Federico Fellini

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Qui i primi film del grande maestro, che sono anche i migliori

I vitelloni, 1953

Le notti di Cabiria, 1957

Otto e mezzo, 1963

Giulietta degli spiriti, 1965

 

I vitelloni

1953, il secondo film di Fellini (dopo Lo Sceicco bianco), il primo davvero significativo.

La desolante vita di cinque ragazzi di una città di provincia, cinque amici che passano il tempo tra il bar, il biliardo, le feste. Mediocrità, ignoranza, amoralità. Siamo a Rimini, la patria di Fellini.

Spicca nel gruppo Fausto (Franco Fabrizi), il libertino che ha messo incinta la ragazza e appena saputolo vorrebbe squagliarsela a Milano, col pretesto di un lavoro. Ma ha un padre severo, inesorabile, pronto a prenderlo a cinghiate, che lo blocca e gl’intima il suo dovere, sposare la ragazza. Il libertino che, al cinema con la giovane moglie, vista una donna interessante, con un pretesto esce e l’abborda, anche se inutilmente. Che la notte di carnevale, al gran ballo, scopre le spalle nude della sua padrona, la moglie del venditore di oggetti sacri dove lavora, e tenta sedurla; e così perde anche il lavoro. Si vendica rubando dal negozio un angelo di legno dorato, ma non riesce a collocarlo. È scoperto, subisce il rimprovero del suocero e le cinghiate del padre, quindi la fuga di Sandra con la bambina, che esasperata si nasconde da una parente; ma è ricercata dappertutto nel timore di un suicidio. Franco, il presuntuoso immorale e cinico, che la nemesi colpisce duramente.

Alberto (Sordi) è un mammone che vive a spese della sorella Olga, l’unica che in famiglia lavori; e ch’egli rimprovera per la relazione con un uomo sposato, che però la vuole sposare e con cui se ne andrà. Alberto che irride a un gruppo di lavoratori, il fannullone vantoso.

Oltre il carnevale, v’è il teatro, e vediamo la recita ridicola di un presunto anziano attore, cui l’intellettuale Leopoldo affida una sua opera di scrittorello di provincia, con grandi speranze che vanno deluse.

La vicenda culmina nella fuga di Sandra e chiude con la partenza di Moraldo, suo fratello, ragazzo alquanto più serio ma debole, che però riesce nella decisione.

Un grande film, che colpisce con forza  il parassitismo e l’immoralità giovanile. Film di grande invenzione, grande tenore morale.

 

 

Le notti di Cabiria

1957. Un’altra grande interpretazione di Giulietta Masina. Migliore interpretazione femminile a Cannes 57; Oscar al  migliore film straniero 58.

Un altro film di vita grama, umiliata nella prostituzione, vita sospesa tra speranza e disperazione, e che raggiunge l’estremo del tradimento e dell’abbandono: “ammazzami, ammazzami – implora –  non voglio più vivere”.

“Fa che cambi vita”, che possa cambiare vita, aveva implorato davanti alla Madonna del divino amore. Ma la vita non cambia, il miracolo non avviene. In quell’episodio di tipica cattolica devozione mariana (un episodio simile ne La dolce vita) di processione con stendardi e statue, e accorrer di gente, e implorazione delle prostitute tutte col cero acceso (anche Wanda, che la Madonna mi faccia la grazia), di stampelle e corpetti appesi segni di miracolo, e lo storpio che tenta reggersi come miracolato e cade, e la scampagnata finale. Ma anche la processione di fedeli a piedi scalzi, e l’altra piccola e lontana che si perde nei prati. Dove la superstizione e la religiosità popolare esteriore perduta dietro a madonne e santi si mescola con la fede vera.

Il film inizia così come finirà, col tradimento: il Giorgio che coltiva l’amicizia di Cabiria per un mese, il suo uomo, cui lei tutta si abbandona, i suoi ritratti sul cassettone, i vestiti che gli ha regalato; e che a certo momento le strappa la borsa e la spintona nel fiume, dove lei grida aiuto e quasi annega. La salvano dei ragazzi che si tuffano; degli uomini che la soccorrono, le praticano la respirazione artificiale. E quando lei si riprende subito si libera e se ne va quasi sdegnosa (“ti abbiamo salvata noi”, la rimproverano), ha dentro il risentimento e lo sdegno; che calmerà la sera bruciando tutto di lui.

Perché questa Cabiria è un caratterino singolare, non facile al sorriso, piuttosto alla smorfia; un caratterino sdegnoso, facile all’invettiva, segnato di amarezza e di sfiducia. Che altro le può riservare la vita?

