La crisi della ragione moderna, il suo risentirsi nella poesia e nell’arte

di Arrigo Colombo

 

 

1. Pensiero filosofico e pensiero umano, una distinzione indispensabile

 

Il pensiero contemporaneo si trascina da tempo in una condizione di crisi, di profonda crisi. Il pensiero filosofico, non l’intero pensiero umano; la filosofia essendo solo una parte del pensiero umano, nel quale altri fattori concorrono. Così l’ambito del religioso, del politico e cosmopolitico come gestione-autogestione di un popolo e della comunità dei popoli; gli ambiti delle lettere, delle scienze, delle arti, della tecnologia, dell’economia come produzione e gestione dei beni; infine il costume e la quotidianità. Non pretendo, con questo, di aver compiuto una rassegna esaustiva di tutti gli ambiti in cui opera e di cui si nutre il pensiero umano; piuttosto una rassegna provvisoria, che mira soltanto a richiamare i limiti del pensiero filosofico, richiamare i filosofi dalla loro pretesa di rappresentare l’intero pensiero umano; no, ma solo una parte, limitata, probabilmente non decisiva. Anche se influenza gli altri ambiti, o alcuni di essi, le lettere e le arti in particolare; e in genere tutto l’ambito “intellettuale”, quello che così vien chiamato, gl’ «intellettuali»; rispetto ai scientifici, ai pragmatici.

 

 

2. Esaltazione e crollo della ragione moderna

 

Giace dunque in una condizione di crisi che è la crisi e crollo della ragione moderna, della ragione filosofica moderna. Un processo che inizia probabilmente con Descartes, col suo tentativo di ricostruire l’intera realtà dalla sola ragione; dopo averla distrutta col dubbio, ricostruirla con la sola forza della ragione; un processo troppo noto, quello ch’egli imposta nel Discorso sul metodo. Anche se un fenomeno storico-epocale come questo non può essere esaurito nella sola figura di un pensatore, qualunque ne sia la taglia, il vigore del pensiero. Il vero inizio deve probabilmente riporsi nel «risveglio mirabile» compiutosi con l’Umanesimo del ‘400, il quale al centro del mondo pone l’uomo e lo esalta: nella sua «dignità» che è poi essenzialmente la ragione, e con essa la libertà-creatività, quindi la virtus activa, con cui costruisce e si autocostruisce. Individua, dunque, ed esalta quello che sarà il soggetto moderno che con la ragione ricostruisce il mondo, l’intera realtà, Dio stesso: il tentativo di dedurne l’essere dall’idea, il cosiddetto argomento ontologico, che appunto Descartes impiega. Questo risveglio mirabile sul soggetto e sulla sua ragione creatrice provoca un abbaglio epocale, che porta il soggetto e la ragione a intendersi ed esaltarsi come totalità, ad intendere tutto in termini di ragione, come prodotto e oggetto di ragione, a fagocitare nella ragione tutto il reale. Anche se contiene alcuni principi profondamente veri e benefici: il principio di ragione, l’imprescindibile suo compito e forza; il principio d’interiorità; il principio di creatività, il potenziamento della creatività umana.

