, ecc.
Essendo tra i primi arrivati ed in pochi potemmo scegliere i capi di
abbigliamento con calma. Lo stesso maresciallo maggiore a capo del reparto,
un uomo sulla cinquantina molto scuro sia di capelli che di carnagione, dal
forte accento campano-calabrese, si interessò personalmente e ci diede
consigli sulle taglie dei vestiti mentre ce li provavamo, in modo che fossero
della giusta misura.
Mentre mi provavo i vestiti approfittai dell'occasione per parlare al
maresciallo della mia attività da civile e per chiedergli se avesse
bisogno di un aiutante che sapesse scrivere a macchina. Mi rispose che era
già a posto, ma che forse il maresciallo della fureria aveva bisogno
di qualcuno.
Sistemate tutte le cose ricevute nel grosso e robusto zaino a forma di cubo
che mi era stato fornito, trasportai il tutto nella camerata. Chiusi lo zaino
con la catenella di cui era provvisto e vi misi il lucchetto che mi avevi
detto previdentemente di portare con me. Quindi sistemai lo zaino sopra la
tavola di legno che era posta dietro la branda a circa un metro e settanta
centimetri di altezza dal pavimento. Poi Paolo mi spiegò che dovevo
spalmare del grasso sugli anfibi, gli scarponi robusti e pesanti in dotazione
all'esercito. Essi portano questo nome perché ad essi non si dà
la patina, ma si spalma il grasso che si ha in dotazione; esso è molto
utile per proteggerli dall'acqua, cosa molto importante, vista la vita che si
conduce sotto le armi.
Gli anfibi che presi mi sembravano della giusta misura; i piedi ci stavano
comodamente, a parte solo gli alluci. Infatti, erano un po' stretti di lato.
All'inizio non feci caso a questo fatto perché mi sembrava una cosa di
poco conto, essendo che il fastidio era minimo (quante volte quando si
comperano delle scarpe che sembrano andare bene, ma con il tempo ci si
accorge che fanno male!) Con il passare dei giorni, poiché in quella
caserma si dovevano calzare sempre gli anfibi, indipendentemente dalla
mansione che si svolgeva, poco per volta cominciai a provare delle sgradevoli
sensazioni agli alluci. Nel giro di alcuni giorni essi persero la
sensibilità, specie dal lato opposto a quello delle altre dita e il
toccarli mi produceva una sensazione molto sgradevole. Non dissi niente a
nessuno e non cambiai gli anfibi, poiché ritenni che il difetto non
riguardasse tanto gli anfibi, quanto il fatto che avevo dei piedi molto
delicati che non sopportavano degli scarponi tanto pesanti. Così mi
tenni quegli anfibi per tutto il servizio militare (lasciato il C.A.R., usai
gli anfibi solo in rarissime occasioni). L'insensibilità agli alluci
mi rimase per molti anni anche dopo il completamento del servizio militare.
Ora, comunque, essi sono tornati del tutto normali.
Su
4. Assunzione in fureria
Infilati gli anfibi, feci un pacchetto degli abiti civili e lo consegnai, non
ricordo a chi, perché fosse spedito a casa. Poi, sistemata ogni cosa,
scesi al piano terreno e mi presentai in fureria. Questa era la prima stanza
a destra lungo il corridoio posto a fianco delle scale. Era una stanza delle
dimensioni di quattro metri e mezzo di profondità per cinque di
larghezza, con due alte finestre. In essa erano disposti alcuni tavoli ed un
paio di armadi. Seduto dietro la scrivania posta tra le due finestre stava il
maresciallo maggiore Marco Savioli, un piemontese sulla cinquantina, un po'
grassottello, dai capelli castano chiari e un poco brizzolati. Mi si disse
che amava bere, ma io lo vidi sempre sobrio. Da parte mia non posso esprimere
giudizi negativi su di lui, poiché per tutto il tempo che trascorsi in
quella caserma fu sempre gentile con me (circa due mesi più tardi,
quando tornai a casa con la prima licenza, in un primo tempo pensai di
regalargli al ritorno un pacco di biscotti al cioccolato, ma poi cambiai
idea).
Seduto presso un tavolo vicino alla finestra di sinistra c'era un soldato, il
quale registrava i dati personali delle reclute man mano che arrivavano. Gli
fornii ciò che mi chiese; prima di uscire mi rivolsi al maresciallo,
gli spiegai il mestiere che avevo svolto da civile e gli chiesi se avesse
bisogno di un dattilografo. Egli mi fece scrivere qualche parola in
stampatello su un pezzo di carta. Soddisfatto della calligrafia, mi
consegnò il ruolino dei dati personali e mi diede l'incarico di
registrare quelli delle reclute man mano che arrivavano (il ruolino era un
grosso libretto di circa 12x20 centimetri, con i fogli stampati e predisposti
per tale registrazione). Così presi il posto del soldato che aveva
registrato i miei dati personali ed iniziai seduta stante, la carriera di
scritturale nella fureria della dodicesima compagnia dell'11º
reggimento di fanteria.
Nei giorni successivi, man mano che arrivavano nuove reclute, registrai i
loro dati personali nel ruolino che mi era stato consegnato. Fui occupato
per diversi giorni a compiere questo lavoro da mattina a sera, senza un
momento di sosta. Frattanto iniziava l'addestramento di quelli già
arrivati. Dalla stanza della fureria udivo i comandi che venivano impartiti
alle reclute – suddivise per squadre di una ventina di uomini ciascuna
– ed il rumore dei loro passi cadenzati.
"Un, duè, un, duè! ... Passo! ... (patapum!) ... Passo!
... (patapum!) ... Cadenza! ... (patapum, ... patapum, ...
patapum, patapum, patapum). ... Squadraaa alt! ... Ripp-zò!
[riposo] ... Att-hì! [attenti] ... Ripp-zò!" ecc. In
questo modo, al comando di un caporale le squadre percorrevano marciando le
strade asfaltate che costeggiavano le due file di fabbricati delle compagnie
e quelle che attraversavano i prati che separavano queste due strade
principali. Come una musica mi giungevano questi suoni cadenzati che si
alternavano alla canzone Una lacrima sul viso di Bobby Solo –
vincitore del festival di San Remo concluso da poco – proveniente dallo
spaccio non lontano.
Ogni tanto una squadra passava davanti alla fureria. Allora osservavo
incuriosito per qualche istante le reclute che marciavano. Vedevo solo le
loro teste a causa del dislivello di circa 70-80 cm. tra il marciapiedi ed i
gradini d'ingresso del fabbricato della compagnia. Ero contento dell'impiego
di scritturale che avevo ottenuto, perché altrimenti mi sarei trovato
a dover marciare assieme a loro. Ma che cosa sarebbe successo quando fosse
terminato l'arrivo delle reclute? Avrei dovuto partecipare anch'io alle marce
e agli addestramenti? Allora non ci pensai e vissi tranquillamente. In
effetti mantenni l'impiego in fureria per tutto il tempo che trascorsi in
quella caserma, salvo che in alcune rare occasioni, perché ovviamente
dovetti ricevere anch'io un minimo di istruzioni relative al servizio
militare. Questo cominciò ad avvenire solo circa una settimana
più tardi, dopo che ebbi terminato buona parte del lavoro di
registrazione delle reclute.
Su
5. Piccolo problema di una burba imbranata
Un problema che mi si presentò fin dall'inizio fu quello della barba.
Poiché non avevo mai imparato a farmela con la lametta ed il sapone,
avevo portato con me un rasoio elettrico (un Philips ad una testina) sicuro
che avrei trovato una presa di corrente da qualche parte. Purtroppo non
c'erano prese di corrente né nelle camerate né nei locali dei
servizi igienici e nemmeno in fureria! Nonostante la recente costruzione
delle Casermette, evidentemente in quei tempi non si sentiva il
bisogno di una tale comodità, perché nella compagnia non
c'erano apparecchi che abbisognassero della corrente elettrica.
Ne parlai subito al maresciallo Savioli. Senza esitare egli mi parlò
di una presa di corrente che si trovava nella prima stanza a sinistra
dell'ingresso. Il problema era che quella stanza era sempre chiusa a chiave.
Si trattava di una bella stanza arredata con gusto; forse serviva per
ricevere in occasioni speciali delle persone di riguardo. L'unico ad aprirla,
forse una volta alla settimana, era il soldato che ci andava per fare le
pulizie. Visto il mio problema, il maresciallo mi indicò dove si
trovava la chiave della stanza e mi diede il permesso di entrarci per
usufruire della presa di corrente. L'avevo scampata bella!
Su
6. Primo contatto con un terribile ufficiale
Un altro problema che mi afflisse fin dal principio fu naturalmente quello
del cibo. Nello spaccio vendevano dei panini fatti con un affettato che non
avevo mai conosciuto, ma che era molto buono. Di tanto in tanto ne prendevo
uno, e questo mi era di aiuto, perché quando si andava in refettorio
non mangiavo niente al di fuori del pane e di qualche mela. Infatti c'era
sempre chi non mangiava la mela ed anzi me l'offriva in cambio del primo o
del secondo. Così mangiavo pane e mele. Alla domenica invece c'era a
volte una bistecca, altre volte del pollo arrosto, e questi li mangiavo.
Oltre a queste cose non mangiavo nient'altro. Il mio comportamento
attirò ben presto l'attenzione di un ufficiale.
La compagnia era divisa in tre plotoni, ognuno al comando di un sottotenente.
Quello del primo plotone, Claudio Bertone, avvocato di Floridia, Siracusa,
era tremendo. Tutti dicevano che fosse una firma, cioè uno che
si trattiene in servizio e compie la carriera militare. Un poco più
basso di me, magro, il viso affilato, la voce tagliente, specie quando dava
ordini, faceva paura a tutti. Nonostante io appartenessi al terzo plotone,
ai pasti si parlava spesso con timore di lui. Un giorno (questo avvenne
durante i primi quindici giorni di ferma, prima che ci fosse permesso di
uscire dalla caserma) il sottotenente Bertone si presentò in
refettorio presso la nostra tavolata perché aveva udito che c'era una
recluta che non mangiava niente.
Bertone mi venne accanto, mi fissò con uno sguardo terribile ed
esclamò con voce un po' alta, acuta, severa e tremenda:
— Tiongreis! Mangia!
Intimorito, abbassai gli occhi e non feci niente.
— Tiongreis! — disse con un tono più severo ed alzando la
voce. — Ti ho detto mangia!
Tutti avevano smesso di mangiare e guardavano ora me, ora Bertone. Rimasi
fermo con la testa abbassata sul piatto. Ci furono alcuni istanti di pausa
pieni di tensione. Tutti erano in attesa dello scoppio della bufera.
— Vieni! disse.
Lo seguii. Mi condusse allo spaccio. Era chiuso. Bussò. Si
affacciò un soldato. Entrammo. Mi chiese che cosa mi piacesse. Gli
dissi che a volte comperavo dei panini e gli mostrai quali. Mi chiese se
desideravo acquistare un salame intero. Risposi di sì. I salami,
però, non erano in vendita, solo i panini lo erano. Egli ordinò
al soldato di vendermi un salame intero, del tipo con cui era fatto il
panino. Il soldato andò a prenderlo nel magazzino; era un salame
grosso almeno una decina di centimetri e pesava più di un chilo. Il
soldato lo pesò, fissò il prezzo e lo acquistai.
Col tempo Bertone risultò non essere una firma e nei circa due mesi
che rimase in caserma prima del congedo mostrò più volte di
avere un cuore d'oro, nonostante nel suo servizio sembrasse un modello di
ufficiale duro e inflessibile. Da parte mia, invece, non fui sempre
all'altezza delle sue aspettative. Conservo un buon ricordo di lui.
Su
7. Doccia settimanale
Fin dall'inizio del mio servizio in caserma mi chiesi come avrei fatto a
lavarmi tutto il corpo per bene, visto che nei locali dei servizi igienici
non vi erano docce e che l'acqua dei rubinetti era solo fredda. Venni a
sapere che dietro lo spaccio c'erano delle docce e che di sabato ci si recava
con la propria squadra di appartenenza. Nel mio caso, fin dal primo sabato fu
il maresciallo a dirmi di volta in volta quando potevo andare, per cui non
andavo necessariamente con la mia squadra (appartenevo alla seconda squadra
del terzo plotone, comandato dal sottotenente Carlo Volturno di Genova).
D'altra parte non frequentavo quasi mai la mia squadra nemmeno nelle
esercitazioni; anche ad esse vi partecipavo solo quando me lo diceva il
maresciallo. E così pure il sabato mattina andavo a fare la doccia
quando lui me lo permetteva, che comunque sceglieva un momento in cui le
docce erano assegnate alla nostra compagnia.
Quella prima volta, ricevuto il permesso corsi in camerata, presi tutto il
necessario per lavarmi ed asciugarmi, assieme al ricambio della biancheria
intima. Quindi, con queste cose in mano mi recai di corsa dietro allo spaccio
dove un gruppo di soldati era già in attesa di entrare nei locali
delle docce. Durante l'attesa ci fu detto che ognuno avrebbe dovuto
prepararsi nudo accanto all'ingresso di una doccia (un locale quadrato di
circa un metro e sessanta di lato, senza porta ma con un'apertura da un lato
di circa settanta centimetri); lì si sarebbe atteso che venisse
fornita l'acqua calda. Ci sarebbero stati concessi cinque minuti per lavarci
e sciacquarci, perché poi l'acqua sarebbe stata tolta.
Come il gruppo che ci aveva preceduti liberò i locali, entrammo;
ognuno dispose le proprie cose presso l'apertura di una doccia, si
denudò in fretta e rimase in attesa. Dopo pochi istanti giunse l'acqua
dai manicotti spray posti sul soffitto sopra gli sgabuzzini della doccia.
L'acqua era già calda. Entrai subito nello stanzino e presi a lavarmi
freneticamente. Non essendoci un mezzo per misurare il trascorrere del tempo,
decisi di sforzarmi di fare il tutto in quattro minuti, in modo da non
correre il rischio di trovarmi insaponato quando sarebbe stata tolta l'acqua.
Calcolai male il tempo, ma mi fu di aiuto l'aver stabilito un limite
inferiore a quello concesso. Infatti venne tolta l'acqua senza preavviso
proprio nel momento in cui finivo di sciacquarmi. Ce l'avevo fatta! Ora
sapevo con quanta rapidità avrei dovuto lavarmi. In futuro avrei
dovuto agire nella stessa maniera.
Su
8. Prime esercitazioni
Come ho già detto altre volte, di tanto in tanto partecipavo alle
esercitazioni, perché ci sono delle cose che tutti i militari devono
imparare, come marciare, salutare, riconoscere i gradi di ufficiali e
sottufficiali, ecc. La prima partecipazione alle istruzioni che ricordo fu
infatti quella in cui ci furono spiegati i vari gradi; ad un'altra
partecipazione, se non alla prima, alla seconda, si marciò lungo le
strade asfaltate che attraversavano i prati compresi tra le due file di
fabbricati delle compagnie.
In quanto al marciare, io ricordavo le marce che facevo per gioco da bambino
assieme ad Adolfo, il mio compagno di giochi. All'"avanti...
marsch!" che ci davamo, partivamo con la gamba destra e procedevamo
alzando bene le ginocchia. Così feci quella prima volta. Al comando di
"avanti... marsch!" partii con la gamba destra. Mi accorsi subito
dello sbaglio; feci un saltino e mi posi subito in sincronia con il resto
della squadra. Ma poi continuai a marciare alzando bene le ginocchia. Il
caporale se ne accorse e me lo fece notare. Mi disse che si doveva marciare
tenendo le gambe sciolte come quando si cammina normalmente. Allora mi
corressi e a quel punto tutto sembrò andare bene.
Dopo qualche istante il caporale gridò:
— Chi è che striscia i piedi!
Io non udivo niente. Mi dissi che sicuramente il caporale udiva male. Dopo un
po' il caporale ripeté, un poco più irritato:
— Chi è che striscia con i piedi per terra!
Non riuscivo ad accettare quella frase. Chi avrebbe potuto strisciare con i
piedi sul suolo senza accorgersene e quindi correggersi? Non la ritenevo una
cosa possibile. Perciò continuavo a chiedermi che cosa potesse essere
il rumore, di sicuro immaginario, che induceva il caporale a ritenere che
qualcuno strusciasse con le suole per terra. Mentre pensavo a questo, il
caporale si volse verso di me e gridò:
— Tiongreis! Alza quei piedi!
Ero io quello che strascicava i piedi! Probabilmente sfioravo appena il
suolo, tanto da non accorgermene, ma lui, abituato a quelle cose, l'aveva
notato. Mi resi conto che ciò era dovuto al fatto che calzavo gli
anfibi, i quali erano piuttosto pesanti. A quel punto mi resi pure conto che
avrei dovuto, sì, camminare sciolto, ma stando bene attento a che i
piedi non strusciassero per terra. Comunque, quella non la ritenni una gran
colpa; ero lì per imparare, no?
Su
9. Vaccinazione antitifica
Una decina di giorni dopo il mio arrivo in caserma, essendo giunti al
completo, si procedette ad una vaccinazione, forse l'antitifica. Una mattina
ci dovemmo recare a gruppi davanti all'infermeria situata vicino all'ingresso
delle casermette. Essa si trovava al pianterreno di un edificio a due
piani posto di fronte ai prati tra gli edifici delle compagnie, dalla parte
opposta rispetto allo spaccio. Il fabbricato ospitava anche il comando e le
stanze degli ufficiali di complemento. L'infermeria serviva solo per le
visite; la vera infermeria dove si veniva ricoverati per periodi prolungati
si trovava nel Casermone.
La vaccinazione fu fatta lì all'aperto presso l'ingresso
dell'infermeria. Ci si mise in fila a torso nudo ed a turno si passò
uno per uno davanti al soldato infermiere che inoculava il vaccino. Accanto a
lui c'era un altro soldato, il quale ci preparava all'iniezione strofinandoci
la mammella sinistra con un batuffolo di cotone imbevuto d'alcool. A
controllare il tutto c'era un ufficiale; quella mattina era di turno Claudio
Bertone. Non so se ricordo male, ma mi pare che venisse usata un'unica grande
siringa, la quale, dopo essere servita per più iniezioni, veniva
ricaricata. Sicuramente oggi non si fa più così, visto il
pericolo di contagio che ciò comporta, non solo di AIDS, ma anche di
molte altre malattie, pericolo che sussisteva anche allora.
L'idea di ricevere un'iniezione nel petto intimoriva molti. Io mi sforzai di
non pensarci. Quando toccò il mio turno, Bertone disse qualcosa per
incoraggiarmi. Io tesi i muscoli di una gamba, concentrai la mente su di essa
e mi volsi verso destra. L'iniezione non fu gran che dolorosa, ma il
più sarebbe venuto dopo. Quel giorno, infatti, ci fu ordinato di
rimanere in branda. Ad alcuni l'iniezione causò una forte febbre. Ad
un soldato la febbre salì tanto che si mise a delirare e fu
trasportato in infermeria. Io invece non ne risentii minimamente.
Su
10. Preparazione alla prima libera uscita
Si avvicinava la data della prima libera uscita. In preparazione di
ciò si venne ammoniti che quando ci si sarebbe presentati per uscire
si avrebbe dovuto avere la divisa pulita e stirata, con le scarpe pulite e
lucidate. Come si sarebbe fatto per stirare i pantaloni? Alcuni li disposero
accuratamente alla sera sotto il materassino della branda; in questo modo al
mattino seguente li avrebbero trovati ben stirati.
Ci venne insegnato che una volta fuori della caserma non ci si sarebbe mai
dovuti togliere la bustina (copricapo usato dai fanti) mentre si stava
all'aperto. Bisognava invece toglierla non appena si fosse entrati in un
locale chiuso. Con la bustina in testa era d'obbligo il saluto col braccio
destro alzato a ufficiali e sottufficiali ogni volta che li si incontrava (in
un'occasione il capitano della compagnia, Gino Bertolotto, mi precisò
invece che se nell'arco di qualche ora ci si fosse incrociati con la stessa
persona, la seconda volta si sarebbe potuto fare a meno di salutarla). Il
saluto consisteva in questo: quando si giungeva a circa due-tre metri da un
ufficiale o sottufficiale si alzava il braccio destro e si volgevano nello
stesso tempo gli occhi verso di lui. Nei luoghi chiusi invece, dove non si
portava la bustina, non si doveva fare nessun saluto.
Il giorno che precedette la prima libera uscita partecipai all'esercitazione
sul saluto. Dopo che il caporale istruttore ci ebbe spiegato come farlo e ce
l'ebbe mostrato, facemmo delle prove. Raggruppati davanti a lui ci mettemmo a
fare il saluto, mentre egli ci diceva se andava bene o se ci si doveva
correggere. A vederlo fare da lui, la cosa sembrava facile, ma quando tentai
di farlo mi accorsi che non riuscivo ad appiattire la mano come richiesto. Il
fatto è che quando si tenta di appiattire una mano, le dita tendono a
curvarsi verso l'alto e questo non va bene. Solo dopo molte esercitazioni
riuscii a mantenere le dita diritte, pur appiattendo la mano, ma con molta
difficoltà. Per tutto il tempo che rimasi nel servizio militare il
problema delle dita non divenne mai semplice e spontaneo, tanto che ogni
volta che salutavo un graduato dovevo andare sempre con la mente alle dita e
fare uno sforzo per mantenerle diritte mentre appiattivo la mano.
Rimase poi il problema della disposizione del braccio destro con cui si
faceva il saluto. Anche questo all'inizio non fu facile, ma una volta che ci
riuscii, poi non incontrai altri problemi. La difficoltà consisteva
nel disporre il braccio esattamente sul prolungamento del corpo; esso non
doveva essere spostato né in avanti né all'indietro e doveva
essere piegato in modo che le dita della mano giungessero all'inizio del
sopracciglio destro, appena al di sopra di esso. Oltre a questo, la mano
doveva essere perfettamente allineata con l'avambraccio e non doveva mostrare
a chi stava di fronte né il palmo né il dorso. A queste
esercitazioni prestammo tutti la massima attenzione per non correre il
rischio di essere scartati quando ci si sarebbe presentati per l'uscita.
Su
11. Prima libera uscita
Finalmente si giunse alla prima libera uscita. Erano trascorse circa tre
settimane dal mio arrivo alle Casermette. Quella prima sera si
presentò all'uscita un gran numero di reclute. Inquadrati dopo il
rancio verso le 18:30 davanti alla compagnia, si procedette marciando verso
il cancello d'uscita. Giunti là si venne divisi in gruppi più
piccoli disposti in fila per uno. L'ufficiale di picchetto ci passò
davanti esaminando rapidamente con sguardo inquisitore l'abbigliamento e le
scarpe di ognuno. Quando ci giungeva accanto gli si doveva fare il saluto ed
egli l'osservava attentamente. Fatta la verifica e scartato chi non era
idoneo, il caporale che ci aveva accompagnato ci diede l'"avanti
marsch" e si procedette marciando fin fuori del cancello. A quel punto
egli diede il "rompete le righe" e per la prima volta dopo tre
settimane si fu liberi, fuori dalle mura della caserma.
Quella prima sera mi unii ad una recluta di S. Pietro Viminario (PD) che
prima del servizio militare aveva fatto il cameriere in un albergo di Abano
Terme e a due suoi amici. Si fu subito unanimemente d'accordo di andare a
mangiare in un ristorante. Percorsi i trecento metri della stradina
d'ingresso alle Casermette voltammo a destra in direzione di Casale.
La strada e i marciapiedi erano molto larghi. Infatti, poiché quello
era un percorso obbligato per recarsi in paese, specie dal lato della caserma
il marciapiede era molto ampio, tanto che si poteva camminare comodamente in
quattro o cinque affiancati. La caserma distava alcuni chilometri dal centro
del paese; impiegammo più di mezz'ora per arrivarci. La camminata fu
comunque esilarante, sia perché si era felici della libertà
concessa, sia perché il cameriere di Abano, di cui mi sfugge il nome,
era un giovane molto loquace e spassoso che da solo riusciva a mantenere
allegra l'intera compagnia.
Giunti a Casale cercammo un locale modesto in cui cenare. Quella sera i bar e
ristoranti furono presi d'assalto. Anche se le reclute del Casermone
ci avevano preceduto, poiché noi eravamo stati tra i primi ad uscire
dalle Casermette riuscimmo a trovare dopo un paio di tentativi
infruttuosi un tavolino libero in un piccolo ristorante del centro. Io feci
l'ordinazione secondo quello che sarebbe diventato il menù fisso del
periodo militare: bistecca ai ferri con patatine fritte e mezzo litro d'acqua
minerale non gassata. Prezzo: 600-650 lire. La serata trascorse in fretta. Il
tempo a disposizione era poco, perché si doveva rientrare per le
21:30. Alle 21:45 ci sarebbe stato il contrappello in camerata e alle 22:00
sarebbero state spente le luci principali. Finita la cena fu quasi ora di
ritornare. Tuttavia, nonostante il poco tempo a disposizione, quella prima
uscita dalla caserma fu molto rallegrante.
Su
12. Un caro amico
Man mano che passava il tempo, di tanto in tanto facevo conoscenza con nuove
reclute, o meglio, erano loro che prendevano l'iniziativa di parlare con me.
Infatti, allora, anche se durante il servizio militare manifestai sempre
maggiormente un carattere piuttosto spigliato, ben diverso da quello mio
solito, non mi riusciva facile attaccare discorso con qualcuno.
Un giorno, alla fine del rancio di mezzogiorno, fui avvicinato da Luca
Simoni, una recluta di bell'aspetto, sempre ben pulito ed ordinato, laureato
in chimica, sempre sorridente, ma di un sorriso calmo e sereno, il sorriso
moderato di una persona non frivola. Era originario di Occhiobello, l'ultimo
comune prima del Po sulla statale Rovigo-Ferrara. Quel giorno mi
contattò perché spinto dalla curiosità nei miei riguardi
per il fatto che al rancio non prendevo mai niente, a parte le mele e la
bistecca o il pollo della domenica. Oltre a questo, egli fu spinto anche da
un'esperienza personale in fatto di cibo, esperienza che evidentemente
desiderava raccontarmi.
Da bambino, mi disse, era stato tanto debole di collo da non riuscire a
mantenere ritta la testa, tanto che spesso questa gli si piegava di lato.
Qualcuno consigliò i suoi genitori di dargli da mangiare dei pomodori,
perché, dissero, erano molto energetici, contenevano molte vitamine ed
avevano tante altre buone proprietà. I genitori misero in pratica il
consiglio ed iniziarono ad aggiungere pomodori alla sua dieta quotidiana. A
Luca i pomodori piacquero molto fin dall'inizio, tanto che da allora essi non
mancarono più sulla sua tavola. Grazie ad essi, egli risolse il
problema della debolezza di collo. Nel nostro rancio, però, come
contorno venivano portate sempre e solamente patate lesse (tra l'altro, erano
già condite, per cui io non le prendevo). Ma egli provava un grande
desiderio di mangiare dei pomodori. Perciò mi disse che aveva
intenzione di acquistarne in paese per poi mangiarli in disparte dopo i
ranci. Se avessi voluto avrei potuto unirmi a lui. Egli parlò con
così tanto entusiasmo della bontà dei pomodori e delle molte
altre loro qualità che decisi di fare la prova. Se li avessi trovati
gradevoli al palato, essi sarebbero stati di grande beneficio anche per me,
perché allora avrei avuto qualcos'altro da alternare alle solite cose
che mangiavo tutti i giorni.
Quella sera mi recai in libera uscita assieme a lui. In paese acquistammo dei
pomodori, una boccetta d'olio, del sale, dei piatti di carta e delle
forchette di plastica. Il giorno dopo, al termine del rancio di mezzogiorno
salimmo nella camerata, prendemmo i nostri acquisti e ci sistemammo presso le
scale. Lì, tra la fine della rampa, dal lato della salita inferiore, e
la porta delle camerate, c'era un tavolino rotondo con delle sedie. Sistemata
ogni cosa sul tavolino, Luca prese un pomodoro, lo depose sul piatto e con
mano esperta lo tagliò a fette usando il coltello in dotazione. Prima
di condirlo, poiché l'avevo avvisato che non mi piacciono i cibi
conditi, lasciò a me l'onore di assaggiare la prima fetta. Emozionato,
ne presi una con le dita. Già vedevo in essa una valida aggiunta al
mio scarso menù e ciò mi rallegrava moltissimo. La portai alla
bocca. L'addentai.
— Ah, che schifo!
La gettai subito nel cestino. Imperturbato, Luca abbozzò un mezzo
sorriso. Preso un altro pomodoro, lo affettò, condì il tutto e,
visibilmente compiaciuto, si sedette e mangiò con calma tutto il
contenuto del piatto. Il mio sogno era stato di breve durata. Tuttavia avevo
acquistato un caro amico. Per tutto il tempo che trascorse in quella caserma
Luca rimase il mio migliore amico.
Su
13. Una corsa nella campagna
Nel frattempo, di tanto in tanto partecipavo a nuove esercitazioni. Una volta
ci fu detto che avremmo fatto una corsa di cinque chilometri. Una mattina il
sergente della compagnia radunò davanti al fabbricato della compagnia
una squadra costituita da un paio di dozzine di reclute. Quindi, al suo
comando, ed accompagnati da un caporale, ci incamminammo verso la porta
carraia situata all'angolo opposto rispetto all'ingresso delle
Casermette, non lontano dallo spaccio. Essa dava su una stradina
sterrata di campagna. Percorse alcune centinaia di metri, giungemmo al punto
da dove sarebbe iniziata la corsa. Percorrendo dei sentieri che
costeggiavano siepi e fossatelli e, percorso un tragitto di circa cinque
chilometri, avremmo concluso la corsa ad un centinaio di metri dal punto di
partenza. Lo scopo della corsa non era quello di arrivare primi ma, immagino,
quello di rafforzare il fisico.
Partimmo in gruppo, ma dovemmo porci subito in fila indiana, perché
il sentiero di terra battuta e pluricalpestata era largo solo circa un metro.
Per un certo tratto rimanemmo vicini, ma dopo neanche due chilometri
cominciai a rimanere indietro. Ciò non costituiva un problema,
perché il percorso era ben visibile, ed anche rimanendo da solo non
c'era il pericolo che sbagliassi strada. Percorso un altro chilometro vidi il
caporale che mi attendeva lungo il sentiero. Accortosi che mancavo si era
fermato e mi stava attendendo. Compiemmo il resto del percorso assieme.
Quando giunsi al traguardo ero trafelato, senza fiato e sentivo uno
stringimento sulle ganasce ai lati della bocca. Le altre reclute, invece,
avevano già avuto il tempo di riposarsi. Mi furono concessi alcuni
minuti per riprendermi e poi ritornammo in caserma.
Su
14. Ricordi di altre gare di corsa
In quell'occasione mi chiesi se la mia cattiva prestazione fosse dovuta al
fatto che fino ad allora avevo condotto una vita sedentaria. Certamente
ciò ebbe il suo ruolo, ma nel corso degli anni ho avuto altre
esperienze che mi hanno mostrato che il correre non è la mia
specialità. Una di queste, sono certo che la ricordi anche tu, avvenne
quando sfidai Dino Longo a percorrere di corsa il tratto lungo l'argine che
va da Mezzavia a Battaglia Terme. Tu ci accompagnasti in auto e ci seguisti
per tutto il tragitto. Dino Longo mi superò con facilità e
giunse al termine del tragitto alcuni minuti prima di me. Quando giunsi al
traguardo, cioè all'incrocio del lungo argine con via Catajo, stavo
così male che credetti di essere sul punto di fare un infarto. Ricordo
infatti che appena giunto all'incrocio con via Catajo mi lasciai cadere
sull'erba dell'argine e lì, per quanto mi sforzassi di respirare, per
alcuni minuti mi parve di soffocare e provai un forte stringimento alle
ganasce ai lati della bocca.
Un'ultima esperienza di questo tipo, che decisamente mi convinse di non avere
la stoffa del maratoneta la feci in Canada. Una domenica pomeriggio
nell'estate del 1977 si andò in un parco con un gruppo di tuoi amici.
