Oliver Stone

 

Grande maestro del cinema americano. Singolare la sua passione civile, la sua attenzione alla vicenda politica.

 

 

 

Indice:

World Trade Center, 2006

Ogni maledetta domenica, 2000

The Doors, 1991

Nato il 4 di luglio, 1990

Wall Street, 1988

lk Radio, 1988

Salvador, 1987

Platoon, 1987

 

World Trade Center

Al Massimo di Lecce il 14/10/06.

Forse la parte più originale del film è la prima, l’alba, la luce che avanza, lo svegliarsi della gente, i treni che arrivano, l’accrescersi della luce.

La tragedia delle Torri gemelle aveva già avuto la sua incomparabile visione mediatica nel suo stesso accadere, il grande e terribile evento che accadeva e insieme si consacrava e dolorosamente si celebrava ovunque nel mondo. Impossibile riprenderlo nella sua grandiosità e nella sua tragicità.

Stone si concentra allora su di un piccolo frammento, la vicenda di una squadra di pompieri che arriva sotto le torri che già ardono, e vi entra sotto per compiervi la sua azione di salvataggio quando già crollano. Troppo tardi; né si comprende come tutto quel tempo si sia consumato.

Allora il frammento si restringe ancor più: è la vicenda di due pompieri semisepolti sotto le macerie, la loro resistenza, le frasi che si scambiano, la scoperta, il salvataggio. In controcanto con le famiglie che attendono, ricevono la tragica notizia, tra speranza e disperazione, e infine la gioia.

V’è l’eroe marine che, visto il fatto, riveste la sua divisa e si porta sul luogo per dare il suo aiuto; ed è lui che scopre i due sommersi, nel crepuscolo del mattino ne ode le voci.

Il frammento ha una sua tensione e forza; e lo spettatore, che ha vissuto l’evento, ve lo colloca, e lo carica della tragedia nella sua interezza. Ma nel frammento Stone si è piuttosto smarrito, pur nella passione civile che lo caratterizza e che anima i suoi film.

 

Ogni maledetta domenica

Al Massimo di Lecce il 16/04/2000.

Opera di grande respiro, grande visività, anche se spesso sminuzzata in un luccicante frenetico rincorrersi d’immagini senza senso. Specie nella prima parte, la folla mondana, o quella sulla spiaggia; talora si frappongono un istante come ricordi, o si sovrappongono; ma all’inizio la visione pacata e luminosa della città notturna, i grandi edifici tenebrosi e luminosi.

Opera corale, concentrata su quel gioco un po’ stupido e molto violento che è il football americano, che ritorna  e ritorna senza che se ne possa capire molto perché la vicenda del gioco non è seguita con chiarezza. Ritorna l’immagine insistente della buffa palla ovale che sale nel cielo e lentamente scende. Più interessanti gli spogliatoi, i discorsi dell’allenatore, le ammonizioni, quell’ammasso di corpi e di muscoli, quella forza bruta.

E però un allenatore (Al Pacino) troppo nervoso e nevrotico par sostenere e placare psicologicamente la squadra, e costruirvi la collaborazione e l’unione, che sarebbe il grande obiettivo. Che però non è sentito né vissuto. Separato dalla moglie, l’allenatore vive solo, nevrosi su nevrosi, squallido, si sfoga casualmente in incontri venali.

Accanto, la giovane proprietaria della squadra che ha ereditato dal padre (Cameron Diaz), troppo giovane per reggere la parte, per sedare le nevrosi. mentre la folla si fa presente di tanto in tanto, con bordate sullo stadio colmo, intensa ma casuale.

 

The Doors

Al Santa Lucia di Lecce il 12/10/91.

La storia di Jim Morrison e del suo complesso, il cantante che muore a ventisett’anni distrutto dall’alcool, dalla droga, dal disordine e dall’esasperazione del vivere; avendo già rinunziato al canto, al gruppo.