Con questo processo il filosofo moderno, il nuovo demiurgo infelice si chiude e conclude nella ragione stessa. Le cose si sono dissolte come cose, sono solo idee che la ragione produce, pensa. Perciò Leibniz tenterà di concepirle come monadi razionali, come ragioni individue ognuna delle quali pensa se stessa e il mondo; un tentativo certo ingegnoso, anche se non privo d’ingenuità, e che ci stupisce in una mente come la sua. Il tentativo più ingegnoso, però, sarà quello di Kant, motivato anche dalla necessità d’imporre delle norme al comportamento umano che, privo ormai di ogni riferimento oggettivo, può cadere da un lato nel relativismo e nello scetticismo, dall’altro nell’immoralismo. Se ogni cosa è prodotto di ragione, la ragione individua potrà darle un senso come un altro; e così all’azione, uccidere potrà esser ritenuto un bene dall’individuo, che elimina così il suo nemico o il suo rivale. Bisognerà dunque ricomprendere la ragione in termini universali, ricostruire l’oggetto e la norma che sono universalmente tali, che dunque vincolano la ragione individua. Conosciamo l’estroso artificio con il quale egli pensa poter costruire questo oggetto universale, attraverso le forme di spazio e tempo dell’intuizione, le categorie dell’intelletto, le idee della ragione; un processo tutto arbitrario, tutto approssimativo, incredibile. La Critica della ragion pura, la grande opera della ragione smarrita. Più significativo quando egli invoca la necessità di un imperativo categorico che s’imponga imprescindibilmente alla finita e precaria libertà umana; significativo l’imperativo generalissimo ch’egli formula: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere insieme e sempre come principio di una legislazione universale». Ma basta poi? se la ragione è sola legge a se stessa? se alla ragione non s’impone un principio entitativo insuperabile, com’è ad esempio la persona, la sua dignità, il suo diritto, cui la libertà finita deve corrispondere, imprescindibilmente?

Ma il processo continua, e raggiunge il suo vertice e il suo parossismo in Hegel, il reale-razionale, l’unica realtà che in sé tutto comprende e contiene, l’io, il mondo, Dio stesso o il divino, cioè l’Idea. In Hegel la ragione moderna tenta d’imporsi come un’ipostasi razionale, un cosmo e ipercosmo in cui il tutto insieme è e procede, in una circolarità eterna. Proprio qui avviene il crollo. Perché in questa ragione moderna che in sé pretende inglobare il tutto v’è il dirompente contrasto d’infinito e finito; e perché se tutto è ragione non v’è posto per ciò che dalla ragione è altro, per l’arazionale e l’irrazionale; non v’è posto – dirà Kierkegaard – per l’errore umano, la colpa, il peccato.

 

 

3. Il nulla, il pensiero esausto e debole, il residuo linguistico

 

La conseguenza di questo crollo è il nulla, il nihilismo. Se si dissolve quella ragione che in sé aveva assunto e assimilato l’intera realtà, resta il nulla. Questa tragica situazione è percepita già negli anni 1840 dalla Sinistra hegeliana, da autori come Feuerbach, Bruno Bauer, Moses Hess; autori poco noti, di cui mancano da noi anche le opere, e però indispensabili per capire la vicenda del pensiero filosofico moderno; nei loro scritti vibra un senso di tragicità anche storica, il senso della fine di un’età, di tutta una fase della modernità. Inizia da loro l’idea mitica della «fine dell’Occidente», che incomberà poi nei primi decenni del ‘900 e avrà la sua più forte (anche se un po’ banale) espressione in Spengler.

La proclamazione del nulla si ha con Nietzsche, per eccellenza il proclamatore, il profeta- pseudoprofeta, il Zarathustra che annunzia non il «Signore Sapienza» ma la sua morte, la pretesa «morte di Dio», e il «nulla eterno»: «Se noi pensiamo questo pensiero nella sua più tremenda forma: l’esistente, così com’è, senza senso e scopo, ma che inesorabilmente ritorna, senza un finale nel nulla: – l’eterno ritorno –. È questa l’estrema forma del nihilismo: il nulla (il nonsenso) eterno».

A questo punto, dissoltasi la realtà, come la ragione che l’aveva surrogata, che cosa resta al filosofo? Heidegger, il più robusto pensatore al seguito di Nietzsche, direbbe che resta l’esistenza com’essere di fatto di un nulla di sé, e il mondo come suo “esser nel mondo”, e gli altri come suo “coessere”. Poiché il filosofo di questa modernità estrema e crepuscolare, per quanto convinto del nulla di ogni cosa, non può non constatare la sua propria esistenza, come l’esistenza degli altri con cui coesiste, l’umanità intera, come l’esistenza del mondo in cui esiste; essendo d’altronde abbastanza perspicuo che senza gli altri e il mondo neppure lui esisterebbe, né potrebbe esistere, nessun essere umano lo potrebbe. L’uomo si ritrova ad essere così, di fatto, senza nessuna ragione né senso, «gettato» nel mondo, abbandonato, derelitto.