Lì si fecero vari giochetti di gruppo e poi venne proposto di compiere
tre giri di un percorso lungo circa quattro-cinquecento metri. Si
presentarono adulti, bambini ed anche delle donne grassocce di una certa
età. Vedendo quelle donne mi chiesi se ce l'avrebbero fatta a compiere
tutti e tre i giri, e quando sarebbero giunte. Sicuro di me stesso, invece,
perché in quel periodo compivo spesso lunghe passeggiate, mi allineai
con gli altri. Venne dato il via. Partimmo. Il primo giro lo percorsi assieme
agli altri. Il secondo lo conclusi stando in coda. Giunsi al traguardo del
terzo giro una ventina di secondi dopo tutti gli altri. Fui superato anche
dalle donne grassocce ed attempate! A quel punto non potei più farmi
illusioni.
Su
15. Trasferimento al poligono di tiro
Un'altra esercitazione di cui porto un vivo ricordo è quella in cui si
andò in un poligono di tiro a sparare con il fucile Garand in
dotazione alla fanteria. Mi sembra di ricordare che esso usasse pallottole di
calibro 7,62, ma non ne sono del tutto sicuro. In preparazione per
l'esercitazione erano state date delle lezioni in cui si fu istruiti su come
usarlo, ma non vi avevo partecipato. Per tale motivo, quando andai a sparare
non conoscevo niente del fucile. Tra l'altro, ero completamente all'oscuro
sull'uso dell'alzo, per cui successe ciò che ti vado a raccontare.
Si andò a sparare di mattina. Dei camion ci trasportarono a Ottiglio
Monferrato, dov'era situato il poligono di tiro, un paesino a 15-20
chilometri da Casale Monferrato. In quell'occasione venne trasferita tutta la
compagnia. Durante il tragitto, di tanto in tanto osservavo con interesse il
paesaggio. La vista che mi si presentava era splendida. A destra si vedevano
delle collinette basse, dai pendii molto dolci. Le strade erano del tutto
prive di traffico. Perciò il viaggio fu un piacevole diversivo dalla
routine quotidiana della caserma.
Giunti nei pressi di Ottiglio, i camion si fermarono in aperta campagna
accanto ad una dolce collinetta che costeggiava il lato destro della strada.
In quel tratto, la strada era un poco più larga del normale, forse per
permettere il parcheggio dei camion militari. Però di questo non sono
del tutto sicuro, perché il poligono di tiro era ancora piuttosto
lontano. Scesi dai camion, proseguimmo a piedi camminando in fila indiana con
il fucile in mano lungo il bordo destro della strada. Dopo alcune centinaia
di metri giungemmo ad un bivio situato dove iniziavano le prime case del
paese. Mentre la strada che percorrevamo proseguiva diritta verso il centro,
l'altra voltava verso sinistra.
Prendemmo la deviazione. La nuova strada era ancora più stretta della
precedente. Ritengo che non fosse più larga di cinque metri. Percorsi
altri sette-ottocento metri, voltammo a destra ed entrammo nella zona del
poligono. Inoltratici di alcune decine di metri vedemmo i bersagli a ridosso
di una collinetta. Erano dieci tabelloni di circa due metri di larghezza per
due e mezzo di altezza. Su di essi erano dipinte due fasce circolari rotonde
e concentriche di colore nero, con un cerchio nero al centro. Colpire il
cerchio centrale avrebbe significato cinque punti. Chi avesse conseguito il
maggior punteggio col caricatore assegnato di dieci pallottole avrebbe
ottenuto una licenza premio di tre giorni più il viaggio. I tabelloni
stavano allineati sopra un dosso ai piedi della collinetta. Dietro ad esso
avrebbero preso posto i soldati, che dopo ogni sparatoria avrebbero riparato
i tabelloni e riferito con tabelle numeriche agli ufficiali del comando il
punteggi realizzati. Tra gli ufficiali erano presenti il capitano della
compagnia ed il colonnello comandante del reggimento.
Su
16. Passate esperienze con i fucili
Prima di raccontarti come si svolse l'esercitazione ti voglio narrare un paio
di esperienze avute precedentemente con i fucili. La prima esperienza degna
di nota l'ebbi con il tiro al bersaglio del signor Antonio. Se ricordi,
quando venivano le giostre per la sagra del paese c'erano sempre almeno un
paio di tiri a segno, uno dei quali era di proprietà di una persona
che veniva chiamata ‘signor Antonio’. Questi ci teneva a non
apparire uno zingaro e lo mostrava sia con il modo di vestire che di
esprimersi e comportarsi. Sembra infatti che non discendesse da zingari ma
che avesse semplicemente scelto di condurre quel tipo di vita. Egli inoltre
si esprimeva sempre e solamente in italiano, perché non era di origine
veneta. La baracca del suo tiro a segno era la più grande di tutte.
Colpire i bersagli da lui era più difficile che altrove. Un'altra
caratteristica che ricordo del signor Antonio era che quando qualcuno sparava
con il fucile a turaccioli alle cose esposte sugli scaffali, se questi
sbagliava lui era pronto a dire “legn-gno”, con una pronuncia
piuttosto prolungata di 'gn'.
Io non avevo l'abitudine di andare a sparare al tiro a segno, sia
perché non me ne sentivo attratto, ma anche per mancanza di soldi.
Comunque una sera verso le undici, quando ormai le strade erano deserte e si
stava per chiudere, provai a sparare un paio di colpi alla colombina. Come
sai, c'era un'asta di metallo, lungo la quale scorreva l'immagine piatta di
una colomba pure di metallo, la quale terminava in basso con un punteruolo.
Questo, cadendo in una ciotolina in cui era posta della polvere da sparo, la
faceva scoppiare. Per far cadere la colombina bisognava colpire con il fucile
ad aria compressa il ciondolo di metallo posto sopra di essa, il quale
poggiava sopra l'asta. Esso era poco più grande di una grande moneta.
Una sera effettuai un primo tiro e colpii il bersaglio. La cosa mi parve
troppo facile, perciò chiesi al signor Antonio se mi permetteva di
sparare da più lontano. Egli si guardò attorno, vide che non
c'era nessuno nelle vicinanze e mi diede il consenso. Quindi andò a
porsi al lato opposto della baracca, ben lontano dalla linea di tiro. La sua
baracca era situata nell'angolo fra la casa di Maria ed il capitello.
Ricevuto il consenso, attraversai la strada, mi addossai alla siepe dei Tasso
e presi la mira... senza chiudere l'occhio sinistro. Avevo preso
quest'abitudine con il nostro piccolo fucile ad aria compressa per il fatto
che non sparava diritto, ma un po' di lato. Così, a puntare verso il
bersaglio vidi due coppie di mirini. Data la distanza e non disponendo di
alcun appoggio, la canna oscillava in ogni direzione. Era difficile tenerla
puntata sulla patacca rotonda del bersaglio. Allora riflettei. Poiché
mi rendevo conto di non riuscire a mantenere i mirini sul bersaglio, decisi
di sparare quando mi sarei accorto che le direzioni individuate dai due
mirini stessero per dirigersi verso il bersaglio, ma un attimo prima di
raggiungerlo. Così feci. Mi sforzai di allineare i mirini verso il
cerchietto. Poi, quando mi accorsi che entrambe le linee di mira stavano
convergendo verso l'obiettivo, ma un attimo prima che lo raggiungessero,
premetti il grilletto. Il signor Antonio si congratulò con me.
Una seconda esperienza di tiro con il fucile che ricordo l'ebbi qualche anno
più tardi, forse all'età di tredici-quattordici anni. Bernardo
aveva acquistato un fucile che sparava sia pallini che pallottole. Un giorno
ce lo presentò e disse che non l'aveva ancora provato con le
pallottole. Si decise di provarlo sparando su un barattolo di latta. Ne
prendeste uno, lo appendeste alla porta del portico, cioè del
magazzino a cui era stato attribuito quel nome, e quindi ci recammo in
strada. Da lì, da presso il cancello, avremmo dovuto sparare un colpo
ciascuno. Allora mi aspettai di essere l'ultimo a farlo, esse4ndo il
più piccolo, invece mi lasciaste sparare per primo. Mi appoggiai al
cancello e presi la mira, tenendo entrambi gli occhi aperti. Il fondo del
barattolo aveva un diametro di circa una dozzina di centimetri. Da quella
distanza (circa quaranta metri) non appariva più grande della patacca
del tiro a segno del signor Antonio. Le direzioni individuate dalle coppie
di mirini oscillavano in tutte le direzioni ed era difficile tenerle puntate
sul bersaglio. Operai come nel caso del tiro a segno. Quando mi accorsi che
le coppie stavano per puntare verso il barattolo, ma un istante prima che vi
giungessero, premetti il grilletto.
Da quella distanza non si poteva capire se avessi colpito il barattolo o se
l'avessi fallito e di quanto. Ci recammo al portone del portico. La
pallottola aveva trapassato il barattolo non molto lontano dal centro.
Toglieste il barattolo per vedere quanto profondamente la pallottola si fosse
conficcata nel legno del portone. La pallottola l'aveva trapassato. Apriste
il portone, entrammo nel portico e proseguimmo con gli occhi verso terra per
vedere dove fosse caduta la pallottola. Non la trovammo, ma vedemmo un buco
nell'intonaco del muro opposto al portone. La pallottola aveva non solo
perforato il fondo del barattolo ed il legno del portone ma, attraversato il
portico in tutta la sua lunghezza, era andata a conficcarsi profondamente
nell'intonaco del muro opposto. Impressionati dalla potenza del fucile
rinunciaste a sparare.
Su
17. Esercitazione con il fucile al poligono
Come ho già detto, il poligono di tiro consisteva di dieci tabelloni
posti ai piedi di una collinetta, sui quali erano disegnati dei cerchi
concentrici. A centocinquanta metri da essi c'era una lunga tettoia, sotto la
quale erano disposti dieci tavolati, ognuno in corrispondenza di un
bersaglio, sollevati di circa ottanta centimetri da terra. I cecchini
avrebbero dovuto sparare stando sdraiati su quei tavolati. In piedi accanto
ad ogni tavolato stava un caporale che aveva il compito di fornire aiuto in
caso di necessità. Si andava a sparare in gruppi di dieci. Il cambio
avveniva solo dopo che l'ultimo aveva finito di sparare; questo
perché durante il cambio avvenivano i conteggi e le riparazioni dei
tabelloni e ciò non poteva avvenire se non dopo che tutti avessero
terminato di sparare. Quando venne il mio turno, mi consegnarono un
caricatore con dieci pallottole. Allora corsi ad uno dei tavolati, tenendo il
fucile in una mano ed il caricatore nell'altra. Fu il caporale a inserire il
caricatore nel fucile, perché non sapevo come farlo, non avendo
partecipato alle esercitazioni preliminari. Preparato il fucile, mi sdraiai
sul tavolato e puntai al bersaglio che avevo di fronte. Accortosi che tenevo
entrambi gli occhi aperti, il caporale, che stava alla mia sinistra, mi
disse:
— Chiudi l'occhio sinistro.
— No, no. Io sono abituato così.
Egli non insisté; evidentemente era un tipo accomodante.
Presi la mira per bene, come ero solito fare, e premetti il grilletto. La
prima pallottola era tracciante, cioè avrebbe descritto una scia rossa
ben visibile anche agli spettatori. La pallottola uscì, tracciando la
sua scia, ma non si diresse verso il bersaglio. Puntò decisamente
verso il basso e si conficcò nel terreno a due terzi del percorso.
— L'alzo! — disse il caporale. — Dammi il fucile che te lo
aggiusto.
— No, no, — risposi. — Faccio lo stesso.
Risposi in quel modo a motivo dell'imbarazzo e perché non volevo che
per causa mia si rallentasse il corso dell'esercitazione. Puntai il fucile
alcuni metri sopra il bersaglio e sparai di nuovo. Pur non essendo
tracciante, la traiettoria della pallottola fu visibile fino al bersaglio,
poiché lasciava una leggera scia lungo il suo percorso. Così
vidi che la seconda pallottola aveva colpito la parte inferiore del
tabellone. Alzai la mira e sparai una terza volta. Poi di volta in volta
cercai di migliorare il tiro sulla base dei risultati precedenti, facendo
riferimento a dei grossi sassi sul fianco della collina, verso i quali
puntavo il fucile. Terminata la sparatoria, i soldati nel fossato dietro la
piccola duna su cui erano posti i tabelloni abbassarono uno ad uno i
tabelloni, comunicarono il punteggio e quindi li rattopparono. Il punteggio
da me conseguito fu ventitré, un valore di poco superiore alla media
degli altri.
Subito mi resi conto che non ero stato io a sparare bene, ma gli altri a
tirare male. Non ebbi alcun dubbio che la maggior parte lo avesse fatto di
proposito. Più tardi il capitano si congratulò con me per il
punteggio conseguito. Da parte mia, insoddisfatto per il tiro giocato
dall'alzo, mi ripromisi di ottenere un punteggio più alto alla
successiva occasione. Durante il ritorno, però, una recluta mi disse:
— Stai attento, che se continui a sparare bene ti mandano con i
fucilieri.
Allora compresi perché si era sparato male. Non si voleva essere messi
con i fucilieri. Questo mi intimorì. Non avevo il minimo desiderio di
diventare un tiratore scelto. Comunque, non mi si presentarono altre
occasioni di giocare con il tiro a segno e non dovetti affrontare l'imbarazzo
della scelta se sparare bene oppure male.
Su
18. Un nuovo amico ed il lancio della bomba a mano
Nella mia camerata, nella branda accanto alla mia, dalla parte opposta alla
finestra, c'era un tale non più alto di me, ma corpulento e con una
faccia piuttosto larga che incuteva, se non timore, almeno un certo rispetto
sia per l'imponenza che per la sicurezza di sé che manifestava. Nelle
prime settimane non ebbi occasione di conoscerlo più di tanto
perché ci trovavamo solo al momento di andare a dormire, ed allora io
usualmente non conversavo con nessuno. Giungevo in camerata al momento del
contrappello, poco prima che venissero spente le luci. Come giungevo, mi
mettevo a letto senza trattenermi a conversare; tutt'al più ascoltavo
le conversazioni degli altri. Forse per qualche tempo non conobbi nemmeno il
suo nome, ma alcune sue caratteristiche divennero presto evidenti. Roberto
Diotallevi, laureato in economia e commercio, aveva un accento chiaramente
ligure (era di Genova) e si rivolgeva ai compagni puntando verso di essi un
dito e pronunciando un sonoro e squillante:
— Te!
In tal modo egli attirava l'attenzione della persona a cui voleva parlare, e
questa difficilmente poteva sottrarsi dal volgersi verso di lui e rispondere.
Un'altra caratteristica di questa recluta era che prima di coricarsi si
inginocchiava ai piedi della branda, nel mezzo del corridoietto tra le
brande, ben visto da tutti, e recitava delle preghiere con voce non molto
alta, ma udibile.
L'occasione di conoscerlo meglio e di fare amicizia si presentò quando
ci recammo a compiere l'esercitazione del lancio della bomba a mano. Quella
mattina fui associato al mio plotone di appartenenza, il terzo, comandato dal
sottotenente di leva Carlo Volturno, un geometra ligure bonaccione. Uscimmo a
piedi dalla porta carraia e ci recammo nel poligono non molto lontano. Il
luogo era pressoché privo di erba perché evidentemente veniva
calpestato spesso. I pochi alberi ed arbusti presenti erano giovani, segno
che il poligono non era più vecchio delle casermette. Giunti
nel poligono, venimmo inquadrati in fila per tre o per quattro, in posizione
di riposo, in uno spiazzo privo di vegetazione e lì attendemmo il
turno. La bomba utilizzata era una S.R.C.M., una bomba che produce una grande
fiammata ed un forte boato, ma pochi danni, a meno che non scoppi a distanza
ravvicinata. Ci era stato insegnato che serviva più che altro per
intontire il nemico. Ad una cinquantina di metri da dove eravamo stati
inquadrati andò a porsi il sergente della compagnia. Una decina di
metri più in là era stato posto un cavalletto di legno. A turno
veniva consegnata la bomba a chi si trovava all'estremità del plotone
inquadrato. Questi doveva correre presso il sergente. Lì avrebbe
strappato la prima sicura con i denti e lanciato la bomba, cercando di
colpire il cavalletto. La seconda sicura si sarebbe sfilata da sola in volo;
dopodiché un minimo urto avrebbe fatto scoppiare la bomba. Lo scopo
del sergente era di aiutare la recluta in caso di bisogno. Effettuato il
lancio si doveva correre via senza attendere di vedere l'esito del lancio. Il
sergente invece sarebbe rimasto lì in posizione eretta, e per riparo
avrebbe portato le mani dietro la schiena ed abbassato il capo. Il berretto e
la tuta mimetica sarebbero stati sufficienti a proteggerlo da eventuali
schizzi di metallo incandescente. Una volta ritornato, il soldato che aveva
effettuato il lancio non sarebbe tornato a inquadrarsi, ma sarebbe stato
libero di fare ciò che voleva, pur rimanendo nelle vicinanze.
In attesa che finisse l'esercitazione cominciai a bighellonare nei dintorni.
All'improvviso udii un forte:
— Te!
Era Roberto Diotallevi che mi chiamava. Stava in compagnia di alcune reclute
e trascorreva il tempo chiacchierando con loro. Con quel "te!" egli
mi invitò ad unirmi a loro. Stava mostrando delle immagini di carta in
grandezza naturale di medaglie, onorificenze e croci al valor militare.
— Le ho ritagliate da una rivista, — disse.
Egli le mostrava e di tanto in tanto se ne appoggiava una al petto per vedere
l'effetto che produceva.
— Se sapeste che cosa mi è successo l'altro giorno! —
continuò ridendo. — Mi ero recato nell'ufficio del capitano
perché avevo bisogno di parlargli. Lui non c'era, ma vidi una sedia
girevole. Mi ci sedetti sopra e nell'attesa, per passare il tempo, cominciai
ad appuntarmi tutte queste medaglie. Stavo con la schiena rivolta verso la
porta. All'improvviso la udii aprirsi. Mi voltai girandomi sulla sedia. C'era
una recluta. Come mi vide con tutte queste medaglie sul petto – non mi
crederete – egli cominciò ad impallidire, tanto che credetti che
stesse per svenire.
— Ma no!— gli dissi.— Sono io, una recluta come te!
Trascorso un po' di tempo a conversare, Roberto propose di fare delle
fotografie. Infatti aveva con sé una macchina fotografica. Allora
scattò alcune fotografie e ne fece scattare delle altre da dei
compagni, così da farsi riprendere ora con alcuni, ora con altri
presenti. In una si fece ritrarre assieme a me, Benito Fontana ed un'altra
recluta. Alcuni giorni dopo me ne consegnò una copia. Conservo ancora
questa foto, ma non la vedo da una ventina d'anni, perché non ricordo
dove l'ho riposta. Comunque, essa segnò l'inizio della nostra
amicizia.
Su
19. Un'esperienza scioccante
Nei giorni successivi, quando ci si incontrava per il rancio, Roberto trovava
sempre un'occasione per parlare con me o per attirarmi nel gruppetto dei suoi
amici. Dato il suo carattere estroverso, era sempre lui che dominava ogni
conversazione. Alcune reclute, tra cui Benito Fontana, pendevano
letteralmente dalle sue labbra. Benito, in particolare, assumeva
quell'atteggiamento tipico che hanno le persone quando si trovano davanti a
un alto prelato religioso. Poiché in effetti Roberto era molto
religioso, non tardò molto che mi invitò a partecipare ad un
raduno di preghiera che si sarebbe tenuto in una cappellina nel centro di
Casale. Egli mi parlò talmente bene di quel raduno che una sera
accettai di accompagnarlo. Mi aspettai che si sarebbe partecipato a un
normale rosario, con dei fedeli ed un sacerdote. Invece, ciò che
trovai mi lasciò del tutto smarrito.
Il luogo era una specie di chiesetta, forse anticamente lo era stata
effettivamente. Il locale era largo circa sei-sette metri, lungo una dozzina
di metri ed alto circa sette-otto metri. Non aveva finestre ai lati, ma solo
sulla parete opposta alla porta, la quale parete era a forma di semicerchio.
Le finestre partivano da circa due metri e mezzo di altezza ed erano alte e
strette, con vetri intarsiati. La saletta non conteneva banchi per sedersi o
inginocchiarsi, ma solo delle specie di troni addossati alle pareti
laterali. Ognuno di essi aveva un alto schienale e, se non ricordo male, era
anche sovrastato da un catafalco a circa due metri e mezzo di altezza. I
troni apparivano antichi ed erano di legno ben lavorato. Il locale aveva un
aspetto ricco ed austero nello stesso tempo. Tutto questo appariva
splendido. Ciò che mi intimidì moltissimo furono le persone
presenti a quel convegno di preghiera. Riguardo ad essi Roberto non mi aveva
minimamente avvertito.
Quando giungemmo nella cappellina, trovammo una quindicina di sacerdoti.
Roberto bazzicò in mezzo a loro come nel proprio elemento.
Parlò ora con l'uno, ora con un altro. Io mi tenevo vicino a lui quasi
per ottenere protezione. Dovevo avere lo sguardo impaurito perché
nessuno mi rivolse la parola, ma parlarono solo con Roberto. Nel conversare
con loro egli manifestava confidenza e grande libertà di parola, come
chi si trova tra vecchi amici, conseguenza sia del fatto che forse li
frequentava tutte le sere, ma anche a motivo del suo carattere estroverso.
Dopo una quindicina di minuti fu annunciato che era tempo di recitare il
rosario. Quindi ognuno andò a prendere posto su un trono. Io seguii
Roberto e ne scelsi uno alla sua sinistra.
I troni avevano tutti il sedile sollevato. Nella mia mente confusa immaginai
che fossero tenuti sollevati da una molla. Così, quando afferrai il
sedile, lo spinsi in basso con forza. Tuttavia non vi era nessuna molla. Il
sedile mi sfuggì di mano e sbatté, producendo un rumore
terribile. In quel momento, la tensione accumulata fino ad allora si
scaricò, sfociando in un urlo. Nessuno fiatò, nemmeno Roberto
che mi stava accanto. Mi sedetti mogio mogio e subito dopo il sacerdote
più anziano iniziò la litania del rosario. Io ripetei
meccanicamente le parole assieme ai convenuti, ma ero in trance. La mia mente
restava ferma all'istante in cui avevo prodotto quel fracasso ed emesso
l'urlo. Infine il rosario terminò. Roberto non si trattenne a
chiacchierare; ritornammo subito in caserma. Per strada conversammo su vari
argomenti senza menzionare minimamente l'accaduto. Tuttavia Roberto non mi
invitò più a partecipare alle riunioni di preghiera.
Su
20. Delle care visite
Si giunse agli inizi di maggio, e un bel giorno (il 1º maggio? la
domenica dopo? non ricordo) tu, assieme a mamma e nonno Giovanni, veniste a
trovarmi. Quel giorno ottenni un permesso ed uscii con voi. Prendemmo la
strada verso nord, senza alcuna meta. Incontrammo l'argine destro del Po.
Girammo a sinistra e ci inoltrammo per qualche centinaio di metri lungo di
esso, per una strada stretta, non asfaltata e completamente priva di
traffico. Il Po era ad un centinaio di metri più a nord, invisibile da
dove ci eravamo fermati in un primo tempo, perché ci separava un
boschetto di pioppi. Quello era terreno riservato alle piene. Poi, dopo aver
mangiato, ci avvicinammo alla riva e scattasti alcune foto.
Mentre ci si intratteneva in quella zona, ebbi modo di soddisfare la vostra
curiosità, ma soprattutto quella di mamma, che era molto in ansia per
me. Per l'occasione aveva preparato dei cibi da mangiare all'aperto. Non so
che cosa mangiaste voi. Per me aveva preparato dei panini con petto di
faraona arrostita e contorno di carciofi. Non avevo mai mangiato né
faraone né carciofi prima di allora. Per tutto il periodo del servizio
militare, quando ne ebbe l'opportunità, mamma mi preparò sempre
faraona, anziché pollo. Al ritorno dal militare non ne mangiai
più, perché mamma tornò a preparare pollo, quando non
preparò altri cibi. Non sono mai riuscito a capire perché
durante il servizio militare mi preparasse sempre faraona. Ricordo che diceva
che la faraona è più nutriente del pollo. Probabilmente ritenne
che durante il servizio militare avessi bisogno di maggiori energie, mentre
una volta tornato a casa tornò a preparare il pollo che gradivo
maggiormente, forse ritenendo che allora il nutrimento fornito dal pollo
sarebbe stato sufficiente per la vita normale.
Il pomeriggio trascorse in fretta. Verso sera mi riportaste in caserma.
Tornai rifornito di cibo per alcuni giorni, tra cui una scatola di biscotti
ricoperti di cioccolato, i migliori che avessi mai mangiato. Gradirei molto
poter disporre ancora di quei biscotti, ma non riesco a trovarli. Non conosco
il nome della ditta che li faceva. Forse non li fanno più.
Il giorno dopo il sottotenente Bertone, che aveva saputo della vostra venuta,
mi chiese con cipiglio severo se eravamo rimasti entro il distretto (il
permesso ricevuto era limitato ad esso). Fui colto di sorpresa. Mi chiesi se
mi avrebbe punito se gli avessi confessato che ci eravamo allontanati di una
decina di chilometri. Non ebbi il coraggio di esprimermi a parole. Invece di
parlare agitai una mano in direzione nord, a significare che eravamo andati
piuttosto lontano. Egli scoppiò a ridere.
Su
21. Esercitazione con il MAB
L'ultima esercitazione di un certo rilievo a cui partecipai durante il C.A.R.
fu quella con il M.A.B., il fucile comunemente chiamato mitra.
É un piccolo fucile dotato di un caricatore contenente, se non ricordo
male, 25 pallottole e che è in grado di sparare a ripetizione. Non so
altro riguardo ad esso perché non partecipai ad alcuna esercitazione
preparatoria. Per compiere l'esercitazione ci recammo una mattina in un
piccolo poligono situato non lontano dalla porta carraia. Esso si trovava
entro un boschetto di alberi piuttosto alti e umido, sul cui suolo cresceva
dell'erba a foglie larghe, tipiche di quegli ambienti. Il suo aspetto mi
portò alla mente il fossato situato dietro la casa dei Vignali, quello
che conduceva al cosiddetto Gorgo. Come in quel fossato, anche nel
boschetto del poligono c'era un piccolo ruscello a rive squadrate, dove
scorreva un po' d'acqua. Oltrepassato il ruscelletto, dopo alcune decine di
metri il sentiero si aprì in una piccola radura, in fondo alla quale
c'era una collinetta, presumo artificiale, alta non più di sette-otto
metri, ai piedi della quale era posto il cartellone-bersaglio. Ad uno ad uno
ci fu consegnato il M.A.B. già carico, ci si andò a porre ad
una decina di metri dal bersaglio e da lì si sparò a raffica
contro di esso. Non si stabilì alcun punteggio, né graduatoria.
L'esercitazione aveva solamente lo scopo di farci acquistare un po' di
familiarità con il mitra.
Quando toccò il mio turno, andai a pormi nel luogo assegnato, afferrai
con la destra l'impugnatura del mitra e con la sinistra il caricatore che
sporgeva in basso per quasi il doppio dell'impugnatura, ponendo il calcio
contro la spalla destra, appena sopra l'ascella. Diressi più o meno il
mitra contro il bersaglio e premetti il grilletto. La reazione del mitra mi
colse di sorpresa. Mi ero aspettato, sì, che rinculasse verso l'alto,
ma anche se le botte di rinculo non furono tanto forti (in confronto con il
Garand, il M.A.B. produceva una reazione di rinculo tale che mi sembrava di
stare operando con un giocattolo), tuttavia non mi ero aspettato che
producesse una reazione tanto vistosa. Non solo: ad ogni colpo la dirittura
di tiro andò spostandosi anche verso destra. Così, prima che me
ne rendessi conto, alcune pallottole erano già uscite dal tabellone ed
erano andate a conficcarsi nel fianco della collinetta. Allora lasciai il
grilletto e da quel momento in poi decisi di sparare solo a piccole raffiche,
in modo da poter controllare maggiormente la direzione di tiro. Così
feci fino all'esaurimento del caricatore. La strana reazione del mitra,
però, mi lasciò perplesso e mi indusse a cercare di
comprenderne la causa.
La reazione verso l'alto è facilmente comprensibile, perché la
retta individuata dalla canna passa ben al di sopra degli appoggi. Nonostante
la reazione di rinculo non fosse molto forte, a motivo del fatto che il
braccio tra il fulcro (mano) e la canna era notevole, l'effetto fu vistoso,
come ebbi modo di notare. Non mi fu chiaro invece perché la direzione
di tiro si fosse spostata anche verso destra. La mente andò al fatto
che le canne dei fucili hanno una zigrinatura che ha lo scopo di imprimere un
moto rotatorio alle pallottole, in modo da annullare gli effetti dinamici
dovuti alle imperfezioni che, se non corretti, potrebbero far descrivere alle
pallottole delle traiettorie non rettilinee. Quello era l'unico altro fatto
che avrebbe potuto produrre reazioni aggiuntive. Perciò la soluzione
doveva essere legata ad esso. Ora il problema sta nel comprendere come quel
moto rotatorio agisca sul mitra facendone spostare la canna verso destra. La
soluzione è la seguente. Per reazione al moto rotatorio impresso alla
pallottola – che dal ragionamento che sto per fare sembra essere stato
antiorario – il mitra avrebbe dovuto ruotare in senso orario.
Poiché l'asse di rotazione non è la canna, ma quello
individuato dalle impugnature e dal calcio, e poiché quest'asse passa
sotto la canna ed è rivolto verso il basso, se il moto impresso alla
pallottola fu effettivamente di tipo antiorario, allora la rotazione in senso
orario attorno a quell'asse avrebbe fatto muovere la parte anteriore della
canna verso destra. Infine, le due reazioni combinate avrebbero prodotto la
reazione osservata.
Su
22. Visita parenti
La domenica dopo la tua visita, la caserma fu aperta per ricevere le visite
dei parenti. Quel giorno, specie nel pomeriggio, la caserma brulicò di
civili. Abituato all'andazzo della vita militare, quell'apertura diede
un'aria nuova, veramente di festa, a quella giornata. Non avendo incarichi in
fureria mi divertii a passeggiare di qua e di là, osservando le
persone in visita. C'erano genitori, fratelli, amici. Tutti apparivano
felici, sia i visitatori che i visitati.
A una certa ora nel pomeriggio mi ritirai per un momento nei gabinetti posti
al piano terreno all'estremità posteriore del braccio ad U del
fabbricato della compagnia. I singoli gabinetti comunicavano con una grande
stanza quadrata illuminata da finestre a vasistas, le quali andavano da circa
un metro e mezzo di altezza al soffitto. Tenuto conto che il piano terra era
sollevato di una cinquantina di centimetri dal terreno circostante, da fuori
non si poteva vedere niente dell'interno. Nel centro dello stanzone quadrato
c'era un rubinetto in cima a un tubo dell'acqua a circa un metro e venti di
altezza dal pavimento. Forse aveva lo scopo di riempire dei secchi, se mai ce
ne fosse stato bisogno. Quel giorno c'era una recluta nuda che si stava
lavando usando quel rubinetto. Forse attendeva dei parenti o amici e voleva
presentarsi ben pulito. Uscito di lì e girato l'angolo notai una
ragazza con il volto sorridente che tirava gli occhi a destra e a sinistra
cercando di carpire qualche dettaglio della vita di caserma. All'improvviso
notò un piccolo cornicione che correva a circa cinquanta centimetri
dal suolo. Salendo su quel cornicione avrebbe potuto vedere cosa c'era oltre
le finestre a vasistas. Quali segreti avrebbe scoperto! Tutta gioiosa si
incamminò verso il cornicione. Io ero troppo lontano per
impedirglielo. Posto un piede sul cornicione, si diede uno slancio,
afferrò il bordo della finestra, si tirò su e guardò
dentro. Subito scese con la faccia stralunata. Era andata cercando di
qualcosa di straordinario e l'aveva visto.
Su
23. Giuramento
La domenica successiva ci fu il giuramento. Verso le nove del mattino vennero
dei camion a prelevare le reclute, perché la cerimonia si sarebbe
svolta nel Casermone. Su richiesta del maresciallo, io non ci andai.
