ARCHIVIO ARTICOLI -  2006

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Indice:

Un bilancio del Governo a fine anno, 30/12/06

I nemici del Natale, 18/12/06

Si riapre la discussione sul celibato ecclesiastico, 11/12/06

La poligamia in Italia, velleità islamiche, 4/12/06

Il Papa in Turchia, una visita indesiderata, 27/11/06

Una nuova legge elettorale è necessaria, ma che sia buona, 20/11/06

Vogliamo saggezza dai politici, 13/11/06

Difesa della finanziaria, 6/11/06

Un controllo popolare sui politici: la proposta di Ségolène Royal, 30/10/06

La discussione sul velo islamico, 23/10/06

Una decisione importante per l’umanità:demolire l’arsenale atomico, 16/10/06

Immigrati e malavita: le cause, 9/10/06

Il doppio mandato: un limite da mantenere, 2/10/06

L’Islam: religione e violenza, e diritto di critica, 24/09/06

Basta coi mercatini dei libri scolastici, 18/09/06

Una nuova politica europea di pace, 11/09/96                                                                                             

Basta con amnistie e indulti per tutti, 7/08/0

Riforma della Costituzione e Referendum popolare, 19/06/06

Riformare la televisione, 5/06/06

Ancora corruzione in Italia: ora il calcio, 29/05/06

Basta coi nuovi armamenti USA, 15/05/06

L’alta velocità e il disordine delle nostre ferrovie, 8/05/06

Procreazione assistita: il cardinale e il professore, 30/04/06

I risultati elettorali: il collasso etico-politico del Nord

Elezioni e persuasione mediatica, 15/04/06

Lo scandalo delle liste elettorali, 11/03/06

Regolare il mercato delle imprese europee, 5/03/06

Fuga dall’Italia, 27/02/06

Il conflitto sulle vignette islamiche, 22/02/06

Le difficoltà di una legge regionale, 13/02/06

Il Partito Democratico non si deve fare, 6/02/06

L’Iran e il paradosso delle armi nucleari, 31/01/06

Cattolici e questione morale: riflessioni su di un paradosso, 16/01/06

Le banche, i DS e la questione morale, 9/01/06

La discussione sul darwinismo, 3/01/06

 

 

Un bilancio del Governo a fine anno

di Arrigo Colombo

 

            A fine anno le imprese fanno i loro bilanci, e noi tentiamo qui un bilancio di questo nuovo governo dopo i primi sei mesi di attività.

Ciò che subito colpisce è il calo del consenso popolare, che da oltre il 60% è disceso al 38; e però già nel momento elettorale era sceso a poco più del 50. Cosa che neanche gli analisti del voto sono riusciti a spiegare, pur calcolando la rude campagna mediatica condotta da Berlusconi, fatta di accuse (o calunnie) e di sospetti. Ma ora v’è un diffuso scontento, un malessere generale.

 

Eppure l’Unione partiva con personaggi di grande statura morale, oltre che di grande esperienza. Prodi anzitutto, al quale manca certo il dono della parola; che però ci garantisce dal pericolo della sbruffonata, della cialtroneria; pericolo non piccolo in questi tempi di suasione mediatica. Persona preparata, esperta, soprattutto onesta; che ha condotto in modo esemplare la Commissione europea realizzando tre grandi obiettivi: l’euro, la costituzione, l’ingresso di dieci nuovi paesi nella Comunità. Fassino, altro personaggio d’indubbia esperienza ed onestà. Di Pietro, l’eroe di Tangentopoli. Cui si è aggiunto Padoa Schioppa, altra figura di grande esperienza e probità morale.

Il primo errore è stato commesso nella composizione stessa del governo: una compagine enorme, ipertrofica, in cui Prodi troppo facilmente aveva ceduto alle pressioni di partiti e partitini,  distribuendo seggi, inventandone di nuovi, sistemandovi oltre un centinaio di persone. Un inizio infelice per colui che si proponeva la sobrietà, il rigore; un pessimo esempio di ambizione, carrierismo, e anche spreco, per la nazione.

Un grosso errore è stato l’indulto, che non doveva essere concesso in quanto la nazione non lo voleva, e il governo non può prescindere dal popolo che detiene la sovranità, e in nome del quale egli opera; una inchiesta di “Repubblica” raccoglieva addirittura il 94% di contrari. Soprattutto non doveva essere concesso in quel modo, mettendo di colpo fuori dal carcere circa ventimila persone; bisognava almeno attendere, creare delle commissioni, studiare i singoli casi, la loro collocazione all’uscita; affinché non ricadessero subito nel crimine.

Un altro grosso errore è stata la Finanziaria. Il cui impianto era solido, nei due obiettivi del risanamento di una situazione debitoria incontrollata, e della giustizia sociale, di una più equa distribuzione del contributo fiscale. Il debito pubblico sarebbe dovuto diminuire del 3% l’anno e invece era salito al 107% dell’intera produzione annuale; un bel risultato del duetto Berlusconi-Tremonti, e nonostante i condoni che i due si erano inventati per far soldi (condono fiscale, edilizio, che assecondavano un malcostume fin troppo diffuso). Un impianto solido ma con grossi vizi e una gestione pessima. I vizi erano i tagli al finanziamento di strutture essenziali come i Comuni, la scuola, l’università, la giustizia ecc.; cui è seguita una rivolta di queste strutture, e che si son dovuti quindi riparare; ma bisognava accorgersene prima, quando si costruiva il dispositivo, costruirlo con attenzione e saggezza. La gestione, poi, è stata pessima, con continue correzioni, con annunzi e smentite, un fare e disfare che ha disorientato e spossato la gente; così l’aumento dell’aliquota massima dell’IRPEF o la tassa sui SUV, misure giuste (in Francia vi è una speciale tassazione dei grandi patrimoni), che poi sono cadute; e tanti altri punti. Con centinaia di piccoli finanziamenti a questa e a quell’opera, più o meno dovuti, dispersione di denaro prezioso. Con errori marchiani, come l’emendamento introdotto dai calabresi per mandare in prescrizione i reati dei loro corregionali ed amici che si erano appropriati dei soldi dello stato.

Insomma una vicenda estenuante, che ha finito per scontentare tutti. In cui si è commesso un grossolano errore di strategia, che a tutti è evidente. Non è soltanto – come taluni hanno detto – un vizio inveterato dell’italiano, sempre critico, sempre insoddisfatto dei politici che ha eletto; il “piove, governo ladro”. Né solo la ripetuta accusa dell’opposizione al “governo delle tasse”; che pure ha influito. Né solo l’avversione dell’ampio ceto degli evasori fiscali (professionisti, commercianti, esercenti, artigiani), cui è stata dichiarata una guerra aperta.

 

Altri errori minori sono stati commessi; come quando non si è bloccato la scadenza della legge Castelli, pur disapprovata dagli organi di controllo. E ancora non si è fatto nulla per togliere di mezzo certe leggi inique: come la depenalizzazione del falso in bilancio che autorizza le imprese alla falsità; o l’accorciamento della prescrizione per cui certi reati si sottraggono alla giustizia. Le famose “leggi ad personam” che il boss si era fato per sé, l’abiezione morale del berlusconismo.

Questi errori di un uomo saggio un po’ ci stupiscono. Anche se c’è stata una ripresa in politica estera: l’azione per l’intervento in Libano, e ora per coinvolgere la Siria, sottrarla alla scomunica   americana. Non abbiamo perso però la fiducia in quei personaggi esperti ed onesti che guidano il paese: l’errore, per l’uomo saggio, è sempre una lezione.  

                                                                                                      (Nuovo Quotidiano di Puglia, 30 dicembre 2006)

 

 

I nemici del Natale

di Arrigo Colombo

 

Accadono cose strane a proposito del Natale; in Inghilterra anzitutto. Dove, secondo la stampa, alcune città hanno soppresso alberi e presepi sostituendoli con vaghe decorazioni per la “Sagra dell’inverno”; mentre il 70 per cento delle aziende ha soppresso i “parties” che di solito si fanno per Natale (ne hanno approfittato per eliderne i costi). Dove presidi troppo zelanti hanno invitato gl’insegnanti ad evitare ai bambini poesie e canti natalizi; e persino le poste hanno sostituito la solita serie natalizia di francobolli con una serie invernale. Ma ecco che ricevo gli auguri di un’università tedesca, i quali però terminano in inglese, ma non col classico “Merry Christmas”, bensì con un generico e inaudito “Season Greetings”; anche qui la stagione, l’inverno.

Che cosa dunque accade? una nuova improvvisa ondata di secolarizzazione, che si abbatte sulla festa follemente amata, e ormai diffusa ovunque? oppure l’improvviso timore di offendere la sensibilità religiosa altrui, proprio in Inghilterra, dove la presenza d’immigrati dal Commonwelth è forte da oltre cinquant’anni? oppure un’ondata di panico che ha preso la gente dopo gli attentati islamici, il timore di urtare la loro suscettibilità violenta? Il bello è che alcune comunità d’immigrati hanno disapprovato, il Forum cristiano-islamico ha detto che queste misure finiscono per aumentare nella gente l’avversione all’Islam.

 

Siamo di fronte ad un’autentica autocastrazione; ad una rinunzia alla propria identità culturale. Perché il Natale è per l’Occidente un fatto culturale di grande rilievo. Non è solo una solennità religiosa, cristiana; è una grande festa umana che ha al suo centro l’amore in tutte le sue forme; quindi il dono, quindi l’incontro, il ritrovarsi, la convivialità; e in particolare la famiglia come “nido d’amore” (secondo l’espressione degli psicologi), come luogo privilegiato degli affetti; e in modo particolarissimo il bambino come soggetto-oggetto d’amore, come colui che più di tutti ha bisogno di essere amato. È la festa umanamente più ricca, la più intensamente sentita; la festa per eccellenza, cui nessun’altra è comparabile.

Si deve anzi dire che il Natale, nel processo di secolarizzazione, come nella crescita della società dei consumi, ha perso molto della sua valenza religiosa, esaltando invece la valenza umana; e in tal senso si è universalizzato, al di là non solo della sfera cristiana, ma della stessa sfera occidentale.