Dopo il primo, breve e tragico, l’episodio dell’attore famoso che, abbandonato dalla sua donna invita lei, con toni spicciativi e burberi, da padrone; nel night club, nella sua casa. Dove la piccola si trova sperduta,  umiliata, e anche si risente. Episodio sbagliato, fuori luogo.

L’episodio del santuario. L’episodio dell’illusionista su cui s’innesta la vicenda conclusiva, forse un po’ inverosimile: quest’uomo, che si dice ragioniere e che ne coltiva con tanta cura l’amicizia, gl’incontri, il linguaggio troppo nobile e puro, improbabile. Che la conduce fino alla promessa di matrimonio e alla decisione di vivere con lui; sì che lei vende la sua povera casa (un locale in un pezzo di casa non finita, sperduto nella desolazione del suburbio, dei terreni incolti); vende la casa e tutto e arriva da lui con due valige. E la conduce su di un paese in alto, dove cenano e lui è già cambiato, il volto già oscuro e duro (troppo rapido il mutamento); e attraverso un bosco la porta sul ciglio del monte, scosceso sul mare e le chiede se sa nuotare. E lei capisce che vuole una sola cosa, il suo denaro che gli ha mostrato e contato, 460.000 lire, tutto quello che le resta anche per la vecchiaia, e glielo lascia, la borsa, tanto forte è la delusione, la disperazione; e si getta per terra invocando la morte, “ammazzami, ammazzami”, e il vigliacco fugge via correndo. Così per terra si rotolano i vinti di Fellini, Zampanò prima, poi il truffatore Augusto, poi Cabiria.

Ma il finale in certa misura s’illumina di tenue luce. Cabiria, che disperata cammina lungo il bosco, è circondata da un gruppo di ragazzi e ragazze che suonano e danzano, anche intorno a lei. Ha una lacrima disegnata sulla guancia, ma sorride, ancora una volta sorride.

 

 

 

Otto e mezzo

Del 1963. Il titolo proverrebbe dai sette e mezzo (l’episodio di Boccaccio 70) film fatti prima; questo sarebbe l’ottavo e mezzo. Titolo banale. Oscar al migliore film straniero 1964.

Collocato in una stazione termale grande immensa, abitata da bianche figure in abiti estivi, in bianchi lenzuoli, donne anziane che bevono acque salutari, talvolta uomini che affondano nella nebbia delle inalazioni in cavità sotterranee. Ciò che accentua l’effetto straordinario del bianco e nero, e insieme l’effetto fantasmatico e surreale.

Qui un regista, Guido Anselmi (Marcello Mastroianni), che ha concepito un grande film per il quale già le attrezzature sono pronte; un grande regista, conosciuto, stimato; è venuto a curarsi, cercando insieme nell’ozio di questo luogo una possibilità di raccoglimento e di pensiero. Perché l’idea del film gli si è come dissolta ed egli pensa di ritrovarla (è perseguitato per tutto il tempo da un critico francese che dissente; e, bonariamente, dal produttore amico che ha già investito 80 milioni); ma ha anche bisogno di rifare ordine nella sua vita.

Così passa la prima parte del film in cui quasi nulla accade. Salvo la venuta di Carla, una donna cui è legato e che però, ipocritamente, fa alloggiare in un altro albergo; e che resta quindi al margine. E l’incontro col cardinale cui egli rivolge l’ingenua domanda “perché sono infelice?”; cui il cardinale non sa rispondere, mentre ribatte per tre volte l’assurdo e però affermato principio “fuori della chiesa non v’è salvezza”.

Forse una vicenda inizia quando Carla gli chiede “perché mi hai fatto tua?”; cui egli non risponde. E con l’arrivo della moglie Luisa, ch’egli aveva invitato per telefono e cui si rivolge sempre con dolcezza; ma che cova in sé il risentimento, è dura, e quasi subito lo lascia, definitivamente si direbbe. Inizia la vicenda del suo problematico rapporto con la donna, le molte donne; un rapporto di cui non si conosce molto, prevalentemente estetico e affettuoso?

In cui rientra anche una lunga scena di ricordo e di colpa: Soreghina, la prostituta dal corpo enorme, che abita in una baracca su di una spiaggia e cui i ragazzi danno del denaro affinché balli e canti (sguaiatamente) per loro; e tra questi ragazzi c’è il piccolo Guido, seminarista, che due preti poi inseguono e acciuffano e riportano in  seminario, dove deve confessarsi (ci sono grandi e severi confessionali che spiccano sul bianco della sala) e dove viene punito in ginocchio su pietruzze..

