Omaggio  a Bernardo Bertolucci

 

 

dopo il riconoscimento veneziano, il premio del 75° dalla fondazione

 

 

Novecento

al Politeama di Lecce il 15 ottobre e il 7 novembre 1976.

Grande affresco di un secolo.

Epopea del popolo contadino nell’oppressione, nella maturazione, nel processo di emancipazione. Il mondo contadino come protagonista. La terra, il lavoro, il dolore.

La storia come protagonista: tre generazioni (il nonno, il padre, il figlio padrone; la nonna, la madre, Olmo). Le lotte contadine del 1909 (la guerra solo in un accenno), il fascismo, la democrazia e il socialismo.

La costruzione di grandi episodi articolati, complessi di vicenda umana, contrasti, sconcerti.

 

La seconda parte su tre grandi sequenze.

La prima che passa attraverso la vita di Ada (Dominique Sanda), a Roma prima, la morte del padre, il matrimonio, l’estrosa cavalcata sul cavallo bianco, il massacro del ragazzo, il pestaggio di Plinio. Morte, amore-matrimonio, crimine, morte ancora.

Bellezza sfuggente estrosa inafferrabile di Ada, ripulsa al male. Bruttezza impudenza ignominia di Regina (Laura Betti), cresciuta nella casa altrui, l’invidia e l’avversione al cugino, frustrazione e aggressività, rivalsa attraverso l’allearsi con la violenza e il delitto, Attila (Donald Sutherland), sino al possesso della villa.

Amore, gelosia, bellezza estrosa sfuggente di Ada, incrinarsi dell’amore. L’attrazione per Olmo (Gérard Depardieu), l’avversione istintiva al fascismo; il vizio, l’alcol (già prima la droga), la fuga quando apprende che Olmo è fuggito.

Figura di grande rilievo poetico Ada. La scena nella sala da ballo nella prima parte, dove si finge cieca, il suo bizzarro carattere estroso; porta in sé forze istintive di verità (la ripulsa al fascismo), di bontà, uno spirito libero.

Insignificanza complessiva della donna? Impersona la bellezza, l’istinto irrazionale, l’ignominia (in Regina più bassa di quella stessa di Attila). Mentre Adele è fuggevole apparizione (muore di parto, Stefania Sandrelli). Presenza corale della donna contadina.

 

La seconda sequenza passa attraverso l’abominio di Attila coperto di sterco, la fuga di Olmo, la distruzione della sua casa, la fuga di Ada, il massacro dei contadini sotto la pioggia.

Il fascismo giudicato con rigore, senza false attenuanti, pretesa moderazione; non diverso dal nazismo: violenza efferata, arbitrio incurante della legge, violenza gratuita bestiale (il ragazzo); o come strumento di ascesa economica (la vedova Pioppi).

Passaggio drammatico la notte di Natale: l’invito poi l’invettiva della vedova, l’incombere della tragedia, il delitto. Solo l’eccesso e l’irrealtà della neve è oleografico; fors’anche l’eccesso di efferatezza.

Attila impersona la mediocrità, il servilismo (mai contro il padrone), l’avidità, la codardia, la violenza stupida e brutale, la mancanza di quello stile di disciplina rigorosa (rigore, forma) che contrassegna il nazismo.

La grande scena del massacro dei contadini sotto la pioggia, trascinati nell’acqua, nel fango, colpiti a bersaglio.

 

La terza sequenza, quella della liberazione, è la parte debole del film, meccanica, retorica; manca di capacità narrativa e costruttiva, capacità di trattare la vicenda e il materiale umano.

L’interesse riprende nel finale, il litigio che perdura tra padrone e contadino, tra classe dominante e subalterna; la storia di questo dopoguerra che segue al rientro della liberazione; il diverbio dei partiti, l’impotenza della Sinistra.

Resta incerta l’ultima sequenza? Il padrone è disteso con la testa sui binari, giunge il treno con la bandiera rossa: ma è quello di quand’era bambino.