Ha anche acquisito alcuni caratteri che oggi gli studiosi (e i moralisti) considerano con perplessità, o anche con disapprovazione. L’esasperato consumismo, quindi lo spreco, per la maggiore disponibilità di denaro (la tredicesima, tra l’altro), per la pressione consumistica del capitale, la pressione mediatica; in una fase in cui l’umanità ha bisogno di evitare gli sprechi, diminuire i consumi. Per una ragione ecologica, il ridursi delle materie prime, delle fonti di energia, l’accumularsi dei rifiuti, l’ascesa dell’inquinamento verso catastrofi almeno parziali. Per una ragione di giustizia, perché se l’Occidente consuma l’80% dei beni, che cosa rimane al resto dell’umanità? ai paesi che soffrono la fame, soffrono l’indigenza? Perciò la necessità di contenere le spese natalizie: l’eccesso di cibo, i regali, i giocattoli dei bambini; ridurre gli spostamenti, i viaggi; contenere in particolare l’illuminazione delle città, che già sempre sono troppo illuminate. Non togliere nulla all’essenza della festa, e nulla alla sua gioia, ma renderla più sobria, i regali piccoli o anche solo simbolici, il cibo moderato; interiorizzarla, aumentare la valenza interiore e la sua gioia più profonda.

 

La presenza di comunità immigrate, piccole o grandi che siano, comunità di altre culture, comunità ospiti che vanno integrandosi nel senso che vanno acquisendo la cittadinanza, diventano cittadini; questa presenza non deve intaccare in nulla la nostra identità culturale e le sue manifestazioni. L’ospite non solo rispetta la casa di chi lo ospita, ma partecipa a ciò che vi accade, cercando di capire, di condividere; e sarebbe fuori luogo che non lo facesse; sarebbe arroganza, intolleranza, e anche ingiustizia.  

Perciò i comportamenti di autocastrazione culturale sono insensati. D’altra parte anche la cultura della persona come della comunità immigrata esige rispetto, condivisione, partecipazione (un punto in cui coscienza e costume sono ancora molto immaturi); non però quando contrasta la legge e l’universale norma etica. Non può certo essere condivisa né ammessa la poligamia, l’infibulazione, e tutta la condizione di asservimento della donna, il privilegio e dominio del maschio; né il velo femminile in quanto segno di asservimento. Punti di arretratezza etica, da cui il fratello immigrato dev’essere aiutato a liberarsi.

                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 18 dicembre 2006)

 

 

Si riapre la discussione sul celibato ecclesiastico

di Arrigo Colombo

 

           Si sa che il clero cattolico è legato da un vincolo di celibato. Si sa anche che da qualche tempo, e da varie parti, si è affacciata l’ipotesi d’immettere nel clero uomini sposati; per il semplice motivo che gli accessi al clero (le cosiddette “vocazioni”) continuano a diminuire e si creano così dei vuoti nella gestione delle comunità, le parrocchie anzitutto, che nell’ordinamento tradizionale al clero sono affidate; cui si cerca di supplire con diaconi, con «assistenti pastorali» laici, specie nel Nord e Centroeuropea; o importando clero dal Terzo Mondo. Restando sempre interdetto l’accesso alle donne; per motivi piuttosto sofistici (si leggano i documenti in proposito, la dichiarazione Inter insigniores del 1976, e gl’interventi di papa Wojtyla, Mulieris dignitatem dell’88 e Ordinatio sacerdotalis del ’99).

Perciò ha stupito sì, ma non molto, nei giorni scorsi, la dichiarazione del Card. Hummes, il nuovo prefetto della Congregazione del clero, che il celibato non è un dogma ma una norma disciplinare; la quale può essere cambiata; perché la chiesa non è stazionaria, e quando deve cambiare cambia. Si è parlato anche di una riunione del papa coi cardinali di curia per discutere l’argomento. La dichiarazione ha stupito semmai per la sua chiarezza, inconsueta in Vaticano. Il quale, infatti, ha costretto il cardinale alla solita smentita: “La questione non è all’ordine del giorno”.

 

Ma il problema resta aperto; si riapre anzi con maggior forza.

Si sa che il celibato non rientra nel progetto evangelico per gli apostoli, i discepoli, la futura comunità ecclesiale. Gli apostoli, i dodici, sono per lo più sposati; né il Cristo evoca mai quest’argomento. Anche nelle lettere del corpo paolino, in una fase più tardiva, quando si stabiliscono le norme per i presbiteri-episcopi (la distinzione tra i due gradi non essendoci ancora), si richiede una serie di doti, ma non il celibato.

Il quale ha in Occidente una vicenda piuttosto travagliata. È stabilito come norma per la prima volta verso il 300 nel Concilio di Elvira in Spagna; poi in altri concili e sinodi tra il IV e il V secolo. Incontra resistenze, ma soprattutto dal sec. VII entra in una fase di decadenza che si protrae sino alla riforma gregoriana (di papa Gregorio VII), all’inizio del secondo millennio; sino ai canoni dei Concili Lateranense I e II (1123, 1139). Dopo di che la discussione continua sino alla definitiva riforma del Tridentino. Ma siamo ormai alla metà del ‘500.

 

La ragione è insinuata già da Paolo, il quale dice che preferirebbe che tutti fossero come lui, in quanto la persona sposata non può dedicarsi esclusivamente a Dio e alla chiesa; deve occuparsi della famiglia e dei suoi bisogni, della moglie e dei figli; è “divisa” tra le cose di Dio e del mondo. Inoltre è soggetta “alle tribolazioni della carne” (Prima lett. ai Corinzi, 7, 7-8, 28, 32-34).

A parte il valore della continenza come rinunzia e offerta a Dio della sessualità, dell’unione amorosa, della convivenza amorosa e coniugale; che si esplicherà poi particolarmente nel monachesimo; e cui già accenna un passaggio evangelico (Matteo, 19-12); a parte questo, traspare qui la tradizione sessuofobica già ebraica, e che penetra poi nel cristianesimo, e ne domina la storia. Quella che viene fortemente teorizzata da Agostino, e cioè la sessualità come male, in quanto passione che sovverte la ragione; un male che può essere tollerato solo nel matrimonio per la conservazione della specie (“l’uso buono di un male”); il cui piacere nel matrimonio stesso non dev’essere cercato, ché se uno ama la moglie come un’amante, commette colpa.

In questa tradizione la sessualità come impurità; per cui quando nella notte era avvenuta l’unione, non ci si poteva accostare alla comunione il mattino; e la donna che aveva partorito doveva purificarsi davanto a Dio e al sacerdote.

In questa tradizione l’incomprensione dell’amore; il matrimonio essendo inteso nella chiesa come ordinato essenzialmente alla procreazione; e più oltre al mutuo sostegno e come “rimedio alla concupiscenza”. Mentre la sua essenza amorosa verrà compresa solo col Romanticismo, all’inizio dell’800. E più tardi sarà introdotto il principio d’integrazione della persona “dimidiata”, cioè divisa in due, nei due sessi, nelle due forme costitutive d’uomo e donna; e protesa verso l’integrazione, la ricostruzione dell’unità. L’unione sessuale e amorosa, e l’unione coniugale, verrà compresa in questa sua funzione ricostruttiva dell’integrità della persona, in questo altissimo compito.

 

Il celibato del clero s’impone dunque in un’età in cui la comprensione della sessualità è viziata, la comprensione dell’amore sessuale è estremamente carente, e così la comprensione del matrimonio.

 S’impone in un’età in cui l’élite ecclesiastica, che si è affermata verso la fine del primo secolo nei tre distinti ordini dell’episcopato monarchico, del presbitero, del diacono, appropriandosi del potere comunitario; e ha acquisito il carattere sacerdotale (estraneo al vangelo e all’intero Nuovo Testamento) verso la fine del secondo, e con esso si è consacrata rispetto al laicato; ha bisogno di differenziarsi e distaccarsi ulteriormente; e il celibato contribuisce a questa ulteriore alterità e distacco. Non essere più fratello tra i fratelli ma padre e signore rispetto ad essi; ormai emarginati.

Il motivo paolino dell’uomo che col matrimonio è “diviso”, preso dalle cure mondane, dal “piacere alla moglie”, non ha molto senso. Vediamo ogni giorno quanto operano nella società le persone sposate, di quali realizzazioni sono capaci; e come la moglie e i figli possono essere per loro una forza in questo.

Il motivo, spesso addotto, che l’amore umano sminuisce l’amore divino, non ha senso alcuno; essendo i due amori incomparabili. Semmai l’amore divino rafforza quello umano, che se ne nutre.     

                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 11 dicembre 2006)

 

                                 

Una nuova legge elettorale è necessaria, ma che sia buona

di Arrigo Colombo

 

           Si sta preparando una nuova legge elettorale. Un passo necessario, dopo quel pasticcio varato alla fine della scorsa legislatura, e che viene chiamato abitualmente “porcellum”. Un passo che viene affrettato dai due referendum  che sono stati presentati, e che fanno ora il loro corso; ma  scombinano alquanto il varo sereno e meditato di una buona legge.

Delle due proposte ch’essi fanno, una è senz’altro condivisibile, e anzi necessaria, l’abolizione delle candidature multiple, gente che si candida dappertutto pensando di trascinare dassola l’intero carro elettorale, superuomini del voto. Ma non ha senso, perché l’elettore deve avere davanti a sé un candidato reale, non fantomatico; è una misura elementare di correttezza e di rispetto dell’elettorato.

La seconda, che destina il premio elettorale alla lista maggiore, anziché alla coalizione, mira a liberarsi dei piccoli partiti e dell’instabilità ch’essi provocano, o possono provocare; ma non è accettabile nella situazione italiana, dove i piccoli partiti hanno una caratura storica e, specie nel Centro-sinistra, rappresentano tensioni positive e costruttive. Perciò il modello tedesco, con la sua barriera del 5%, non è da noi praticabile.

 

Veniamo dunque ad alcune considerazioni sulle proposte che circolano.

La meno accettabile è l’elezione diretta del premier, comunq      ue essa sia fatta. Perché stravolge il modello democratico che s’incentra nel Parlamento, l’organo che rappresenta la nazione, che porta in sé la sovranità popolare; da cui quindi il premier è eletto e a cui è responsabile; è l’esecutivo del Parlamento.