Gli altri due soldati che lavoravano in fureria, Gianmarco Celli di
Cantù (una cittadina in provincia di Como, presso il confine con la
Svizzera) e Bersani di Vercelli, erano in licenza o permesso. Forse il
maresciallo mi chiese di rimanere per non rimanere solo, visto che la caserma
sarebbe rimasta vuota per più di due ore. In effetti, quel tempo
trascorse in maniera irreale. A differenza del solito brusio, nella caserma
regnò un completo silenzio. La giornata di fine primavera era assolata
e calma. Forse non cantavano neppure gli uccelli che mi avevano svegliato la
mattina del mio arrivo. Il silenzio era totale, a parte di tanto in tanto il
ticchettio della macchina per scrivere che risuonava sulle pareti della
stanza. La macchina era una vecchia Olivetti nera con il basamento in legno,
forse risalente a prima della guerra, che però funzionava
perfettamente. In tutta la compagnia rimanemmo solo noi due. Egli stava alla
scrivania e leggeva o scarabocchiava qualcosa, mentre io battevo a macchina
oppure scrivevo a mano su qualche registro. Quando parlava, il maresciallo si
esprimeva a bassa voce, quasi che temesse di disturbare qualcuno.
All'improvviso, verso le undici e mezza si udì un vociare che andava
avvicinandosi. Erano i soldati che tornavano dal giuramento. Il loro vociare
era animato ed allegro. La compagnia stava tornando alla normalità.
Di lì a poco ci sarebbe stato il rancio ed io avrei concluso la mia
giornata lavorativa, perché di domenica pomeriggio non si lavorava.
Anzi, mi sembra che non si lavorasse per niente di domenica. Forse quella
volta il maresciallo dovette venire in fureria affinché la compagnia
non rimanesse completamente sguarnita. Questo non lo ricordo. Poco dopo
lasciai l'ufficio e mi recai al rancio. Quel giorno venne offerto come
secondo, come quasi tutte le domeniche, bistecca ai ferri. Inoltre vennero
portate anche delle paste. A me le paste non piacciono, a parte i
bigné al cioccolato. Nel vassoio che venne portato nella nostra
tavolata ce n'erano alcuni. I commilitoni, che sapevano quanto fossi delicato
col mangiare, saputo che a me piacevano i bigné, me ne lasciarono un
paio.
Su
24. Partenza dei compagni d'armi
Si stava avvicinando la fine della permanenza al C.A.R. Entro pochi giorni
sarebbe avvenuto il trasferimento ai reggimenti. Qualche giorno prima che
questo avvenisse fui informato che non sarei partito. perché era
giunta una raccomandazione, ed avrei dovuto attendere che venisse comunicata
la mia nuova assegnazione. Quando con gli amici si parlò delle
assegnazioni, non feci mistero del fatto che ero stato raccomandato. Nel
farlo mi sentii un poco a disagio, perché mi parve di avere carpito
illegalmente ciò che gli altri non potevano avere. Nonostante
ciò non nascosi il fatto, perché in genere preferisco rendere
manifesto ciò che non è strettamente personale, e per questo
motivo spesso appaio più ingenuo di quanto non lo sia. Il fatto
è che sono contrario ad un'eccessiva privacy. In questo ho oggi il
conforto di un versetto che ho notato nella Bibbia (Proverbi 18:1), il
quale dice: "Chi si isola cercherà la
sua propria brama egoistica, irromperà contro ogni saggezza."
Certo, qui non si è esortati a far conoscere agli altri tutti i propri
fatti personali, ci vuole un certo equilibrio e soprattutto cautela,
visto il mondo in cui viviamo, ma dove tutto viene nascosto abbonda la
trasgressione. In effetti, l'isolamento incoraggia a compiere quello che alla
luce del sole non si farebbe (esempio: i ladri operano di nascosto), mentre
il rendere manifeste le proprie azioni è di protezione (questi sono
punti di vista personali; non li ho letti in nessuna pubblicazione).
Giunse il giorno della partenza dei commilitoni. Per motivi che non conosco
venne stabilito che sarebbe avvenuta alle tre di notte. La sera precedente
stabilii che mi sarei alzato per rivolgere loro un ultimo saluto. Come
suonò il segnale della sveglia, mi alzai in fretta e andai a pormi al
piano terreno presso il portone d'ingresso. I soldati avevano preparato in
precedenza i loro valigioni militari, quelli posti sul ripiano dietro le
brande. Perciò non tardò molto che cominciarono a giungere i
primi partenti. Giunsero a volte in gruppi di due o tre, a volte
singolarmente, a volte in gruppi più numerosi. Li salutai tutti.
Strinsi la mano a molti, ne salutai molti per nome, giacché il lavoro
di fureria mi aveva portato a conoscerli, ebbi scambi di battute di spirito
con chi ero più affiatato. La processione durò per almeno un
quarto d'ora. Quando mi resi conto che non c'era più nessuno, chiusi
la porta e tornai nella camerata. La stanzona che aveva ospitato un terzo
della compagnia ora era vuota. I soldati di stanza nella compagnia ed i
caporali dormivano da qualche altra parte, non so dove. Dato un breve sguardo
attorno, spensi la luce principale e salii sulla branda. La camerata aveva un
aspetto squallido, ma non mi crucciai eccessivamente per la solitudine (in
effetti non la temo, avendo condotto fin dalla giovane età, volente o
nolente, una vita per lo più solitaria). Riflettei che avrei dovuto
cercare di prendere sonno al più presto, altrimenti il giorno dopo mi
sarei sentito stanco. Mi girai su un fianco; in pochi minuti mi addormentai e
dormii profondamente fino al mattino.
Su
25. I compagni di fureria
Pochi giorni dopo la partenza dei soldati novelli furono congedati anche i
tre sottotenenti ed alcuni caporali e soldati di stanza nella XII compagnia a
cui appartenevo, tra cui Renato Bersani che, assieme a Gianmarco Celli e a
me, aveva lavorato nella fureria. Con questi due soldati non avevo mai avuto
alcun rapporto di amicizia; con Celli perché né lui né
io l'avevamo mai cercata, nonostante egli fosse di professione disegnatore
come me; la differenza di anzianità di naia ci aveva sempre diviso.
Con Bersani perché, nonostante egli fosse magro e di alcuni centimetri
più basso di me, incuteva un certo timore, ossia era un tipo da
prendere con le pinze, come avrebbe detto Tex Willer. Solo Bertone e qualche
nonno gli parlavano, chiamandolo spesso Pirla, un po' per
scherzo, un po' per prenderlo in giro. Da parte mia, ricordo di avergli
rivolto la parola una sola volta, per curiosità. La cosa andò
così. Egli aveva l'abitudine di bere della Coca Cola durante il
giorno; ne teneva sempre una bottiglia sotto mano. Desideroso di sapere
perché bevesse sempre e solo Coca Cola, un giorno glielo chiesi. In
quel momento egli stava addentando un panino. Storcendo il viso egli
inghiottì il boccone che teneva in bocca e quindi, mantenendo il viso
teso e sotto sforzo, rispose:
— Come posso mandare giù il boccone se non bevo?
Forse egli non aveva compreso la mia domanda. Io comunque non mi azzardai di
chiedergli altre spiegazioni.
Gianmarco Celli era un tipo un poco più alto di me, dalla carnagione
molto chiara, tanto che sembrava perennemente ammalato. Come carattere
cercava di mostrarsi un po' bullo, mentre in realtà si comprendeva che
prima del militare doveva essere stato un ragazzo un po' viziato e coccolato.
Tuttavia, poiché era più anziano di naia di me, quando poteva,
sia pur di rado, faceva sentire tale superiorità. Da parte mia, fin
dai primi giorni in caserma ero andato maturando l'idea che il servizio
militare fosse qualcosa da non prendere seriamente; che la disubbidienza,
quando possibile, costituisse un merito e che quando possibile si dovesse
cercare di fare i furbi. Durante i primi due mesi non praticai mai niente di
simile, ma ci riflettei solamente. Verso la fine della mia permanenza a
Casale Monferrato mi si presentò l'occasione di fare uno scherzetto a
Celli. Agii in modo che egli dovesse svolgere una mansione d'ufficio che
sarebbe spettata a me. Non ricordo in cosa consisté quella mansione,
né come riuscii a combinare la cosa. Anche se si trattò di
qualcosa di insignificante, tuttavia essa avrebbe dovuto essere il punto di
partenza per azioni ancora più gloriose. Celli lo subodorò,
anche se da quello che disse compresi che non ne aveva la certezza. Questo
avvenne una mattina mentre eravamo soli in fureria. Mancava anche il capitano
nell'ufficio accanto. Più che per il fatto in sé, per timore
che gli avessi mangiato i risi in testa egli cominciò a sbraitare.
Ricordo che stavamo in piedi nel centro dell'ufficio. Io non risposi niente,
sia perché sapevo di essere nel torto, sia perché riconoscevo
che lui era più forte di me e sia anche perché sono contrario
alla violenza, a ragione o a torto che sia. Anziché calmarsi, egli
continuò ad alzare la voce.
— Una burba che pensa di prendermi per il naso: Ti faccio vedere io!
Ed all'improvviso alzò le braccia con i pugni chiusi con l'intenzione
di riempirmi di botte.
In quell'istante entrò di corsa il caporale maggiore Ferlani e si
frappose fra Celli e me. Ferlani era un lombardone robusto più alto di
Celli, una persona integra, ligia al dovere, seria, il quale evidentemente
nutriva molta stima verso di me, perché mi sapeva diligente e
laborioso. Trovandosi a passare nelle vicinanze ed avendo udito le grida di
Celli era corso immediatamente in mio soccorso.
— Se solo gli torci un capello, — disse con un'espressione che
lasciava capire che non scherzava, — poi dovrai vedertela con me.
Celli perse immediatamente l'arroganza e cominciò a balbettare, quasi
a piagnucolare, incapace di giustificare il suo comportamento. Dopo la
ramanzina di Ferlani, Celli assunse un atteggiamento ben diverso nei miei
confronti. Per la prima volta cominciò a conversare con me. Ben felice
di questo, lo assecondai. Da parte mia ero pentito di ciò che avevo
fatto e deciso a non ripetere più quell'errore. Quella sera andammo
assieme in libera uscita ed avemmo modo di conoscerci meglio. In effetti
avevamo molte cose in comune poiché eravamo entrambi disegnatori. Io
gli parlai dei miei disegni ed esperienze di lavoro, ed egli mi parlò
delle sue. L'incidente ci aveva fatto avvicinare. Negli ultimi giorni che
trascorsi a Casale, Celli ed io rimanemmo ottimi amici e uscimmo spesso
assieme.
— Architettai, attuai, accantonai, — potrei dire imitando non
altrettanto efficacemente la famosa espressione di Giulio Cesare: "Veni,
vidi, vici" (venni, vidi, vinsi). Buon per me che mi ero reso conto
della stupidità dei miei pensieri.
Su
26. Ricovero in infermeria
Frattanto, man mano che il tempo passava, cominciai a non sentirmi bene. Ero
afflitto da un torpore alla testa unito ad un malessere generale che, anche
se non mi impediva di vivere normalmente, tuttavia era molto fastidioso ed
andava aumentando giorno dopo giorno. Non rendendomi conto della causa, smisi
di mangiare ogni cosa e mi limitai al solo pane ed alle sempre presenti mele.
Presi anche a bere molta acqua presso i lavatoi. Tra le due braccia della U
che costituiva l'11-ma e la 12-ma compagnia c'era infatti una tettoia con,
sotto, due file di lavatoi separate da un muretto, una rivolta verso l'11-ma,
l'altra verso la 12-ma compagnia. Sopra ogni fila di lavatoi, addossato al
muretto c'era un tubo bucherellato dal quale zampillava in continuazione
dell'acqua fresca e buona. Perciò presi l'abitudine di recarmi
là a bere più volte al giorno. Forse quell'acqua mi fu di aiuto
per purificare il corpo, secondo ciò che in seguito realizzai
costituisse la causa del mio malessere, ma, come dicevo, la situazione andava
costantemente peggiorando. Una mattina, sentendomi più male del
solito, chiesi al maresciallo il permesso di recarmi in infermeria per una
visita di controllo. Egli me lo concesse subito. In infermeria mi fu misurata
la temperatura. Non mi fu detto che valore avesse, ma si dispose che venissi
ricoverato nell'infermeria del Casermone.
Giunto nell'infermeria fui alloggiato in una stanza con quattro letti. Quando
giunsi c'era un soldato ricoverato, ma fu dimesso il giorno dopo. Le uniche
visite che ricevetti nei tre giorni che trascorsi in quella stanza furono
quelle di un ufficiale medico, dei soldati addetti alle pulizie e di coloro
portavano il cibo. Resomi conto che probabilmente il malore era dovuto alle
mele, smisi di mangiarle. Il mio unico cibo rimase solo un pezzo di pane per
pasto, poiché oltre a quello non c'era niente che mi piacesse, tranne
il terzo giorno, quando fu portato dell'ottimo tonno, perché era un
venerdì. Anche se non mi fu somministrato nessun medicinale, in quei
giorni andai costantemente migliorando. Evidentemente il malore era causato
dalle mele. Infatti, da quel tempo e per molti anni, le mele continuarono a
causarmi quegli stessi disturbi che soffrii allora: giramento di testa unito
ad un malessere generale. Ritengo che ciò fosse dovuto ai vari veleni
di cui esse erano imbottite. Infatti le mele non trattate, come quelle che
crescono incolte, non mi causavano alcun disturbo. Inoltre, come potei
constatare nel corso di varie prove, non serviva a niente sbucciarle. Questo
perché, evidentemente, i veleni che vengono spruzzati sulle piante
cadono al suolo, in parte quando vengono spruzzate, il resto quando piove, e
tali veleni vengono poi assorbiti dalle radici e finiscono nei frutti. Di
recente, però, l'uso moderato di mele non mi causa più alcun
disturbo. Penso che ciò sia dovuto ad uno di questi due motivi: il mio
corpo è diventato resistente a quei veleni, oppure oggi si usano
veleni diversi.
Come trascorsi quei giorni da solo? Non c'erano giornali, non c'erano persone
con cui parlare (tra l'altro, io non sono un gran conversatore. Anzi, penso
che il miglior complimento che mi si possa fare, sia di dire: "Gli manca
solo la parola"), non avevo nemmeno una Settimana Enigmistica.
Trascorsi quei giorni compiendo mentalmente dei calcoli matematici. In quel
tempo prima di andare a compiere il servizio militare avevo iniziato a
studiare le materie del primo biennio di Geometra. Nel corso degli studi mi
aveva affascinato la soluzione delle equazioni algebriche di secondo grado.
Sapevo che esistevano soluzioni anche delle equazioni di terzo e quarto
grado. Sapevo anche che era stato dimostrato che non esistono soluzioni
generali delle equazioni di grado superiore al quarto. Perciò, mentre
ero lì mi sforzai di trovare la soluzione delle equazioni di terzo
grado, con lo scopo in futuro di trovare quella delle equazioni di quarto
grado ed infine sperando amenamente di trovare un metodo, anche se non la
soluzione, per risolvere le equazioni di quinto grado. Non disponendo di
carta e penna, abbozzai solo qualche idea, idea che mi piacerebbe sviluppare,
ma che a tutt'oggi per pigrizia non ho fatto. Grazie a quel lavoro mentale,
il tempo trascorse abbastanza velocemente. Il mattino di tre giorni dopo il
mio ricovero fui visitato da un maggiore medico, il quale mi dimise.
Su
27. A casa in licenza
Tornato in caserma, mi fu annunciato che mi sarebbe stata concessa una
licenza di tre giorni. E così, la mattina di un paio di giorni dopo,
partii. Alla consegna del biglietto mi si disse che avrei dovuto prendere la
linea per Pavia, Cremona, Mantova, anziché quella più veloce
per Vercelli, Milano, Padova, perché più breve di una
quindicina di chilometri. In effetti, se si guarda la carta geografica,
quella linea è più lunga, ma allora non ne ero certo. Per
quanto cercassi di obiettare, non servì a nulla. Si insisté che
il biglietto era valido per quella linea, non per l'altra. Per timore di
venire multato se fossi salito sul treno per Milano, ubbidii e presi quello
diretto in direzione opposta. Il treno fece sosta a Borgo San Martino,
Giarole, Villabella, Valenza e Valmadonna prima di giungere ad Alessandria.
Cito i paesini perché il treno era un accelerato e, come sai, gli
accelerati sostavano in ogni stazione. Ad Alessandria scesi ed attesi
l'accelerato che, passando per Spinetta, San Giuliano Vecchio, ecc., mi
avrebbe condotto a Pavia. Le linee non erano ancora elettrificate ed i treni
erano tutti particolarmente lenti. Durante una sosta ad una stazione, forse
quella di Pavia, vidi un venditore ambulante che passava con un biroccino
sotto i finestrini ed offriva bibite fresche e gelati. Avevo in tasca solo
cinquanta lire, tutto quello che mi era rimasto dopo aver pagato il biglietto
del treno. Avendo molta strada da compiere, volevo usare quei soldi nella
maniera più profittevole. Decisi di sopportare la sete ed attendere
ancora un poco.
Ad una stazione successiva ebbi l'opportunità di scendere dal treno.
Notato sul marciapiede che divideva i binari un rubinetto di acqua potabile,
mi dissetai. A quel punto non ebbi dubbi su come avrei speso le cinquanta
lire. Acquistai subito un gelato ai gusti di limone e fragola, i miei
preferiti. Ora, però, ero rimasto senza un quattrino. Tuttavia non
prevedevo altre spese fino all'arrivo a casa. Ripreso il viaggio, le ore
parvero trascorrere sempre più lentamente nell'accelerato che sostava
in ogni più piccola stazione. A Mantova cambiai treno un'altra volta.
Sperai che quello mi avrebbe condotto senza altri cambi fino a Montegrotto
Terme. Dopo innumerevoli soste durante il percorso si giunse finalmente a
Monselice. Ancora due stazioni e sarei sceso a Montegrotto. Poi avrei
percorso felicemente i due chilometri che mi separavano da casa, forse
correndo. Erano le dieci e mezza di sera. La presa in giro di colui che mi
aveva consegnato il biglietto mi aveva fatto trascorrere il primo giorno di
licenza viaggiando in treno. Esso, però, non ripartì. Dopo
qualche minuto, un bigliettaio, che era sceso, tornò nella carrozza.
Come mi vide, disse che si era giunti al capolinea. Scesi dal treno ed andai
subito ad informarmi sull'orario del primo treno per Montegrotto Terme. Mi fu
detto che non sarebbe passato prima del mattino successivo. Forse, se fossi
sceso immediatamente appena giunto a Monselice, ci sarebbe stato un treno che
avrebbe fatto tappa a Montegrotto, ma non sapendo che si era giunti al
capolinea, ero rimasto in carrozza, ed i minuti trascorsi lì in
inutile attesa erano stati decisivi. Se ci fu effettivamente una coincidenza
per Montegrotto, mi era sfuggita l'opportunità di prenderla.
Sconfortato, uscii dalla stazione, riflettendo se fosse il caso di fare
l'autostop almeno fino a Battaglia Terme. Fuori della stazione c'era un bar.
Decisi di chiedere al barista se mi avrebbe permesso di fare una telefonata,
nonostante fossi senza soldi, dicendo che l'avrebbe pagata chi sarebbe venuto
a prendermi. Senza obiettare egli mi permise di telefonare. Chiamai zio
Angelo e gli spiegai la situazione. Senza la minima esitazione, egli disse:
— Vengo subito!
Infatti, meno di mezz'ora più tardi egli giungeva con la sua
millecento. Prese un caffè, pagò il conto ed uscimmo. Giungemmo
a casa verso le undici e mezza. Tu e mamma eravate a letto. Presi il forcone
della biancheria, quello che mamma usava per tenere sollevato il filo sul
quale stendeva i panni ad asciugare, e bussai alla sua finestra. Trascorsero
un paio di minuti senza che si facesse viva. Probabilmente stava dormendo sul
lato che ci sentiva bene, e con l'altro orecchio non aveva avvertito i colpi
che avevo bussato sulle imposte. Bussai un'altra volta. Questa volta dovette
aver udito, ma non venne subito alla finestra perché forse si stava
chiedendo con apprensione che cosa fosse quel rumore. Stavo per bussare una
terza volta, quando apparve. Come ci vide, esclamò con gioia:
— Oh! Scendo subito!
Qualche istante più tardi era alla porta e ci apriva. Entrammo. Poco
dopo scendesti anche tu. Evidentemente, prima di scendere mamma ti aveva
informato del nostro arrivo.
L'incontro fu molto gioioso. Ricordo che mi poneste molte domande. Mamma
osservò che ero ingrassato. In effetti non ero ingrassato, ma
probabilmente la molta acqua che avevo bevuto nelle ultime settimane mi aveva
gonfiato viso e corpo, e mamma immaginò che fossi ingrassato e stessi
bene. Non le spiegai quello che avevo passato, essendo ben contento che lei
mi vedesse in quella maniera. Trascorremmo mezz'ora felicemente. Poi Angelo
dovette andare, così andammo a letto anche noi. Trascorsi meno di due
giornate a casa, con la gioia di tutti, e poi dovetti ripartire. Dopo qualche
giorno mi fu annunciata la nuova assegnazione: 183º reggimento di
fanteria "Nembo", divisione "Folgore", di stanza a
Cervignano del Friuli, a circa centocinquanta chilometri da Padova. La
raccomandazione mi aveva avvicinato notevolmente; da lì mi sarebbe
stato facile venire a casa in permesso in qualche fine settimana.
Su
28. Trasferimento al reggimento
Lasciai Casale Monferrato con il treno che avrei dovuto prendere quando venni
a casa in licenza. Il distacco fu definitivo, perché dopo di allora
non avrei più rivisto né Casale, né le
Casermette. Queste, anzi, non ci sono più. Me lo disse qualche
anno fa un amico che risiede a Casale Monferrato.
Poco dopo mezzogiorno il treno fece una breve sosta a Padova. Per qualche
istante mi sentii a casa, anche se non potei scendere. Poi, come il treno
ripartì, mi sentii di nuovo come un soldato che torna dalla licenza.
Qualche ora più tardi ero a Cervignano del Friuli. Questa volta non
trovai alcuna camionetta inviata per condurmi in caserma. Dovetti percorrere
tutta la strada a piedi, con il valigione che diventava sempre più
pesante ad ogni passo che compivo. Appena superato l'ingresso della caserma
incontrai l'ufficiale di picchetto, il quale mi indirizzò all'ufficio
di maggiorità del reggimento. Esso era situato al primo piano della
palazzina del comando. Lasciai il valigione nell'atrio al piano terreno e
salii.
L'ufficio era una stanza spaziosa. Sulla sinistra vi era un'ampia finestra
che dava su un giardino erboso dove crescevano alberi d'alto fusto. Il
giardino era percorso da due stradine acciottolate che si incontravano al
centro, dove era posta una fontanella circolare con dei pesci. La stanza
dell'ufficio era arredata con due tavoli rettangolari piuttosto grandi, sui
quali erano poste delle macchine per scrivere ed un ciclostile; lungo un paio
di pareti c'erano degli armadi contenenti libri e documenti; dal lato opposto
alla porta, proprio di fronte ad essa, c'era una piccola scrivania e, al suo
fianco, in posizione centrale, un'altra scrivania molto più grande.
Dietro alla scrivania più grande c'era il maresciallo maggiore Arnaldo
Giuliani, un marchigiano di Fano, una persona sulla cinquantina, piuttosto
corpulenta, alta circa un metro e settanta, dalla carnagione scura, gli occhi
neri e penetranti, i capelli lisci di colore nero ebano, ma con qualche
capello bianco, pettinati alla mascagna. Egli aveva sotto il naso una grande
spazzola che gli arrivava fino al labbro inferiore. Sembra che tenesse i
baffi così lunghi per nascondere il fatto che era senza denti e che
non amava portare la dentiera. Lo si capiva anche dal fatto che a volte,
mentre era immerso nel lavoro, lo si vedeva muovere le mascelle, a indicare
che si grattava le gengive. Oltre a lui nella stanza vi erano alcuni soldati
seduti presso i tavoli ed intenti chi a scrivere a macchina, chi a mano.
Lasciai i miei dati personali direttamente al maresciallo Giuliani. Egli mi
assegnò alla Compagnia Comando Reggimentale (CCR), l'unica attiva in
quei giorni perché il reggimento era al campo sui monti di Alpago in
provincia di Belluno. Desideroso di imboscarmi come avevo fatto in
precedenza, prima di andarmene spiegai al maresciallo che al C.A.R. avevo
lavorato in fureria, e gli chiesi se avesse bisogno di un dattilografo o
scritturale. Egli mi rispose di andare a sistemarmi nella compagnia e poi di
ritornare, che mi avrebbe messo alla prova.
Sceso al piano terreno, l'ufficiale di picchetto mi accompagnò ad una
porticina situata sotto il pianerottolo della scala, la quale dava sul
giardino alberato; da lì mi indicò la strada da percorrere per
arrivare alla compagnia. Non ricordo se lui, o chi altri, mi fece notare che
in quel reggimento bisognava andare sempre di corsa. Forse ciò era
dovuto al fatto che si trattava di un reggimento di ex paracadutisti –
sembra che gli ufficiali e sottufficiali più anziani fossero quasi
tutti ex paracadutisti – e perciò si voleva sottolineare questa
distinzione rispetto agli altri reggimenti di fanteria. Comunque fosse, di
certo non avrei potuto correre avendo con me quel valigione, ma in altre
situazioni sarei stato punito se fossi stato colto a camminare. Perciò
percorsi camminando normalmente i duecento metri che separavano la palazzina
del comando dalla CCR.
Su
29. Prima sveglia al reggimento
Questa compagnia occupava mezzo primo piano di un lungo capannone dalla volta
ad arco, il cui piano terreno era riservato a magazzini, garage e per altri
scopi. Si entrava da un'estremità del capannone. L'ingresso, a doppia
altezza, dava ai lavatoi ed ai servizi igienici. Accanto alla porta
d'ingresso, sulla destra, partiva una scaletta a due rampe non più
larga di un metro e dieci. La prima rampa costeggiava il muro esterno,
l'altra quello che separava la saletta d'ingresso dai lavatoi, Al primo piano
la scala sfociava in un corridoio lungo cinque-sei metri, ai lati del quale
si aprivano le porte degli uffici, in particolare quello della fureria. Il
corridoio sboccava direttamente nella prima delle tre camerate. Non vi erano
porte né dal lato della scala né da quello della camerata. Mi
registrai in fureria. Lì mi fu detto a chi rivolgermi per le coperte e
le lenzuola. Ottenuto l'occorrente mi sistemai nella prima camerata, al primo
piano di un castello. Terminata ogni cosa era già l'ora del rancio.
Era tardi per recarsi nell'ufficio maggiorità. Sia pure a malincuore
perché ero impaziente di ottenere un impiego, cioè di
imboscarmi, decisi che mi ci sarei recato l'indomani mattina.
Il mattino seguente alle sei e mezza ci fu la sveglia. Visto che mi trovavo
in un ambiente nuovo, dopo essermi lavato e vestito decisi di rimanere in
attesa. Poco dopo le sette fummo tutti radunati e condotti salterellando,
gavettino in mano, alla mensa distante un'ottantina di metri dal capannone
della compagnia. Il salterellare era il modo di correre quando si era
inquadrati. Nel fare ciò, la cosa importante era non tanto di correre
velocemente, ma di alzare bene le ginocchia. La sala mensa era un edificio ad
un piano situato dalla parte opposta del giardino alberato rispetto alla
palazzina del comando. Essa era fornita di lunghi tavoli, ai lati dei quali
potevano trovare posto a sedere una dozzina di soldati. Oltre a varie
finestre, nel centro di ogni lato della grande sala vi era una grande porta,
una delle quali comunicava con le cucine, mentre, delle altre tre, una dava
sul giardino alberato. Dopo che ci fummo seduti, un soldato portò del
pane ed un altro passò di tavola in tavola con un pentolone e
versò della cioccolata calda nei gavettini.
Verso le sette e mezza, dopo colazione, venimmo radunati fuori della mensa e
quindi, sempre salterellando, fummo condotti nella piazza d'armi, un ampio
piazzale rettangolare posto tra il lungo fabbricato ad un piano dello
spaccio, la palazzina del secondo battaglione, in quel momento vuota, e due
mura di cinta. Lo spaccio, in effetti, occupava solo un'estremità del
fabbricato. Che cosa comprendesse il resto del lungo fabbricato non lo seppi
mai, perché non fui mai un frequentatore dello spaccio, essendo che in
genere preferivo trascorre il tempo libero fuori della caserma. Il terreno
non era asfaltato. Subito mi resi conto del problema che sarebbe stato
causato dalla polvere, se asciutto, e dagli schizzi d'acqua e fango in caso
di pioggia. Dopo aver salterellato in lungo ed in largo per circa cinque
minuti, venimmo disposti in più file, restando rivolti verso l'asta
della bandiera che era posta presso il fabbricato dello spaccio. Ci fu
ordinato di stendere le braccia e di allargarci in ogni direzione. Quindi un
ufficiale prese a spiegarci gli esercizi da compiere e, di volta in volta,
compiendo egli stesso gli esercizi, ci diede il ritmo scandendo i numeri:
"Uno, due, tre, quattro, uno, due..." Facemmo ginnastica fin verso
le otto. Allora fummo di nuovo radunati e posti sull'attenti in perfetto
allineamento. La tromba squillò e fu alzata la bandiera. A quel punto
fu dato il "sciogliete le righe". Da quel momento si fu liberi di
andare per le proprie faccende. Preso il gavettino, tornai alla compagnia, lo
lavai e lo riposi. Quindi mi recai all'ufficio maggiorità.
Su
30. Assunto nell'ufficio maggiorità
Quando giunsi in ufficio, il maresciallo non era ancora arrivato. Ebbi
così il primo approccio con i soldati che sarebbero stati
principalmente i miei compagni nei mesi successivi. Erano tre, due
nonni di origine sarda ed un ferrarese della mia stessa
anzianità di naia. Alle otto e mezza giunse il maresciallo. Affidati
gli incarichi agli altri soldati, egli mi consegnò una lettera giunta
da poco da parte del generale Moscati, comandante del terzo corpo d'armata,
ed un manoscritto da dattilografare che doveva essere spedito a quello stesso
corpo d'armata. Con tono duro la lettera del generale specificava in ogni
dettaglio come doveva essere dattiloscritta la corrispondenza da spedire al
corpo d'armata. Essa non doveva contenere né errori né
cancellature. In caso di errore nel dattilografare si sarebbe dovuto
riscrivere tutto il documento. Un'altra regola da rispettare era quella di
anteporre i nomi ai cognomi e di scrivere questi ultimi in caratteri
maiuscoli. Così, anziché Giuliani Arnaldo, si doveva scrivere
Arnaldo GIULIANI (questa regola mi piacque e a tutt'oggi l'applico molto
spesso). Subito mi misi al lavoro. Su indicazione dello stesso maresciallo
dattilografai la lettera con estrema lentezza, stando ben attento a non
commettere alcun errore. Terminato di scrivere consegnai il foglio al
maresciallo. Egli lo esaminò attentamente. Trovatalo soddisfacente,
mi assunse. Da quel momento in poi avrei prestato servizio nell'ufficio
maggiorità come dattilografo e scritturale.
Su
31. Ambiente nuovo, problemi nuovi
Raggiunto lo scopo dell'imboscamento, ora dovevo pensare anche alle altre mie
necessità. La prima era quella della barba. Durante l'intervallo di
mezzogiorno chiesi ai compagni d'ufficio dove avrei potuto trovare una presa
di corrente. Non lontano dall'ufficio maggiorità c'era lo stanzino
dell'attendente del colonnello del reggimento e lì, mi fu detto, c'era
una presa di corrente. Contattai subito l'attendente, Luigi Visentin, un
veneto. Con lui feci subito amicizia. Egli stava di servizio in uno stanzino
situato nello stesso piano dell'ufficio maggiorità, presso la fine del
corridoietto che portava all'ufficio del colonnello. Lì egli aveva un
ferro da stiro ed un piccolo fornello elettrico, tutte cose ereditate da chi
l'aveva preceduto in quella mansione. Era anche equipaggiato con del
caffè solubile, tazzine di carta e tutto il necessario per preparare
delle bevande calde. Mi disse che avrei potuto servirmene liberamente,
facendo di volta in volta una piccola contribuzione per sopperire alle spese.