Il canto che si esaspera sulla nota, sulla ripetizione, sulla danza ossessiva fino a caderne esausto. Panico, sciamanico, orgiastico. Trascina con sé i ragazzi, le ragazze nell’orgia dei suoni, dei gesti, le ragazze che si denudano tra la folla come angeli di carne. Un’orgia di suoni, di colori, d’immagini,

Un film inusuale che nulla racconta; piuttosto circolare come la musica stessa; i concerti, la vita disordinata esasperata, la bottiglia sempre in mano, sempre a bere, la droga, il sesso; circola qui questo mondo sempre uguale (solo, di passaggio, il ritratto di Andy Warhol, spettrale, come di un revenant, freddo, glaciale).

Jim Morrison, figura di trascendente forza e bellezza, di un trascendente canto e gesto; corroso però dal vizio. Parte come un profeta, come ispirato dalle anime degl’indiani che contemplò morti nell’incidente da bambino, passate in lui; parte dal deserto, dalla meditazione. E si ritrova «un mostro», si disprezza, affonda nel vizio e nel disprezzo, nell’autodistruzione.

 

Nato il 4 di luglio

Al Massimo di Lecce il 10/03/90.

C’è un libro dietro qui, una storia vera. Il ragazzo che fin da piccolo è cresciuto nel culto della guerra e della nazione, nazione e guerra, la nazione che non ha perso mai una guerra, in una famiglia religiosissima e però votata a quel culto.

Il ragazzo è andato volontario in Vietnam; dove ha perso l’uso delle gambe e del sesso, dove ha ucciso per errore un compagno. Dalla sete di gloria all’orrore del corpo e dello spirito: immobilità, impotenza, rimorso. Epopea per grandi tremendi quadri: l’ospedale squallido e sporco, dove circolano i topi, dove gl’infermieri assomigliano a macellai; il ritorno a casa, la pseudocelebrazione, la ribellione, il grande bordello messicano attrezzato apposta per questi reduci paralizzati e impotenti, il punto più basso dell’abiezione.

Dove si ridesta la sua coscienza, che la guerra è male, che si deve lottare per la pace; e parte la lotta, l’impegno, la sua storia scritta che commuove la nazione, il trionfo finale.

Tom Cruise, il ragazzo, il salire del suo tormento, di una rabbia che si fa universale. L’impotenza spirituale di una famiglia molto religiosa ma molto formale, morta ai valori veri. La grandezza di un paese non sta nella guerra, nella potenza, nella sopraffazione; sta invece nella volontà di pace. Nel ragazzo ancor sempre tormentato di risentimento e di rabbia, non ancora puro, libero.

 

Wall Street

All’Ariston di Lecce il 13/03/88.

Stone, nella sua passione civile, aggredisce Wall Street e il mondo della finanza statunitense. Un magnate della speculazione, uno di quei gangster ricchissimi e stimatissimi, che s’impadroniscono delle imprese per rapinarle, che giocano ogni giorno sul denaro degli altri – e su ciò che di dolore umano il denaro contiene – per impadronirsene (Michael Douglas in un grande ruolo).

Ha conosciuto un giovane agente e lo vuole lanciare, ai grandi successi, grandi e sporchi guadagni, farlo correre come un cavallo, carpendo attraverso lui segreti, coinvolgendo altri nelle sue imprese truffaldine, fino a quando si tratterò di demolire l’impresa in cui lavora il padre, un meccanico di aerei.

Il giovane sale nel firmamento della ricchezza e della disonestà – e a quel punto si ferma perché ha di fronte e contro di sé il padre, il suo lavoro umile e onesto. Conosce gli schiaffi del boss infuriato, il carcere. Che cosa può sperare?

Film ambiguo. Il successo del potente è sicuro, intoccabile. Proprio qui l’errore, in questo trionfo inarrestabile dei corvi che divorano carogne. Il giovane però lascerà il mestiere disonesto. 

 

lk Radio

Del 1988. Un film sui talk show notturni delle radio. Il giovane ebreo dalla parola pronta, dallo spirito aggressivo e sarcastico, che discorre coi suoi uditori, fan, detrattori, nemici aperti. Non certo un tipo simpatico, anche se il suo programma ha fortuna, ha pubblico, e sta per passare da Dallas ad una rete nazionale.