L’elezione diretta lo sottrae ad esso, in quanto non da esso deriva il suo potere, ma dal voto popolare; gli conferisce di fatto un potere originario che dal Parlamento prescinde e dal Parlamento non è sindacabile. Un eccesso di potere, come si vede – e si è visto particolarmente in questi anni – nel regime presidenziale americano, che è sbilanciato sul presidente; il quale diventa la figura centrale e, specie se ha la maggioranza parlamentare, si fa il suo governo a piacere, e a piacere decide la linea politica e la sua attuazione. Chi mai, in questi anni, ha sentito parlare del parlamento americano? solo ora, in occasione delle elezioni perdute dalla Destra. Ma il vero conduttore della politica di quel popolo resta sempre il presidente, non il Parlamento.

 

Il premio di maggioranza è un fatto anomalo; che può essere tollerato solo come temporaneo, in una situazione di frazionamento e d’instabilità come quella attuale. Che poi sia portato a livello nazionale per ambedue le Camere, in parità di condizioni – a differenza di quanto avviene nel “porcellum” – è abbastanza ovvio.

Meno ovvio è l’abbassamento dell’età a diciott’anni anche per il Senato – come vorrebbe il progetto D’Alimonte, il costituzionalista dell’università di Firenze che ha tenuto lezione al Seminario del Centro-sinistra ad Orvieto – ; per quale motivo? e a quale scopo?  forse si pensa che i giovani apportino un voto  progressista, il che è dubbio, almeno in questa fase; o forse s’invoca un principio di eguaglianza, mentre la legge ha sinora invocato un principio di maturità che ha le sue ragioni.

E ancor meno accettabile è l’altra proposta D’Alimonte, che esclude le liste minori dal premio di maggioranza; con l’intento, certo, di rafforzare il futuro Partito Democratico, o il nucleo centrale della coalizione; ma contrasta col principio di parità e pari dignità che deve informare la coalizione stessa, e la sua coesione. 

Un altro punto innegabile, anche se oggi molto controverso, è il proporzionale, come il metodo che meglio risponde al principio di sovranità popolare, all’elettorato e al suo articolarsi; il metodo più democratico. Che deve anche offrire all’elettore la possibilità di scegliere il suo candidato, quindi la preferenza. Corretto col premio di maggioranza, può contrastare sufficientemente l’instabilità. Per cui il maggioritario perde la sua funzione, quella per la quale era stato invocato e introdotto.

 Si ventila anche un accordo con l’opposizione, il tema che in questi mesi è emerso più volte, e su cui anche il presidente Napoletano ha insistito. Le “larghe intese”, una bella parola, senza senso oggi in Italia. Se solo si pensa alla disonestà con la quale l’opposizione ha governato, alle leggi inique che ha votato compatta, leggi per i processi e le imprese del suo boss; alla faziosità con cui ha accolto l’esito delle elezioni, osteggiando  la nuova compagine e la sua azione; alla scarsità delle garanzie ch’essa offre. Davvero non ha senso volgere il pensiero alle “larghe intese”.

                                                                                         (Nuovo Quotidiano di Puglia, 20 novembre 2006)

 

 

Vogliamo saggezza dai politici 

di Arrigo Colombo

 

            In questi giorni si è parlato molto delle elezioni parziali americane, del successo dei democratici; pagine e pagine nei giornali. Ci si aspetta che i democratici possano infrenare la dissennatezza di Bush. Poiché in questo personaggio, giunto al potere – sembra – per un errore nel conteggio delle schede, e divenuto una specie d’imperatore, la dissennatezza è stata enorme.

Ha rifiutato di firmare il protocollo di Kyoto per la riduzione dei gas inquinanti; una misura per intervenire sul dissesto ambientale, misura urgentissima perché la catastrofe ambientale è imminente, e gli USA sono i maggiori inquinanti del globo (si dice lo abbia fatto per i suoi amici petrolieri, essendo petroliere lui stesso e la sua famiglia).

Sopravvenuto l’attacco terroristico dell’11 settembre, ha progettato una serie di “guerre preventive”  e ne ha scatenato due, una dopo l’altra; mentre era chiaro che il terrorismo non si può debellare con la guerra ma solo con una strategia di alleanze, e proprio col mondo islamico anzitutto. Ha lasciato incancrenire la questione palestinese con una fantomatica “road map” mai attuata. Ha così aggravato l’avversione degl’islamici per l’Occidente. Le due guerre, poi, si sono trasformate in guerriglie, di fronte alle quali l’esercito americano – come ogni esercito – si ritrova impotente. Ha enormemente aggravato le tensioni nel mondo. 

Si professa cristiano, sostiene una politica per la “vita”, come si dice; cioè contro l’aborto, la procreazione assistita, la manipolazione dell’embrione; ma poi scatena guerre in cui centinaia di migliaia di vite periscono. La guerra, il macello umano, il crimine più grave.

 

Ma anche il suo collega Blair non ha brillato per saggezza; e si tratta di un politico laburista, cioè di matrice socialista e popolare. Divenuto guerrafondaio, il suo grande alleato nella guerra irachena contro la volontà del popolo; per la quale ha anche mentito al popolo e al parlamento, portando prove false.  

Quando il dittatore iracheno, nei giorni scorsi, è stato condannato, si è pronunziato per la pena di morte; poi, in seguito ad un incontro con Prodi, ha cambiato avviso. Ma se la guerra è il più grave crimine, anche la pena di morte è illecita, lo stato non ha diritto di uccidere il cittadino perché mutua il suo potere dal cittadino stesso; e del resto la pena di morte è vietata in Inghilterra.

 

Ma lo stesso Prodi, persona considerata saggia ed onesta, si rivela dissennato. Quando vara l’indulto contro la volontà popolare (addirittura il 95% secondo un’inchiesta); e lo vara di colpo, senza nessuna preparazione, mettendo fuori oltre 15.000 carcerati, gente che magari non ha un lavoro, non ha una casa. Poteva almeno attendere qualche mese, istituire nelle carceri delle commissioni che vagliassero le posizioni dei singoli, ne preparassero l’uscita, li aiutassero ad evitare la ricaduta nel crimine. Misure di saggezza elementare.

Quando, col suo collega Padoa-Schioppa, vara la finanziaria era evidente che certi tagli – ai comuni, alla scuola, all’università ecc. – non erano sostenibili, toglievano a queste fondamentali strutture la possibilità di funzionare. Quelle somme dovevano esser reperite diversamente.

Quando il suo collega Gentiloni, ministro della comunicazione, gli presenta una legge per il sistema radiotelevisivo in cui si prevede che un’emittente può raccogliere fino al 45% di pubblicità e lui dice “è una legge equilibrata”. Come? Se un solo può avere quasi la metà dell’introito pubblicitario che razza di equilibrio è? Se la stessa legge Maccanico, pur sbilanciata  verso i monopolisti, prevedeva il 30%.

 

Come possono i maggiori politici essere tanto dissennati? E come è possibile ottenere da essi un grado maggiore di saggezza nelle decisioni? Che è poi ciò che più conta: più della preparazione, della competenza, della scienza. Di questo abbiamo bisogno, di politici saggi, che prendano decisioni sagge; cioè giuste, rispondenti a giustizia, e insieme rispondenti al bisogno della nazione (non agl’interessi singoli, alle pressioni di questo o di quello), e non affrettate né avventate.

Come avere dei politici saggi? dei governanti saggi? Forse bisognerebbe riprendere il metodo ateniese dell’esame previo, delle giurie popolari. Non dovrebbero designarli i partiti; e tanto meno imporli, come nelle ultime elezioni. Le primarie: ma che non siano manipolate come avviene in America, che poi dalla montagna salta fuori il topolino, il mediocre ed enigmatico Kerry.

Ma riprendiamo Prodi, persona ritenuta saggia: come può evitare decisioni dissennate del tipo che abbiamo considerato? Forse con uno staff di consiglieri saggi, e autonomi non acquiescenti, e competenti. E ascoltando inoltre molti pareri. E inoltre, prendendo in considerazione il pensiero e la volontà popolare, prima della decisione, attraverso sondaggi. E prendendo tempo in cui riflettere, meditare l’oggetto e le conseguenze. Forse. Il problema non è semplice, forse l’età stessa in cui viviamo è dissennata e la saggezza è scarsa.

                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 13 novembre 2006)                                                                            

 

 

Difesa della finanziaria

di Arrigo Colombo

 

 

Il fenomeno più singolare, e anche più strano, che ha accompagnato la finanziaria di quest’anno è il lamento generalizzato. Strano non tanto, a dire il vero, perché l’arte del lamento è un’arte nostra, d’italiani; di una gente in cui, per vari e ben noti motivi, scarseggia l’identità e la solidarietà nazionale; in cui prevale un senso d’inferiorità rispetto alle altre nazioni. Ma strano nella sua compattezza, forse perché i saggi e gli onesti tacciono, mentre gli scalmanati e disonesti gridano. E grida l’opposizione, il cui leader non è certo un esemplare di probità, se si pensa a tutti i processi che ha scansato per prescrizione, e si è fatto anche delle apposite leggi per scansarli; ma grida ugualmente a gran voce. E il governo ha la voce debole e fioca, mentre dovrebbe spiegare  ogni cosa alla gente con chiarezza, con determinazione, sicuro del fatto suo.

Si è lamentata prima a gran voce la Confindustria, che pur aveva incassato i milioni del “cuneo fiscale”; poi si è calmata, quando hanno lasciato il Tfr a tutte le industrie con meno di 50 addetti. Si sono lamentati i lavoratori dipendenti, la cui parte di cuneo fiscale è finita nell’Irpef; ma moderatamente. Hanno fatto la voce grossa, e la fanno ancora, i lavoratori autonomi – artigiani, commercianti, professionisti –, cioè i più grandi evasori; il gioielliere che dichiara 15.000 euro, il dentista che ne dichiara 20.000 (sappiamo tutti quanto incassa un dentista); quelli che, frodando il fisco, danneggiano tutti gli altri contribuenti e danneggiano la nazione. Si sono fortemente lamentati gli enti che hanno subito tagli – e già ne avevano subito negli anni scorsi –, a cominciare dai comuni, la sanità, la scuola, l’università ecc.; una lamentela generale e, diciamolo pure, motivata. Questi tagli dovevano essere il più possibile evitati.

Anche il governo, dunque, ha fatto qualche errore. Anche le incertezze lo hanno danneggiato, i Suv e le molte altre cose. E nessuno ha capito perché i redditi dai 150.000 euro in su non debbano pagare l’aliquota del 45%. Prodi ha risposto che non era nel programma, ma chi gli può credere? al pur onesto Prodi?