In questa sua fattualità, diranno gli epigoni di Heidegger, i postmoderni, gli resta tuttavia un pensiero; perché, per quanto convinto del nulla e della fattualità, il filosofo postmoderno sa di pensare. Si tratta però di un pensiero residuale, o banale, quello che tutti hanno (v’è qui un sovrano filosofico disprezzo della «massa» e del suo pensare e vivere quotidiano, «inautentico»); poiché si sa che tutti pensano; un pensiero «debole», incapace di raggiungere il «senso» o la «verità» delle cose e dei problemi, incapace di definire, dimostrare, fondare; incapace di certezza. E, a dire il vero, per questi estremi epigoni della crisi, anche la pretesa dei filosofi e degli uomini del passato di raggiungere verità e certezza, di dimostrare e fondare, era solo presunzione. Questo pensiero può solo descrivere, narrare; il filosofo postmoderno può solo raccontare la sua esperienza, scrivere qualcosa come il diario di un pensatore frustrato, impotente.

Resta inoltre il linguaggio, che contiene comunque dei sensi; altrimenti non potrebbe comunicare. Resta questa comunicazione in atto e i sensi che contiene. Su di essa, dall’inizio del ‘900, s’è impegnata l’analisi, gli analisti del linguaggio, la «filosofia analitica». Anche perché questa comunicazione può essere sollecitata, sviluppata nella discussione, nella ricerca comune. Almeno così alcuni pensano (Habermas, ad esempio, col suo «agire comunicativo», la sua «etica del discorso»); perché, a rigore, nella condizione di nulla, d’impotenza del pensiero, anche il linguaggio dovrebb’essere insensato; o possedere solo i sensi banali della quotidianità, del comune banale vivere quotidiano; non certo i nobili, profondi sensi che il filosofo v’immette, o v’immetteva, s’illudeva d’immettervi. Ma insomma costoro, che non si sono arresi totalmente al nulla e al nonsenso, pensano di poter utilizzare il linguaggio per ricostruire ad esempio i vincoli etici: «non uccidere», «non fare schiavo il tuo simile», «uomo, non asservire la donna». I quali vincoli devono essere categorici, devono vincolare insuperabilmente la libertà umana; o altrimenti si potrà uccidere, si potrà violentare stuprare, si potrà tranquillamente asservire, schiavizzare; la giustizia non avendo più senso, si potrà essere ingiusti; l’uomo è abbandonato al caos sociale, al bellum omnium contra omnes. E in realtà i postmoderni hanno l’impudenza di affermare che il moderno processo di liberazione è stato solo un «grand récit» (per usare l’espressione di Lyotard ne La condition postmoderne, Paris, 1979), un grande e inutile racconto, una grande favola; e lo hanno abbandonato come una favola senza senso. Questi pseudofilosofi insensati e inumani.

 

 

4. Il moderno cammino costruttivo dell’umanità

 