Gli parlai del rasoio elettrico. Mi disse di andare a prenderlo. Allora
corsi subito alla compagnia, presi il rasoio, lo portai nello stanzino e mi
rasi. Al ritorno in ufficio nel primo pomeriggio ero soddisfatto: non era
ancora trascorso un giorno dal mio arrivo nel reggimento e già le cose
si stavano sistemando. Le principali necessità, quelle
dell'imboscamento e della barba, erano risolte. Per di più avevo
trovato dei buoni amici con cui trascorrere il tempo libero. C'era un altro
problema che mi stava a cuore di risolvere, quello delle adunate mattutine,
ma la soluzione non sarebbe tardata ad arrivare.
Il mattino successivo mi comportai come quello precedente. Partecipai
all'adunata e mi recai saltellando in refettorio assieme agli altri soldati.
Quella mattina, però, non servirono cioccolata calda, ma caffellatte.
Rifiutai il caffellatte e mangiai solo il pane. Il non aver trovata la
cioccolata, che era il motivo principale per cui avrei desiderato recarmi al
rancio mattutino, mi spinse ancora di più a cercare una soluzione alle
adunate, tanto più che dopo il rancio bisognava andare a saltellare e
fare ginnastica sul piazzale sterrato, con ciò che avrebbe comportato
per i vestiti e le scarpe. Quella mattina decisi che nei giorni successivi
sarei scappato via prima dell'adunata. Dato che non veniva fatto l'appello,
calcolai che le persone incaricate di radunare i soldati non si sarebbero
accorte della mia assenza. Così, la mattina successiva, non appena
suonò la sveglia, mi alzai in fretta, mi lavai e corsi in ufficio.
Lì trovai i due nonni sardi, Graziano Cossiga e Giuliano Desogus;
anche loro non amavano partecipare all'alzabandiera. Subito diressi la
conversazione su di essa. Feci notare che avrei desiderato partecipare al
rancio quando veniva distribuita la cioccolata, ma che per non partecipare
all'alzabandiera ero costretto a scappare via e rinunciare alla colazione.
I sardi erano due persone simpatiche. Dei due, Graziano Cossiga era oltre che
simpatico anche un gran furbone; egli era un tipo sempre allegro che sapeva
trovare gli aspetti divertenti di ogni cosa e che sapeva anche evitare tutto
ciò che non gli andava a genio. Divenne all'istante il mio principale
amico e istruttore. Saputo del problema, che era anche il suo, mi
disse che non era necessario saltare il rancio. Per evitare l'alzabandiera
bastava mettersi a sedere presso la porta più lontana dalle cucine,
presso le quali usualmente sedeva l'ufficiale che ci avrebbe condotti
inquadrati al piazzale principale, dove si sarebbero svolte le marce e le
esercitazioni. Come sarebbe stato dato l'attenti alla fine del rancio,
nascosti dai soldati in piedi ci si sarebbe recati in fretta alla porta e si
sarebbe corsi in ufficio. Lui lo faceva regolarmente quando partecipava alla
colazione. Riguardo alla cioccolata, l'ufficio maggiorità
dattilografava e distribuiva giornalmente alle compagnie il menù del
giorno dopo. Mediante esso avrei potuto sapere in anticipo che cosa sarebbe
stato servito ai pasti, inclusa la colazione.
Così, il primo giorno che seppi che sarebbe stata servita la
cioccolata, partecipai all'adunata assieme a Cossiga e mi sedetti nella sala
mensa accanto a lui. Ci sedemmo presso la porta opposta alle cucine. Finita
la colazione, come venne dato l'attenti, egli si alzò e si diresse
alla porta. Immediatamente, lo seguii. Percorremmo di corsa la sessantina di
metri che separavano il refettorio dalla palazzina del comando e salimmo in
ufficio. Tutto si svolse esattamente come previsto. A partire da quel giorno,
per circa sei mesi agii sempre in questa maniera finché...
finché a dicembre non avvenne qualcosa che mi spinse a cambiare
programma. Perché? Che cosa accadde? A queste domande
risponderò quando giungerò a descrivere quel periodo.
Su
32. Vita di reggimento ed un incidente
Ora la mia vita di caserma aveva preso un ritmo standard: sveglia alle sei e
mezza, riparo in ufficio, lavoro dalle otto e mezza a mezzogiorno e dall'una
alle cinque, intrattenimento nei momenti liberi con gli amici che lavoravano
nella palazzina del comando, alla sera regolarmente in libera uscita, con
ritorno dopo il silenzio, che veniva dato alle dieci. Mi potevo permettere
questo perché disponevo di un tesserino di cui erano dotati tutti i
soldati in servizio nel comando, il quale ci permetteva di uscire a qualsiasi
ora della giornata e di intrattenerci fuori della caserma più a lungo
degli altri. In tal modo probabilmente evitai molti incidenti con i nonni.
Infatti, quando tornavo trovavo sempre la camerata addormentata. L'unico
incidente di cui fui testimone avvenne pochi giorni dopo il mio arrivo nel
reggimento. Una notte fui svegliato da un paio di gocce d'acqua sul viso e
dal successivo fracasso di un secchio di metallo che balzellava e rotolava
sul pavimento. Aperti gli occhi, feci appena in tempo a vedere una figura che
fuggiva verso le camerate dei più anziani di naia. Si era trattato di
un gavettone d'acqua di cui era rimasto vittima il soldato che dormiva sulla
branda alla mia destra. Questi si alzò mogio mogio, senza pronunciare
invettive; in silenzio tolse il lenzuolo e lo scrollò sul pavimento.
Dopo che ebbi chiusi gli occhi, lo udii trafficare per alcuni minuti; infine
tutto tacque.
Durante quel paio di settimane che alloggiai alla CCR (Compagnia Comando
Reggimentale) subii anche un paio di incidenti dovuti al fatto che fin dal
primo giorno avevo preso l'abitudine di andare sempre di corsa. Lo facevo non
solo perché era un comando, ma perché mi piaceva. Mentre gli
altri correvano svogliatamente nel cortile, saltellando come facevano durante
le marce, io invece correvo a perdifiato, non solo nel cortile, ma anche nei
fabbricati, salendo e scendendo le scale a due-tre-quattro gradini per volta.
Però, come ti ho già spiegato, la scala della compagnia era
composta di due rampe molto ripide. Questo fatto, oltre che rendere un poco
più difficoltosa la salita, costituiva un vero pericolo durante la
discesa. Così ben presto avvenne che nello scendere appoggiai
malamente un piede e persi l'equilibrio. Per mia fortuna fui desto
nell'afferrare con la mano destra la ringhiera, così che non ruzzolai.
Perso l'equilibrio, feci una piroetta ruotando attorno alla mano che mi
sosteneva. Il danno che subii fu di ritrovarmi con la caviglia sinistra
slogata. Nonostante ciò non marcai visita e nel giro di qualche giorno
il dolore passò. Purtroppo, non passarono molti giorni che la cosa si
ripeté esattamente come la prima volta. A quel punto ritenni opportuno
usare maggior prudenza nello scendere le scale. Anche in questa seconda
occasione il piede guarì da solo, ma rimase leso in una certa misura,
per cui a volte, se non sto attento esso tende a ruotare verso l'interno,
slogarsi e farmi cadere.
Il peggiore di questi incidenti accadde circa una dozzina d'anni fa. Mi ero
recato a Marostica (Vicenza) in compagnia di Luca, la sua fidanzata di
allora, Adriana, Alfonso (il giovane che conoscesti alla stazione di Padova),
Giorgio ed un nigeriano. Avevamo appena percorso a piedi una stradina che
fiancheggiava la cittadina e ci eravamo fermati in uno spiazzo erboso per
osservare il panorama dall'alto, quando all'improvviso (ero fermo in piedi)
il piede sinistro ruotò verso l'interno. L'azione fu così
improvvisa e inaspettata che non riuscii ad alleggerirgli il peso, né
a riacquistare l'equilibrio. Vidi il cielo ruotare e caddi sull'erba di
schiena. Era inverno e portavo il paletot. Questo attutì in parte il
colpo. Ai compagni che volevano aiutarmi ad alzarmi dissi di attendere. Volli
accertarmi di non avere qualche osso rotto. Dopo qualche secondo mi resi
conto che solo il piede si era in qualche modo danneggiato, perché
produceva un dolore terribile. Con difficoltà tornai alle macchine.
Quella sera durante la cena con gli amici fui colto da malore e fui sul punto
di perdere i sensi. Era sabato sera. Mi sarei recato dal medico il
lunedì successivo? No. Invece, nei giorni che seguirono prestai
personalmente particolare attenzione al piede. Si vedeva del sangue sotto la
pelle. Notai inoltre che esso poteva ruotare liberamente di parecchi gradi
verso destra. Probabilmente era uscito un osso dal suo alloggiamento.
Perciò ad ogni occasione, giorno dopo giorno, continuai a esercitare
forza sul piede in modo spingerlo verso sinistra. Trascorsero un paio di
mesi, il piede smise di ruotare; era guarito. Ora, specie se sono stanco, sto
bene attento a che non ruoti.
Su
33. In servizio di guardia presso la porta carraia
Nel periodo in cui il reggimento si trovò al campo, essendo la caserma
in forza minima, furono affidati dei servizi anche ai soldati impiegati al
comando. A me capitò di dover compiere un servizio di guardia notturna
alla porta carraia. Quando ne fui informato rimasi scioccato, perché
dal momento della mia assunzione quale dattilografo avevo sperato che non
avrei mai dovuto compiere servizi. Alla fin fine, però, l'esperienza
non fu così brutta come me l'ero immaginata. Mi fu detto di
presentarmi verso le dieci nel locale della guardia situato nello stesso
fabbricato che ospitava la CCR, ma all'estremo opposto rispetto alla sua
entrata. Dieci minuti alle dieci ero lì. Trattandosi della mia prima
esperienza, mi presentai vestito normalmente, cioè con camicia e
pantaloni, ma con gli anfibi ai piedi al posto delle normali scarpe. In
effetti non c'era bisogno di indossare niente di particolare, se non per il
fatto che di notte avrebbe fatto freddo e che sarebbe stato bene mettere
qualcosa sotto la camicia. Me lo disse il caporale capo della guardia quando
mi presentai, ma non gli diedi ascolto e non tornai nella camerata per
provvedere in merito. Tra l'altro, in quel tempo ero solito non indossare
nemmeno la canottiera, e fu con tale minimo abbigliamento che mi presentai al
posto di guardia.
Quando giunsi, il caporale stava parlando ai due soldati arrivati prima di
me; stava dando loro le istruzioni riguardo al servizio e le parole d'ordine.
Stabilito che le nove ore che andavano dalle dieci di sera alle sette di
mattina sarebbero state fatte con turni di tre ore, assegnò a ciascuno
il proprio turno. A me affidò il secondo, quello dall'una alle
quattro. Fatto questo, egli si recò con il primo soldato alla porta
carraia, situata ad una sessantina di metri dal posto di guardia. Prima di
andare ci consigliò di metterci subito a dormire, perché
altrimenti all'indomani ne avremmo sentite le conseguenze. Così
facemmo. Come lui se ne andò, senza attendere il suo ritorno, io e
l'altro soldato ci sdraiammo sulle brande che erano nello stanzino della
guardia. Non c'erano lenzuola, ma potevamo prendere delle coperte poste sopra
una branda vuota. Inizialmente non ne feci uso, ma dopo un po' dovetti
prenderne una e coprirmi, perché la porta dello stanzino doveva
rimanere aperta. Fu difficile prendere sonno, sia per il fatto che ero
vestito e con gli anfibi ai piedi, sia perché senza coperta avevo
freddo, mentre, se mi coprivo, entro breve tempo dovevo tornare a scoprirmi.
Quindi, non ci fu modo di stare comodi. In quelle prime tre ore riuscii a
dormire solo per qualche breve tratto. Poi all'improvviso, proprio durante
uno di quei brevi tratti di sonno il caporale mi pose una mano su una spalla
e mi svegliò; era venuto il mio turno. Che velocemente che erano
trascorse quelle prime tre ore! Essendo riuscito a prendere sonno avrei
desiderato poter dormire ancora per un po'.
Subito mi alzai. Preso il fucile, lo seguii. Ci dirigemmo verso la porta
carraia camminando affiancati e mantenendo lo stesso passo cadenzato. Giunti
ad una decina di metri dal posto di guardia il soldato ci diede l'alt,
nonostante ci avesse riconosciuti; poi chiese la parola d'ordine. Il caporale
gliela disse. Quello rispose con la controparola; quindi ci disse di
avanzare. Giunti presso di lui, il caporale fece il cambio secondo
l'etichetta militare, dando ora a me, ora all'altro soldato l'ordine di
avanzare di un passo, di voltarsi, ecc. Come ebbi preso il posto del soldato
che avrei sostituito, il caporale diede il dietro-front all'altro soldato e
quindi partirono. Ora mi attendevano tre ore da trascorrere da solo.
Il luogo era rischiarato da alcune lampadine. Ad una decina metri dalla porta
carraia c'era un piccolo fabbricato ad un piano, il posto di guardia diurno.
Ora era chiuso. La notte era molto fredda, nonostante si fosse a luglio. Mi
posi presso il fabbricato al riparo dalla brezza fredda di nord-est ed
attesi. Ad ogni minimo movimento del corpo il contatto con i pantaloni e la
camicia mi facevano rabbrividire. Per evitare il contatto con la stoffa
fredda assunsi una posizione perfettamente immobile, simile all'attenti. In
questo modo si vennero a creare dei cuscinetti d'aria sia dentro i pantaloni
che sotto la camicia, i quali si intiepidirono e mi protessero dal freddo. La
notte inoltre era buia e senza luna, ma la porta ed un certo tratto di muro
di cinta erano ben illuminati. Il luogo che avevo scelto era riparato
dall'aria e mi permetteva di vedere senza muovermi sia la porta carraia che
il muro di cinta fin dove giungeva la luce.
Si era negli anni della guerra fredda, il confine non era molto lontano e il
Friuli era una regione molto militarizzata, perché doveva essere in
grado di fronteggiare un improvviso attacco dall'est. Riflettendo su questo
fatto, cominciai a immaginare che qualcuno, il nemico, tentasse di scavalcare
il muro per impadronirsi della caserma. Mi chiesi che cosa avrei fatto se
avessi visto qualcuno affacciarsi sopra il muro o la porta carraia. Il fucile
che avevo era scarico; non c'erano state date le munizioni perché
– si diceva – tempo addietro due soldati di guardia lungo il
recinto si erano sparati a vicenda ed uno di loro era rimasto ucciso. D'altra
parte, mi dissi, se fosse stata fatta una sortita, sicuramente chi l'avesse
fatta non sarebbe stato solo. Perciò, anche con il fucile carico avrei
potuto fare ben poco. In tal caso, la cosa migliore da fare sarebbe stata di
lanciare subito l'allarme e trovare un riparo. Anche se mi rendevo conto che
questi pensieri erano solo fantasie, tuttavia essi mi inquietavano. La notte
e la solitudine mi facevano paura e mi portavano a pensare a queste
eventualità.
Per liberarmi dai pensieri negativi decisi di rivolgere la mente alla
matematica. Mi misi a fare dei calcoli, cercando di immaginare un metodo per
risolvere le equazioni di terzo grado. Come nell'infermeria, senza carta e
penna potevo fare ben poco, ma tale attività mi diede il modo di
trascorrere il tempo senza pensare a ciò che avrebbe potuto succedere
nel caso di un attacco da parte del nemico. Il tempo trascorreva lentamente.
Io continuavo a rimanere perfettamente immobile, perché ad ogni minimo
movimento la stoffa ghiacciata mi toccava la pelle, ed il contatto non era
per niente piacevole. Di tanto in tanto tornavo in me. Allora giravo gli
occhi attorno, senza muovermi, per vedere se qualcuno stesse tentando di
scavalcare il muro o la porta carraia. Nel perlustrare i dintorni con lo
sguardo rimanevo totalmente immobile, non solo per il freddo, ma anche
perché se mi fossi girato per guardarmi attorno mi sarebbe parso di
apparire impaurito ad un osservatore che fosse stato a spiarmi. Muovendo solo
gli occhi, invece, quello mi avrebbe visto fermo e tranquillo, per niente
impaurito e sicuro di sé. In questa maniera trascorsi circa due ore.
All'improvviso, verso le tre, udii dei passi. Qualcuno si stava avvicinando.
Per un istante fui colto da un brivido, ma subito mi ripresi. Volsi
l'attenzione nella direzione da cui udivo venire i passi e sollevai il
Winchester con la baionetta innestata.
Su
34. Ispezione
Pochi istanti dopo vidi due persone avvicinarsi. Era il caporale accompagnato
dal capitano d'ispezione. Come giunsero ad una decina di metri pronunciai ad
alta voce:
— Alt! Chi va là!
Mi rispose il capitano con voce calma e bassa:
— Ispezione.
— Parola d'ordine, — dissi, mantenendo un tono di voce piuttosto
alto.
— Gallarate, — rispose il capitano con lo stesso basso tono di
voce.
Allora gli diedi la controparola:
— Mondovì.
Pronunciai la controparola abbassando la voce. 'Non si sa mai', pensai tra
me. 'Ci potrebbe essere qualcuno in ascolto dietro il muro'. Dopo aver dato
la controparola, aggiunsi rialzando la voce:
— Potete venire avanti.
Quindi abbassai il Winchester. Il capitano ed il caporale mi si
avvicinarono. Giuntimi accanto, il capitano chiese di ispezionare il fucile.
Operando secondo le disposizioni ricevute, staccai la baionetta e glielo
porsi, offrendoglielo dalla parte della canna. Egli lo esaminò per
qualche istante e quindi me lo restituì, offrendomelo pure dalla parte
della canna. Allora battei con la baionetta sulla canna affinché lo
voltasse. Egli lo voltò e me lo porse dalla parte del calcio. Poi mi
chiese di esaminare la baionetta. Gliela porsi, tenendo la punta rivolta
verso di lui. Egli la prese, la rigirò tra le mani per un istante e
tornò a ridarmela, offrendomela dalla parte della punta. Con la canna
del fucile battei contro la lama finché non voltò la baionetta
e mi porse il manico. Allora la presi e tornai ad infilarla sulla canna del
fucile. Fatto questo, il capitano e il caporale si volsero e se ne andarono.
Avevo agito esattamente secondo le istruzioni ricevute; tutto si era svolto
per il meglio. Al termine dell'ispezione provai la soddisfazione che si
acquista giocando, quando tutto va per il verso diritto. In quel momento il
servizio militare era solo un gioco per me e provavo piacere ad agire secondo
le regole stabilite.
Come il caporale ed il capitano se ne furono andati, mi ritrovai solo con gli
stessi problemi che avevo avuto fino al loro arrivo. Per evitare pensieri che
avrebbero potuto recarmi timore tornai ad immergere la mente in calcoli
matematici, risolvendo equazioni di terzo grado relative a casi particolari
di cui avevo scoperto le formule risolutive. L'ultima ora passò in
fretta. Alle quattro si ripresentò il caporale in compagnia del
soldato che mi avrebbe sostituito. Altra trafila con l'alto là, la
parola e la controparola d'ordine e quindi il cambio. Tornato nella stanzetta
del posto di guardia mi stesi sulla branda e mi sforzai di dormire.
Nonostante la scomodità riuscii a dormire a tratti in misura maggiore
che nella prima parte della nottata. Infine, alle sette ci fu detto che
potevamo andare. Tornato in compagnia, mi tolsi gli anfibi, cambiai i vestiti
e mi lavai. Quindi mi recai di corsa in ufficio. Ero un po' stanco, ma meno
di quanto avessi temuto il giorno prima.
Su
35. Trasferimento alla compagnia mortai reggimentale
Qualche giorno più tardi il reggimento ritornò dal campo.
Allora tutti i soldati che erano risieduti temporaneamente nella CCR
(Compagnia Comando Reggimentale) furono trasferiti alle rispettive compagnie
di appartenenza. Poiché la mia qualifica era di osservatore
goniometrista, una specialità associata ai mortai, fui aggregato
alla CMR (Compagnia Mortai Reggimentale da 107). Questa compagnia era situata
in un capannone parallelo alla CCR, con ingresso dalla parte opposta del
capannone ed era un po' più lontana della prima dall'ufficio in cui
lavoravo. I capannoni erano lunghi almeno un'ottantina di metri, per cui
venni a trovarmi quasi alla parte opposta della caserma rispetto all'ingresso
principale. La costituzione interna del fabbricato era esattamente l'immagine
speculare della CCR, a parte la porta d'ingresso, che era di lato. Come
nell'altra compagnia, vi era un ampio ingresso, con la scaletta composta da
due rampe; di fronte all'ingresso i gabinetti e i lavatoi; al piano superiore
la fureria, un paio di altri uffici e tre grandi camerate.
La notte prima del trasloco mi fu rubato il cinturino estivo, il bel
cinturino dei pantaloni che si usava d'estate per andare in libera uscita,
oppure quando a motivo dell'incarico ci si doveva vestire bene. Per me quel
cinturino era indispensabile, visto che lavoravo in un ufficio del comando.
Così dovetti andare subito a prenderne un altro al deposito. Caso
strano, mi fu consegnato un cinturino nuovissimo. Perché dico questo?
Perché in genere i cinturini erano corti, non perché lo fossero
per costruzione, ma perché di solito i soldati li tagliavano alla
lunghezza strettamente necessaria. Quello che mi fu consegnato, invece,
essendo veramente nuovo, era tanto lungo che potevo fargli compiere quasi due
giri attorno alla vita. Io comunque non lo tagliai e di volta in volta lo
infilavo sotto tutti i passanti dei pantaloni. Questo fatto, per quanto di
poco conto, avrebbe significato qualcosa per me nei mesi successivi.
Quando andai a registrarmi nella fureria della CMR fui accolto da un
maresciallo maggiore strafottente di cui non ricordo il nome, un uomo di
circa quarantacinque anni, dotato di un gran trippone, il quale fin dal primo
momento si diede a prendermi in giro, dicendo ad ogni occasione e sforzandosi
di ostentare un forte accento veneto:
— Ciò! Ciò Tiongreis!
Io non gli diedi peso e non reagii in alcuna maniera. Ma lui, sia in quella
prima occasione sia ogni volta che gli capitava di vedermi transitare davanti
all'ufficio della fureria, non faceva che ripetere verso di me:
— Ciò! Ciò Tiongreis! Ciò!
Incuriosito dal suo comportamento mi chiesi di che regione fosse. Dopo
qualche tempo venni a sapere che era veneto.
Col tempo egli si accorse che avevo un cinturino nuovo, non accorciato.
Allora mi chiese di scambiarlo con il suo. Quello che indossava giungeva a
malapena a fare il giro della pancia e d'altra parte non voleva comperarne
uno nuovo. Gli risposi di no. Così, ogni volta che mi vedeva, invece
di "ciò" prese a dire:
— Tiongreis, dammi il cinturino! — al che continuavo a
rispondergli: — No, maresciallo.
Il tono di beffa che aveva sempre mostrato nel pronunciare
"ciò" fu sostituita da un tono di rabbia che andò
aumentando ogni volta che mi vedeva. Ma io non cedetti. La cosa andò
avanti fin verso dicembre. Poi avvenne un fatto nuovo che a suo tempo ti
racconterò.
Su
36. Il personale dell'ufficio maggiorità
Frattanto in ufficio mi ero familiarizzato con l'ambiente. Dei soldati, ti ho
già descritto in parte Graziano Cossiga, di cui non conosco il titolo
di studio, e Giuliano Desogus, un geometra, entrambi di origine sarda, anche
se Cossiga risiedeva a Torino. Perciò egli era sardo-piemontese.
Simpaticissimo e di una loquacità straordinaria Cossiga era il
promotore di ogni iniziativa. Ben presto divenimmo pressoché
inseparabili. In libera uscita uscivamo quasi sempre assieme. Qualche volta
ci accompagnava Desogus. Questi era di poche parole, parlava meno di me, ma
era sempre pronto a fare una breve risatina in risposta alle frequenti
battute di Cossiga. Il terzo soldato in ufficio con noi, Aaronne Levi, era un
geometra ferrarese del mio stesso scaglione. Egli non aveva amicizie al
comando, nonostante cercasse di mostrarsi amichevole con tutti. I suoi
discorsi ed i suoi sorrisi, però, erano sempre sarcastici, pieni di
ironia e ad ogni paio di parole egli alternava una bestemmia o una parola
oscena; inoltre fumava come un turco. Forse a motivo dei suoi vizi era magro,
incartapecorito e dimostrava il doppio dell'età che aveva. Credo che
partecipasse regolarmente all'alzabandiera, perché in genere si
presentava in ufficio solo durante gli orari di lavoro. Al di fuori di essi
lo si vedeva raramente.
Come già sai, l'ufficio era diretto dal maresciallo maggiore Arnaldo
Giuliani, un marchigiano di Fano. Questi era una persona molto benvoluta da
tutti. Quando dei maggiori o colonnelli di altri reggimenti venivano a
colloquio con il colonnello del nostro reggimento spesso si fermavano prima a
conversare con lui. Le loro conversazioni erano amichevoli come tra vecchi
amici, nonostante di solito esistesse una barriera tra ufficiali e
sottufficiali. Io mi chiesi più volte se non ricoprisse una carica
più alta, segreta. Infatti, oltre al grado di maresciallo maggiore so
che esiste una categoria di marescialli con incarichi speciali. Perciò
a volte mi chiedevo se egli non fosse una di questi e che incarico avesse.
Accanto alla scrivania del maresciallo ce n'era un'altra più piccola.
Quando giunsi al reggimento non c'era nessuno dietro a quella scrivania,
perché la persona che normalmente l'occupava era temporaneamente
assente. Questi era il sergente maggiore Giacomazzi, un campano della
provincia di Salerno. Biondo, con i capelli un po' ricci, sulla trentina,
tozzo e un po' più basso di me, era una persona molto abbordabile,
nel senso che non faceva mai pesare il suo grado nei nostri confronti. Ci si
rivolgeva a lui chiamandolo maggiore, nonostante questo fosse un
titolo che spettava agli ufficiali, ma non ci fu mai nessuna obiezione al
riguardo né da parte sua né da parte del maresciallo. Forse era
usanza chiamare così i sergenti maggiori, considerandola come
un'abbreviazione del titolo.
Il diretto superiore del maresciallo, il capitano Vittorio La Fede,
aiutante maggiore in prima, cioè aiutante di campo del
colonnello comandante del reggimento, era originario di Taranto e lavorava
nell'ufficio accanto. Il suo ufficio era dirimpetto alla scala, all'inizio
del corridoio che portava all'ufficio del colonnello. Quindi era praticamente
porta a porta con l'ufficio maggiorità. Fra il capitano e il
maresciallo pare che non scorresse buon sangue, anche se cercavano di
nasconderlo. Per qualche motivo che non conosco il maresciallo non nutriva
molta stima nei confronti del capitano, e questi usava sempre molto tatto nel
trattare con il maresciallo, quasi che lo temesse, anche se gli dava del tu,
in quanto suo subordinato. A prima vista questo atteggiamento avrebbe potuto
apparire come semplice rispetto, ma dopo che Cossiga me l'ebbe fatto notare
dovetti convenire che aveva ragione. Quando veniva lui direttamente a passi
veloci per chiedere qualcosa senza chiamare me pronunciando a voce alta
"Tiongreis!" (le porte degli uffici erano sempre aperte), egli si
rivolgeva al maresciallo dicendo con un tono che sembrava più una
richiesta di favore che un comando:
— Giulia', fammi questo, fammi quest'altro. — E subito se ne
usciva con lo stesso passo veloce.
Il capitano La Fede, di circa 35 anni, era un po' più basso di me e
dotato di una corporatura robusta. Guardandolo di spalle, sembrava di vedere
due persone affiancate, tanto era largo il suo torace. Era una persona molto
ligia al suo lavoro e nel parlare sapeva usare a seconda dei casi sia un tono
dolcissimo che molto forte. Con questo intendo dire che quando si arrabbiava
urlava in modo tale che lo si udiva in tutta il palazzina... e oltre. Il tono
più dolce lo si udiva specialmente quando riceveva telefonate dalla
moglie. Nonostante fosse sposato da alcuni anni, quando lei gli telefonava
egli si trasformava tanto che sembrava una persona appena tornata dal viaggio
di nozze. Con me usava quasi sempre un tono di voce piuttosto dolce.
Tornerò a parlarti di lui quando figurerà in qualche episodio.
Fin dai primi giorni egli mi prese in simpatia e, forse per questo motivo,
quando c'era da andare nel suo ufficio per qualche pratica il maresciallo
mandava me. Il capitano aveva anche un'altra caratteristica: non si pettinava
mai. I suoi capelli castano scuri e lisci erano sempre corti, ma
scarmigliati. Dopo alcuni giorni dal mio arrivo nel reggimento smisi anch'io
di pettinarmi, forse perché lo ammiravo e volevo assomigliargli.
Probabilmente nel reggimento noi eravamo gli unici due matti con i capelli
costantemente aggrovigliati.
A completare il quadro del nostro ufficio, c'era il colonnello comandante del
reggimento, Armando Munari. Grassottello, non molto alto, era sempre serio, e
forse anche per questo motivo incuteva parecchio timore. Lo si vedeva
raramente, perché come giungeva al comando si ritirava subito nel suo
ufficio. Ti racconto subito un'esperienza che ebbi con lui.
Mentre camminavo a ridosso della palazzina del 1º battaglione, a fianco
del giardino alberato, un giorno, visto che non c'era nessuno nei dintorni,
decisi che per una volta avrei percorso camminando gli ultimi dieci metri che
mi separavano dall'angolo della palazzina. Poi avrei ripreso a correre.
Giunto presso l'angolo, stavo già per mettermi a correre quando vidi
ad una decina di metri il colonnello ed il maggiore capo dell'ufficio
O.A.I.O. che mi venivano incontro. Anche loro mi videro. La mia reazione fu
istantanea: invece di mettermi a correre decisi di continuare a camminare.
Giunto a tre metri da loro li salutai bellamente. Il colonnello non mi
guardò, né mi salutò, ma era nero in volto. Il maggiore
mi fissò nel salutarmi, ma vidi che sudava freddo. Fatto qualche altro
passo, come li vidi voltare l'angolo, ripresi a correre. Per il resto del
tempo che trascorsi nel reggimento, ad eccezione di una sola volta, non avrei
più camminato dentro la caserma.
Su
37. Trasferimento a Villa Vicentina per il corso di specializzazione
Si giunse alla seconda settimana di agosto. Come ho già riferito, mi
era stato assegnato l'incarico di osservatore goniometrista.
Ciò comportava che frequentassi un corso, dopodiché avrei
ricevuto il grado di caporale. Dopo qualche altro mese sarei stato nominato
caporale maggiore ed infine sarei stato congedato con il grado di sergente.
Tutto questo mi lusingava, ma nello stesso tempo mi impensieriva. Infatti,
prima o poi avrei dovuto fare il campo. Che cosa avrei mangiato durante quel
periodo? Inoltre sono di costituzione debole: a quali fatiche sarei stato
sottoposto? Comunque, per quanto possibile cercai di evitare di pensarci. A
ciò mi fu di aiuto una piccola biblioteca di cui era dotata la fureria
della compagnia in cui fui trasferito.
Il corso ebbe luogo a Villa Vicentina, un paesino a circa cinque chilometri
da Cervignano del Friuli. Vi fui trasferito un lunedì mattina. La
caserma era più piccola di quella di Cervignano; in essa risiedeva il
primo battaglione dello stesso reggimento "Nembo" a cui
appartenevo. Tutte le compagnie erano alloggiate nella palazzina del comando
situata presso il fronte strada. Io fui assegnato ad una compagnia che
occupava il piano rialzato della palazzina. Come dicevo, fin dal mio arrivo
scoprii che in fureria c'era uno scaffale pieno di libri di fantascienza di
cui ero ghiotto. Poiché il corso si teneva di pomeriggio, ed essendo
che quale partecipante al corso non dovevo compiere alcun servizio, presi
l'abitudine di trascorrere tutte le mattine ed ogni altro momento libero
leggendo i romanzi tratti da quella libreria. Ciò m'impedì di
pensare a cose spiacevoli e nello stesso tempo mi fu di grande diletto.