 

Veniamo alle cose serie. La finanziaria aveva un compito inderogabile: il risanamento del debito pubblico. Che con gli allegri governi berlusconiani aveva invertito il percorso virtuoso aperto dai governi del precedente Centro-sinistra, diminuirlo del 3% l’anno, sì da scendere in dieci anni al 70% del PIL, poi al 60, alla media europea. Era invece salito al 106, un debito enorme, insostenibile, pericoloso.  Questa era la “missione” da compiere, quella che Ciampi ed altri dicevano era mancata; invece no, non era mancata per nulla, ed era una missione urgente, indifferibile. Bastava questo per motivare la finanziaria, la sua entità. E gl’italiani dovevano capirlo, e dovevano essere pronti ai necessari sacrifici.

Ma il governo ha voluto perseguire un secondo obiettivo, di equità, di giustizia: favorire i redditi più bassi. Con questa finanziaria il 90% degl’italiani paga meno tasse: operai, impiegati privati e pubblici, insegnanti, bancari. S’inizia a pagare di più dal reddito di 40.000 euro, cioè di 3000 euro al mese.

E ha perseguito, almeno in parte, forse ancora piccola, la lotta agli sprechi; ma deve continuarla con decisione, cominciando dagli stipendi governativi e parlamentari, dalle auto blu, dalle facilitazioni varie; dalle consulenze inutili e pagate a peso d’oro (consulenze, commissioni, enti fantomatici, specie in ambito regionale, di cui spesso la stampa traccia un quadro obbrobrioso; magari in regioni povere, come la Calabria); l’eccesso di personale, le opere pubbliche non portate a compimento, gli appalti che non finiscono mai e di anno in anno crescono. C’è un enorme lavoro da compiere.

Molti – anche nello stesso Centro-sinistra, Fassino, Rutelli; anche nella stampa estera – hanno lamentato la mancanza d’interventi strutturali; ma si sbagliano, perché c’era il debito anzitutto, e di più non si poteva fare; gl’interventi strutturali verranno in seguito. Tutti siamo d’accordo che molte strutture sono decrepite, che non funzionano le ferrovie, sempre in ritardo, non funziona la posta, il servizio aereo è dissestato e non lontano dal fallimento; ci sono i processi da snellire, le carceri da riportare al loro compito riabilitativo, un’infinità di cose. Quest’obiettivo, ora, non si poteva perseguire se non in piccola parte; lo si perseguirà dal prossimo anno.

L’ultimo obiettivo è pure per il futuro, ed è la lotta all’evasione fiscale. Il governo su questo punto sembra deciso. Speriamo. Credo però che, più che un’azione a base di guardia di finanza, d’inquisizioni e perquisizioni, di strumenti di ricerca, debba esser condotta una battaglia morale, di chiarificazione e persuasione della coscienza. Cominciando dalla scuola e da tutto l’apparato formativo, coinvolgendo l’apparato mediatico, e l’apparato politico, i partiti, i parlamentari quando parlano alla gente. La tassazione altro non è che il contributo di ogni cittadino alle spese della comunità nazionale; un contributo giusto, doveroso, che ogni cittadino deve pagare per la sua parte, altrimenti la comunità non può funzionare. Deve pagare in piena coscienza, anche se gli costa dei sacrifici. Le tasse devono essere pagate con gioia, la gioia di contribuire al bene di tutti.

                                                         (Nuovo Quotidiano di Puglia, 6 novembre 2006)                                                                            

 

 

Un controllo popolare sui politici: la proposta di Ségolène Royal

di Arrigo Colombo

 

 

Ségolène Royal è uno dei candidati del partito socialista francese alle prossime elezioni presidenziali. Uno dei candidati in un partito molto diviso, in cui tutti i maggiori notabili corrono ciascuno per se stesso, portando così il partito alla sconfitta. Un fatto stranissimo ed estremamente deplorevole per un partito popolare, che dovrebb’essere fortemente solidale nella volontà di affermarsi per il bene della nazione, per la giustizia sociale, la promozione degli strati più deboli, il superamento delle forme di discriminazione e di emarginazione.

Questa divisione si è già prodotta nelle ultime elezioni, che hanno portato alla riconferma di Chirac; quando ben tredici candidati dividevano il partito, sì che il loro leader Jospin fu battuto non solo da Chirac, ma anche dall’estrema Destra di Le Pen; e per protesta si ritirò dal ballottaggio.

Ora lo strano concorso si ripete, ma tra tutti si è fatta strada una donna, Ségolène Royal, una donna esperta in politica, e che per il fatto solo di essere donna, e di preludere al primo presidente donna della repubblica francese, esercita un forte fascino sugli elettori.

 

Questa è dunque la situazione. Nella quale, nei giorni scorsi, la Royal emerge con una  proposta totalmente nuova nel sistema parlamentare che si è affermato ovunque. Dove le Costituzioni escludono il “mandato imperativo” da parte degli elettori; quel mandato, cioè, che nell’eleggere un candidato lo condiziona ad un programma, a precise richieste; di cui dovrà rendere conto al termine, dovrà ripresentarsi ai suoi elettori e rendere conto del suo operato. Le Costituzioni considerano l’eletto come responsabile alla nazione, non al suo collegio elettorale; una responsabilità che non ha però nessun momento e strumento di verifica e di controllo, per cui è inesistente; per cui l’eletto è di fatto irresponsabile, e insindacabile, nei molti vizi  in cui può cadere e di fatto cade: assenteismo, apporto nullo alla preparazione e alla discussione delle leggi, combutte e inciuci vari, cambiamento di partito, favoritismi, conflitto d’interesse (laddove manca una legge efficace in proposito) ecc.

Si risponde di solito che sarà comunque giudicato nelle elezioni seguenti: dal partito che non lo presenterà, dal popolo che non lo eleggerà. Ma non è così. I partiti operano in base a criteri di forza e di convenienza, non a criteri etici: e fanno magari eleggere il candidato truffaldino proprio per sottrarlo alla giustizia. Al popolo talora non è lasciata nessuna scelta, nessuna preferenza; e viene poi manipolato in modo molteplice. Si veda il caso di Berlusconi, che viene rieletto con una dozzina di processi addosso; e quello del suo avvocato Previti. E il costume di presentare lo stesso candidato in molti collegi, il candidato di grido; costume insensato.

Il problema esiste; ed esiste anche un malcontento popolare, se non una rivendicazione; un diffuso disprezzo popolare per i politici e la politica (il vecchio detto “è una cosa sporca”); cui segue un diffuso disinteresse, che è uno dei mali di cui soffre oggi la democrazia.

 

La proposta della Royal risponde per la prima volta a questo problema; ad “una richiesta profonda dei francesi”, all’assenza di una valutazione nel tempo. Pensa che i politici dovranno “dar conto della loro azione, a intervalli regolari, comparendo davanti a giurie di cittadini estratti a sorte”. Sembra riferirsi non solo ai membri del parlamento e dell’esecutivo, ma alle magistrature dello stato in genere: “una sorveglianza popolare sul modo in cui i titolari di cariche pubbliche svolgono il loro mandato”. Una misura di “democrazia partecipativa” che dev’essere ulteriormente approfondita per essere attuata.

Il modello qui è quello ateniese, il più alto modello di democrazia che si sia mai realizzato. Cui è andata sempre la tensione innovativa moderna, che avendo affermato il principio di sovranità popolare, trova che il mandato parlamentare non lo soddisfa, e chiede forme più avanzate di partecipazione. Che può essere l’approvazione popolare delle leggi, può essere l’esame previo e il giudizio dopo ogni legislatura (il mandato “imperativo e revocabile” istanziato durante la Rivoluzione francese), può essere il bilancio partecipativo di Porto Alegre.

Ad Atene la valutazione previa e il rendiconto dell’eletto non concernono i parlamentari, poiché non v’è parlamento, le leggi e i decreti vengono elaborati e approvati dall’assemblea di tutti i cittadini; è la “democrazia diretta”. Concernono invece le magistrature dello stato. Vi sono tribunali popolari; il sorteggio mira a prevenire la formazione di gruppi di potere.

 

La proposta Royal ha suscitato in Francia un marasma di critiche proprio all’interno del partito socialista; critiche probabilmente interessate a demolire il prestigio che ne può venire alla candidata concorrente. Si tratta invece di un passo che dev’essere preso in seria considerazione dall’Europa intera, per una democrazia non solo più partecipata, a più alto quoziente popolare, più autentica e viva; ma più onesta e anche più efficace e costruttiva.

                                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 30 ottobre 2006)

 

 

La discussione sul velo islamico

di Arrigo Colombo

 

 

La discussione sul velo che portano le donne dell’Islam si è riaperta da noi in questi giorni in seguito ad un intervento di Prodi, intervento moderato com’è nel suo carattere: “Se vogliono portare il velo lo portino, ma che non copra completamente il viso; è un fatto di buon senso”.

In realtà non si tratta solo di buon senso: esiste una precisa norma antiterrorismo che vieta il l’irriconoscibilità della persona, e cioè – in questo caso – il velo totale, il “burqà” (quello con la grata)  e il “niqàb” (quello che arriva fino agli occhi); perché sotto tali veli può nascondersi l’uomo armato o il kamikaze. Ciò che stupisce è che in difesa del velo si sia alzata proprio la Sinistra di Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi ecc., invocando un presunto principio di libertà o d’identità etnica; mentre le comunità islamiche si sono dichiarate d’accordo con Prodi.

Vediamo di fare un po’ di chiarezza su questo punto.

 

Primo, il velo delle donne islamiche non ha origine né significato religioso. Qui l’errore della motivazione addotta dalla legge francese che, volendolo abolire nelle scuole, proibisce l’esibizione di ogni simbolo religioso, quindi del velo come della croce. E l’errore di molti che ne discorrono a sproposito. Il Corano, nella sua varia normativa etica, parla occasionalmente (in un passo peraltro non chiaro) di un velo che copra i seni, e di una danza scomposta da evitare; c’è anche un’esortazione a che le donne dei credenti “si ricoprano dei loro mantelli”, per distinguersi dalle non credenti, e per difendersi; ma è tutto molto fluido (24, 31; 33, 59).