Dicevo che il pensiero filosofico non è se non una piccola parte del pensiero umano. Infatti, proprio mentre i filosofi percorrevano questo cammino distruttivo, l’umanità percorreva invece un cammino costruttivo, intraprendeva la costruzione di una «società di giustizia». Non mi è possibile qui ricostruire l’intero percorso storico, i movimenti di popolo (poiché di questo si tratta, non di correnti filosofiche) che prima elaborano il progetto di una società di giustizia, poi ne perseguono la realizzazione: proprio nella modernità, con la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento, poi con le altre grandi rivoluzioni, col movimento operaio (l’ho ricostruito nel volume L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Bari, 1997). Un percorso lungo e difficile, estremamente contrastato, percorso secolare. La fase costruttiva parte anzitutto con i fondamentali principi etici che s’illuminano nella coscienza moderna: il principio d’uomo, dignità e diritto della persona umana, il principio di libertà e delle libertà, di eguaglianza, di sovranità popolare, il principio d’interiorità, di solidarietà. Che vengono sanciti (e nel tempo arricchiti) nelle Carte dei popoli, a cominciare dal Patto del popolo inglese del 1647, via via lungo la Dichiarazione d’indipendenza americana, la prima Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, fino alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, alla recente Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dell’anno 2000. Ecco il «pensiero umano». I filosofi si dibattono da oltre un secolo nella «crisi dei valori», nel «deterioramento della coscienza etica»; e, certo, la coscienza etica l’hanno distrutta; ma ciò ha poco a che vedere con la reale condizione dell’umanità; che ha invece rafforzato e sta rafforzando la sua coscienza etica. Anche perché quei principi sono universali, il loro vincolo è universalmente umano; e nell’umanità si vanno imponendo.

Un’altra struttura del processo costruttivo è il modello democratico, che s’imposta pure nella Rivoluzione inglese, è ripreso e rafforzato dalla Francese (la quale annienta il modello monarchico-aristocratico, fino ad allora egemone nella storia umana), si generalizza in Europa, si diffonde nel pianeta, raggiunge il suffragio universale; pur nel limite del sistema rappresentativo, mediato, che elude il potere di popolo; nei vizi della partitocrazia.

L’intervento del movimento operaio è decisivo perché, in un secolo di lotta, trasforma la condizione popolare, la redime dalla scarsità, duro lavoro, ignoranza, sprovvedutezza, sfruttamento e oppressione di sempre, in una condizione di dignità del lavoro e del reddito, istruzione, sicurezza sociale, benessere; pur restando i flagelli della precarietà (licenziamento, disoccupazione) e delle sacche di povertà.

Sono solo alcuni punti del processo costruttivo, che non posso qui sviluppare oltre. Ma anche l’abolizione della schiavitù, uno dei fatti più atroci e più ignominiosamente inumani; la fine degl’imperi continentali, poi degl’imperi coloniali, il principio di autodeterminazione dei popoli; la pacificazione di ampie zone del pianeta, la crescita di una coscienza e volontà di pace.

 

 

5. Il risentirsi della crisi nell’arte

 

Dicevo che la crisi della ragione moderna è un fatto filosofico, il quale tuttavia influenza altri ambiti del sapere e operare umano; ambiti contigui; in particolare le lettere e le arti. Sembra che le arti ne abbiano risentito a partire dagl’inizi del ‘900. Le arti visive anzitutto, la pittura, quella che allora era la pittura; che col tempo, poi, è quasi scomparsa, lasciando posto agl’interventi «concettuali», alle ambientazioni, installazioni, performance ecc. Cede la realtà, la rappresentazione –  trasfigurata, certo – del reale; si rafforza la creatività, il ricreare l’oggetto, un altro oggetto. Il Cubismo è forse il primo a compiere il passaggio, Picasso in particolare: decomporre la realtà, ricostruire l’oggetto nell’immaginazione creatrice, in un mondo nuovo concepito dallo spirito (si veda M. Raynal, Picasso, Genève, 1953). Nasce così il fenomeno delle «avanguardie», che dominerà il secolo fino agli anni Ottanta; di movimenti che si generano da un impulso creativo, da una nuova forma di creatività, in totale libertà dal reale, il rapporto, l’assunzione, la manipolazione; nell’astrattismo in pura (o quasi-pura) creatività. Alcune di esse risentono anche tragicamente la crisi, l’abisso del nulla: così l’espressionismo, la più tragica delle avanguardie; così Dada, l’arte e poesia del nonsenso; così l’informale francese. Inoltre l’assenza del reale le porta ad una graduale estenuazione: si fanno nevrotiche, nel secondo dopoguerra si moltiplicano vorticosamente, si succedono rapide; sino a che si annientano, il nulla le risucchia: e resta infine «la sala vuota», la dichiarazione che «l’arte è morta», il «discorso sull’arte», cioè il necrologio.