E v’è poi la grande scena onirica in cu si ritrovano tutte le sue donne, e lui tra loro, mentre si bagna in una grande tinozza; e c’è anche la moglie che deve provvedere a loro e alla casa. Restando però ancora una donna di sogno, che già altre volte è comparsa, ed è un’attrice del suo film la cui parte non s’è ancora definita; e ora giunge in auto e stanno qualche tempo insieme (Claudia Cardinale)

A questo punto la vicenda onirico-catartica è finita e dovrebbe iniziare il famoso e vero film, sul posto dove sorgono le grandi torri; e dove tutti si radunano e si prepara una conferenza stampa; cui egli però non è pronto, cui sfugge strisciando al di sotto dei tavoli e infine si spara un colpo con un revolver che gli hanno messo nella giacca; ma è un revolver da teatro, che spara a salve. E però il colpo lo trasforma ed egli ne esce come rinnovato, con una visione positiva e gioiosa della vita (“è una festa la vita”). E così girano tutti festosamente in tondo tenendosi per mano (e lui  con la moglie); mentre suona una caratteristica deliziosa orchestrina da circo, orchestrina di clown.

Film di difficile valutazione, unico nel suo genere, si direbbe. Dispersivo e insieme fantasioso, estroso, inesauribile nell’invenzione. In cui prevale la bontà, la speranza, e infine la gioiosa visione della vita. Considerato il capolavoro di Fellini, tra i primi nella storia del cinema.

 

 

 

Giulietta degli spiriti    

Del 1965, il primo a colori.

C’è un errore di fondo, ed è il contrasto tra Giulietta, la donna semplice, buona certo, pura, ma anche alquanto banale, bassina di statura, pienotta, e tutto il mondo che la circonda, a cominciare dal marito, poi le sorelle, la madre, gli amici della coppia; un mondo di eleganza, di mondanità, di trasgressione. In questo mondo Giulietta risulta irreale. Ma il contrasto vale anche per il mondo onirico che viene evocato, che in parte coincide con quello concreto, e che però non corrisponde alla figura e alla mente di Giulietta.

La quale poi è costretta in una parte di buona moglie e di banalità quotidiana, in una figura monocorde sempre uguale a se stessa, con quel sorriso irreale di bambola; che poi schiaccia ed annienta tutta la sua verve comica, quella splendida e insieme dolorosa de La strada, o anche di Cabiria. Dove anche il dolore era autentico, mentre qui non lo è.

Un film contrastato e manchevole nell’intimo, nella figura centrale e nella sua storia. Già il marito, un imprenditore, sempre troppo occupato perché trasgressivo, ha un altro amore, è troppo diverso da lei. Gentile però sempre, e anche protettivo; ma con quel vizio del sempre troppo occupato che nasconde l’infedeltà.

Lei scopre l’inganno (la Gabriella ch’egli nomina nel sonno; la telefonata notturna), e lo interroga con dolcezza com’è nel suo stile. E infine si rivolge ad un avvocato che fa le ricerche del caso e ricostruisce il quadro trasgressivo; e, conosciuto il nome della donna, una modella, la cerca per parlare con lei; ma la donna tarda e lei soprassiede. Vorrebbe parlarne al marito, ma non riesce a bloccare la sua fretta, le sue assenze, lavoro, viaggi. Non ne ha la forza. Si rassegna.

L’altro mondo è quello degli amici, che già compaiono nella prima scena, quella dell’anniversario di matrimonio, e rientrano nel mondo fantastico e onirico di Fellini; quindi anche nel mondo onirico di Giulietta, ma in profondo contrasto col suo tipo e il suo spirito. Tranne forse quel mondo bambino, di un collegio con suore tutte velate, anche il volto, e qui la rappresentazione in cui lei è la martire bruciata sulla graticola; quel collegio e quelle suore che hanno smorzato il suo spirito. Ma il mondo di Suzy, in certa misura  e stranamente anche sua amica; donna sensuale e dedita agli amori; o di Dolores, altra amica difforme. Mondo in cui Fellini sviluppa la sua straordinaria invenzione; come anche nelle apparizioni che vengono dal mare quando lei è sulla spiaggia, fantastiche realtà, di baldacchini galleggianti, di grande ruote, di cavalli; di strani e straordinari cappelli e vestiti e gesti, e apparizioni di ogni genere.

Un film che non persuade, salvo che in certe sue forme estrose.