Secondo, il velo ha un preciso significato etico che rientra nell’asservimento della donna al maschio: la donna appartiene all’uomo, ad un uomo preciso, il padre, il fratello, il marito; e solo lui la può vedere. È la condizione della donna in tutta la società premoderna, fino a tempi recenti: nella società arcaica del Corano come nella società ellenica e nella società cristiana. Condizione patriarcale e androcentrica che oscilla, con particolari propri ad ogni cultura; ma che è sostanzialmente la stessa.

Maometto dice: gli uomini stanno ad un gradino più alto, sono preposti alle donne, che devono loro obbedienza; in caso contrario ammonitele, lasciatele sole nei loro letti, battetele. E Paolo, riprendendo la tradizione repressiva ebraica, dice: la donna sia soggetta all’uomo, come l’uomo è soggetto al Cristo e il Cristo a Dio (un parallelo davvero strano). Le donne nell’assemblea tacciano; se vogliono istruirsi su qualcosa interroghino i mariti a casa.

Il Corano parla di decenza della donna, e la tradizione maschilista impone in seguito il velo. Paolo impone il velo alle donne nell’assemblea, cioè in chiesa; con un  argomentare contorto che qui non val la pena di ricostruire. E questo velo percorrerà tutta la storia della società cristiana fino a tempi recenti, quando infine il maturare del principio di eguaglianza lo farà cadere in disuso.

 

Vi è poi il principio etnico: la donna islamica porta il velo perché questo appartiene ormai al modo d’essere della nazione islamica, alla sua identità; appartiene all’identità della comunità islamica emigrata; la distingue e la preserva nella nazione occidentale in cui vive. Ma portando il velo, e portando con sé tutta l’etica arcaica della nazione islamica (l’asservimento della donna, il rifiuto della libertà di coscienza, la legge del taglione ecc.) commette un duplice errore.

Un errore politico perché, entrando in un’altra società politicamente ordinata, deve accettarne la legge: così la dignità e il diritto della persona, la pari dignità e diritto di uomo e donna, la libertà di coscienza e di critica; deve accettare le leggi e le norme che presiedono all’istituzione di una scuola per i suoi figli (a proposito della scuola egiziana di Milano).

Un errore etico perché rifiuta un’etica più avanzata e per lei liberatoria; un’etica che non è propriamente occidentale ma universalmente umana. Perché certo la dignità e il diritto della persona, la pari dignità e diritto d’uomo e donna, la pari dignità e diritto dei popoli, sono principi e vincoli universalmente umani; e il fatto che siano maturati in Occidente è accessorio, anche se ha precise cause che sarebbe fuori luogo esplorare qui. 

La donna islamica sta tuttavia in una posizione non facile. Perché anzitutto deve comprendere questi principi e la loro forza liberatrice; uscendo dal suo spazio culturale, lo spazio in cui è cresciuta e che ha assimilato. Perché sta in una comunità di emigrati, particolarmente gelosa del suo patrimonio di cultura, timorosa di perderlo nel processo d’integrazione; comunità islamica di tradizione intollerante e spesso fanatica. Sta sotto la pressione della comunità e di quelli che nella comunità presiedono, il clero in particolare, i “mullah”, con la loro lettura autoritativa del Corano. E sta infine sotto la pressione del maschio, che è il suo padrone; il marito, il padre, la famiglia che combina il matrimonio a sua insaputa, il clan. In questo processo di liberazione ha bisogno di solidarietà, di rapporti solidali e fraterni, di uno sguardo di benevolenza e non di disprezzo anche quando porta il velo, almeno quello parziale.

                                                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 23 ottobre 2006)

 

 

Una decisione importante per l’umanità: demolire l’arsenale atomico

di Arrigo Colombo

 

 

In questi giorni accade un fatto grottesco: il piccolo dittatore nordcoreano, che ha ridotto il suo popolo letteralmente alla fame, costruendo enormi edifici pubblici, enormi piazze che restano vuote, le grandi strade vuote perché non c’è traffico, scarseggiano pure le biciclette; questo mostriciattolo umano, che nella sua follia di grandezza succhia il sangue del suo disgraziato popolo, si è fabbricato anche la bomba atomica e ha fatto pure un test sotterraneo, per dimostrare che è vera. E ha pronti dei missili da 700 e 1300 km., che raggiungono Mosca e l’Alaska; e in preparazione da 2000, 6000, 12000 km., che coprono l’intero pianeta. Ma non si sa bene a cosa serva tutto questo, a parte la ridicola dimostrazione di grandezza e potenza del dittatorello; contro chi egli voglia lanciare questi enormi ordigni; o  se abbia intenzione di distruggerci tutti per restare lui solo, la sua corte e il suo partito; o almeno il Comitato centrale.

Meraviglia anche che in questa Nordcorea di 22.000 abitanti non ci sia nessun dissenso; interno, esterno (con tanta gente che si è rifugiata in Cina e altrove); pur sapendo che la polizia e i servizi segreti e l’esercito sono fortissimi, e supremamente repressivi; perché anche nella vecchia URS erano fortissimi, ma il dissenso a un certo punto si formò e nessuno lo poté arrestare; e da esso uscì il movimento democratico che liberò l’enorme paese.

 

E però questo fatto grottesco, e anche pericoloso, pone un problema a cui le democrazie occidentali non dovrebbero essere del tutto insensibili: a che serve oggi la bomba atomica? a che servono le 9.000 testate nucleari degli americani, e la 8.000 dei russi, anche questa una follia, una folle mania – se ci si riflette – con tutto il denaro che sono costate e costano? e le centinaia dei francesi e degl’inglesi? chi di loro si sentirebbe oggi di spararne anche una sola? di commettere questo crimine contro l’umanità?

Qui i campioni della democrazia, che si vantano di esportare la democrazia nel mondo, che compaiono come supremi benefattori, ci dicano che cosa intendono fare di tutti questi armamenti. Poiché a base della democrazia c’è la dignità e il diritto della persona, ci dicano che cosa intendono fare di armi che per la persona sono micidiali, che annientano centinaia di migliaia di persone.

Anche l’idea di deterrente è superata, ora che i maggiori popoli sono praticamente alleati, e insieme intervengono nei punti di crisi: Europa, USA, Russia, Cina. Ma anche prima, in termini di bomba atomica, il deterrente era talmente distruttivo e autodistruttivo da diventare insensato.

 

L’unica soluzione sensata è che i membri del club nucleare si riuniscano. Sono nove. Ci stanno i cinque del Consiglio di sicurezza, che da oltre cinquant’anni se ne sono impadroniti e non lo mollano più (pur sapendo che la democrazia è rotazione delle cariche; o altrimenti diventa oligarchia): USA, Russia, Francia, Inghilterra, Cina. Poi ci sono i membri non-dichiarati: Israele, India e Pakistan, e ora Nordcorea. Che si riuniscano e decidano concordemente di abbattere l’arma atomica, di bandirla; stabiliscano tempi e modi di demolizione. Ché tanto nei reali rapporti di forza non cambierebbe nulla: gli Stati Uniti non verranno certo a dirci che si sentono superiori perché, al caso, potrebbero sparare le loro novemila testate nucleari.

L’iniziativa può partire dall’Unione Europea, che si è costituita come una comunità di pace e di fraternità. Nella quale la resistenza potrebbe venire da Francia e Inghilterra, che detengono questa potenza di morte. Ma potrebbe anche prevalere il buon senso, la saggezza.

Il nostro governo può farsi portatore della proposta presso la comunità, presso altri popoli; essendo fuori dal club; farsi portatore, oltre che della volontà di pace dei popoli, di una fondamentale esigenza di coerenza della comunità; la quale non può diffondere la pace nel mondo avendo in sé due detentori di armi di distruzione massiva, terribili armi di morte. L’azione felicemente condotta per il Libano può confortare il governo ad altre iniziative di pace; anche se su scala diversa. In ogni caso potrebb’essere un primo tentativo, una prima parola mai detta e pur tanto necessaria, tanto evidente; se si pensa che le armi atomiche, pur nella loro avanzata tecnologia, appartengono alla barbarie più spietata.

                                                                                             (Nuovo Quotidiano di Puglia, 16 ottobre 2006)

 

 

    

Immigrati e malavita: le cause

di Arrigo Colombo

 

           In questi ultimi giorni sono accaduti almeno due fatti gravi concernenti immigrati irregolari: l’incendio del bar romano frequentato da rumeni (già assaliti a colpi di pistola) e la rivolta degli spacciatori del “tossic park” di Torino, che hanno preso a sassate la polizia. Mentre continuano le situazioni anomale di altre città, come il muro eretto a Padova per separare la zona di droga e malavita (un fatto inaudito), o le zone degradate e pericolose di Bologna e Firenze.

Alla base di tutto questo ci sono due cause: la legge Bossi-Fini e l’incuria dei comuni.

 

La legge Bossi-Fini ha soppresso l’accoglienza, pretendendo ch’entrasse in Italia solo gente che aveva già il posto di lavoro. La previsione degli esperti era che questo avrebbe prodotto clandestinità, e quindi malavita; e così è avvenuto. I centri di accoglienza permettono invece di gestire il fenomeno: accolgono gl’immigrati, li soccorrono, li aiutano a trovare lavoro, alloggio, assistenza, li provvedono di documenti. Il processo viene così incanalato e insieme monitorato. Sul numero degl’ingressi non c’è da temere perché i posti di lavoro non mancano, e anzi gl’imprenditori si lamentano di non avere braccia a sufficienza. A parte che poi molta gente non resta in Italia; per loro è solo un punto di approdo verso l’Europa centrale e settentrionale.

Il principio di accoglienza non è un optional ma un dovere: è un fondamentale principio della tradizione cristiana e occidentale; che discende dal principio fraterno, dalla legge dell’amore fraterno, che è poi l’essenza dell’annunzio evangelico all’umanità. È un principio universalmente umano, che già lo stoicismo ellenico aveva intuito. Gli uomini sono tutti fratelli.

La Destra berlusconiana, che ha governato l’Italia per cinque anni, l’ha ignorato. Dice di essere cristiana, i suoi leader (a parte i leghisti) frequentano la messa domenicale, sono anche amici di vescovi e monsignori; le inchieste anzi dicono che la Destra è preferita dal clero. Un’altra anomalia perché il suo cristianesimo è solo di facciata; le leggi che ha fatto lo dimostrano.