Il corso si svolse in una stanza di una casetta ad un piano posta all'altra
estremità della caserma. Poiché faceva caldo, quando non c'era
bisogno della lavagna si andava fuori e ci si sedeva per terra all'ombra di
un albero accanto alla casa. La prima settimana di corso consisté in
lezioni di trigonometria, a me allora ignota. Per gli altri partecipanti, che
erano tutti ingegneri o geometri, le cose erano sicuramente ben note.
Però nessuno mostrò impazienza mentre l'insegnante, un capitano
sulla cinquantina coadiuvato da un tenente veneziano, Bonantonio, spiegava la
materia. Devo dire che quel capitano era un insegnante molto bravo –
certo, non era la prima volta che teneva quel corso – e io seguivo la
lezione con molta attenzione, non perdendo neanche una parola di quello che
diceva. Quelle cognizioni mi sarebbero tornate utili due anni più
tardi quando mi sarei preparato per sostenere l'esame del terzo anno di
geometra.
Su
38. La vita a Villa Vicentina
Nella caserma, come tu sai, incontrai Daniele Facciolati, figlio di Maria
detta Santona, un ex compagno di scuola delle elementari. Egli
prestava servizio in quella caserma. Fu lui a scoprirmi il mercoledì
in sala mensa al termine del rancio di mezzogiorno. Quella sera uscimmo
assieme. Mi portò in una specie di agriturismo situato ad un paio di
chilometri fuori del paese. Era una casa colonica dove vi erano nel cortile
dei rozzi tavoli e panchine lunghi 4 - 5 metri poggianti su pali conficcati
per terra. Al nostro arrivo vi erano già alcuni militari. In breve
tempo vi fu ressa. Venivano offerti in continuazione, oltre al pane ed alla
polenta abbrustolita, uova sode, prosciutto, melone, mortadella, salsicce,
formaggio ben stagionato, bibite gassate e non, il tutto a volontà,
come in una specie di smorgasbord. Non appena mancava qualcosa bastava
gridare: "Manca la polenta!" oppure: "É finita
l'aranciata!" E subito giungeva il padrone o la padrona di casa con le
cose richieste. Trovai tutti i cibi molto buoni ad eccezione della
mortadella, che nemmeno assaggiai. Perfino il formaggio, che io non amo, era
buono. Un formaggio simile mi capitò di mangiarlo solo in Canada. Era
un formaggio tenero che Severino Giovenale acquistava in forme e faceva
invecchiare in casa per alcuni mesi tenendolo al fresco in cantina,
mantenendolo costantemente coperto di olio misto a pepe e togliendovi di
tanto in tanto la muffa che si creava sopra. Prova a farlo anche tu. Un
formaggio del genere non è paragonabile con quelli che si comprano.
Dopo che ci fummo rimpinzati per bene andammo a pagare. Quale sorpresa quando
ci chiesero solo poco più di trecento lire, pressappoco la metà
di quello che avevo speso a Casale per mangiare una bistecchina con delle
patatine fritte e bere mezzo litro di acqua minerale. Per me quella fu una
serata memorabile, paragonabile ad una festa, e mi ripromisi di ritornare.
Purtroppo non ne ebbi più l'opportunità.
Su
39. Un obice molto pesante
Sabato venne svolta l'ultima lezione; riguardava l'applicazione pratica di
ciò che si era imparato durante la settimana. A tale scopo vennero
portati presso la casetta all'altra estremità della caserma un mortaio
da 81 ed un teodolite, e a turno ci applicammo a determinare angoli e
distanze e a calcolare i dati da fornire al mortaista. Ovviamente, in
quell'occasione non si sparò, ma ci fu detto che il lunedì
successivo si sarebbe andati a fare il campo, dove avremmo veramente messo in
pratica tutto quello che avevamo imparato e si sarebbero effettuati dei tiri
con il mortaio. L'annuncio mi lasciò desolato per i motivi già
citati, ma d'altra parte non c'era niente che potessi fare per evitare
l'esercitazione al campo.
Giunta l'ora della mensa serale si dovette portare indietro il teodolite ed
il mortaio. Si era in tanti e non avrebbero dovuto esserci problemi a
trasportare il mortaio, che si divideva in due pezzi, la piastra di base e
l'obice. Per qualche motivo che non conosco, in pochi istanti sparirono tutti
i partecipanti e mi ritrovai a dover portare indietro l'obice tutto da solo.
Tenendo in mente il campo e le fatiche che avrei dovuto sopportare, pensai
che avrei dovuto cercare di arrangiarmi, se non altro per rendermi conto di
quali fossero le mie effettive capacità. Così afferrai l'obice
e feci per alzarlo, ma era pesante e mi sfuggiva di mano. Allora, afferratolo
vicino alla bocca, con uno strappo lo spostai di un metro. Poi di un altro
metro. Dato lo sforzo fatto dovetti fermarmi per riprendere fiato. Dopo
qualche altro metro riflettei e decisi che se fossi riuscito a porlo sugli
avambracci disposti a mensola avrei potuto trasportarlo camminando.
Così feci, ma, percorsi alcuni metri, dovetti lasciarlo andare a terra
perché mi ammaccava le ossa. Non mi diedi per vinto. Ripresi a fargli
fare un passo alla volta dandogli degli strattoni, come avevo fatto
all'inizio, e fermandomi a riposare dopo ogni strattone. In questa maniera
percorsi i duecento metri che mi separavano dal fabbricato della compagnia,
passando accanto all'edificio ad un piano della mensa. Ero a pochi metri
dalla compagnia quando udii i soldati uscire vociando dalla mensa; avevano
già finito di cenare. Senza che glielo chiedessi, un paio di soldati
mi si accostarono, afferrarono l'obice e lo portarono via. Allora corsi alla
mensa per prendere almeno il pane e la frutta, tutto quello che prendevo di
solito, salvo rari casi, perché di tutto il resto raramente c'era
qualcosa di mio gradimento. Con mio disappunto mi dissero che non c'era
più niente da mangiare, né un tozzo di pane, né un
frutto. Dispiaciuto, mi volsi e feci per tornare alla compagnia. Riflettendo,
decisi che, anche se non faceva parte dei miei piani, quella sera sarei
andato a mangiare all'agriturismo. Le cose, però, andarono
diversamente.
Su
40. Ritorno a Cervignano
Stavo dirigendomi verso la palazzina della compagnia, quando da essa
uscì di corsa un soldato, che gridò:
— Tiongreis! Tiongreis! Presto! Ti vogliono al telefono... da
Cervignano.
Corsi in fureria. Era il maresciallo Giuliani.
— Tiongreis, — mi disse non appena risposi. — Vuoi
ritornare a lavorare in ufficio?
Non mi parve vero.
— Sì sì, maresciallo! — risposi immediatamente
quasi con le lacrime agli occhi.
— Sali sul camion della frutta e torna a Cervignano. Al resto ci penso
io.
Messo giù il ricevitore, corsi ad avvisare i soldati del camion della
frutta che sarei ritornato a Cervignano assieme a loro. Quindi corsi in
camerata, misi assieme in fretta le mie cose e le portai presso la sala della
mensa dove i due soldati mi stavano aspettando. Mi fecero salire sul cassone
posteriore, in mezzo alle mele – e mi avevano detto che non era rimasto
neanche un frutto! – perché i due posti anteriori erano
riservati all'autista ed al capomacchina (ogni auto militare ha accanto
all'autista un capomacchina, il quale deve prendere le decisioni riguardo
alla strada da percorrere ed alla velocità del mezzo. Se il conducente
va troppo veloce e viene scoperto, il primo responsabile è il
capomacchina).
Nella fretta dimenticai il fucile Winchester personale. Quando me ne
accorsi, alcune settimane più tardi, non ci feci caso, ma alcuni mesi
dopo questa dimenticanza mi sarebbe tornata utile. Durante il breve viaggio
di ritorno a Cervignano mangiai un paio di mele. Quelle di Cervignano non
erano velenose come quelle di Casale, forse perché provenivano da zone
d'Italia dove i coltivatori usavano minori quantità di insetticidi e
altri veleni. Per strada, come vidi allontanarsi la caserma di Villa
Vicentina mi resi conto che quel capitolo era chiuso e che con quel gesto
avevo dato l'addio agli avanzamenti di grado ed al congedo da sergente, ma
non ne provai alcun rammarico. Giunto a Cervignano, mi misi in tasca un paio
di mele per mangiarle il giorno dopo, perché la troppa frutta senza un
po' di pane produce acidità di stomaco. Riposte le mie cose, mi recai
in paese e lì completai la cena con un toast.
———
Di recente ho trovato il vecchio portafogli usato durante il servizio
militare. É zeppo di fogli di permessi, tesserini per uscire dalla
caserma e rientrare dopo la ritirata. Contiene anche nomi e indirizzi di
commilitoni ed altri documenti. Questo mi permette di stabilire con una certa
confidenza alcune date. Dai dati in mio possesso ritengo che il corso teorico
di Villa Vicentina si sia tenuto tra lunedì 10 e sabato 15 agosto
1964.
Su
41. Allarme!
Dopo il ritorno, in qualche occasione ebbi motivo di sentirmi a disagio per
il fatto che ritenevo che la mia presenza a Cervignano non fosse regolare e
che secondo le registrazioni militari continuassi ad essere aggregato alla
compagnia di Villa Vicentina. Detto tra parentesi – solo in termini
ipotetici perché non l'avrei mai fatto – mi capitò di
riflettere sul fatto che, se ne avessi avuto i mezzi, ciò mi avrebbe
permesso di andare a dormire in una pensione, non solo perché nel
contrappello non veniva mai fatto il mio nome, poiché disponevo del
tesserino che mi permetteva di rientrare più tardi, ma anche
perché pensavo di non risultare più effettivo a Cervignano e
che nessuno mi avrebbe cercato al di fuori delle ore d'ufficio. Riflettei su
questo fatto perché un soldato, Marco Galdini (avrò ancora
occasione di parlare di lui) che lavorava in un ufficio del comando, una
volta mi disse che in occasione di un allarme riuscì ad uscire dalla
caserma e trascorse la notte in una pensione. Allora mi chiesi se fosse stato
saggio agire in quella maniera, sia perché se l'allarme si fosse
prolungato e il reggimento si fosse trasferito, egli sarebbe diventato un
disertore; in ogni caso, se fosse stato scoperto sarebbe andato incontro a
dei grossi guai. Tornando a me, quella situazione di residente non regolare
continuava a crearmi delle apprensioni, anche se ingiustificate.
Questo timore durò per un periodo di tempo limitato, durante il quale
ebbi questa esperienza. Una sera, al ritorno dalla libera uscita c'era il
colonnello Armando Munari presso la porta, una cosa del tutto inconsueta.
Questo fatto mi intimorì. Io e Cossiga percorremmo di corsa senza
fiatare i trecento metri che ci separavano dalla compagnia. Nel percorrere
quel tragitto mi sentii come un ladro che per poco non era stato scoperto.
Come giungemmo nella camerata udimmo gli squilli di tromba, acuti e ripetuti,
del segnale d'allarme. Era la prima volta che li udivo, ma non ebbi alcun
dubbio sul loro significato.
— Me l'ero immaginato quando ho visto il colonnello, — disse
Cossiga.
Quello fu il primo allarme a cui partecipai. In un istante Cossiga
sparì (lui alloggiava nell'ultima camerata, quella dei nonni). Essendo
vestito, attesi che anche gli altri si vestissero. Quindi li seguii fuori
della compagnia. Lì c'era un tenente che non avevo mai visto prima,
né avrei più rivisto. Cominciò a gridare di mettersi in
ordine, che doveva fare l'appello. A quel punto cominciai a provare timore.
Sapevo che, qualunque cosa fosse capitata, poi sarei stato scagionato, ma per
il momento cominciai a chiedermi come avrei dovuto comportarmi se il tenente
si fosse accorto che non ero effettivo in quella compagnia. Oggi mi rendo
conto che quel timore era assurdo, ma allora non la pensavo così e
cercavo costantemente di mettermi nei luoghi più nascosti. Frattanto
vi era molta confusione ed il tenente non riusciva mai a portare a termine
l'appello per quanto gridasse, perché mancava sempre qualcuno. Come si
trovava un assente ed il tenente ripeteva l'appello, succedeva che mancava
qualcun altro. All'improvviso arrivò l'annuncio che l'allarme era
cessato. Allora ritornammo nelle camerate. In tutto quel tempo non vidi mai
Cossiga e non immaginai dove si fosse recato. Comunque in quell'occasione
presi la decisione che al successivo allarme sarei andato a rifugiarmi in
ufficio.
Su
42. Una scappatella finita bene
Un paio di settimane dopo il ritorno dal corso di Villa Vicentina, domenica
30 agosto, una splendida giornata assolata di fine estate, per qualche motivo
che non conosco fu proibito a tutti di uscire dalla caserma. Questo è
ciò che ci fu riferito dall'ufficiale di picchetto quando ci
presentammo per uscire. Allontanatici dal cancello, Cossiga disse a voce
bassa:
— Io non rimango dentro; esco dalla porta carraia.
Accettavo sempre quello che Cossiga proponeva, quindi lo seguii.
Attraversammo di corsa il giardino alberato, girammo attorno alla sala mensa
e quindi smettemmo di correre, perché si era vicini al muro di
recinzione e fuori dagli eventuali sguardi di militari graduati. La stradina
non asfaltata che conduceva alla porta carraia costeggiava il muro di cinta
compiendo un'ampia curva. Alla sua destra c'era un prato dove forse venivano
svolte delle esercitazioni; a sinistra, oltre il muro di cinta, si vedeva una
palazzina messa di sbieco. Ricordo che come la vidi da lontano riflettei su
di essa e mi chiesi: 'Come mai i militari permettono a delle abitazioni
civili di stare così vicine alla caserma, così che la gente
può vedere ciò che avviene all'interno?' Dopo un po' allontanai
questi pensieri e percorsi la strada conversando tranquillamente con Cossiga.
Avevamo appena oltrepassata la palazzina, quando all'improvviso la
conversazione fu interrotta da una voce non molto lontana che mi chiamava. Mi
guardai attorno, ma non vidi nessuno. Di nuovo la voce chiamò:
— Tiongreis!
Alzai gli occhi. Di là del muro, appoggiato al parapetto della lunga
terrazza del secondo piano della palazzina c'era il tenente Bonantonio,
l'aiutante del corso di Villa Vicentina. Subito mi misi sull'attenti ed
esclamai a voce alta:
— Comandi, signor tenente!
— Stai cercando di uscire dalla porta carraia, eh?
Invece di rispondere, gli chiesi:
— Lei abita lì?
— Sì. Questa palazzina è tutta abitata da ufficiali.
Dopo queste parole conversammo amichevolmente ancora per qualche istante.
Quindi il tenente Bonantonio mi salutò alla maniera civile, si volse e
rientrò in casa. Eh, sì! il tenente Bonantonio era davvero un
bonaccione. Col suo intervento ci aveva fatto sapere da chi era abitata la
palazzina e ci aveva messi in guardia dal compiere altri tentativi di uscire
dalla porta carraia. Dopo ciò Cossiga ritenne opportuno di non
uscire. Così ritornammo sui nostri passi.
Su
43. Una divertente esperienza notturna
Come ho già detto, a parte le due occasioni già citate, io
correvo sempre dentro la caserma, non come facevano gli altri, che fingevano
di correre, mentre in pratica si muovevano saltellando. Io correvo veramente,
non solo perché mi piaceva, ma anche perché provavo piacere nel
mostrarmi diverso dagli altri. In genere, quello che facevano gli altri io
non lo facevo, mentre facevo quello che gli altri non facevano. Una sera
stavo rientrando dalla libera uscita. Ero solo ed era piuttosto tardi
perché, grazie al tesserino che mi era stato dato in quanto impiegato
all'ufficio maggiorità potevo trattenermi fuori più a lungo.
Così evitavo i problemi che si poteva incorrere con i nonni. Stavo
percorrendo velocemente il solito tragitto che costeggiava la palazzina del
secondo battaglione quando, girato l'angolo dove tempo addietro avevo
incontrato il colonnello ed il maggiore, vidi ad una decina di metri il
tenente Guantoni della CCR che veniva verso di me. Era strano incontrare un
ufficiale a quell'ora. Il tenente Guantoni era un tipo un po' avanti con gli
anni per il grado che aveva. Di media statura, con i baffi, carnagione scura
ma un po' rossiccia, era uno di quegli ufficiali che incutevano un certo
timore, o forse era solo un'impressione che derivava dal fatto che in genere
non esistevano rapporti di amicizia fra ufficiali e soldati. Nel vederlo fui
ben contento di non aver approfittato della tarda ora per procedere al passo.
Quando gli fui vicino feci il saluto con il braccio alzato e mano alla fronte
senza fermarmi e lui mi rispose nella stessa maniera. 'É passata,'
dissi tra di me. Il mio pensiero fu interrotto dalla sua voce che esclamava
in tono di comando:
— Ehi, tu!
Subito mi volsi e, messomi sull'attenti, gridai:
— Comandi, signor tenente!
— Come ti chiami?
Allora pronunciai ad alta voce, quasi gridando, la pappardella che avevo
imparato al C.A.R.:
— Fante Dave Tiongreis, Compagnia Mortai da 107, 183º Reggimento
Fanteria "Nembo"!
Il tenente mi fissò incredulo per qualche istante. Probabilmente non
gli capitava spesso udire un soldato agire esattamente secondo le istruzioni
e con tale baldanza. Dopo un po' scosse la testa in segno di assenso ed
esclamò con forza:
— Bravo!
Quindi si volse e riprese la sua strada. A mia volta ripresi a correre verso
la mia compagnia, divertito per quanto era accaduto.
Su
44. Un allarme serio e prolungato
Una notte (saranno state le undici e mi sembra che fosse lunedì), mi
ero appena addormentato quando fui svegliato dagli squilli acuti del
tatà tatà tatatatatatàaa, tatà tatà
tatatatatatàaa. Era il segnale d'allarme. Con l'esperienza
dell'allarme avvenuto non molto tempo prima stabilii subito che sarei andato
a rifugiarmi in ufficio. Così mi vestii in fretta e corsi via. In
ufficio trovai il maresciallo con un altro soldato, e nel giro di pochi
minuti lo staff fu al completo, ad esclusione del sergente maggiore
Giacomazzi che in quel tempo era fuori per un corso. Senza saperlo,
perché nessuno mi aveva mai detto niente al riguardo, avevo fatto la
cosa giusta scappando in ufficio; in caso di allarme quello sarebbe stato il
mio posto. Vedendo che avevo le scarpe di libera uscita ai piedi, quelle che
usavo quotidianamente, il maresciallo mi disse di andare a mettere gli
anfibi, perché se si fosse andati nel campo quelle scarpe non
sarebbero state adatte. Allora tornai di corsa nella compagnia, indossai gli
anfibi e quindi ritornai in ufficio. Là vi era un'atmosfera di
suspense. Tutti stavano in piedi come se si fosse in attesa di qualcosa di
cui non si sapeva nulla. Anche il maresciallo appariva serio, come se quello
fosse un allarme diverso dai soliti. Era un allarme vero? un'altra prova? Era
scoppiata una guerra? Nessuno lo sapeva, nemmeno il maresciallo. Gli scambi
di parole pieni di congetture erano fatti a voce bassa, con un tono ben
diverso da quello che si usava di giorno durante le ore di lavoro. Attendemmo
una quindicina di minuti per vedere se l'allarme sarebbe cessato. Vedendo che
non cessava, il maresciallo disse che forse si trattava di un allarme NATO,
che sarebbe durato più a lungo del solito e che avremmo dovuto
lasciare la caserma. Nel frattempo erano giunti dei camion presso il
comando, uno dei quali a disposizione dell'ufficio maggiorità.
Caricammo su di esso alcune macchine per scrivere e tutto il necessario per
il funzionamento dell'ufficio per almeno qualche giorno e infine vi salimmo
anche noi. Il camion era chiuso ai lati con della tela. Infine venne chiuso
anche il lato posteriore da cui eravamo saliti. Presso le due sponde erano
sistemate due panchine per sedersi. Vi prendemmo posto assieme al
maresciallo. Quindi in camion partì verso l'ignoto.
Il viaggio durò circa mezz'ora, poi il camion si fermò. Dalle
scosse dell'ultimo tratto compresi che eravamo in campagna. Dall'interno non
si vedeva niente, perché il cassone era chiuso da tutti i lati. Forse
eravamo parcheggiati ai lati di una strada o in una capezzagna, ma in ogni
caso si era lontani da una strada, a meno che non si fosse nei pressi di una
stradina poco frequentata, che a quell'ora di notte era normale che rimanesse
deserta. Infatti, durante tutto il tempo che trascorremmo in quel luogo non
udimmo passare neanche un mezzo. Nessuno di noi uscì dal cassone del
camion, ma solo il maresciallo per due o tre volte durante il tempo che
trascorremmo lì. Forse lo fece per rendersi conto di cosa stesse
effettivamente accadendo. Non lontano da noi si era appostata un'unità
delle comunicazioni, perché per tutto il tempo che rimanemmo fermi in
quel luogo si continuarono ad udire le parole del marconista e le risposte
della radio. Anche questo – le parole del marconista, i suoni
incomprensibili, i fischi della radio, l'ora tarda – contribuirono a
rendere l'atmosfera irreale. Il maresciallo ci incoraggiò a sdraiarci
e cercare di riposare, perché non si sapeva quanto ci si sarebbe
fermati, né se l'allarme sarebbe continuato anche il giorno
successivo. Egli fece menzione più volte che doveva trattarsi di un
allarme giunto dalla NATO, forse per il fatto che tutto lasciava intendere
che si trattava di un allarme serio, non come quello che si era sperimentato
pochi giorni prima. Allora ci sdraiammo sul pavimento del cassone del camion,
ci coprimmo con una coperta e ci sforzammo di dormire.
La notte era molto fredda. É strano come nel Friuli le notti siano
così fredde, a meno che le due notti che mi capitò di
trascorrere all'aperto non fossero dei casi eccezionali. Comunque, a causa
del freddo non riuscii a prendere sonno. Il freddo maggiore lo provai ai
piedi. Più il tempo passava e più mi sentivo i piedi congelare,
tanto che nel dormiveglia mi capitò di temere di perderli per
congelamento. Forse la gran sensazione di freddo fu causata in parte dal
fatto che gli anfibi erano un po' stretti, come ti ho già raccontato
in un'altra occasione, ed impedivano il regolare afflusso di sangue.
Comunque, il freddo era davvero intenso e mi rendevo conto di questo fatto
ogni volta che il maresciallo usciva o rientrava. Come spostava il tendone
sul retro del camion, entrava dell'aria veramente gelida. La notte era
davvero fredda nonostante si fosse solo a fine estate o inizio autunno. Nel
dormiveglia mi capitò di chiedermi anche come avrei potuto sopportare
d'inverno una situazione simile. Nel frattempo c'era quel vociare continuo
del marconista e della sua radio. Anche questo era di ostacolo al prendere
sonno. Finalmente verso le cinque del mattino venne annunciato che l'allarme
era cessato. Qualche minuto più tardi il camion si mise in moto e ci
ricondusse a Cervignano. Lì scaricammo subito ogni cosa. Allora il
maresciallo ci disse di andare a dormire e di tornare nel pomeriggio. Mi
recai nella compagnia, mi misi in branda e finalmente potei riposare. Prima
di mezzogiorno, però, ero di nuovo sveglio e mi alzai, anche se non
venne suonata la sveglia. Poi attesi. Un po' per volta si risvegliò
tutta la compagnia e si andò al rancio.
Su
45. Il caporale maggiore Miravalle
Durante il rancio Cossiga ed io fummo avvicinati dal caporale maggiore
Miravalle, un militare di carriera sulla trentina, basso, tarchiato,
originario del meridione. Ci disse:
— Domani si dovrà andare al deposito di munizioni di ... a
scaricare un camion di bombe. Dovete venire anche voi. É tempo che
facciate anche voi qualche cosa. Presentatevi presso la compagnia subito
dopo il rancio di mezzogiorno.
Subito la cosa mi preoccupò, sia per la fatica (chissà quanti
quintali di bombe ci sarebbero stati da scaricare), sia per il timore che me
ne sfuggisse una di mano, vista l'esperienza avuta un mese prima con l'obice.
Già mi vedevo sfuggire di mano una bomba e tutto il deposito di
munizioni andare in aria. Cossiga non si preoccupò minimamente. Come
lasciammo la sala mensa, disse:
— Io non ci vado.
Quest'affermazione mi tranquillizzò, ma nello stesso tempo mi chiesi
quali sarebbero state le conseguenze se non ci fossimo presentati. Vista la
cosa a posteriori, mi rendo conto che in effetti il caporale non aveva alcun
diritto di ordinarci di compiere quel servizio, perché eravamo
impiegati in un ufficio. Egli avrebbe eventualmente dovuto chiedere prima il
permesso al maresciallo dell'ufficio maggiorità, cosa che non fece, e
se l'avesse fatto si sarebbe preso le sue, come avvenne con un graduato in
un'altra occasione che non ricordo chiaramente e che non ti
racconterò. La maggiorità era un ufficio dove si lavorava molto
e dove si richiedeva operosità, riservatezza e, naturalmente, anche
presenza. Non ci si poteva assentare per un nonnulla. Noi facevamo il nostro
dovere e da parte sua il maresciallo ci avrebbe sicuramente protetti qualora
avessimo avuto delle beghe con dei sottufficiali, tanto più con un
semplice caporale maggiore. Allora non mi rendevo conto di questo. Tuttavia,
anche se un po' intimorito, il giorno dopo scappai dalla sala mensa prima del
solito. Quando rividi Miravalle qualche giorno più tardi,
esclamò:
— Eh voi! Fate sempre i furbi, eh?
La cosa sembrò finire lì, ma ci sarebbe stato un seguito circa
un mese e mezzo dopo.
Su
46. Il compleanno del maresciallo Giuliani
Negli intervalli prima della sessione mattutina, o tra il rancio di
mezzogiorno e l'inizio del turno pomeridiano, in genere ci si intratteneva in
ufficio oppure nello stanzino dell'attendente del colonnello e si conversava
amichevolmente. Un giorno Cossiga annunciò che il maresciallo Giuliani
stava per compiere gli anni e propose di fargli un regalo. Quella volta
eravamo presenti tutti e quattro (forse si trattò di mattina,
perché c'era anche Levi). Fummo subito tutti d'accordo. Il maresciallo
avrebbe compiuto gli anni la domenica successiva, quindi Cossiga propose di
uscire il sabato tutti assieme ed effettuare l'acquisto. Avendo notato che
quando fumava il maresciallo si accendeva le sigarette con i cerini, egli
propose di acquistare un accendino. Così quel sabato ci recammo in
paese presso un orefice tutti e quattro assieme. Probabilmente Cossiga aveva
già notato l'accendino, perché ci condusse direttamente nel
negozio dove era esposto un bell'accendino placcato in oro che non aveva un
costo eccessivo per le nostre tasche. Osservatolo per un po' alla vetrina,
convenimmo di acquistarlo. Detto, fatto, pochi istanti dopo uscivamo dal
negozio con il nostro prezioso pacchettino.
L'indomani mattina ci recammo dopo dopo le nove a casa del maresciallo.
Cossiga, che era informato di tutto, ci condusse senza esitazione alla sua
abitazione. Osservammo le finestre: erano aperte. Evidentemente, anche se di
domenica e in giorno di compleanno, difficilmente un militare si alza tardi,
in specie Giuliani, che non era un pigrone. Suonammo. Trovammo alzati sia lui
che sua moglie. Nel vederci, subito ci invitò a salire in casa. Quando
seppe il motivo della nostra visita, apparve visibilmente commosso, forse per
due motivi. Primo, certamente a motivo dell'apprezzamento che stavamo
mostrando nei suoi confronti con quel pensiero e, secondo, forse non meno
importante, per il fatto di trovarsi davanti a dei soldati nella propria
casa, alla presenza di sua moglie. Infatti, mi capitò di osservare
più volte nel periodo del militare che sia gli ufficiali che i
sottufficiali appaiono molto diversi fuori del loro ambiente, specie se in
presenza di familiari. Quando capita che vengano a trovarsi a contatto con
dei soldati in presenza dei propri familiari essi diventano timidi, quasi
vergognosi, in poche parole non sono più le stesse persone. In
quell'occasione, forse per reazione a questi sentimenti, il maresciallo
cominciò col chiedere ripetutamente se gradivamo qualcosa e col dire
alla moglie "dai, prepara qualcosa, del caffè, del
tè," manifestando grande premura, con atteggiamenti piuttosto
impacciati, ben diversi da quelli che mostrava in ufficio davanti a graduati
e soldati. Accettammo un tè e subito dopo uscimmo. Ci rendemmo conto
che se ci fossimo trattenuti un po' di più l'avremmo fatto sentire a
disagio. La nostra parte l'avevamo fatta e fummo ben contenti di avergli
mostrato in quel modo che per noi egli non era semplicemente un superiore,
ma che gli volevamo bene. Nei giorni successivi egli smise di usare i
cerini.
Mi viene da chiedermi se egli usasse i cerini semplicemente perché li
preferiva agli accendini. Il problema con i regali è che spesso quando
si sceglie quello che uno non ha, potrebbe essere che quell'oggetto non ce
l'ha proprio perché non lo desidera. A me capitò una volta che
zia Carmela mi regalò un bel maglione a girocollo, perché aveva
osservato "che non ne avevo neanche uno," come lei stessa disse. In
effetti, non avevo maglioni a girocollo perché non mi piacevano e non
mi trattenni dal dirglielo. Assieme al mio, lei ne aveva acquistato uno anche
per suo marito, zio Angelo, quest'ultimo senza girocollo. Quindi propose, e
Angelo fu d'accordo, di effettuare lo scambio. Accettammo entrambi. Mi chiedo
se Angelo amasse i maglioni con girocollo. Spero di sì. Resta il fatto
che, secondo la mia opinione, quando si fanno regali sarebbe bene fare una
piccola indagine prima di procedere all'acquisto. Non è bello che una
persona debba sentirsi forzata a sorridere e ringraziare per un oggetto che
non avrebbe nemmeno voluto ricevere. Ad ogni modo, il maresciallo non
mostrò minimamente di non aver apprezzato il dono ricevuto,
perché per tutto il tempo che trascorsi a Cervignano non usò
più i cerini.
Su
47. Una gita ad Aquileia
L'episodio che adesso ti vado a raccontare forse avvenne domenica 27
settembre, perché mi sembra che in quell'occasione si fosse già
tornati all'ora solare, ma che d'altra parte la giornata fosse ancora
piuttosto lunga (ricordo che in quegli anni il cambiamento dell'ora avveniva
l'ultima domenica di settembre). Quella fu una splendida giornata di sole,
anche se non delle migliori, nel senso che si andava già manifestando
l'autunno con leggere foschie che andavano intensificandosi verso le ore
serali. Poiché di lì a poco sarebbe andato in congedo, Cossiga
propose di fare una passeggiata fino ad Aquileia, una cittadina storica a
circa 7 chilometri da Cervignano, lungo la strada che porta alla città
balneare di Grado. Non avevamo alcun permesso per uscire dal distretto. Lo
feci notare a Cossiga, ma egli insistette perché ci si andasse
ugualmente, e così accettai di unirmi a lui. Non c'erano autobus che
portassero ad Aquileia, o perlomeno noi non ci informammo al riguardo, e
così ci avviammo a piedi. La strada era composta da lunghi tratti
rettilinei, con alberi da entrambi i lati della strada. Nonostante la
stagione non fosse tarda, la strada era deserta. Questo ci consentì di
camminare quasi sempre nel centro, tranne le rare volte in cui sentivamo
giungere un'auto. Quando ciò avveniva, ci si portava temporaneamente
da un lato. Percorremmo il tragitto conversando amichevolmente, senza
affrettarci, tanto che impiegammo circa due ore per giungere a destinazione.
Essendo preoccupato, di tanto in tanto andavo sull'argomento del fatto che
eravamo privi di permesso, ma ogni volta Cossiga mi tranquillizzava. Essendo
un nonno prossimo al congedo, egli aveva la scorza dura e non provava alcun
timore.