 

 

6. Il risentirsi della crisi nella poesia

 

La poesia si tormenta nell’impotenza. Montale lo dichiara espressamente, come tutti sanno, in un brano che risale all’inizio degli anni Venti: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe[…]./ Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». L’impotenza e insieme il nulla; il quale erompe nell’altra famosa lirica montaliana, «Forse un mattino andando in un’aria di vetro».          

Una dichiarazione analoga, ma complessa, terribilmente angosciosa, un dichiarato senso di morte emerge da Gli uomini vuoti di Eliot, che è del 1925: «Le nostre voci esauste, quando/ l’uno all’altro sussurriamo/ son calme e senza senso […]./ Quelli ch’han traghettato/ con occhi dritti, all’altro Regno della morte/ ci ricordano non com’anime perdute/ e violente, ma solamente/ come uomini vuoti». L’impotenza si esprime poi nei desolati lucidi passaggi dell’ultima strofa: «Fra l’idea/ e la realtà/ fra l’impulso/ e l’azione/ cade l’Ombra// Fra la concezione/ e la creazione/ fra l’emozione/ e la reazione/ cade l’Ombra» (trad. L. Berti, Modena, s.d.).

Ma, già nel decennio precedente, Ungaretti aveva introdotto la forma che in Italia prevarrà poi sempre nel secolo, e che resta il segno permanente dell’impotenza, il frammento. Che in questo primo irrompere si presenta forte estremo; il discorso si frange in parole sole, il verso in una due parole; il frammento anche in soli due tre versi, in un verso solo. In Allegria di naufragi, più ancora che nel Porto sepolto. E tuttavia in Ungaretti permane una visione luminosa delle cose, del mondo; anche se talora intrisa d’intenso umano dolore. Permane una solarità mediterranea.

L’ermetismo, il movimento che ha dominato la prima metà del secolo, oppone alla crisi del reale il rifugio nell’interiorità, nell’interiorizzazione; in cui si rinchiude e conclude. L’io, o l’io-tu, domina molta poesia, anche nella seconda metà del secolo. È l’invadente onnicomprensivo soggetto moderno, che però dal discorso filosofico era scomparso già alla fine dell’800; è un riflesso tardivo. Così un’opera relativamente recente come Donna del cuore di Maurizio Cucchi, del 1987, si presenta come una specie di autobiografia. Nella neoavanguardia del Gruppo ’63 il nulla si configura come caos totale, il discorso stesso si fa caotico, magmatico, specialmente in alcuni autori, Sanguineti tra tutti; il suo Laborintus, che è del 1954. Giampiero Neri è al contrario un poeta di somma compostezza, di una misura quasi perfetta, nel suo insistente frammento; e lo diremmo un poeta «cosale», fatto tutto di cose o di piccoli accadimenti, l’io assente; ma il distacco dalle cose e dagli accadimenti è tale ch’essi si fanno evanescenti, irreali.

 

Nella crisi della ragione, nel dissolversi della realtà, nello sconvolgimento abissale del nulla la poesia ha resistito meglio che non l’arte o la musica; l’arte visiva, la pittura, la più devastata. Forse perché possedeva la parola, il mezzo espressivo per eccellenza, in cui tutto si concepisce (il concetto-parola, il logos endiàthetos degli stoici) e si esprime. Possedeva l’arte della parola.

 

                                                                    Scritto per l’Annuario di poesia 2002, a cura di Guido Oldani, Crocetti, Milano, pp. 92-98