L’Italia, che è cristiana al 90%, dovrebbe aver presente il principio fraterno; non ci dovrebb’essere razzismo, l’immigrato dovrebb’essere accolto con simpatia. La chiesa, con tutta la sua rete di diocesi, parrocchie, associazioni, potrebbe richiamarlo ai suoi fedeli; ha il dovere di farlo; e ci si meraviglia che la CEI, la Conferenza episcopale, che è sempre fin troppo attenta alla situazione italiana, pronta a interferire nell’attività e nelle decisioni del parlamento – fatto anomalo, perché il parlamento è il cuore dello stato e lo stato è autonomo –; ci si meraviglia che non abbia dispiegato un’azione in grande stile in soccorso degl’immigrati; per il problema delle abitazioni, ad esempio, che è grave; non abbia aperto agenzie per il posto di lavoro. O forse li disdegna perché sono musulmani, sono i nemici storici del cristianesimo? ma il vangelo non dice di amare e beneficare anche i nostri nemici? “Io vi dico: amate i vostri nemici, beneficate quelli che vi odiano”.

 

L’altra causa è l’incuria dei comuni. Che non hanno valutato e affrontato per tempo il fenomeno. Prendiamo il caso degli alloggi: edifici occupati abusivamente, dove la gente si ammucchia in modo indegno, senza servizi igienici adeguati; gente sfruttata da altri immigrati, che si ammucchia in una stanza pagando un posto letto 400 euro al mese. Mentre i comuni hanno edifici vuoti – o sono caserme, o scuole dismesse ecc. –, hanno appartamenti sparsi per tutta la città. Le maggiori città devono istituire un assessorato immigrati, uffici e attrezzature adeguate, monitoraggio, piano alloggi; l’immigrato che vi arriva  dev’essere accolto in un ufficio che lo aiuta a sistemarsi in ogni senso. È ancora sempre il principio di accoglienza, certo.

E c’è anche il problema di evitare la ghettizzazione; evitare che si formino complessi o quartieri abitati da soli immigrati. Che ostacolano l’integrazione, aumentano l’ostilità e l’insofferenza reciproca. Secondo gli studiosi, la rivolta dei giovani immigrati francesi dell’inverno scorso era dovuta proprio alle ghettizzazione; al fatto che la Francia, dove l’immigrazione era stata massiccia, in particolare da quei territori che aveva cercato di legare a sé dichiarandoli metropolitani, a cittadinanza francese, aveva costruito per loro dei quartieri; una provvidenza, certo, ma anche una segregazione. Cui i giovani, a in certo momento, si sono ribellati in maniera forte.

Prendiamo le zone di degrado, dove trafficano spacciatori e prostitute, i parchi tossici, i suk, o come dir si voglia. Non si sono certo formati dall’oggi al domani; bisognava vigilare, impedire che si formassero. Lo spaccio è reato, doveva essere subito perseguito. Qui anche i corpi di polizia hanno latitato. La città richiede un’attenzione continua, è come un corpo vivo, e soggetto a malattie molteplici.

Ora è chiaro che queste zone devono scomparire; non ci dev’essere tolleranza; invece una mobilitazione della città intera. Ma il principio di accoglienza resta sempre la soluzione fondamentale.

                                                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 9 ottobre 2006)

 

 

 

Il doppio mandato: un limite da mantenere

di Arrigo Colombo

 

            Su questa norma del doppio mandato, che per ora vale solo per i sindaci, si discute a non finire, anche perché la situazione è confusa e contraddittoria. È stata stabilita per i sindaci, bene (ma anche per le regioni e le province); e però si obietta che nei piccoli comuni è difficile trovare un candidato; e anche Ciampi aveva sposato questa tesi. Ma L’ANCI, che è l’associazione dei comuni italiani, l’obietta per tutti i sindaci, anche dei comuni grossi. Poi ci sono i parlamentari, che possono replicare il mandato a piacimento e stare in parlamento per una vita intera, come il divo Andreotti. Il doppio mandato contemporaneo, al parlamento nazionale e a quello europeo, è stato risolto nel 2004, a seguito di un dispositivo comunitario: era uno scandalo grave, con gente che ci andava sì e no per il 40% delle seduto, prendendosi un lauto stipendio e facilitazioni varie.

 Tutto questo deve finire. Ognuno deve fare il suo lavoro, e lo deve fare seriamente, consapevole del compito che gli viene affidato dai cittadini; non può tenere il piede in due o tre scarpe e mettersi in tasca due o tre stipendi; e dev’essere pronto a lasciarlo quando il mandato scade. Perché il suo è un servizio alla città, alla nazione; non è una proprietà.

Si tratta di un fondamentale principio della democrazia, cioè della sovranità popolare. Il potere appartiene al popolo, ai cittadini, perché il potere politico si genera per una cessione di potere dei cittadini. Questo punto si chiarisce nella coscienza europea tra il ‘600 e il ‘700, e Beccaria lo esprime con fermezza; ma anche altri autori dell’illuminismo, Voltaire, Diderot, Rousseau. Il popolo lo può gestire direttamente, per assemblea, ed è democrazia diretta, la forma democratica più alta e più pura. Lo può gestire indirettamente, attraverso rappresentanti da lui eletti; ed è la democrazia parlamentare nella quale noi viviamo, e l’umanità intera (o quas’intera) vive, in questa fase; coi limiti e vizi che abbiamo sperimentato e sperimentiamo ogni giorno. Il fondamentale principio è che il potere popolare non deve diventare proprietà di nessuno, nessuno si deve poter insediare in una magistratura quasi fosse sua. Perciò il mandato dev’essere breve.

 

Ad Atene, la città in cui la democrazia è nata, pura forte, rigida anche, ogni mandato, di ogni tipo di magistratura, era di un solo anno. E vigeva un forte principio di rotazione, che molti cittadini vi passassero, che perciò ognuno lo esercitasse una sola volta in vita. Non v’era parlamento perché la democrazia era diretta, assembleare. E se qualcuno tentava di mantenere un posto, d’instaurare un potere, v’era l’ostracismo, veniva escluso dalla città. Tanta era la sollecitudine a conservare intatta la sovranità popolare.

E Atene non era una città piccola; i cittadini, i “liberi”, erano circa 100.000, come Lecce (anche se all’assemblea e alle magistrature partecipavano solo i maschi adulti, circa 30.000); ma con gli stranieri e gli schiavi raggiungeva i 500.000 abitanti. E con la Lega Attica aveva radunato attorno a sé, nel regime di democrazia diretta, circa 400 città. Un regime che dura  400 anni, fino al dominio romano. Un grande modello storico, un vertice mai più raggiunto; cui va il nostro desiderio e la nostra speranza.

 Si tratta dunque di conservare ciò che si è conquistato, e di migliorarlo, eliminando i vizi che infestano la nostra democrazia. Il doppio mandato del sindaco va bene, per ora: è un arco di tempo in cui, con la  giunta e il consiglio, si può operare fruttuosamente per la città. Di più no. Dieci anni sono molti, forse già troppi; vi si consolidano poteri, comportamenti, vizi. Ognuno dev’essere consapevole dei suoi limiti. Quindici anni non sono tollerabili. Anche nei piccoli comuni l’obiezione nasce più dai sindaci in carica che vogliono restarvi, che non dai cittadini; anche lì il potere non deve diventare proprietà di nessuno.

Il problema è grave per il parlamento, per i personaggi che vi s’insediano a vita, a tempo indeterminato, con totale mancanza di coscienza democratica. La Costituzione non prevede nulla; dovrebb’essere integrata su questo punto. Per il Parlamento europeo ha provveduto la legge del 2004, salve le eccezioni per i sindaci e i presidenti di provincia in carica e non immediatamente rieleggibili. Speriamo bene. Che la brama di potere e di denaro non abbia il sopravvento; che nei nostri politici maturi una più seria e severa coscienza etica, e autenticamente democratica.

                                                                                                        (Nuovo Quotidiano di Puglia, 2 ottobre 2006)

 

 

 

L’Islam: religione e violenza, e diritto di critica

di Arrigo Colombo

 

          La lezione di papa Ratzinger all’università di Regensburg ha suscitato una reazione spropositata nel mondo islamico, e di riflesso una discussione infinita in Occidente: perché conteneva una critica dell’Islam e del suo Profeta. La reazione era spropositata perché non solo muoveva le masse, ma coinvolgeva i governi, provocava violenze e delitti, e altri ne minacciava. E però c’era una ragione storica, in quanto per la prima volta, in tutta questa fase di rinnovata coscienza e identità del mondo islamico, una voce s’alzava; e non una qualunque, ma la più alta, la più autorevole, quella del sommo esponente del mondo cristiano, il Papa, e criticava l’Islam e il suo Profeta.

Nella parte iniziale della lezione – la quale trattava del rapporto tra fede e ragione – la critica del Profeta era contenuta nella citazione di un testo medievale; citazione generica, forse anche eccessiva nel giudizio sul Profeta (“soltanto cose cattive e disumane”). Di fronte alle reazioni, gl’interventi successivi del Segretario di stato Bertone, poi di Ratzinger stesso, non erano smentite – come usano di solito i politici – né tanto meno richieste di scusa o di perdono, ma espressioni di dispiacere per un incidente non atteso e non voluto. E però il punto chiave della citazione, il richiamo più forte nella fase attuale, era che la religione non deve diventare principio di violenza, “la fede non si può diffondere con la spada”.

 

Qui Ratzinger avrebbe fatto meglio a inserire una critica anche breve della società cristiana e del papato stesso; anche solo un accenno; allora il suo discorso  sarebbe stato forse più accetto all’Islam. Perché l’annunzio cristiano, quello evangelico, autentico, è annunzio di amore fraterno; è questa la legge, questo il precetto che in sé raccoglie ogni altro; e il Discorso della montagna, per eccellenza discorso programmatico, non ne è che uno sviluppo. Perciò la violenza è rifiutata. Perciò è detto: se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra; e se uno ti toglie la tunica, dagli anche il mantello. I passaggi famosi; ma anche i più obliati dalla società cristiana, dalla stessa gerarchia ecclesiastica, sino a tempi recenti. Perciò il concetto stesso di nemico perde senso; se il nemico dev’essere amato come fratello, e come tale beneficato. Della guerra non si parla, certo, perché è la più atroce violenza, il più atroce delitto collettivo, i fratelli che si scannano tra loro, il macello umano. Inconcepibile nell’ethos evangelico, e nello stesso ethos autenticamente umano. La guerra non è mai lecita; nemmeno la cosiddetta “guerra giusta”; la soluzione deve sempre essere trovata nella trattativa. A questo è maturata la coscienza umana e laica, dopo due millenni di cristianesimo che sono stati due millenni di guerra; questo sta scritto nel Trattato dell’ONU, la comunità planetaria dei popoli.