Giungemmo ad Aquileia verso le cinque del pomeriggio. Data la rinomanza della
località, mi ero aspettato un paesotto piuttosto grande. Invece non
trovammo che quattro case, o forse il paese vero e proprio era distaccato
dalla zona storica che visitammo. Il paesino era pressoché deserto;
solo di rado vedemmo qualcuno percorrere un breve tratto di strada a piedi e
quindi scomparire in qualche abitazione. Tuttavia il paesino era splendido e
la pace di quel luogo non fece che accrescere il piacere che provammo nel
visitarlo. Trascorremmo del tempo presso il porto romano. Ora il mare non
c'è più, ma sono rimaste alcune strutture antiche e pilastri a
testimonianza dell'antico lustro. Poi visitammo l'antica basilica di
Aquileia, anche quella deserta. Lì trovammo dei dépliant che ci
permisero di apprezzare maggiormente i mosaici e le opere d'arte contenuti
in essa.
Nonostante le poche case, c'era un ristorante sulla strada principale. Verso
le sei, venuto il momento di partire, Cossiga propose di fermarsi a cenare in
quel ristorante. Il locale aveva un nome che ricordava la caccia. Infatti,
come fummo entrati, notammo che la grande sala aveva le pareti addobbate con
trofei di quel tipo. Il mobilio era antico e tenuto molto bene. Nel vedere
quelle cose cominciammo a temere che il conto sarebbe stato salato. Tuttavia
ci trattenemmo ugualmente, sia pure con una certa titubanza. Il locale
era deserto, forse a motivo dell'ora o perché si era fuori stagione.
Non c'era nessun avventore né al bar né in sala, né si
presentò alcuno durante tutto il tempo che trascorremmo nel locale.
Dopo che ci fummo seduti ad un tavolino, venne un cameriere in livrea a
chiedere che cosa desideravamo per cena. Sembrava il servitore di un nobile
ed aveva il comportamento di un maggiordomo inglese. Io ordinai la solita
bistecca con patatine fritte e mezzo litro d'acqua minerale. Fummo serviti da
gran signori, non solo in quanto al cibo, ma anche per come si venne serviti.
Cibo e servizio furono veramente ottimi. Mentre ammiravamo il locale, il
come si era serviti, il cibo ed ogni cosa, Cossiga ed io non facevamo che
chiederci quanto infine avremmo pagato. Più il tempo passava,
più temevamo la resa dei conti... letterali, cioè monetari.
Essa venne puntuale quando il cameriere ci portò il conto. Lo
esaminammo. Esso consisté in poco più di quattrocento lire a
testa. Nell'osservare la cifra, il nostro timore si trasformò in
euforia, ed il viaggio di ritorno non fu che un ripassare a parole con gioia
ciò che avevamo visto in quel paesetto e a fare commenti sull'ottimo
locale, dove con una spesa modesta avevamo ben cenato ed eravamo stati
serviti come dei gran signori.
Su
48. Arrivo del nuovo colonnello
Nel periodo che sto narrando, si cominciò a parlare che presto ci
sarebbe stato un cambio al comando del reggimento. Il colonnello Armando
Munari sarebbe stato sostituito da un altro colonnello, Giorgio Rossi de
Docentis. Il nome stesso dava adito a fantasie, così nelle
conversazioni si cominciò a fantasticare su di lui. Poi giunse la
notizia che era già giunto in paese. Dopo qualche giorno ci sarebbe
stata una cerimonia, dove sarebbero state effettuate le consegne. Gli
impiegati in ufficio non vi parteciparono, per cui non ho la minima idea di
come si svolse. Comunque, un paio di giorni prima che avvenisse il cambio
accadde che si dovette recapitare un messaggio al nuovo colonnello. La sua
abitazione non aveva telefono o non ne era ancora stato effettuato
l'allacciamento. Inoltre l'attendente era assente, per cui l'aiutante
maggiore, il capitano La Fede, inviò me. Egli mi diede l'indirizzo,
qualche indicazione per arrivarci, mi comunicò il messaggio a voce e
mi spedì via.
L'abitazione del colonnello si trovava dalla parte opposta del paese, ben
lontana dal centro. Era un bel pomeriggio assolato, per cui fu veramente
piacevole compiere quella lunga passeggiata, tanto più in un orario di
servizio. Giunto alla villetta indicatami, suonai. Venne ad aprirmi colui che
immaginai fosse il colonnello. Subito mi misi sull'attenti ed esclamai:
— Comandi, signor colonnello!
— Riposo, riposo! Entra!
Il colonnello era in abiti borghesi e non sembrava per niente un militare.
Magro, alto, nerboruto, di circa quarantacinque anni di età, aveva un
modo di muoversi ben diverso da quello piuttosto rigido di alcuni militari.
Oltre a lui in casa c'era solo Luigi Visentin, l'attendente del colonnello
uscente, ora passato all'entrante. Del tutto disinvolto, il colonnello aveva
l'aspetto di una persona sicura di sé, ma al tempo stesso bonaria.
L'avrei detto un uomo d'affari. Egli fu molto gentile nei miei confronti. Mi
offrì un caffè e nel lasciarmi mi diede pure mille lire per
ricompensarmi del disturbo. 'Oh, che bel disturbo!' pensai tra me. 'Magari
tutti i giorni!' Quella non fu l'unica occasione in cui ricevetti mille lire
per qualche servizio reso. Anche il capitano La Fede ogni tanto mi dava mille
lire. Comunque, sia per i soldi, sia per la bella passeggiata, lasciai quella
casa che ero alle stelle.
Rientrai in caserma che stavano uscendo i primi soldati per la libera uscita
serale. Vicino al cancello incontrai un soldato della mia compagnia che stava
uscendo. Ci salutammo. Poi, essendo che ormai era già trascorso
l'orario del rancio serale, mi recai in ufficio, deserto in quel momento, a
mangiare qualcosa. Infatti, lì conservavo l'affettato che acquistavo
ed i cibi che mi dava la mamma quando venivo a casa in permesso. Non avendo
pane, il fatto che mi sia recato in ufficio a mangiare mi fa comprendere che
l'episodio menzionato dovette essere avvenuto uno o due giorni dopo una mia
visita a casa, forse otto-dieci giorni dopo la gita ad Aquileia. Dopo cena mi
trattenni in ufficio fin verso le nove e mezza, perché incontrai un
soldato impiegato al comando, il quale per qualche ragione che non ricordo
non poteva uscire; perciò rimasi in sua compagnia, visto che quel
giorno un'uscita dalla caserma l'avevo già fatta. Verso le nove e
mezza non me la sentii più di rimanere in caserma, anche perché
in tal caso non avrei più potuto continuare a trattenermi in ufficio.
Infatti, di lì a poco, alle nove e quarantacinque, sarebbe suonata la
ritirata. Che cosa sarebbe successo se un ufficiale avesse visto la luce
accesa e fosse venuto a vedere? Così, grazie al tesserino, uscii di
nuovo. Sul cancello incontrai il soldato che avevo incontrato rientrando. Lo
salutai.
— Eh tu! — mi disse sorridendo divertito, ma forse provando anche
un po' d'invidia. — Tu rientri quando noi usciamo ed esci quando
rientriamo!
Gli risposi con un sorriso. Non ero uscito per farmi vedere. Se ci avessi
pensato, forse sarei uscito in un altro momento.
Su
49. Testimonianza di un incidente stradale
C'è un episodio avvenuto forse verso la metà di settembre che
ho tralasciato di raccontare, ma che mi lasciò una profonda
impressione. Avevo pensato di tralasciarlo perché non ha niente a che
vedere con il militare, a parte il fatto che ne fui testimone durante una
libera uscita. Ripensandoci ho cambiato idea e adesso te lo racconto.
Una sera, Cossiga, Desogus ed io decidemmo di recarci in un bar situato fuori
del paese, all'incrocio della circonvallazione con una strada di uscita da
Cervignano. Si trattava di un locale frequentato probabilmente da camionisti
durante il giorno, essendo che si trovava sulla circonvallazione –
infatti, il locale possedeva un ampio parcheggio all'angolo fra le due strade
– ma di sera, invece, il locale era pressoché deserto. Con
Cossiga e Desogus si trascorse del tempo guardando la televisione e quindi si
uscì, visto che il locale non offriva nient'altro (in paese di solito
si frequentava un bar dotato di un'ampia sala di biliardo, e lì, ora
giocando, ora osservando altri che giocavano, si trascorreva il tempo
piacevolmente). Usciti sul piazzale, con la mente intorpidita dalla
televisione, ci dirigemmo verso l'incrocio. A quell'ora il traffico era quasi
del tutto inesistente. Giunti all'angolo vedemmo un'auto giungere dalla
direzione di Venezia. Fermatici per attendere il suo passaggio, la seguii
distrattamente con lo sguardo. L'auto procedeva a circa sessanta chilometri
l'ora, una velocità moderata per quella strada.
All'improvviso mi accorsi che un'altra auto, giunta da Cervignano e che si
era fermata allo stop, aveva iniziato ad attraversare la strada. Forse per
distrazione, oppure pensando di avere la precedenza, visto che proveniva da
destra, questa seconda auto tagliò la strada all'altra che stava
sopraggiungendo. All'improvviso la mia attenzione si ravvivò e vidi la
scena svolgersi come al rallentatore davanti ai miei occhi. La partenza
dell'auto ferma avvenne quando l'altra era molto vicina, tanto che essa
neppure frenò. Le auto cozzarono. Udii un rumore che non avevo mai
udito prima. Il cozzo di due auto non produce un rumore stridente, come per
l'urto fra due metalli, nonostante le carrozzerie fossero di lamiera.
Produsse invece un rumore sordo, ovattato, forse per il fatto che le lamiere
si deformano sotto l'urto. Questa fu la prima cosa che mi colpì e
sbalordì. Poi seguì lo svolgersi della scena.
Colpitesi anteriormente, le auto ruotarono di 180 gradi. Quella proveniente
da Cervignano si volse verso il paese e l'altra, dopo aver compiuto un
dietro-front, proseguì in retromarcia per alcuni metri e finì
nel fosso laterale. Per effetto dell'urto le porte di quest'auto, una
millecento, si aprirono, e il guidatore, un uomo sulla cinquantina,
finì nel fosso privo d'acqua, mentre l'altra occupante, una donna
grassoccia pure sulla cinquantina, rotolò sulla strada per parecchi
metri come un birillo, tenendo le braccia diritte sopra il capo. Quando ci
penso rivedo ancora la donna rotolare sull'asfalto. Quella posizione delle
braccia si rivelò provvidenziale, perché le protesse la testa e
se la cavò con solo delle ammaccature.
Uscito dal fosso, l'uomo si diresse con calma al bar e chiamò i
carabinieri. Quindi, ritornato sul luogo dell'incidente, si mise a ragionare
con il conducente dell'altra macchina. Non ci furono grida, né
discussioni accese. La donna grassoccia nel frattempo continuava a tastarsi
per vedere se c'era qualcosa di rotto. Sembra che a parte le ammaccature
l'incidente non avesse prodotto altri danni fisici alle persone. Dopo pochi
minuti giunsero i carabinieri e noi, trattenutici ancora per alcuni istanti,
riprendemmo la nostra strada.
Su
50. I nuovi compagni d'ufficio
In previsione del congedo di Graziano Cossiga e Giuliano Desogus, il
maresciallo assunse due altri soldati come dattilografi. Non ricordo di
averli visti presentarsi come me, né che avessero chiesto di essere
assunti, ma arrivarono un giorno in ufficio come soldati già assunti
in servizio. Questo mi fa comprendere che probabilmente venivano su
raccomandazione, e che l'assunzione era avvenuta senza metterli alla prova,
come invece era successo nel mio caso tanto al C.A.R. che in
maggiorità. Uno si chiamava Guido Cricetti ed era di Roma. L'altro era
napoletano. Non ricordo il suo nome, né si trova nel mio elenco di
indirizzi. Quest'ultimo era un tipo paffuto, non molto alto, con grosse
ciglione tipiche di molti napoletani, una persona schiva che non si vedeva
mai al di fuori delle ore di lavoro. Ricordo di essere uscito con lui una
sola volta, forse la stessa sera del giorno del suo arrivo. Di lui ricordo
una sola esperienza che ti racconterò più avanti. Riguardo a
Cricetti, questi era un tipo magro, dai capelli castani, un po' più
alto di me, gioviale; egli divenne ben presto un compagno per molte uscite
serali..
Su
51. Un generale in visita
Di tanto in tanto giungeva in caserma un generale in visita. Forse egli si
recava a colloquio con il colonnello e dopo ciò ripartiva. Quando
giungeva, si era tutti informati per tempo. Allora tutti gli uffici
chiudevano le porte e per tutta la durata della visita nessuno si azzardava
ad uscire. Non so se questo corrispondesse ad un ordine o se fosse
semplicemente una consuetudine originata dal timore. Comunque un giorno,
forse verso metà ottobre, fu annunciata la visita di un generale di
divisione. In quell'occasione erano temporaneamente assenti sia il
maresciallo che il sergente maggiore. Come sempre, non appena si udirono i
tre squilli di tromba che annunciavano l'arrivo del generale vennero chiuse
tutte le porte degli uffici. In quel tempo Cossiga era già in congedo,
ma i mesi trascorsi in sua compagnia mi avevano reso coraggioso quasi come
lui. Così quel giorno uggioso, tipico delle giornate autunnali senza
sole, incoraggiato dalla mancanza dei superiori, ad un certo momento mi venne
l'idea pazza di andare a vedere il generale. L'idea fu di uscire come se
avessi qualche ragione per farlo (per esempio, quando si aveva bisogno di
andare al gabinetto, si chiedeva il permesso al maresciallo, si correva nei
servizi della propria compagnia e poi si ritornava, perché ai soldati
non era permesso usare i due servizi igienici presenti nel piano, essendo
essi riservati agli ufficiali e sottufficiali che lavoravano in quello stesso
piano). Così pensai di uscire, fare una corsetta fino allo spaccio e
ritornare indietro, con la speranza di incontrare per strada il generale.
Alzatomi dalla sedia dove stavo dattilografando, mi diressi alla porta. Nel
vedermi intenzionato ad uscire, qualcuno, forse Levi, esclamò
sbalordito:
— Dove vai! Sei pazzo?
— Vado a vedere il generale — risposi, non avendo modo di
nascondere la mia intenzione.
Non ricordo la risposta del soldato, ma un attimo dopo ero alla porta e mi
dirigevo verso la scala. Scesa la prima rampa, come mi volsi per scendere la
seconda, quella più lunga che dava direttamente alla hall del piano
terra, vidi a metà rampa l'aiutante maggiore e il generale, l'uno
presso la parete e l'altro dal lato della ringhiera, i quali stavano
colloquiando. Non c'era spazio per una terza persona, né tra i due,
né dal lato del muro, né da quello della ringhiera,
perché la scala era stretta. Che fare? Non mi passò neppure per
la testa l'idea di tornare indietro. Invece scesi ancora di qualche gradino
e, giunto a circa tre gradini da loro, mi misi sull'attenti battendo
fortemente con il piede destro sul gradino, come si è soliti fare
quando ci si mette sull'attenti, ed esclamai ad alta voce:
— Comandi, signor generale!
Nell'esprimere il termine "comandi" mi rivolsi al generale,
perché è regola che ci si debba rivolgere sempre al graduato di
grado più elevato. Entrambi si volsero verso di me. All'aiutante
maggiore dovettero essersi rizzati i capelli in testa, perché lo vidi
fare una faccia spaventata. Ma si ricompose in fretta, prima che il generale
tornasse a voltarsi verso di lui e potesse accorgersene. Allora l'aiutante
maggiore mi disse:
— Tiongreis! Corri... (e mi indicò un locale situato
all'estremità opposta della caserma) e di' al signor colonnello che
è giunto il signor generale.
— Signorsì!
L'aiutante maggiore ed il generale si appiattirono per fare spazio e
lasciarmi passare. Scesi di corsa gli ultimi gradini, uscii dalla porticina
situata sotto il pianerottolo delle scale e mi diressi di gran carriera al
luogo indicato. Ero così contento che percorsi la strada volando.
Entrato nel fabbricato indicatomi, mi trovai in un ampio ingresso lungo una
dozzina di metri, parallelo al quale c'era una saletta; la parte finale
dell'ampio e lungo ingresso comunicava direttamente con essa. Avendo udito
qualcuno entrare, si affacciò un tenente. Gli spiegai che avevo un
messaggio per il signor colonnello. Il tenente mi condusse nella sala. In
quel momento erano lì radunati tutti gli ufficiali del reggimento,
seduti in file parallele come in un piccolo teatro. Davanti a loro, su un
basso podio lungo quanto la sala, stava in piedi il colonnello Rossi de
Docentis. Come mi vide, smise di parlare e tutti si volsero verso di me.
Messomi sull'attenti e battendo con forza sul pavimento con i tacchi del
piede destro, dissi ad alta voce:
— Comandi, signor colonnello!
Quindi gli spiegai che era giunto il generale.
— Digli che vengo subito.
— Signorsì!
Quindi compii una perfetta rotazione di novanta gradi verso sinistra e
partii. Ritornai a passo veloce nell'androne, uscii, e di nuovo percorsi di
gran volata la strada di ritorno. Trovai l'aiutante maggiore nel suo ufficio.
Evidentemente egli aveva fatto accomodare il generale nell'anticamera
dell'ufficio del colonnello. Gli riferii la risposta e ritornai in ufficio.
Nessuno mi chiese dov'ero stato, né io lo spiegai loro. Più
tardi l'aiutante maggiore mi chiamò nel suo ufficio e mi diede mille
lire. Probabilmente l'avevo sollevato da un pasticcio, essendo che il
colonnello non era presente a ricevere il generale. O forse la mia azione
produsse sul generale l'impressione che fosse stato tutto architettato in
precedenza e che quindi l'aiutante maggiore avesse fatto bella figura davanti
a lui e al colonnello. Comunque fosse, la mia bizzarria aveva prodotto un
buon risultato.
Su
52. Con il plotone d'onore a Redipuglia
Un giorno, verso la fine di ottobre, mi recai nella compagnia per fare i miei
bisogni. Prima di ritornare in ufficio salii in camerata a prendere
qualcosa. Lì c'era il capitano che a suo tempo era venuto in ispezione
la notte che ero stato di guardia. Come mi vide esclamò:
— Tu!
— Comandi, signor capitano.
— Sei arruolato per il picchetto d'onore che si farà
mercoledì prossimo a Redipuglia (il 4 novembre, festa delle forze
armate).
— Ma io sono impiegato all'ufficio maggiorità. Quel giorno
lavoro.
— Non ci sono 'ma'. Da domani fino a martedì presentati ogni
mattina dopo l'alzabandiera presso la CCR (Compagnia Comando Reggimentale)
per l'esercitazione.
— Ma...
— Non ci sono 'ma'.
— Signorsì.
Il capitano stava raccogliendo soldati tra i più alti del reggimento
ed ero capitato nella camerata proprio nel momento in cui ne stava cercando
tra gli effettivi della CMR. Forse ti stupirai che abbia preso me, che non
sono poi tanto alto (a quel tempo ero alto un metro e 74 centimetri). Il
fatto è che sembra che in quel tempo venissero assegnate alla fanteria
per lo più persone non molto alte, per cui ero compreso in quel dieci
per cento dei soldati più alti del reggimento. Oltre a questo, il
capitano non era riuscito a beccare altri soldati più alti di
me, che ce n'erano sicuramente. Cricetti ad esempio era un po' più
alto di me. Ad ogni modo, non potei far altro che accettare. Tornato in
ufficio, ne parlai al maresciallo, ma egli disse che non si poteva fare
nulla. Il picchetto d'onore era un incarico troppo importante, per cui non
era il caso di molestare l'aiutante maggiore perché venissi esonerato.
Essendo il grado di maresciallo inferiore a quello di capitano, egli non
poteva mettersi contro gli ordini di quest'ultimo. Solo l'aiutante maggiore
avrebbe potuto farlo, ma il maresciallo non prese nemmeno in considerazione
quell'opportunità. Perciò, a partire dal giorno successivo mi
recai tutte le mattine nel luogo indicato, e per mezz'ora egli ci
addestrò a fare ripetutamente l'attenti, il riposo e
tanti altri esercizi di ubbidienza ai comandi militari.
Venne la mattina del 4 novembre. Subito dopo l'alzabandiera salimmo su dei
camion e fummo trasportati a Villa Vicentina, dove vennero fatti salire altri
soldati. Dopo Villa Vicentina fummo trasferiti a Gradisca d'Isonzo, dove
risiedeva il terzo battaglione del Nembo e dove salirono altri soldati
ancora. Complessivamente venne formata una squadra di una cinquantina di
uomini, più i musicanti. Lasciata Gradisca, venimmo condotti a
Redipuglia. I camion parcheggiarono ad alcune centinaia di metri
dall'ossario, in corrispondenza di uno slargo della strada. Da lì
proseguimmo a piedi in fila indiana con il fucile in mano. A quel tempo non
avevo ancora recuperato il mio che avevo lasciato a Villa Vicentina, per cui
ne presi uno tra quelli in dotazione nella camerata. Giunti all'ossario,
salimmo la lunga rampa e ci disponemmo a sinistra di una specie di altare
centrale che si trovava al termine della rampa d'ingresso, proprio all'inizio
degli alti gradoni dove sono conservati i resti dei soldati morti durante la
prima guerra mondiale (lo puoi vedere nella foto scattata assieme a zia Elsa,
Antonio e Carletto in occasione di una gita compiuta alcuni anni addietro).
Dalla parte opposta rispetto all'altare si dispose la banda. Non erano ancora
le nove quando giungemmo all'ossario. La giornata era assolata e piuttosto
calda per quella stagione.
In attesa dell'arrivo del generale che avrebbe presenziato alla cerimonia, di
tanto in tanto il capitano ci esercitava impartendo i comandi: att-hi!
fianco destr ... destr! per fila sinistr ... sinistr!
dritti! rip-zo!. Intanto l'aria andava riscaldandosi sempre
più e si cominciò a sudare. Infine – erano circa le dieci
– udimmo tre lontani squilli di tromba che annunciavano l'arrivo del
generale. Subito il capitano ci diede il comando di metterci sull'attenti.
Dopo un paio di minuti trascorsi in quella posizione, con la coda dell'occhio
vidi il generale salire la rampa a passi veloci. Egli andò a porsi
davanti all'altare, a circa tre metri da esso, e si mise sull'attenti. Due
soldati, i più alti di tutti, scelti per quello scopo, andarono a
prendere una corona d'alloro alta circa due metri e la portarono al generale.
Questi appoggiò una mano su di essa, ed i soldati, accompagnati dal
generale che continuava a tenere una mano sulla corona arretrarono fino a
giungere ad appoggiarla all'altare. Quindi i soldati si misero sull'attenti
di fianco all'altare, continuando a stare rivolti verso la rampa d'ingresso.
Il generale indietreggiò di alcuni passi e a sua volta si mise
sull'attenti, stando rivolto verso l'altare. Ora si era tutti sull'attenti.
Un paio di visitatori si fermarono ad osservare la scena.
Durante le esercitazioni il capitano ci aveva spiegato che a quel punto egli
avrebbe dovuto pronunciare tre parole ad alta voce, e ci aveva detto quali.
In quel momento, però, forse a causa dell'emozione, continuava ad
indugiare. Trascorsero alcuni secondi. Infine il generale, continuando a
rimanere sull'attenti, agitò le dita della mano sinistra, quella che
era rivolta verso di noi. Allora il capitano gridò con voce rotta
dall'emozione:
— Patria! Onore! Gloria!
E subito la fanfara attaccò l'inno nazionale.
Terminato l'inno, il generale rimase sull'attenti ancora per qualche istante.
Quindi fece un perfetto dietro-front e si diresse a passo spedito lungo la
discesa che conduceva alla strada. Dopo la sua scomparsa rimanemmo
sull'attenti ancora per un paio di minuti. Quindi ci fu impartito il comando
di riposo, ma continuammo a rimanere sul posto. Sembrava che il
capitano avesse una grande paura di rincontrare il generale. Trascorso ancora
qualche minuto, egli ci diede l'ordine di incamminarci a nostra volta in fila
indiana lungo la discesa e verso i camion. La festa era finita. Si ritornava
alla routine quotidiana.
Su
53. Una piccola avventura con il caporale maggiore Miravalle
In quel tempo avvenne anche questo episodio. Recatomi come al solito nella
compagnia, nell'uscire incontrai il caporale maggiore Miravalle, il quale
come mi vide disse:
— Stiamo andando a raccogliere le foglie lungo il muro di cinta. Devi
venire anche tu (vi era infatti un lungo filare di pioppi verso la parte
interna del muro di cinta opposto alla porta carraia e in quel tempo stavano
cadendo le foglie).
— Non posso. Devo tornare in ufficio. Sono venuto qui solo per fare i
miei bisogni.
— No, no! Devi venire anche tu. É inutile che fai il furbo. Tu
non fai mai niente. É venuto anche per te il momento di lavorare.
Tentai di ribattere qualcosa, ma fu inutile. L'alternativa sarebbe stata di
salire in fureria e telefonare al maresciallo Giuliani, ma il maresciallo
della fureria non mi avrebbe sicuramente permesso di usare il telefono. Anzi
ho motivo di credere che fosse questo stesso maresciallo a indurre Miravalle
a crearmi dei problemi, a causa del cinturino estivo che voleva che gli
consegnassi. Lo intuisco da una frase che mi disse quando lasciai il
reggimento. Così, di malavoglia, dovetti trattenermi, mentre Miravalle
continuava a chiamare tutti i soldati che vedeva e li faceva radunare in
doppia fila davanti alla compagnia. Io venni a trovarmi tra i primi della
fila di destra. Come ebbe radunate una ventina di persone, si mise alla
destra dei due soldati di testa, diede l'“avanti, march!” e
partì salterellando, continuando a pronunciare "un due, un
due", mentre tutta la squadra lo seguiva. All'estremità del lungo
capannone della compagnia avremmo voltato a sinistra, verso il muro di cinta.
Per andare in ufficio, invece, avrei dovuto girare a destra. Di fronte c'era
il lungo fabbricato ad un piano in cui si trovava lo spaccio e chissà
cos'altro (non ebbi mai l'occasione di accertarmi).
All'improvviso, fatti pochi salti, mi venne un'idea. Continuando a
salterellare, mi volsi verso il soldato che mi seguiva e gli feci cenno di
passarmi davanti. Così feci pure con il successivo, continuando a
scalare un soldato per volta, finché poco prima di giungere alla fine
del lungo capannone della compagnia venni a trovarmi ultimo della fila. Quivi
giunti, Miravalle diede il "fianco sinistr! sinistr!" e quindi lui
per primo, e poi tutta la fila dietro di lui man mano che giungeva al punto
dove aveva dato il comando, voltò a sinistra e si riallineò
con la parte che aveva già voltato. Quando venne il mio turno, feci
quattro lunghi balzi ed entrai nello spaccio. Lì attesi un minuto.
Quindi uscii e mi recai in ufficio. Dopo di allora Miravalle non mi diede
più fastidio.
Su
54. Gita a Trieste con parenti e amici
Si giunse all'8 novembre, una delle domeniche in cui, alternativamente, non
venivo a casa in permesso. Per quel giorno chiesi un permesso per recarmi a
Udine. Per quale motivo? Perché in occasione della precedente mia
visita a casa tu e mamma avevate programmato di venirmi a trovare con la
vecchia, ma bella, Fiat millecento. Non so perché scelsi Udine. Tu,
comunque, avevi dei piani diversi. Giungesti a metà mattinata assieme
a mamma e in compagnia di Maria Facciolati, la cosiddetta Santona,
madre di Daniele Facciolati di cui ho già parlato, il quale stava
compiendo il servizio militare a Villa Vicentina. Anche lui era stato
avvisato per tempo, probabilmente mediante lettera. Così, dopo aver
preso me, ci si recò a Villa Vicentina. Parcheggiata l'auto presso
l'entrata della caserma, tu entrasti e dopo pochi minuti uscisti
accompagnato da Daniele. Evidentemente, egli era già pronto e dotato
di permesso per restar fuori tutta la giornata. Fu allora che comunicasti
l'intenzione di andare a visitare Trieste, anziché Udine. La cosa mi
intimorì un poco, poiché il mio permesso non era stato fatto
per quella città. Anche se a volte in caserma facevo delle cose che
altri avrebbero considerato temerarie e nel compierle non provavo alcun
timore, tuttavia il trasgredire in certe altre maniere, specie se le
decisioni erano prese da altri, mi affliggeva. Comunque, anche se ribadii il
desiderio di andare ad Udine, se ben ricordo non mi opposi più di
tanto al tuo progetto, ed alla fine ci si diresse verso la capitale
friulana.
Come al solito quando si compivano delle gite, mamma pensava a tutto.
Poiché nell'approssimarsi a Trieste si stava avvicinando mezzogiorno,
ci fermammo in un tratto di strada prima di giungere al mare, un tratto
fiancheggiato da un bosco, nel luogo in cui alcuni anni prima si era
pranzato con gli zii Ettore ed Elsa ed i loro figli Antonio e Carletto, in
occasione di una gita. In quel tratto tra la strada ed il bosco c'era una
zona spaziosa priva di alberi dove ci si poteva intrattenere liberamente.
Lì pranzammo felicemente con ciò che le mamme avevano portato
da casa. Dopo pranzo ci recammo a Trieste e visitammo la città, in
particolare il castello di S. Giusto. Dopodiché si passeggiò
sul lungomare. Anche lì, specie sul lungomare, di tanto in tanto mi
tornava il timore di incontrare qualche ufficiale, ma mi rincuorava il fatto
che in vostra presenza probabilmente nessuno ci avrebbe disturbato per
verificare se eravamo in regola con i permessi. Forse possiedi delle foto
scattate in quell'occasione. Se le trovi, mi farebbe piacere riceverle
tramite e-mail.
Su
55. Che bello fare l'autostop!
La settimana successiva avrei dovuto venire a casa come di consueto. Di
solito ricevevo il permesso il sabato mattina dalla fureria della compagnia.
Quella volta, non so perché, il permesso venne firmato dall'aiutante
maggiore, ed io lo ricevetti il venerdì pomeriggio. Più tardi
uscii con Marco Galdini e Guido Cricetti, e noi tre ci si recò al bar
della circonvallazione, quello di cui ti raccontai l'episodio relativo
all'incidente di cui fui testimone. Dopo qualche tempo entrarono due soldati
che non conoscevamo. Il bar era praticamente vuoto, perciò fu del
tutto naturale unirsi a loro e conversare assieme. Nel corso della
conversazione accennai al fatto che l'indomani mi sarei recato a casa e che
possedevo già il permesso. A quel punto Galdini, il soldato già
menzionato, quello che aveva trascorso una notte in una pensione durante un
allarme, mi disse:
— Perché non vai a casa stasera?
Non ricordo come proseguì la conversazione. Comunque, essendo che il
permesso iniziava dal giorno successivo, avrei avuto timore di partire in
anticipo. Forse Galdini mi fece notare che in quanto impiegato al comando
non avevo bisogno di essere presente al contrappello serale, per cui nessuno
si sarebbe accorto della mia assenza. Ma c'era anche il fatto che
probabilmente a quell'ora (erano passate da poco le nove) non ci sarebbe
stato alcun treno diretto a Padova. Riguardo a questo, forse egli
ribatté che avrei potuto fare l'autostop. Sia come non sia, un po' per
volta fui convinto a partire, e dissi stupidamente che avrei iniziato a fare
l'autostop proprio lì, sulla circonvallazione. A quel punto uno dei
soldati incontrati nel bar disse che possedeva un'auto e che mi avrebbe
portato ad alcuni chilometri da Cervignano, dove sarebbe stato meno probabile
che venissi scorto da dei militari graduati. Ormai era deciso e non seppi
dire di no. Così poco dopo fui lasciato sul bordo della statale a
due-tre chilometri da Cervignano, in direzione di Venezia. Si era tra le nove
e un quarto e le nove e mezza.