Un film tutto giocato sul dialogo radiofonico, tranne due brevi tratti, sul suo ingresso in radio dal negozio di abbigliamento che gestiva; sulla visita della moglie da cui è separato e con cui resta ancora un certo feeling.

Ma quasi tutto il film si svolge sul filo della trasmissione, su quest’unico filo, che può riuscire anche noioso.

Ciò che soprattutto stupisce, in un regista come Stone, è l’assenza d’itinerari forti, di problemi politici ed umani, di valenze etiche. Il discorso si smarrisce in interventi episodici, in abili risposte sempre forti e personali, ma di livello mediocre.

Il ragazzo infine viene ucciso a colpi di pistola da un tizio che gli si accosta chiedendogli l’autografo. Ed è anche la conseguenza della sua aggressività, dell’arroganza di sempre.

Un film che non convince, povero d’idee e d’impegno.  

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Salvador

Al Politeama di Lecce il 2/05/87

Opera eccelsa, molto meglio di Platoon, anche se meno famosa. Di un dinamismo, una vicenda che si dipana rapida, convulsa, caotica. Il caos di una nazione. Con un protagonista che nel suo caos riflette e anticipa e adempie quel caos: alcool, marijuana, sesso; sempre senza soldi, sempre sbattuto di qua e di là, una vita convulsa, un antieroe che non riesce neppure a rendersi simpatico. Anche se ha – sembra – un vero amore, una ragazza salvadoregna, e per lei persino si confessa e comunica. Ma soprattutto ama l’America come ideale di democrazia (la Costituzione, le libertà civili), e affronta il pericolo per il suo paese, come l’ha affrontato in Vietnam.

L’omicidio di Romero mentre distribuisce la comunione; il ragazzo colpito di pistola alla testa semplicemente perché non ha la carta d’identità, i massacri. Gli USA, , la speranza per questi popoli oppressi, la forza del suo aiuto. E però l’America di Reagan, , l’America ottusa dell’anticomunismo viscerale, della pseudodemocrazia, dell’ordine ipocrita.

Film coraggioso. Quest’America oggi è condannata, mentre Reagan è ancora al potere. Sofferenze senza fine, pericoli ad ogni passo. Finale amaro. Su di una strada di California la giovane salvadoregna sarà sequestrata da una pattuglia di polizia e rispedita indietro. Il dolore si consuma in un paesaggio serale, calmo, monti lontani, cielo limpido.

 

Platoon

Al Massimo di Lecce il 19/04/87.

Un plotone nella guerra del Vietnam; una giovane recluta, ragazzo di college, nella sua prima esperienza di guerra. Gli altri sono poveri, a stento hanno fatto la seconda media, la guerra la fanno i poveri.

È il ’69, la fine, la sconfitta. Si combatte solo perché si è lì, non si può farne a meno; ma non c’è più né speranza né orgoglio. La giungla, l’impenetrabile, il mistero, il rischio ad ogni passo. Il Vietcong invisibile, il tranello, l’attacco improvviso. Il villaggio, l’enigma della lingua, della mentalità, dell’ostilità. Una cosa tutta sporca, lurida, un linguaggio tutta di merda culo cazzo. Gli atti di ferocia inutile, di risentimento, di sfogo: l’uomo la cui testa è sfondata a colpi rabbiosi di calcio di fucile, la donna uccisa senza motivo, la bambina con la pistola alle tempia. La vigliaccheria e vendetta interna, si uccidono tra loro; anche il ragazzo Taylor compirà la sua vendetta sul sergente arrogante e crudele che ha ucciso il compagno. La più sporca guerra, la più abbrutita e brutale, in un pugno d’uomini sempre in lotta con la morte.

Il ragazzo racconta, le sue lettere, qualche brano troppo lungo all’inizio, alla fine la speranza: che questo nostro lottare e soffrire serva a tutti gli altri, ad essere migliori, a dare un senso all’esistenza.

Non v’è musica, solo rumori e silenzi. Stile secco, rapido, rabbioso; quasi un film verità. Il Cacciatore era più intenso? più epico? più umano?