La chiesa aveva dunque nel vangelo una suprema norma di pace; ma non l’ha seguita. Non solo, ha usato per gran parte della sua storia la violenza: la tortura e il rogo per gli eretici, rifiutando anche il principio di libertà di coscienza; la tortura e il rogo per le cosiddette streghe; ma ha scatenato la guerra: sette crociate contro i musulmani, per un preteso diritto ai luoghi in cui era vissuto il Cristo; la crociata contro gli Albigesi, una guerra di vent’anni; quella contro gli Apostolici; le guerre per mantenere i territori dello Stato Pontificio; la benedizione di tante guerre, tanti eserciti.

 

Quanto all’Islam, la situazione è incomparabilmente più grave perché lì la violenza, e la guerra stessa, sono istituzionali. La “guerra santa”, la più atroce delle contraddizioni: uccidere per diffondere la fede nel “Dio clemente e misericordioso”; essere spietati per convertire alla misericordia. Non sta tra i “cinque pilastri”, le cinque fondamentali prescrizioni per il credente; ma è considerata il sesto pilastro: assoggettare all’Islam il mondo intero, convertire il mondo intero al Dio misericordioso scannando e massacrando. E sta nel Corano; non si venga a dire che il Corano è perfetto e le imperfezioni stanno fuori. “Combattete fino a che la religione sia quella di Allah”; “vi è prescritta la guerra; getteremo il terrore nel cuore degl’infedeli; uccidete gl’idolatri dovunque li troviate” (2,193; 2,216; 3,151; 9,5). E Maometto è un profeta, ma è anche un guerriero; e sottomette ad Allah, ma anche alla sua spada, l’Arabia intera.

 

Perciò l’eccezionalità del richiamo del Papa, la sua forza, la sua esemplarità. Non si può fare violenza in nome di Dio; l’Islam non può continuare ad uccidere, a massacrare, coi suoi attacchi, i kamikaze, le bombe, il massacro quotidiano in Iraq, la guerriglia talibana in Afghanistan; non può farlo in nome di Dio. Questo dovrebbero sottolineare i media; questo dovrebbero rispondere i capi di stato ai loro colleghi islamici; almeno quelli che hanno la coscienza pulita, che la guerra non l’hanno mai voluta, che non vendono armi in giro per il mondo.

L’altro punto, che implicitamente il richiamo papale contiene, è che l’Islam deve accettare la critica; deve imparare ad accettarla: la critica ai suoi comportamenti, ma anche la critica al Corano, la critica al Profeta. Come il cristiano e come ogni essere umano accetta critiche al suo pensiero e comportamento, alla sua fede, riservandosi una risposta verbale; o una risposta giuridica nel caso vi fossero offese o conflitti. Ma senza violenze personali né, tanto meno, collettive.

La violenza dev’essere bandita; le violenze reciproche del passato devono essere perdonate e dimenticate; le violenze del presente devono cessare, l’idea stessa di “guerra santa” dev’essere abbandonata, come l’idea del kamikaze-martire. La critica dev’essere accettata, serve a migliorarci. Ci vorrà tempo, ma è necessario che su tutto questo la discussione sia aperta; l’occasione offertaci da Ratzinger non deve andare perduta, si deve iniziare a discutere con franchezza sui vizi dell’etica islamica, come su quelli dell’etica cristiana e dell’Occidente.

Restano alcuni grossi problemi da risolvere, come quello d’Israele-Palestina, quello iracheno, quello afgano; l’Occidente come l’Islam devono impegnarsi a comporli, superando gli errori commessi. In particolare gli Stati Uniti devono abbandonare la loro aggressività e la loro pretesa di egemonia.

Con gl’islamici siamo fratelli. Dobbiamo imparare a vivere da fratelli.   

                                                                                        (Nuovo Quotidiano di Puglia, 24 settembre 2006)

 

 

Basta coi mercatini dei libri scolastici

di Arrigo Colombo

 

           Un bel giorno mi sono accorto dell’esistenza di questo particolare mercato, in cui i ragazzi si liberavano dai libri su cui avevano studiato, per qualche soldo. Forse esistevano anche prima, ma non erano ancora entrati nello spazio mediatico. Il fatto mi ha stupito, mi ha un po’ indignato; mi sono ricordato di un detto lombardo per gl’ignoranti: “ha dato i libri in pasto alla vacca”; anche se il detto sottintende “prima di leggerli”.

Si ha un’impressione di sciatteria, di superficialità, di scarsa sensibilità culturale, e insomma d’ignoranza; di un giovane popolo ignorante che così sta crescendo, liberandosi dai libri. Perché il sapere, anche se lo si è acquisito con amore e determinazione, lo si conserva solo in parte, la memoria è limitata e fragile, anche la migliore. Il libro su cui si è studiato, si è lavorato, sottolineando, annotando, ricostruendo anche per iscritto, resta sempre un fondamentale punto di riferimento. Il sapere acquisito sta in parte nella memoria, in parte nel libro da cui lo si è attinto; e lì lo si ritrova facilmente, ogni volta che se ne abbisogna; perché ci è  familiare, perché interviene la memoria visiva, per molti motivi. Quel libro è una parte del nostro sapere, una parte importante di noi stessi.

 

Perciò dev’essere anzitutto acquistato; e certo non assecondano la formazione culturale ed umana del cittadino quegli enti – siano comuni o regioni od altro – che istituzionalizzano il prestito dei libri; per cui lo studente avrà il libro di testo giusto per quell’anno, poi lo dovrà restituire.

Il testo dev’essere acquistato e conservato; almeno in ognuno dei cicli in cui la scuola si articola; nella misura in cui il sapere lungo questi cicli si ripete allargandosi e approfondendosi. Ma si ripete in parte soltanto: vi sono materie che non ritornano più; vi sono classici che non ritornano, se ne studiano altri. Ma quelli studiati sono preziosi, altamente formativi della lingua come dello spirito: Leopardi ad esempio, Petrarca. Non parliamo di Omero e Virgilio, tre grandi poemi che un tempo si leggevano insieme nel ginnasio e nutrivano intensamente lo spirito, lo stimolavano, lo crescevano.

E, certo, più di tutti devono essere conservati i libri della scuola superiore, del Liceo. Quelli valgono per sempre, costituiscono sempre il punto di riferimento del sapere. La letteratura italiana, la storia della filosofia, le matematiche, la fisica, la chimica, le scienze naturali.

 

La svendita dei mercatini è anche l’indice di un altro fatto negativo che è il disprezzo del libro come tale; disprezzo o indifferenza; cui seguirà poi nella vita la disattenzione al libro, al suo uscire, al suo presentarsi in libreria. E quindi la povertà culturale, che poi è povertà umana. Il professionista chiuso nel suo stretto ambito e che ignora la continua e stupenda creatività umana, del romanzo, della poesia, dell’arte, della musica; i problemi etici, storici, politici su cui l’umanità s’impegna e si travaglia; di cui ha soltanto qualche distorta eco televisiva. Ma non legge, non riflette, non approfondisce; dice di non aver tempo, ma ognuno trova tempo per ciò che gl’interessa.

 

Veniamo alle famiglie, poiché si dice che il corredo di libri di un anno di scuola è costoso, anche molto; e il mercatino lo allevia. Ma le famiglie, sotto la spinta del consumismo imperante, spendono e sprecano tanto. Pensiamo anche solo ai telefonini, una vera voragine di denaro; e la povera Italia è quella che ne ha di più e più denaro vi spende; pensiamo ai banchetti di battesimo, cresima, comunione con decine d’invitati. Ma l’Italia è poi arretrata nei quotidiani e nei libri, il che vuol dire ignoranza; e l’ignoranza è un grosso pericolo per l’economia come per la democrazia, e noi ne abbiamo fatto un’esperienza amara.

Veniamo ai professori, che hanno in proposito la responsabilità maggiore perché ad essi tocca il compito formativo: la formazione alla cultura, all’amore e all’impegno culturale. Che pensano di questi obbrobriosi mercatini? li assecondano? li contrastano? Ma la loro azione formatrice dovrebb’essere tale da eliderli. Questa formazione è dunque carente, il mercatino ne è un segno. Certo, un rimedio estremo sarebbe quello di cambiare testo ogni anno; ma sarebbe un rimedio esteriore ed esteriormente coercitivo; eppoi impossibile, perché le materie richiedono anche una continuità di testo. Non credo si possa studiare la letteratura italiana un anno sul Flora, l’altro sul Sapegno, il terzo sul Ferroni.

Gli editori sembra ci vengano in aiuto cambiando spesso i loro testi; anche se forse lo fanno per lucro, più che per amore alla cultura. Inoltre di norma il nuovo testo dev’essere per il 30% diverso dal vecchio, richiede una consistente rielaborazione.

La responsabilità maggiore è dei professori, dei presidi, degli apparati scolastici. A loro va il nostro appello affinché dal prossimo anno i mercatini scompaiano.

                                                                      (Nuovo Quotidiano di Puglia, 18 settembre 2006)

  

 

 

Una nuova politica europea di pace

di Arrigo Colombo

 

           L’azione condotta nelle scorse settimane dal Governo, in particolare dal Ministro degli esteri D’Alema, al seguito della dura aggressione d’Israele al Libano, è stata intelligente ed efficace. Si trattava anzitutto, dopo la decisione del Consiglio di sicurezza, di mobilitare quella forza di pace dell’ONU che era indispensabile per assicurare incolumità e tranquillità a quei territori, garantirli da ulteriori incursioni israeliane, sedare l’attività militare degli Hezbollah; onde avviare la ricostruzione e risolvere gli altri problemi pendenti, in particolare il disarmo della milizia e l’ingerenza della Siria.  