Come mi trovai solo, sul bordo di quella statale buia e deserta (a quell'ora
passava in media un'auto ogni minuto), provai un senso di
imbecillità. Se avessi voluto fare la scappata in autostop, l'avrei
fatta appena uscito dalla caserma; anzi, sicuramente non avrei fatto
l'autostop, ma avrei preso il treno. Invece, per non aver saputo dire di no
alle insistenze di Galdini e successivamente anche degli altri amici, mi
trovai ad affrontare un'avventura che non sapevo come sarebbe finita. Dopo
alcuni tentativi inutili di stendere il braccio destro, con il pollice
rivolto verso Venezia, cominciai a chiedermi fino a che ora avrei continuato
a tentare, ossia quando avrei desistito e sarei ritornato a Cervignano. Ci fu
un istante in cui pensai di rinunciare subito e di tornare indietro. Ma mi
parve una cosa sciocca; a quel punto avrei almeno dovuto tentare. Dopo alcuni
minuti feci il calcolo che per tornare in caserma mi ci sarebbe voluta circa
un'ora. Perciò valutai che se per le dieci e un quarto non fossi
riuscito ad ottenere un passaggio, mi sarei incamminato verso Cervignano. In
tal modo sarei giunto in caserma verso le undici e un quarto, ed avrei
usufruito di un lasco di una quindicina di minuti che mi avrebbe permesso di
far fronte ad eventuali imprevisti o errori di valutazione. Ma anche questo
non mi soddisfaceva, perché se fosse stato necessario attendere circa
circa tre quarti d'ora prima di ottenere un passaggio, fin dove sarei giunto
con quel primo passaggio? Quante volte avrei dovuto fare l'autostop prima di
giungere nelle vicinanze di casa? E c'è da dire che più si
sarebbe fatto tardi e più sarebbe stato difficile ottenere un
passaggio, perché il traffico si sarebbe ridotto ulteriormente.
Perciò decisi che non mi sarei trattenuto fin oltre le dieci.
Ad ogni auto che passava continuai a fare il segnale con la mano ed il
pollice, ma inutilmente, per cui cominciai a chiedermi come facessero ad
ottenere il passaggio le persone che a volte si vedono fare l'autostop lungo
le strade principali (in quegli anni era più comune di oggi vedere
qualcuno fare l'autostop). A causa del mio insuccesso cominciai a pensare che
fosse per qualche mia mancanza o incapacità che le auto non si
fermavano. Intanto la temperatura si andava abbassando. Anche se indossavo la
divisa invernale, tuttavia non avevo il cappotto, e il freddo cominciava a
farsi sentire. Dopo una quindicina di minuti, una FIAT Seicento diretta a
Cervignano, come mi ebbe sorpassato frenò all'improvviso e in poche
decine di metri si fermò. Voltatasi, si diresse lentamente verso di
me. 'Adesso cominciano i guai,' pensai. 'Sicuramente è un ufficiale.
Ora non andrò più a casa e mi prenderò anche una bella
punizione.' Come l'auto mi fu accanto, si aprì il finestrino opposto
al guidatore, quello rivolto verso di me, ed una voce disse:
— Tiongreis! Sei impazzito! Non sai che un po' più avanti ci
sono due caserme e che questa zona pullula di militari?
Mi avvicinai al finestrino e guardai dentro. Era il sergente maggiore
Giacomazzi dell'ufficio maggiorità. Lo guardai a bocca aperta, non
sapendo che cosa rispondere. Dopo un attimo di esitazione il sergente disse:
— Sali, che ti porto più avanti, dove c'è meno pericolo
di incontrare degli ufficiali.
Sbigottito, salii in auto, dimenticando il proposito di ritornare a
Cervignano. Giacomazzi mi condusse sei-sette chilometri oltre San Giorgio di
Nogaro e quindi si fermò. Lo ringraziai, scesi e lui ritornò
indietro. Tornato in me, mi ritrovai di nuovo solo in una strada fredda, buia
e deserta. Allora riflettei sulla mia condizione. Ora non avevo più la
possibilità di rientrare a Cervignano. Bisognava assolutamente che
ottenessi un passaggio, altrimenti la prospettiva sarebbe stata di
trascorrere la notte... Non sapevo immaginare che cosa avrei fatto se i miei
tentativi avessero continuato a mostrarsi infruttuosi. Vista la maggiore
necessità cominciai a cambiare tattica. Anziché sporgere
semplicemente la mano con il pollice in fuori, cominciai ad agitare il
braccio in avanti e indietro, come per dare maggior forza alla mia richiesta.
Niente. Allora adottai la pratica di mettermi a correre in direzione di
Venezia quando vedevo avvicinarsi un'auto, come per dare un senso di urgenza,
continuando nello stesso tempo a fare segno con la mano perché l'auto
si fermasse. Ma anche questo modo di agire continuò a mostrarsi
infruttuoso.
Non so per quanto tempo io abbia continuato ad operare in questa maniera. Ad
un certo punto smisi di correre e di agitare il braccio, ma tornai a fare
semplicemente il segno tipico degli autostoppisti. Trascorso ancora un po' di
tempo, finalmente accadde che si fermò un'auto di cilindrata
medio-alta. Aperto lo sportello, il conducente mi chiese dov'ero diretto.
— Verso Venezia, — risposi vagamente. Sarei stato ben contento se
solo mi avesse portato nelle vicinanze di quella città. Poi con un
altro paio di autostop forse sarei giunto nelle vicinanze di casa.
— Sali! — mi disse.
Entrai nell'auto e mi sedetti. Il conducente era un uomo sulla cinquantina.
Dopo essere partito, mi chiese:
— Abiti a Venezia?
— No. Abito a Montegrotto, in provincia di Padova.
— Io sono di Solesino. Ti lascerò a Mezzavia. Va bene?
— Benissimo!
Non avrei potuto trovare di meglio! Da Mezzavia il tragitto sarebbe stato
breve e non avrei più avuto bisogno di fare l'autostop. La mia
situazione disperata si era risolta per il meglio. A rendere la situazione
ancora più piacevole c'era il lieve tepore dell'auto. Il conducente
disse che offriva quasi sempre un passaggio ai militari, perché sapeva
che cosa significasse stare sotto le armi, essendo che aveva fatto a suo
tempo il militare. Forse aveva fatto anche la guerra, questo non me lo disse,
però provava simpatia per i militari e per quanto possibile cercava di
aiutarli. Dopo questo primo approccio in cui mi chiese qualcosa di me, per il
resto del viaggio non parlammo molto. Evidentemente, al pari di me non era
neanche lui un gran parlatore. Però i nostri silenzi non si
protrassero mai troppo a lungo, tanto da divenire imbarazzanti, ma di tanto
in tanto si trovò qualche argomento comune di conversazione. Infine,
verso le undici e mezza giungemmo a Mezzavia. Scesi e ringraziai sentitamente
il buon solesinese, il quale ripartì. Attraversato il ponte, mi misi a
correre. Ero così contento, che percorsi il tragitto fino a casa
alternando tratti al passo ad altri di corsa. Giunsi poco prima di
mezzanotte. Entrato nel cortile, presi il solito forcone della biancheria e
bussai al balcone della finestra di mamma. Il resto lo puoi immaginare.
Su
56. Punizione
In una mia visita a casa, non ricordo se a fine ottobre o fine novembre,
appresi che in occasione delle elezioni che si sarebbero tenute la domenica
successiva, chi aveva già compiuto vent'anni e non abitava molto
lontano, se di buona condotta, aveva diritto ad un permesso per recarsi a
votare. Al ritorno feci la richiesta al maresciallo. Egli rispose che non me
lo poteva concedere, perché era di turno Levi di andare a casa in
permesso, ed egli non poteva permettersi che ce ne andassimo entrambi. Forte
del mio diritto, insistei. Il maresciallo continuò a dirmi di no, ma
io, non pensando alle conseguenze per l'ufficio, non cedetti. In effetti, se
me ne fossi andato in permesso il maresciallo si sarebbe trovato per due
giorni in brache di tela, disponendo solo di Cricetti e del
napoletano. Quest'ultimo era un gran fannullone e Cricetti non avrebbe potuto
fare gran che da solo, tanto più che non aveva ancora acquistato molta
esperienza. Purtroppo, questi fatti non mi passarono minimamente per la
mente, perché avevo davanti agli occhi solo la possibilità di
tornare a casa. Non riflettei neppure sul fatto che, essendo impiegato
all'ufficio maggiorità godevo già di molti privilegi, non solo
di uscire e star fuori molto più degli altri, di non dover compiere
servizi, ma anche di venire a casa regolarmente ogni due settimane. Ad un
certo punto il maresciallo non trovò altra soluzione che quella di
punirmi. Solo in tal modo egli avrebbe potuto impedirmi di non ottenere il
permesso garantito dallo Stato.
Pensando a quel fatto non provo alcun rammarico nei suoi confronti. Egli
aveva una responsabilità, a motivo della quale non poteva rinunciare a
me per quei due giorni. Egli fu anche tanto buono da non avvisare la
compagnia del fatto mi aveva inflitto tre giorni di consegna. Se l'avesse
comunicato, mi sarei trovato nella condizione, non solo di non venire a casa
e di non poter uscire dalla caserma durante quei tre giorni, ma mi sarebbero
stati anche affidati dei servizi da compiere al termine dell'orario
d'ufficio, come il pulire i gabinetti. Il maresciallo della compagnia sarebbe
stato ben lieto di darmi quegli incarichi. Non avendo Giuliani avvisato
nessuno, la punizione mi impedì soltanto di venire a casa e di
usufruire delle libere uscite serali. Ciò però comportò
un ulteriore problema per me. Avevo bisogno di uscire almeno ogni due o tre
giorni per acquistare del cibo – ossocollo o altro –
perché al rancio in genere non prendevo niente al di fuori del pane e
della frutta. Infatti, quando fui punito avevo terminato o stavo per
terminare la mia scorta di cibo. Che cosa avrei mangiato durante quei tre
giorni?
Su
57. Il Winchester lasciato a Villa Vicentina
Proprio il giorno che fui punito mi ricordai del Winchester che avevo
lasciato a Villa Vicentina. Non lo misi in relazione con la punizione e con
la possibilità di uscire dalla caserma, perché non sapevo in
che modo si sarebbe risolta la questione. Come espressi al maresciallo il
fatto che ero senza fucile, senza esitare egli mi assegnò una
camionetta per andare a prenderlo e mi nominò capomacchina. Prima di
partire mi raccomandò di ordinare all'autista di non superare i
sessanta chilometri orari, perché è responsabilità del
capomacchina stabilire il comportamento da tenere sulla strada. Così,
quel pomeriggio, verso le tre, mi recai al luogo stabilito presso la sala
mensa, dove la camionetta stava in attesa. Uscimmo dalla porta carraia e ci
dirigemmo verso Villa Vicentina. Incredibile! Non solo uscivo dalla caserma,
ma con una camionetta tutta a mia disposizione! Appena partiti dissi subito
al soldato alla guida di non superare i sessanta chilometri l'ora. Quello
ubbidì senza fiatare. Evidentemente era abituato ad ubbidire al
capomacchina, anche se questi era un semplice soldato come lui. Cinque minuti
dopo eravamo a Villa Vicentina. Entrati con l'auto in caserma, la feci
parcheggiare presso l'ingresso posteriore della palazzina del comando, dove
era situata la compagnia in cui avevo alloggiato. Sceso dalla camionetta,
salii al primo piano, avvisai la fureria, presi il Winchester nella
camerata accanto, scesi e ripartimmo. Tutto filò liscio come in un
copione.
Nel percorrere la strada di ritorno riflettei sulla mia necessità di
acquistare del cibo. Allora, come passammo davanti all'ingresso principale
della caserma, anziché ordinare al guidatore di girare verso la porta
carraia, gli dissi di proseguire verso il paese. A circa un chilometro dalla
caserma, un po' prima del centro di Cervignano c'era il negozio di alimentari
in cui ero solito fare la spesa. Feci parcheggiare la camionetta davanti
all'ingresso del negozio, entrai, acquistai l'ossocollo e tornai alla
camionetta. Il tutto avvenne in meno di cinque minuti. Quindi facemmo
dietro-front e ci recammo alla porta carraia della caserma. Ora una parte
dell'impaccio causato dalla punizione era stato risolto. Quella sera,
però, siccome mi recai in camerata prima del solito, dovetti vedermela
con le angherie dei nonni, perché questi avevano l'abitudine di creare
problemi ai più giovani di naia per qualche tempo dopo il silenzio, e
c'era il fatto che con l'arrivo dei nuovi non mi ero trasferito nella
camerata dei vice-nonni, ma ero rimasto nella prima camerata, per cui si
poteva pensare che fossi giovane di naia. Oltre a questo, ero poco
conosciuto, perché alla sera giungevo in camerata quando tutti
dormivano, mentre al mattino me ne scappavo via al più presto. Per mia
fortuna un nonno che forse mi conosceva venne in mio soccorso e non dovetti
subire conseguenze.
Riguardo alla punizione, da sciocco che ero mi sentii irritato. Perciò
nei giorni successivi mi misi a fare un po' il lavativo come un buon soldato
indurito dalla naia. Non ricordo che cosa feci di preciso o cosa non feci, ma
il maresciallo Giuliani lo notò. Egli era buono e nell'accorgersi che
ero offeso, forse già il lunedì o al più il
martedì, al momento del rancio mi trattenne per un istante in ufficio.
Come gli altri furono usciti, mi disse che se mi fossi comportato bene per
altri due mesi mi avrebbe trasferito a Padova. Immediatamente i miei occhi si
ravvivarono. Non mi chiesi neppure se egli sarebbe stato in grado di
mantenere la promessa. Gli risposi subito di sì. Immagino che
più delle parole il mio sguardo fosse stato oltremodo convincente e
comprovante che mi sarei messo sicuramente a lavorare di buona lena. Nel
vedere la mia reazione, anche lui si rallegrò. Da quel momento, tornai
a lavorare come prima, meglio di prima. Il maresciallo aveva compreso quanto
desiderassi avvicinarmi a casa e si era mostrato disposto ad assecondarmi,
anche se ciò avrebbe significato perdermi dopo poche settimane. Nel
frattempo Cricetti sarebbe diventato più affidabile ed evidentemente
il maresciallo contò anche di ottenere a gennaio altri aiuti con
l'arrivo di un nuovo scaglione di soldati.
Su
58. Il cinturino estivo
Qualche tempo dopo, in occasione di un mio turno per venire a casa, un
venerdì pomeriggio (forse il 27 novembre) verso le quattro e mezza
giunse in ufficio un soldato di servizio presso l'ingresso principale ad
annunciare che al piano terreno un civile aveva chiesto di me. Ottenuto il
permesso dal maresciallo, scesi. Proprio sotto l'ufficio c'era la stanza dei
visitatori. Entrato, trovai Riccardo Brugnolo, il quale, trovandosi a passare
per Cervignano e non essendo l'ora tarda, aveva pensato di venirmi a trovare.
Dopo un caloroso saluto da parte di entrambi e dopo aver conversato per
qualche minuto, essendo ormai prossima l'ora di chiusura dell'ufficio, mi
chiesi se avrei potuto farmi portare a casa da lui quella sera stessa. Gli
feci la proposta ed egli accettò prontamente, perché non aveva
nient'altro da fare per quella giornata. Purtroppo il mio permesso era in
fureria. Per poter uscire avrei dovuto andare a prenderlo, ma lì c'era
il maresciallo che mi odiava. Come avrei fatto? Decisi di tentare. Lasciai
Riccardo e corsi alla compagnia. Lì, al piano terreno, trovai il
caporale che conoscevo, quello della notte di guardia alla porta carraia.
Essendo che lui aveva libero accesso alla fureria, gli chiesi di andare a
prendermi il permesso senza farsi vedere dal maresciallo. Egli accettò
immediatamente senza opporre alcuna obiezione. Saliti al primo piano dov'era
situata la fureria, io mi posi dietro lo spigolo della porta aperta ed egli
entrò. Dopo qualche istante udii il maresciallo dire:
— Che cosa cerchi?
Il caporale non aprì bocca, ma essendo che aveva già il
permesso in mano, il maresciallo lo vide ed immediatamente esclamò:
/P>
— Tiongreis? No, no! Non va a casa stasera. Che venga domani mattina a
prenderlo!
Resomi conto che il tentativo di procurare il permesso all'insaputa del
maresciallo era fallito, senza pensarci due volte entrai in fureria e mi
rivolsi al maresciallo, chiedendogli per favore di darmi il permesso, essendo
che avevo ricevuto la visita di un amico, il quale mi avrebbe portato a casa
in auto.
— No, no! Niente da fare, Niente da fare! Non vai a casa stasera.
A quel punto giocai l'ultima carta.
— Maresciallo, — gli dissi. — Se mi da il permesso, le do
il cinturino.
Immediatamente il maresciallo cambiò espressione. Fissandomi con occhi
bramosi disse:
— Dov'è? Vai a prenderlo!
Allora corsi nella camerata lì accanto, presi il cinturino estivo e
tornai. Egli lo ammirò sorridendo e se lo fece passare attorno alla
vita. Era della giusta misura, anzi ne avanzava un pezzettino. Subito si
tolse il suo (ufficiali e sottufficiali portano il cinturino estivo anche
d'inverno) e me lo consegnò, Quindi si infilò il cinturino
nuovo e si ammirò sorridente, voltandosi per qualche istante a destra
e a sinistra. Tornato serio e guardandomi con aria cattiva, prese il permesso
e me lo consegnò.
— Ecco, puoi andare! — disse con espressione dura. Il patto tra
noi era concluso, ed egli tornava al vecchio astio verso di me.
Senza badargli, afferrai il permesso e corsi via. Tornato da Riccardo che mi
stava attendendo nella stanza dei visitatori, uscii dalla caserma assieme a
lui ed egli mi condusse a casa con la sua FIAT 500.
Su
59. Un'azione temeraria
Si era agli inizi di dicembre, quando giunsero al reggimento due sergenti AUC
(Allievi Ufficiali di Complemento). Uno di questi era molto zelante.
Originario della Puglia, era alto pressappoco quanto me. Aveva i capelli
castano-chiari un po' ricci e la faccia da bambino di buona famiglia. Una
mattina egli ricevette l'incarico di compiere il servizio alla mensa, per
portare poi i soldati sul piazzale principale a marciare, fare ginnastica ed
alle otto presenziare all'alzabandiera. Quella mattina mi recai anch'io alla
mensa, perché avevo saputo che ci sarebbe stata la cioccolata. Giunti
in sala, non appena ci fummo tutti seduti, egli disse ad alta voce che aveva
udito che qualcuno scappava al termine del rancio. Evidentemente, doveva
essere stato un ufficiale a dirglielo, ufficiale che poi all'atto pratico
ignorava tale fatto. L'AUC aggiunse in tono minaccioso, per quanto il viso da
bambino glielo consentisse:
— Guai a chi tenterà di scappare!
Attesi la fine del rancio ed il comando di attenti. Quando tutti si
sarebbero alzati in piedi sarei scappato, sperando di non essere visto. Si
giunse all'attenti. Tutti si alzarono in piedi. L'AUC stava presso le
cucine ad una decina di metri da me. Fra me e lui si ersero parecchi soldati.
Subito mi diressi alla porta, l'aprii ed uscii. Era quella che dava al
giardino alberato, al di là del quale c'era la palazzina del comando.
Immediatamente udii dietro di me:
— Fermo! Alt!
Evidentemente l'AUC sapeva che in quel momento qualcuno avrebbe tentato la
fuga ed aveva tenuto d'occhio le porte d'uscita. Io non diedi ascolto alle
sue parole, ma mi misi a saltellare come facevano normalmente i soldati,
compiendo tre saltini in un quarello. Pochi istanti dopo la porta
della mensa si aprì e dalla porta l'AUC gridò:
— Ehi, tu! Alt! Fermati!
Senza dargli ascolto, continuai a salterellare. Se lui avesse voluto mi
avrebbe raggiunto con quattro salti. Ma gli ufficiali, e lui quale futuro
ufficiale era come loro, odiavano correre, visto che era un obbligo della
truppa. Invece di corrermi dietro l'AUC si volse verso la mensa e
gridò:
— Chi è quel soldato? Chi lo conosce? Chi è?
Non udii altro. La porta della mensa si richiuse ed io giunsi saltellando al
comando senza intoppi.
Su
60. La rivelazione
Alcuni giorni addietro avevo scoperto che un soldato che lavorava al comando,
e col quale non ero mai uscito in precedenza, era amante di musica classica.
Saputo che avevo la sua stessa passione, egli mi disse che non lontano dal
centro del paese c'era un bar, il cui proprietario teneva nel retro un
impianto acustico ad alta fedeltà con parecchi dischi di musica
classica. Udito questo, non persi tempo e mi recai assieme a lui in quel
locale. Il barista, un uomo sulla cinquantina, saputo della nostra
intenzione, ci fece accedere al retro. Nella stanza vi era un tavolo con
alcune sedie, e sopra il tavolo un giradischi stereo ad alta fedeltà,
il migliore che avessi mai visto. Presso due angoli della stanza vi erano due
casse acustiche alte più di un metro. Da quella sera presi l'abitudine
di recarmi spesso in quel bar, dove con un'aranciata potevo trascorrere tutta
la serata ascoltando sinfonie e concerti.
La sera dell'incidente alla mensa, dopo una decina di minuti che mi trovavo
in quel bar entrò l'AUC pugliese. In qualche modo aveva udito riguardo
al barista che permetteva ai soldati di usare il suo impianto stereo, ed era
venuto a trascorrere la serata ascoltando quel genere di musica. Egli non mi
riconobbe, o comunque non lo diede a vedere. Trascorremmo assieme una
splendida serata, ascoltando della eccellente musica e commentandola negli
intervalli. Dopo un paio d'ore trascorse in quel luogo, divenimmo grandi
amici (se non fosse per la mia ritrosia a dare del tu ai superiori, avrei
potuto farlo liberamente). Data la passione comune, ci apprezzavamo a
vicenda, ed era piacevole ascoltare assieme la bella musica e conversare.
Verso le undici uscimmo e ci dirigemmo a piedi verso la caserma. La notte non
era particolarmente fredda ed essendo accaldati era piacevole anche
percorrere il tragitto a piedi verso la caserma. Preso dalla confidenza, ad
un tratto gli chiesi:
— Sergente, sa chi era quel soldato che questa mattina scappò
dalla mensa?
L'AUC si fermò di botto e mi scrutò con il viso attento e
serio. Forse aveva avuto il dubbio fin dall'inizio della serata che fossi io,
ma aveva preferito credere che non lo fossi. Quando gli dissi: “Ero
io,” l'AUC proruppe in un urlo:
— Aaah!
Egli sollevò le braccia con i pugni chiusi e, preso da una forte
conflitto, si mise ad agitarli in aria. Lo fissai sbalordito. Quando gli
avevo detto che ero stato io non mi ero minimamente immaginato che ciò
avrebbe prodotto quell'effetto su di lui. Tuttavia, l'aver davanti a
sé la persona che aveva ammesso spontaneamente la propria colpa, per
cui avrebbe dovuto punirla, mentre nello stesso tempo provava simpatia per la
piacevole serata trascorsa assieme, gli creava evidentemente un forte
conflitto interiore. Dopo qualche istante, come si fu calmato ed ebbe
abbassate le braccia, disse con un filo di voce:
— Dovrei punirti.
Ma non lo fece. Scioccamente avevo rotto l'incantesimo. La nostra grande
amicizia si era incrinata. Il resto della strada lo percorremmo parlando quel
tanto che era necessario per non mostrare il broncio. Dopo di allora non ebbi
altre occasioni di trascorrere delle serate assieme a lui, e nemmeno un mese
dopo lasciavo definitivamente il reggimento.
Su
61. Un caro compagno delle elementari
Dopo ciò che era successo al rancio del mattino, non mi arrischiai
più a frequentarlo per andare a prendere la cioccolata. In effetti,
non succedeva tutti i giorni che ci fosse questa a colazione e non sarebbe
stata una grande perdita. Però in quei giorni, non ricordo se a pranzo
o a cena, mi si avvicinò Nanni Ceolin, un ex compagno di scuola delle
elementari. Era la prima volta che lo vedevo e fu una sorpresa per me come
per lui scoprire che facevamo il militare nella stessa caserma. Stranamente,
pur vivendo nella stessa caserma da mesi, non ci eravamo mai incontrati
prima di allora.
Quella sera andai in libera uscita assieme a lui, e per strada parlammo della
nostra situazione, di quali compiti avevamo e di come ce la passavamo. Venni
così a sapere che faceva il cameriere presso il circolo ufficiali.
Forse fu per questo motivo che non ci si incontrava mai, perché
avevamo orari ed abitudini diversi. Comunque, per il fatto che gli raccontai
che non mi recavo più a fare la colazione presso la mensa (non lo
faceva nemmeno lui), egli disse che quando al circolo preparavano il
tè per gli ufficiali trattenevano la bustina e con quella se lo
facevano poi per se stessi. Quindi aggiunse che, se avessi voluto, avrei
potuto recarmi alla mattina sul retro del circolo ufficiali, nella stanza
occupata dagli inservienti e lui mi avrebbe preparato un tè usando le
bustine che trattenevano. Non sarebbe costato niente. In quanto alla fettina
di limone ed allo zucchero, questi non erano soggetti a controllo e li si
poteva prendere liberamente. Da allora presi l'abitudine di recarmi alla
mattina a prendere il tè nel (retro del) circolo ufficiali. Lì
m'intrattenevo un poco con Nanni e con chi altri stava con lui, prendevo il
tè al limone e poi me ne andavo, dopo aver lasciato una piccola mancia
per loro che mi avevano servito. Così coltivai l'amicizia con Nanni e
nello stesso tempo presi a fare colazione, non saltuariamente come prima, ma
tutte le mattine.
Su
62. Un incarico gravoso
Qualche tempo dopo, forse verso la metà di dicembre, un giorno il
maresciallo Giuliani mi trattenne per alcuni istanti al momento del rancio.
In quel periodo mancava il sergente maggiore Giacomazzi, che stava
frequentando un corso di addestramento, forse in vista di una futura
promozione a maresciallo. Giuliani mi disse che il giorno dopo egli non
avrebbe potuto venire in ufficio e mi chiese se me la sentivo di prendere il
suo posto. Ciò avrebbe significato compiere il suo lavoro alla
scrivania e dirigere i lavori di battitura a macchina degli altri soldati.
Ovviamente, per senso di dovere non ci pensai due volte e risposi subito
affermativamente, ma dentro di me mi sentii friggere la testa. Fino ad
allora, non solo durante il servizio militare, ero sempre stato dipendente e
sottomesso ad altri. Fare o non fare quello che mi veniva ordinato era una
cosa, e c'ero abituato, ma assumermi la responsabilità verso altri era
tutt'altra cosa, e mi intimoriva. C'era anche il fatto che quello era
l'ufficio più importante del reggimento, in quanto alle dipendenze del
colonnello, ed era un ufficio dove si svolgeva molto lavoro. Sicuramente non
sarei stato biasimato se tutto non avesse funzionato alla perfezione, ma una
volta assunto l'incarico avrei desiderato che tutto andasse effettivamente
per il meglio. Probabilmente quando mi aveva chiesto di tornare a comportarmi
bene e mi aveva offerto la possibilità di essere trasferito a Padova,
il maresciallo sapeva già di questa eventualità, e voleva poter
contare pienamente su di me. Io, però, non solo mi sentii a disagio
per la responsabilità che mi affidava, ma non mi sentii nemmeno degno
di tale incarico, perché che a mio avviso Levi sarebbe stato
più adatto, essendo egli più anziano d'ufficio di almeno un
mese ed avendo il titolo di geometra, mentre io possedevo solo la licenza
media. Ma evidentemente il maresciallo la pensava diversamente, per cui in
fin dei conti, nonostante il timore, mi sentii molto onorato di tale fiducia.
Nel pomeriggio egli avvisò anche gli altri soldati che il giorno dopo
l'avrei sostituito e che avrebbero dovuto ubbidire a me. A sera prima di
lasciare l'ufficio egli mi diede le ultime raccomandazioni e mi
ricordò le cose che si sarebbero dovute fare il giorno dopo. Di nuovo
provai quella sensazione che solo in poche altre occasioni ebbi modo di
sentire, un friggimento alla testa. Mentre da un lato mi sentii esaltato,
nello stesso tempo provai timore. Sarei riuscito a soddisfare le aspettative
del maresciallo? Avrei sicuramente fatto del mio meglio per riuscirci.
Il giorno dopo come iniziò l'orario d'ufficio, presi posto presso la
scrivania del maresciallo ed assegnai ad ognuno il lavoro di battitura da
compiere. Subito Levi e Cricetti si misero al lavoro come di consueto. Il
napoletano dalle ciglione scure invece rimase seduto tranquillamente davanti
alla macchina per scrivere, senza fare alcuna cosa. Lasciai trascorrere
alcuni minuti, poi mi avvicinai e gli chiesi perché non lavorasse.
— Mi fa male o bracc(e). — rispose indicandomi un braccio.
Subito fui colto da una grande ira, poiché mi resi conto che si
trattava di una bugia. Tuttavia mi controllai ed accettai la sua spiegazione.
Lo feci alzare, mi sedetti al suo posto e feci il suo lavoro. Poi tornai alla
scrivania e per il resto della giornata mi alternai tra questa e la macchina
per scrivere, visto che egli non voleva fare niente. Mi chiedo che cosa
sarebbe successo se l'aiutante maggiore ne fosse venuto a conoscenza, essendo
che, se proprio avesse avuto male, avrebbe dovuto marcare visita e recarsi in
infermeria. Invece egli trascorse tutta la giornata seduto del tutto immobile
presso la macchina per scrivere, non facendo assolutamente niente. Questo fu
il primo incidente che mi capitò di affrontare, il quale ridusse
ulteriormente il numero di effettivi dai normali sei a tre. Ciononostante
sono contento di essermi comportato in quella maniera, perché se
avessi agito d'impulso, forse sarei incorso in problemi più seri.
Un piccolo problema sorgeva a volte quando rispondevo al telefono. Di solito
era il maresciallo Giuliani a rispondere o, in sua mancanza, il sergente
maggiore Giacomazzi. Perciò, quando nel rispondere dicevo:
"Pronto, ufficio maggiorità del reggimento, fante Dave
Tiongreis," colui che chiamava, di solito un ufficiale o un
sottufficiale, mi chiedeva del maresciallo. Quando gli dicevo che non c'era e
che poteva parlare a me, questi rimaneva perplesso, ma dopo un momento di
riflessione mi comunicava ugualmente il messaggio. Se non si fosse mostrato
disposto a parlare l'avrei indirizzato all'aiutante maggiore, ma per quel che
ricordo ciò non avvenne mai.
Un altro problema insorse verso sera. Ogni pomeriggio si ricevevano dalle
compagnie e battaglioni gli elenchi degli automezzi che sarebbero usciti il
giorno dopo, i quali avrebbero dovuto essere approvati e firmati dal
colonnello. In essi era compreso anche il mezzo sempre a disposizione del
comando, con il quale mi ero recato a Villa Vicentina a prendere il
Winchester dimenticato. Di solito poco dopo le quattro e mezza il
maresciallo consegnava il rapporto dattilografato, assieme ad ogni altro
incartamento, all'aiutante maggiore La Fede, il quale si recava dal
colonnello con esso e con quant'altro doveva sottoporre alla sua firma. Non
si doveva tardare, perché alle cinque il colonnello lasciava
l'ufficio, e per quel tempo egli doveva avere avuto il tempo non solo di
firmare, ma anche di esaminare ogni cosa. Purtroppo, il tenente che svolgeva
l'incarico di aiutante maggiore in seconda del primo battaglione di Villa
Vicentina spesso tardava a comunicare il suo elenco. In tali casi, il
maresciallo, pur essendo di grado inferiore, alzava la voce, e dopo
ciò il tenente forniva i dati. Come si sarebbe comportato questa
volta? Avrebbe approfittato del fatto che non c'era il maresciallo?
Poco dopo le quattro chiamai l'aiutante maggiore in seconda del battaglione
di Villa Vicentina, un tenente.
— Ufficio maggiorità del reggimento, fante Dave Tiongreis.
Comandi signor tenente. Telefono per le macchine.
— Non sono ancora pronte. Chiama più tardi.
Cinque minuti più tardi avvenne la stessa cosa e così pure dopo
altri cinque minuti. Dopo qualche altro minuto il capitano La Fede
chiamò dal suo ufficio con voce non molto alta:
— Tiongreis, le macchine.
Allora richiamai Villa Vicentina, ma la risposta fu sempre la stessa.
Trascorso qualche minuto, il capitano chiamò con voce un po'
più alta:
— Tiongreis, le macchine!
Richiamai Villa Vicentina, ma il tenente mi ripeté che non erano
ancora pronte. Dopo altro un po' il capitano La Fede mi chiamò con
voce adirata:
— TIONGREIS, LE MACCHINE!
Allora corsi nel suo ufficio e gli spiegai che il tenente di Villa Vicentina
continuava a dirmi che non erano ancora pronte. Il capitano afferrò il
ricevitore del suo telefono, fece fare un paio di giri alla manovella di
richiamo del centralino e, sforzandosi di apparire calmo, chiese di essere
messo in comunicazione con l'aiutante maggiore di Villa Vicentina. Come
quello rispose, il capitano proruppe in una sfuriata con voce così
alta, che mi capitò di pensare che se solo avesse aperto la
porta-finestra dell'ufficio, il tenente l'avrebbe udito ugualmente anche
senza telefono, essendo che Villa Vicentina si trova a soli quattro
chilometri in linea d'aria. Finita la sfuriata, il capitano mi disse con voce
forzatamente calma:
— Va in ufficio che ora te le passa.
Infatti, non feci in tempo ad arrivare in ufficio che il telefonò
squillò e l'aiutante maggiore in seconda mi passò l'elenco
delle macchine del primo battaglione che sarebbero uscite di caserma il
giorno dopo. Presone nota su un foglio di carta, mi recai subito ad una
macchina per scrivere e le aggiunsi alla lista. Quindi mi recai nell'ufficio
dell'aiutante maggiore e gli consegnai ogni cosa. Ritornato in ufficio tirai
un grosso sospiro. Le cose più importanti per quel giorno erano state
portate a compimento. Nel tempo rimanente fino al rancio serale si sarebbe
fatto del lavoro di routine con scadenza non immediata.
Su
63. Trasferimento a Padova
Si giunse alla fine di dicembre ed il maresciallo mi annunciò che
sarei stato trasferito al tribunale militare di Padova. Ora qui c'è un
piccolo mistero. Io possiedo il documento Trasporti militari - persone
rilasciato dal comando del reggimento e datato mercoledì 30 dicembre,
che mi avrebbe consentito di viaggiare gratis fino a Padova, ed un permesso
per il presidio di Cervignano, datato giovedì 31 dicembre.
Perché mi fu dato quel permesso di presidio? Non lo ricordo. Se mi fu
dato per poter uscire di caserma ed andare fino alla stazione, non ne vedo la
necessità, perché ero uscito altre volte senza alcun permesso
durante l'orario d'ufficio. Comunque sia, probabilmente presi effettivamente
il treno proprio quel giorno, il 31 dicembre 1964, non il 30, ma non ricordo
quando mi presentai al tribunale. Forse lo feci il giorno dopo, il primo
gennaio (venerdì), e quando lo feci mi si disse di tornare il
lunedì successivo. Infatti ricordo che iniziai a lavorare al tribunale
a partire da lunedì 4 gennaio. Come impiegai quei giorni intermedi?
Molto probabilmente li trascorsi a casa, recandomi in caserma solo per
dormire, poiché non c'era alcuna limitazione in quanto ad uscire dalla
caserma Piave dove fui alloggiato, e in qui primi giorni non mi fu
assegnato alcun servizio.
Come venne il lunedì e mi recai in tribunale, feci la conoscenza di
Pietro Zavoli, un soldato più giovane di naia di me che già
prestava servizio lì, e con i graduati con cui avrei lavorato nei mesi
successivi. Zavoli era un bravo giovane originario di Bergamo o Brescia, un
pelo più alto di me, carnagione chiara, capelli castani leggermente
tendenti ad un biondo-rosso e la erre moscia. Quando mi pronunciò il
suo nome ebbi difficoltà a capirlo, perché disse: "Pieo
Zavo(l)i". Lo compresi solo dopo che l'ebbe pronunciato una seconda o
una terza volta.
Il reparto dove lavorai era composto da un breve e stretto corridoio, ai lati
del quale c'erano due uffici ed un servizio igienico. Il corridoio sboccava
nell'ufficio più grande di tutti, quello del generale Galuppi, il
nostro capo, un uomo prossimo alla sessantina, dai capelli grigi, magro ed
alto più o meno quanto me. Entrava in ufficio ogni mattina borbottando
sottovoce qualche canzoncina. Per il resto lo si vedeva molto di rado. Il suo
era un ufficio splendido, arredato con bei mobili, quadri e varie
suppellettili. Io, Zavoli e un maresciallo maggiore occupavamo invece uno
stanzino non molto grande, dotato di una piccola scrivania, un tavolino, una
macchina per scrivere ed alcune sedie. Il maresciallo però lo si
vedeva di rado, per cui quell'ufficietto era tutto per noi due, Zavoli ed io.
Nell'altro ufficio, dal lato opposto del corridoio, ben più grande e
meglio arredato del nostro, lavorava il tenente Russo, un ufficiale di
origine meridionale, forse calabrese, una persona straordinariamente affabile
che non faceva pesare minimamente il suo grado. Ma naturalmente ci si
comportava verso di lui come richiesto, mettendosi sull'attenti quando lo si
incontrava e pronunciando: "Comandi signor tenente". Per la sua
età egli avrebbe dovuto già essere capitano, ma aveva impiegato
i suoi primi anni di servizio militare come carabiniere, e come passò
alla fanteria dovette riprendere dal grado inferiore.
Come ho già detto, il tenente Russo era una persona molto affabile.
Nel giro di pochi giorni divenne ancora più amichevole nei miei
confronti, quando scoprì che ero nipote del suo sarto, Andrea
Giovannini, con il quale aveva un buonissimo rapporto. Evidentemente in
occasione di una sua visita gli aveva detto che era giunto a compiere il
servizio militare in tribunale un giovane soldato padovano. Così, una
parola tira l'altra, venne a sapere che ero suo nipote.
A parte lui e Zavoli, avevo pochi rapporti con le altre persone impiegate nel
tribunale, perché non si aveva occasione di vedersi, essendo che
l'ufficio in cui prestavo servizio era al piano terreno, del tutto isolato
dagli altri uffici del tribunale, che risiedevano al piano superiore, nei
quali forse lavoravano anche altri soldati. Lo stesso bar del tribunale, in
cui prestava servizio un soldato, si trovava in un luogo del tutto isolato
presso il portone d'ingresso. Questi lo vedevo per pochi istanti al mattino
quando mi recavo a prendere il caffè. Al di fuori di quell'orario non
mi azzardavo mai a metterci piede, perché non desideravo incontrarmi
con gli ufficiali.
Su
64. Alcuni processi
C'era però un soldato addetto alle pulizie, un veneto di cui non
ricordo il nome, il quale svolgeva anche l'incarico di piantone nella sala
delle udienze durante i processi. Una volta mi chiese se avrei gradito essere
presente ad un processo. Accettai. Così, come avvenne che una mattina
in cui ci furono delle udienze mi trovai senza lavoro ed ebbi del tempo
libero, presi il suo posto. Non avrei dovuto far altro che stare in piedi
presso la porta della sala delle udienze ed essere pronto ad intervenire
qualora mi fosse stato chiesto qualche servizio. Non mi fu chiesto niente, ma
ebbi l'occasione di essere spettatore di alcuni processi. Non accadde niente
di speciale. Si trattarono per lo più processi per diserzione, ossia
ritardi nel presentarsi alla leva, e la pena consisté in un periodo di
detenzione più o meno lungo da trascorrere nel carcere di Peschiera
sul Garda. Anche le arringhe degli avvocati furono standard, cioè
pressoché tutte uguali. Se mi aspettai qualcosa di straordinario, come
ciò che si vede nei film, rimasi deluso.
In effetti, ritengo che i processi siano per lo più tutti altrettanto
deludenti. Qualche anno fa mi recai nel tribunale civile di Padova a motivo
del processo contro un tizio, Achille Brandolin di Anguillara (Rovigo), che
aveva rotto una finestra di casa ed era entrato per rubare. Fui invitato a
presentarmi alle nove. Il processo si fece poco dopo mezzogiorno, ma non fui
interpellato. Al momento del processo il Brandolin era assente e fu giudicato
in contumacia. Giunse nel momento in cui la giudice stava leggendo la
sentenza. Egli aveva altri precedenti non ancora scontati, perché
ricevuti con la condizionale. A motivo di questa nuova infrazione egli
ricevette complessivamente sette mesi di carcere, che furono ridotti ad un
terzo, cioè a due mesi e dieci giorni, che avrebbe dovuto
effettivamente scontare. Non gli fu richiesto nemmeno di compensarmi del
balcone che aveva rotto per entrare in casa.
Gli altri processi dei quali fui spettatore tra le nove e mezzogiorno furono
tutti più o meno scialbi, con arringhe pressappoco tutte uguali. Se
ricordo bene, gli unici a ricevere una pena da scontare effettivamente furono
il mio ladro ed un'altra persona che già stava in carcere per
omicidio. Negli altri casi, le lievi pene vennero ridotte ad un terzo e
soggette a condizionale. Un processo diverso dagli altri e che ruppe la
monotonia della mattinata, fu quello di un uomo che avrebbe dovuto consegnare
dei mobili di casa ad un suo parente, perché gli appartenevano. Ad
ogni domanda della giudice, invece dell'imputato interveniva sempre sua
moglie che gli stava accanto, la quale non lasciava parlare né il
marito e a volte nemmeno la giudice. Essa disse con voce alta e bisbetica che
per non dover consegnare i mobili al parente li aveva già bruciati nel
proprio cortile. A quel punto la giudice chiese alla parte lesa se era
disposto a rinunciare alla causa e questi, su consiglio del proprio avvocato,
accettò. Ci rimise sia le spese giudiziarie che i mobili.
Su
65. Tran tran quotidiano tra caserma ed ufficio
A differenza di Cervignano, a Padova la vita di caserma era pressoché
priva di disciplina. Riguardo a questo preferivo il reggimento, nonostante
gli inconvenienti. Come in tutte le caserme d'Italia, la sveglia suonava alle
sei e mezza, ma a Padova si continuava a rimanere a letto, perché non
c'era nessuno che ci facesse alzare, e se anche ci si fosse alzati non ci
sarebbe stato niente da fare. Il primo impegno comune era l'alzabandiera alle
otto. Ci si cominciava ad alzare un quarto d'ora prima di quell'ora e ci si
presentava nel piazzale in cui si compiva la cerimonia vestiti della sola
maglietta da ginnastica, indipendentemente dal freddo, dalla pioggia o dalla
neve: ordine del comandante della compagnia, il tenente Gioacchino De
Carolis. Odiavo quel modo di fare. Avrei voluto alzarmi prima. Se fossi stato
nonno l'avrei fatto, ma per timore degli altri soldati, non lo facevo.
Comunque, non appena qualcuno si alzava, balzavo dalla branda e mi recavo di
corsa a lavarmi il viso, prima che giungessero gli altri.
Subito dopo l'alzabandiera ci si recava al rancio, dove in genere non
prendevo niente, a meno che non ci fosse la cioccolata. Visto che il rancio
avveniva dopo l'alzabandiera, non avevo motivo per evitarlo, come facevo a
Cervignano. Al termine del rancio, verso le otto e mezza, Zavoli ed io ci si
incamminava verso il tribunale militare. Si giungeva una decina di minuti
prima delle nove. Lì, in genere prendevo il caffè, e quindi mi
recavo in ufficio. Zavoli non lo faceva, perché aveva già fatto
colazione in caserma. A volte la macchina del caffè non era ancora in
pressione e dovevo attendere alcuni minuti. In quel frattempo a volte
giungevano uno o due ufficiali, dei tenenti. Questo accadeva di rado e non
creava alcun problema.
Non ricordo fino a che ora si dovesse rimanere in ufficio; forse fino alle
due del pomeriggio. Riguardo ai pasti, non ricordo chiaramente come
avvenissero. Da parte mia verso mezzogiorno mangiavo i panini portati da
casa, mentre Zavoli probabilmente si portava qualcosa dal rancio del
mattino. Infatti, essendo che tutti i residenti della compagnia lavoravano in
uffici, probabilmente c'era la possibilità di portare qualcosa con
sé per il pranzo di mezzogiorno, ma non ne sono sicuro. Al termine
dell'orario di lavoro prendevo l'autobus che mi avrebbe portato a casa, dove
avrei trascorso il pomeriggio. A sera avrei cenato in famiglia e poi tu mi
avresti portato con l'auto in caserma. A scanso di imprevisti, si partiva con
un certo anticipo. Sarebbe stato un guaio se fossi giunto dopo la chiusura
del cancello. Come giungevo in camerata, mi mettevo a letto, anche se non era
stato ancora suonato il silenzio. Così si concludeva la mia routine
quotidiana.
Su
66. Assegnazione a servizi in caserma
Per quel che ne so, tutti gli effettivi della caserma Piave dove
alloggiavo erano impiegati in uffici. Perciò nessuno era esente dai
servizi. Così una volta mi capitò di dover pulire il pentolone
usato per cucinare. Che cosa non avrei fatto per evitarlo! Mi fu spiegato che
dapprima avrei dovuto dargli una pulita superficiale con un getto d'acqua.
Poi l'avrei pulito con una spugna impregnata di detersivo. Infine l'avrei
risciacquato, usando ancora una volta il getto d'acqua. Le prime due parti
furono le più difficili. Il solo avvicinarmi al calderone puzzolente
mi faceva rivoltare lo stomaco. Se avessi dovuto rifarlo, penso che avrei
cercato di farmi sostituire compiendo in cambio qualche altro servizio.
Un secondo servizio che mi toccò compiere fu la guardia notturna.
Correva la voce che in precedenza essa venisse svolta da guardie civili (lo
dubito) e che in seguito per risparmiare quella spesa la si fosse affidata
agli effettivi della caserma. Comunque fosse, nei due mesi che trascorsi in
quella caserma ricevetti due volte quell'incarico. Come richiesto, mi
presentai alle dieci di sera presso la stanzetta assegnata alla guardia. Vi
trovai un caporale ed un altro soldato. Ad orari prestabiliti avremmo dovuto
compiere un percorso che ci avrebbe fatti passare per alcuni punti chiave
della caserma, dove erano collocati dei congegni ad orologeria. Non appena
giunto al posto di guardia il caporale mi spiegò in che cosa
consisteva il servizio e mi fece subito compiere l'intero giro della caserma,
per mostrarmi il percorso da compiere ed i luoghi dov'erano sistemati i
congegni di registrazione. Lì avrei dovuto attestare il passaggio
inserendo una chiavetta nel meccanismo, il quale avrebbe praticato un foro su
un rotolo di carta che ruotava lentamente dentro l'apparecchiatura. In questo
modo si sarebbe registrato l'orario del passaggio. Il giorno dopo tutte le
registrazioni sarebbero state esaminate e confrontate con l'elenco degli
orari di percorrenza che ci erano stati consegnati (essi variavano di notte
in notte). I giri d'ispezione sarebbero stati percorsi a turno da ognuno di
noi, alternandoci. Tra un giro e l'altro si sarebbe cercato di dormire
vestiti sulle brande presenti nella stanzetta.
Per compiere il servizio di guardia ci fu dato un fucile Winchester,
poiché non se ne aveva in dotazione, dal momento che il compito degli
effettivi nella caserma era di servire in uffici. Ci fu consegnato anche un
caricatore di pallottole, che però non si doveva inserire nel fucile.
Lo si sarebbe inserito solo in caso di necessità, qualora avessimo
incontrato qualche estraneo durante il giro d'ispezione. In tal caso avremmo
dovuto dare l'alt una prima ed una seconda volta. Quindi, se ciò non
fosse servito a nulla, avremmo sparato un colpo in aria. Infine, se anche
questo non fosse servito a niente... avremmo deciso in base alle circostanze.
Negli intervalli tra i giri d'ispezione ci si sdraiava su una branda e si
cercava di dormire. Non c'era riscaldamento nella stanzetta, ma non ricordo
di aver provato freddo. La coperta a nostra disposizione sembrò
sufficiente. Tuttavia non fu facile dormire vestiti su una branda priva di
lenzuola. Quando toccava il turno successivo, non bisognava sdraiarsi per non
prendere sonno. Allora si stava seduti, controllando di tanto in tanto
l'orario, finché non veniva il momento di andare a compiere il giro
d'ispezione. Allora si avvisava il soldato del turno successivo, si compiva
il giro e quindi ci si sdraiava sulla branda.
Nel compiere i giri d'ispezione avevo più paura di quando avevo fatto
la guardia a Cervignano. La caserma era illuminata con poche lampadine, ed il
percorso comprendeva cortili e androni. Ad ogni giro d'angolo mi chiedevo che
cosa avrei trovato di là, e quando camminavo nei cortili mi chiedevo
se qualcuno mi stesse osservando. Come a Cervignano, per non mostrare di
avere paura e provare un maggior senso di sicurezza evitavo di guardarmi
attorno. Se l'avessi fatto avrei provato ancora più paura. Come
giungevo ad un angolo dove c'era il meccanismo ad orologeria, prendevo la
chiavetta, l'inserivo nel buco simile a quello di una serratura, gli facevo
fare un giro e quindi l'estraevo. Il rotolo di carta veniva bucato in
corrispondenza dell'ora dell'operazione. Quelli erano i momenti in cui
provavo meno paura, forse perché l'attenzione era tutta concentrata
sulla macchinetta. Al ritorno mi rimettevo in branda e mi sforzavo di
dormire. Ricordo di aver dormito molto poco, a tratti di un quarto d'ora o al
massimo mezz'ora. Comunque, in entrambi i casi che compii il servizio, al
mattino non mi sentii eccessivamente stanco e perciò la guardia
notturna non m'impedì di compiere il giorno successivo il normale
servizio al tribunale.
Su
67. Una prestazione particolare
A parte queste brevi descrizioni di vita di caserma, ho pochi altri ricordi
del periodo che trascorsi a Padova servendo presso il tribunale militare, per
il fatto che come lasciavo l'ufficio prendevo subito l'autobus e venivo a
casa. Ricordo solo alcuni piccoli fatti d'ufficio che non vale nemmeno la
pena menzionare. Ne cito solo uno avvenuto pochi giorni prima che lasciassi
il servizio, il quale ha relazione con il generale Galuppi.
Un giorno egli mi consegnò una lettera o documento da dattilografare.
Avrei dovuto consegnarglielo il giorno successivo. Quel giorno avevo poco da
fare, per cui decisi di fare qualcosa di straordinario. Anni addietro avevo
scoperto una tecnica per giustificare anche il lato destro dei testi
dattiloscritti. Ottenevo questo risultato dattilografando una prima copia del
documento. Poi su di essa tracciavo a matita una riga verticale in
corrispondenza del testo più sporgente, la quale mi avrebbe permesso
di vedere quanti spazi avrei dovuto aggiungere ad ogni riga per far sì
che il testo risultasse allineato. Poi ridigitavo la pagina spartendo i
semispazi aggiuntivi su tutta la riga. Perché semispazi e non spazi
interi? Perché con le macchine meccaniche c'era la possibilità
di spostare i caratteri di solo mezzo spazio. Si otteneva questo risultato
tenendo premuto il tasto degli spazi mentre si digitavano i caratteri. I
semispazi aggiuntivi erano poco appariscenti e l'effetto che ne risultava era
molto bello, tanto più se si tiene conto che a quel tempo non
esistevano testi dattilografati giustificati su entrambi i lati.
Perciò digitai il documento usando questa tecnica. Quando il generale
venne a prenderlo, glielo consegnai senza dirgli niente. Egli lo prese in
mano e si mise ad esaminarlo. Seguendo con attenzione ogni sua reazione,
notai che come lo scorse egli spalancò per un istante gli occhi per la
sorpresa. Tuttavia non disse nulla. Finito di leggerlo, mi ringraziò e
ritornò nel suo ufficio, senza menzionare il fatto che il testo era
giustificato anche a destra.
Perché non disse niente? Pensò forse, non essendo esperto di
macchine per scrivere, che quel tipo di digitazione fosse del tutto normale e
che di solito non la si compisse per mancanza d'istruzione? O pensò
che non fosse dignitoso da parte sua complimentarsi con me per una bazzecola
del genere? Quale che fosse il motivo, mi dispiace per lui. Se avesse
parlato, avrebbe potuto richiedere che si digitassero i testi sempre in
quella maniera. Allora avrei potuto insegnare la tecnica a Zavoli, il quale a
sua volta avrebbe potuto un giorno fare la stessa cosa con i soldati che
sarebbero venuti a compiere il servizio in quell'ufficio ed il generale
avrebbe fatto un'egregia figura con i documenti e le lettere che sarebbero
usciti dal suo ufficio. Purtroppo non ebbi altre occasioni di mettere in
pratica quella tecnica. Se mi avesse dato un altro documento da
dattilografare e non l'avessi digitato in quella maniera, forse egli avrebbe
chiesto una spiegazione, ma non ne ebbi l'opportunità, perché
pochi giorni dopo accadde un fatto straordinario che avrebbe mutato
definitivamente il corso del mio servizio militare.
Quella tecnica di scrittura con la macchina per scrivere la usai un'ultima
volta qualche anno più tardi per compilare la mia tesi di laurea.
Sotto questo aspetto la mia tesi fu senz'altro rimarchevole.
Su
68. Ricovero in ospedale
Domenica 28 febbraio provai un grande malessere al risveglio. Probabilmente
nei giorni precedenti avevo avuto l'influenza, ma non in misura tale da
creare eccessivi problemi. Ricordo solo che il giorno prima non mi ero
sentito bene. Quella mattina invece mi sentii veramente male. Come ogni
domenica, presi l'autobus e venni a casa. Ricordo che quel giorno lo
trascorsi quasi tutto a letto, con la febbre alta. Un altro particolare che
ricordo di quella giornata e che in seguito ebbe delle conseguenze è
che mi facesti ascoltare una registrazione dei Swingle Singers, i
quali cantavano della musica di Bach. Quel modo di cantare musica scritta
per strumenti era del tutto nuova e mi piacque molto. A sera, quando venne il
momento di ricondurmi in caserma, si convenne di farmi ricoverare in
ospedale, perché durante la giornata la febbre era ulteriormente
aumentata ed aveva raggiunto livelli molto alti. Perciò,
anziché in caserma, mi conducesti all'ospedale militare di Padova,
dove fui immediatamente ricoverato.
Quella prima notte la trascorsi in una specie di dormiveglia delirante, in
cui ero costantemente ossessionato da uno dei bei pezzi di Bach che avevo
ascoltato durante la giornata. Esso aveva un ritmo oscillante, e mentre si
ripeteva nella mente sembrava che mi facesse muovere le gambe in su e in
giù. In realtà non le muovevo, ma nel delirio mi sembrava che
andassero su e giù come quando si pigia l'uva nei tini, e non riuscivo
ad eliminare quella fastidiosa sensazione, né a distogliere la mente
da quella musica che era diventata ossessionante. Il mattino successivo fui
visitato da un medico, il quale mi prescrisse i raggi al torace. Poco
più tardi, in mattinata, mi recai barcollando per la debolezza nel
reparto radiologia ad effettuare i raggi prescritti. Come giunsi lì
cominciai a perdere la vista: delle macchie nere sempre più numerose
cominciarono a coprirmi la visuale. Mi ricordai che anni prima avevo vissuto
un'esperienza simile e che a seguito di ciò ero svenuto. Resomi conto
di questo, mi accucciai prontamente, in modo da non farmi male cadendo. Persi
la conoscenza che ero quasi seduto sul pavimento. Mi risvegliai poco dopo.
Due infermieri mi stavano accanto. Essi mi sollevarono e mi fecero fare le
lastre rimanendo sdraiato, poiché il reparto offriva anche quella
possibilità. Quindi mi deposero su una barella e mi trasportarono in
camerata. Poco più tardi fui informato che mi erano state prescritte
delle iniezioni – tre al giorno – e delle pastiglie.
Verso mezzogiorno venisti a farmi visita e mi portasti un litro di succo
d'arancia. In quei primi giorni che non mangiai niente, quei succhi d'arancia
quotidiani furono davvero provvidenziali e mi impedirono di indebolirmi
ulteriormente. Probabilmente facilitarono anche la guarigione.
Successivamente, quando fui in grado di mangiare, mi portasti quotidianamente
dei cibi solidi, come panini e frutta, perché non mangiavo niente di
ciò che l'ospedale offriva. Forse lì i cibi erano migliori di
quelli delle caserme, ma tu sai che sono molto delicato e che a tutt'oggi non
mangio mai alcun primo né secondo, a parte una bistecca o del pollo
arrosto, e tali cibi venivano offerti solo nei giorni festivi. Per questo
motivo, le cose che mamma preparava e tu regolarmente mi portavi furono
davvero molto utili.
La cura prescritta produsse i suoi effetti fin dal primo giorno. Infatti, la
notte successiva dormii normalmente. Forse era stata la febbre alta a farmi
delirare, e le medicine l'avevano fatta abbassare.
Su
69. Il problema delle iniezioni
Un problema che dovetti affrontare fin dall'inizio fu il dover ricevere tre
iniezioni al giorno, una delle quali produceva un forte bruciore. Io avevo
sempre temuto le iniezioni; il sapere di doverne ricevere tre al giorno mi
parve un mezzo incubo. A questo riguardo ricordo un fatto curioso. Quando
l'infermiere mi faceva l'iniezione, per non sentire il dolore rilasciavo il
muscolo della zona dove avrei ricevuto la puntura e nello stesso tempo
concentravo la mente su un'altra parte del corpo e tendevo i muscoli di
quest'altra zona. A sua volta l'infermiere, immaginando che avessi i muscoli
tesi, prima di inserire l'ago mi dava uno schiaffetto. Agendo in tale
maniera, normalmente chi riceveva la puntura rilasciava il muscolo e in
quell'istante egli inseriva la siringa. Purtroppo, nel mio caso avveniva
l'opposto, perché stavo già con il muscolo rilassato. Resomi
conto di questo fatto, cominciai a prestare particolare attenzione in modo
che quando mi dava il colpetto il muscolo non si tendesse. Stranamente non
pensai minimamente di dirgli di non darmi lo schiaffetto.
Fin dai primi giorni, però, per sopportare meglio le iniezioni mi resi
conto che la cosa migliore da fare fosse di illudermi che ero forte e che non
le temevo. In questo fui aiutato da Veggiù, un veneto, un lazzarone,
fonte di parolacce ed azioni oscene, il quale risiedeva in un letto non
lontano dal mio. Quando doveva ricevere un'iniezione, egli scendeva dal letto
e se la faceva fare stando in piedi. Così pensai che, se avessi fatto
la stessa cosa, avrei mostrato a me stesso di non temere le iniezioni, anche
se in effetti ciò non avrebbe comportato nessuna differenza in quanto
al dolore, e le avrei sopportate meglio. Così presi ad imitare quel
lazzarone, nonostante non fosse una persona da imitare in altre cose, e da
allora in poi ricevetti tutte le iniezioni rimanendo in piedi. Anche quando
con il tempo la zona dei reni si indurì per le molte iniezioni ed esse
divennero ancora più dolorose, continuai ad agire in questa maniera,
sforzandomi allo stesso tempo di non prestare attenzione al male.
Su
70. Partecipazione al rosario
Non appena fui in grado di alzarmi da letto fui invitato a partecipare al
rosario che si teneva in una chiesetta, a cui si accedeva dallo stesso
corridoio che dava alla camerata. Ogni sera, non ricordo a che ora, forse
poco dopo le sei e mezza, dopo cena, il caposala faceva sloggiare tutti
affinché ci si recasse nella cappellina. Io non ero tanto propenso ad
andarci, ma non potei farne a meno. La chiesetta era piuttosto antica, ma in
ottimo stato. Aveva perfino un armonio, con il quale si veniva accompagnati
nel canto che veniva fatto al termine del rosario.
Complessivamente, trascorsi in ospedale circa un mese e mezzo. Fui dimesso
mercoledì 14 aprile, ma circa una settimana prima venne dimesso il
caposala e mi trovai ad essere il soldato più anziano sia di naia che
di degenza, per cui la madre superiora mi nominò caposala,
nonostante le mie timide proteste. Non desideravo essere investito di
quell'incarico perché, come ho già detto in un'altra occasione,
mi sentivo, come mi sento tutt'ora, più consono ad ubbidire che a
comandare. Non ci fu verso: divenni caposala. Tra le mansioni, forse l'unica,
c'era quella di far sì che tutti partecipassero al rosario serale.
Così la prima sera, quando venne l'ora, sollecitai tutti a voce e
battendo le mani a recarsi nella chiesetta. Non dovetti ripetere l'ordine,
perché si era abituati ad andarci. Quando gli ultimi stavano per
uscire, però, mi accorsi che un soldato, un siciliano, se ne stava
sdraiato tranquillamente a letto. Mi avvicinai. Aveva uno sguardo torvo e
minaccioso. Nel frattempo erano tutti usciti. Cosa fare? 'Se adesso gli dico
di uscire, questo mi riempie di botte,' pensai. Mi feci coraggio. Mi sforzai
di assumere un'espressione dura. Quindi, usando un tono secco e imperioso gli
dissi:
— Sù! Alzati! Vieni al rosario!
Assunse l'aspetto di un cagnolino bastonato. Con calma si alzò dal
letto e si diresse a testa bassa verso la porta. Dentro di me tirai un grosso
sospiro. Dopo di allora non ebbi più alcun problema: come veniva l'ora
del rosario e sollecitavo a voce o battendo le mani, tutti continuarono a
dirigersi senza fiatare verso la chiesetta, con me al loro seguito.
Su
71. Conclusione
Che cosa avvenne poi, penso che lo ricordi anche tu. Il resto del periodo di
ferma lo trascorsi a casa in convalescenza. E c'è anche questo fatto
che sicuramente ricordi. Ricevuto il congedo, riflettei sul fatto che nella
camerata della compagnia c'era lo zaino del mio corredo militare chiuso con
una catenella ed un lucchetto, di cui solo io possedevo la chiave.
Perciò mi parve giusto tornare in caserma, aprire il lucchetto e
consegnare ogni cosa alla compagnia. Per l'occasione mi accompagnasti in
auto. Qui però accadde un fatto inaspettato. In compagnia si
rifiutarono di accettare il corredo. Mi si disse che avrei dovuto arrangiarmi
personalmente e farlo pervenire al reggimento di Cervignano. (Che cosa
avrebbero fatto se non mi fossi presentato per consegnarlo?)
Chissà che cosa ti passò per la mente quando mi vedesti uscire
dalla caserma con il valigione militare che conteneva tutto il corredo,
incluso perfino il gavettino. Ti chiedesti forse se mi fosse stato ordinato
di riprendere il servizio, perché senza di me la sicurezza dello Stato
sarebbe stata in serio pericolo? (Detto tra parentesi, nel corso dei passati
decenni mi sono sognato più volte di essere tornato a fare il servizio
militare, ed in una di queste occasioni lo feci a nome tuo, perché,
per qualche motivo che non ricordo, tu non potevi tornare a compierlo. Ogni
volta mi ritrovavo a farlo con l'età che avevo all'epoca dei sogni,
per cui i militari mi chiedevano perché mi trovassi a fare il soldato
così avanti negli anni.) Giunto all'auto e messoti al corrente dei
fatti, mi consigliasti di consegnare ogni cosa ai carabinieri. Così ci
rivolgemmo alla stazione dei carabinieri di Abano Terme. Entrato con il
valigione e spiegata ogni cosa al carabiniere di turno, questi mi disse che
non era di loro competenza ritornare il corredo militare al reggimento e che
dovevo arrangiarmi.
Che cosa pensasti quando tornai fuori ancora una volta con il valigione?
Forse che mi veniva lasciata ogni cosa come souvenir? L'intenzione del
carabiniere non fu quella, ma il corredo divenne in effetti un souvenir, il
quale risiede tuttora nella soffitta di casa. Se dovesse scoppiare una
guerra, grazie ad esso, in un quarto d'ora mi potrò vestire
adeguatamente e, anche se non possiedo un fucile, tuttavia con il
bambù che cresce nel campetto vicino, mi potrò fare una
cerbottana per sparare frecce di carta sugli occhi dei nemici, così da
indurli a ritirarsi, a salvezza della patria.
Su
Fine
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