C’era quella strana perplessità della Francia, che pure col Libano aveva un rapporto affatto particolare, un debito, essendo stato sotto la sua amministrazione per oltre vent’anni; e che del resto s’era tanto battuta in sede di risoluzione ONU. Perplessità che bloccava un po’ tutto, e che il nostro Governo ha superato con la sua decisione d’inviare in Libano una forza consistente, 2000  uomini; e sviluppando una serie d’incontri coi paesi del Medio Oriente; ciò che ha conferito all’Italia una specie di leadership morale e l’ha candidata anche alla leadership di fatto. E ha smosso quindi la Francia, il suo orgoglio ben noto, e anche gli altri paesi; poiché la forza prevista era di 15.000 uomini. E ha smosso l’Europa, la sua consueta inerzia in politica estera, o le sue persistenti divisioni, col gruppo che procede al rimorchio degli USA, a cominciare da quel portaborse di Blair, il politico che più ha deluso negli ultimi anni.

 

Si profila dunque il compito di una politica europea nel mondo; nel Medio Oriente anzitutto, ma non solo. Una politica di pace, di pacificazione. L’Europa essendosi costituita come una comunità di fraternità e di pace; che deve diventare un centro di pace nel mondo, un grande fattore di pace. Questa coscienza e questo compito deve crescere e diventare esplicito e operante negli organi istituzionali europei, cioè nella Commissione, nel Consiglio dei Ministri degli esteri, nel Consiglio d’Europa. E l’Italia deve premere in questo senso, deve assumere una leadership morale anzitutto in quest’azione interna per fare dell’Europa un reale centro e fattore di pace a livello planetario.

Ora c’è questo problema della pacificazione del Libano; che però porta con sé la pacificazione di tutta quella zona; a cominciare dal punto più spinoso del rapporto Israele-Palestina, il cuore del problema, il punto di più forte risentimento del mondo islamico. Questo rapporto non può essere lasciato incancrenire ulteriormente, come hanno fatto gli USA con la loro fantomatica road-map, in realtà la connivenza con Israele cui tutto è consentito, dalle colonie alle sortite omicide, all’occupazione militare; come se i diritti degli altri popoli non esistessero, la loro autonomia, la loro intangibilità. L’Europa deve capire che, con questa lacerazione aperta, non potranno esser risolti gli altri spinosi problemi, l’interferenza della Siria (che tra l’altro aspetta la restituzione del Golan), l’aggressività dell’Iran.

Anche il problema del terrorismo è legato a questa lacerazione e al risentimento ch’essa provoca, nei giovani specialmente. L’Europa deve capirlo, e farlo capire agli USA, che il terrorismo non si affronta con la guerra, con l’aggressione agli «stati canaglia»; semmai con la guerra lo si attizza. Si affronta invece con una decisa azione pacificatrice.

 

Vi sono altri punti estremamente gravi, dove l’azione si prospetta ancora più complessa e difficile. Anzitutto gli arsenali atomici, enormi, paurosi, 8.000 ogive negli USA, 7.000 in Russia. Che ci stanno a fare? davvero qualcuno pensa che possano essere usati? semmai stimolano altri popoli a dotarsene: perché gli USA, la Francia, l’Inghilterra, Israele e non l’Iran? C’è un principio di equità, di pari diritti dei popoli. E perché i trattati USA-URS di demolizione degli armamenti sono stati abbandonati? da lì deve riprendere l’azione.

Poi ci sono le basi militari americane nel mondo. Che sono centinaia. Una presenza capillare che sostiene la velleità egemonica di quel paese – della Destra specialmente, cui appartiene Bush, il cristiano guerrafondaio –. Queste basi devono essere smantellate; i paesi che le ospitano devono iniziare un’azione di rifiuto, di liberazione; come ha fatto da noi la Sardegna. Poiché il detto antico «si vis pacem para bellum» è totalmente falso; la storia prova che quanto più si possiedono armi, tanto più si è portati ad usarle.

V’è poi il commercio degli armamenti; che tra l’altro nutre i focolai di guerra che tormentano molti poveri e sventurati paesi africani; o le varie milizie sudamericane di pseudo-liberazione. Dove anche i paesi europei sono implicati, a cominciare dalla Francia, grande fornitrice delle sue ex-colonie. Ma anche l’Italia.

Una commissione europea per la pacificazione dovrebb’essere creata, organo di progetto e di azione; sulla base di una rinnovata coscienza europea di pace.

                                                                         (Nuovo Quotidiano di Puglia, 11 settembre 2006)

  

 

Basta con amnistie e indulti per tutti

di Arrigo Colombo

 

            Certo, il modo in cui è stato votato quest’indulto non può non riempirci di vergogna; votato da una specie di “armata Brancaleone”, aggregatasi per i più disparati motivi; che non stiamo ora ad elencare, ma in cui entravano certo l’interesse proprio, e dei colleghi o complici, delle potenti lobby. Poiché l’indulto si applicava anche ai reati finanziari e fiscali, ai reati contro la pubblica Amministrazione, al voto di scambio. E qui non si capisce proprio come un governo che dice d’ispirarsi ad alti principi etici, a principi di risanamento del dissesto amministrativo, di riforma del costume di frode allo stato, di ricostruzione dell’integrità del cittadino, ve li abbia inclusi. E si capisce invece la dura lotta condotta da Di Pietro affinché fossero scartati; e la delusione di D’Ambrosio, anch’egli fiero avversario di Tangentopoli, da poco entrato in parlamento, che dice “oggi non mi candiderei più”. L’avversione e la delusione di tanti.

 

Chi ha voluto quest’indulto? Il papa, si dice, dai tempi del giubileo dell’anno 2000; come partecipazione dello stato a quell’antico atto di pacificazione che si rinnova ancora ogni 25 anni. Ma un atto di pacificazione può compiersi in molti modi, più fattivi di un indulto carcerario; inoltre il papa doveva più giustamente chiederlo a tutti gli stati, la chiesa essendo cattolica, cioè universale; doveva chiederlo all’ONU, alla comunità planetaria degli stati. Perché premere sempre sullo stato italiano, in questo come in molti altri casi?

Col papa l’ha voluto Mastella, un politico ambiguo, molto clientelare, che si è fatto un feudo nella sua Irpinia, e che nel nuovo governo è diventato ministro della giustizia; nientedimeno! Ha voluto così sfoggiare la sua fedele cattolicità, e il suo nuovo potere. E con lui una parte del parlamento cattolico, quella più legata alla gerarchia, più sollecita della sua protezione e del suo sostegno; a sinistra come a destra, nel centro bifronte. E altri, certo, con altre e più pure intenzioni, solleciti di gente che in carcere soffre per piccoli reati dubbi o inesistenti: come gl’immigrati “clandestini”, i drogati, i piccoli spacciatori.

Ma il popolo non l’ha voluto; il popolo sovrano l’ha respinto in termini plebiscitari, al 94, al 95,2 per cento. Per motivi ovvii, e giusti: l’incertezza stessa del parlamento in cui si subodorava “l’inciucio”; motivi di sicurezza, in quanto con l’indulto ritornava improvvisamente in circolazione una massa di omicidi, rapinatori, ladri di professione; e il fatto massivo era certo preoccupante. Il governo e il parlamento hanno calpestato la volontà popolare, hanno compiuto un atto profondamente lesivo della democrazia.

 

Ciò che anzitutto si rimprovera a provvedimenti del genere è proprio il carattere massivo, e quindi la mancanza di selettività. L’unico criterio è temporale, i tre anni di sconto che si applicano a tutti; tranne i reati che per tutti sono stati esclusi. Ne vengono situazioni odiose. Come quella dei poliziotti che a Genova hanno umiliato e percosso (nella scuola De Amicis, nella caserma di Bolzaneto) ragazzi che soltanto manifestavano per una società più giusta e pacifica; e che probabilmente non saranno puniti. O i responsabili del disastro aereo di Linate (118 morti). O gente sfuggita alla pena involandosi all’estero.

Il carattere massivo rende difficile, se non impossibile, la preparazione dell’uscita dal carcere e il reinserimento nella società. Un punto particolarmente spinoso, perché provoca poi la ricaduta nel crimine. Un punto su cui il lamento da parte degli esperti è stato unanime. È vero che dell’indulto si parlava da anni, ma come di un fatto improbabile nella precedente legislatura; mentre ora è giunto improvviso; né parlamento e governo se ne sono preoccupati. Il reinserimento è un problema complesso, che deve studiarsi caso per caso; richiede commissioni di studio, richiede tempo, misure opportune, denaro.

Il parere più diffuso è che – a parte il papa – motivo di quest’indulto sia lo sfoltimento delle carceri: le carceri sono strapiene, con l’indulto se ne va un terzo dei detenuti, le carceri respirano. Ma è un motivo puramente strumentale, che nulla ha a vedere con il senso della colpa e della pena; è piuttosto un non-motivo, per una cosa da non farsi. Un motivo cinico e inumano. Inefficace, poi, anche sul piano strumentale, perché gli esperti prevedono che fra sei mesi il sovraffollamento ci sarà di nuovo.

 

Amnistia e indulto sono previsti dalla Costituzione; ma la loro generalizzazione è intesa solo come atto eccezionale, in momenti eccezionali in cui la società cambia, e cambia anche il senso del reato (si veda la discussione dell’Assemblea Costituente su questo punto). In un moderno stato di diritto, che garantisce il giusto processo, ma anche la certezza della pena, come il suo carattere medicinale e le misure di giusta remissione, amnistia e indulto a carattere massivo non hanno più senso. Appartengono piuttosto all’età delle monarchie, del dispotismo, dell’arbitrio penale; quando la pena proveniva da un atto abusivo del monarca e del suo apparato, e la liberazione da un atto di benevolenza sovrana.

Altre sono le misure da prendere, su cui deve impegnarsi a fondo il governo, se non l’improvvisato ministro Mastella. Ne indico tre. La depenalizzazione di una serie di reati minori, misura non  difficile. Lo sveltimento del processo, che dev’essere attentamente studiato e riformulato; ma ha contro di sé un costume secolare, di magistrati e avvocati e burocrazia, la tattica del rinvio, il passaggio delle carte (nonostante i computer). La riforma carceraria, cioè un nuovo modello di carcere che abbia una vera capacità di ricostruzione morale del cittadino, della persona; un’impresa ancora più ardua. È lecito sperare? Basteranno i cinque anni?

                                                                                (Nuovo Quotidiano di Puglia, 7 agosto 2006)