 

La prima parte è dominata dalla vita contadina nell’oppressione: primitiva l’abitazione e il cibo, duro il lavoro e il vivere, tiranno incondizionato il padrone, gli sfratti illegittimi sostenuti dalla forza pubblica; le prime lotte, il primo sciopero (i padroni lavorano, per la prima volta), la lega.

I due figli, Federico (De Niro) e Olmo (Depardieu), il padrone e il contadino; da bambini l’uno grassoccio e goffo, l’altro magro agile audace, con l’esperienza della natura (le rane), l’agilità, il lavoro. Un certo cameratismo nei giovani; ma l’uno va alla guerra, l’altro s’imbosca come ufficiale coi soldi del padre.

Poi le figure definitive: il giovane padrone più esile, senza spirito né ideale, abbandonato dalla moglie, corrivo coi fascisti. Olmo robusto, col suo impegno politico, il lavoro, la leadership nella lotta, il carattere, la franchezza.

L’incendio della casa del popolo, un episodio tutto un po’ irreale: dalla maestrina che insegna a quattro vecchi a quel corteo di primo mattino, quel gridare alle finestre chiuse. Ma con un trapasso da surrealtà a trasfigurazione nella musica dell’Internazionale, nella banda che spunta in fondo alla piazza, e poi durante l’epopea del funerale.

 

La commare secca

1962. Il primo film di Bertolucci che era allora aiutoregista di Pasolini; film concepito e sceneggiato da Piaolini e a lui ceduto. La commare secca è la morte, che però qui non prende  risalto.

Film della periferia romana, tipicamente pasoliniano. Storia di ragazzi che s’aggirano in quei luoghi alla ricerca di occasioni varie, ragazze, puttane, furti. Che s’intreccia con un interrogatorio in quanto una donna, una prostituto è stata uccisa, stupidamente, per sottrarle la borsa e il denaro. Interrogatorio episodico e inconsistente; come episodica e inconsistente è la vicenda dei vari ragazzi e personaggi. Film inesperto, che delude.

 

La strategia del ragno

1970. Strano questo film, che è del ’70 come il Conformista (e anzi verrebbe dopo?); eppure è con esso incomparabile quanto a maturità e stile.   

 

Il conformista

1970. Dal romanzo di Moravia.

Qui Bertolucci ha raggiunto la maturità e costruisce un’opera di alto livello, un grande film. Che poi appartiene alla fase antifascista, tema forte in lui.

Tipica la costruzione del personaggio, esemplarmente incarnato da Trintignant; con la sua ambiguità, la sua viltà, la sua vile crudeltà. Così col maestro ed amico cieco di cui grida «è un fascista», mentre lui stesso lo era; o con il sordo rifiuto opposto ad Anna nel momento dell’assassinio, e che l’abbandona alla morte. Del resto la figura di lui nella macchina che va verso il delitto compare più volte fin dall'inizio, figura anche truce. Ma la partenza della macchina verso il delitto sta all'inizio e percorre tutto il film, quasi un leitmotiv,  quasi la presenza di sempre del delitto, pur non consumato. Ma solo perché i fascisti non si sono fidati di lui e hanno mandato una squadraccia a compiere l’assassinio; sulla strada solitaria che portava in Savoia; dove lui pure c’era, seguiva a distanza, e attendeva forse il momento adatto al crimine; e però certamente lo temeva. Perché su quella macchina c’era il professore con cui aveva ristabilito un rapporto da amico; e c’era Anna, la donna stupenda che lo affascinava, sempre pronto ad afferrarla e baciarla (Dominique Sanda). Il professore ucciso a colpi di coltello, trapassato di coltellate. Anna, che dopo il suo atroce rifiuto, fugge nella foresta, inseguita e uccisa a colpi di rivoltella. Era andato a Parigi in viaggio di nozze e insieme con quella feroce missione da compiere.

Un tipo complesso che ama Giulia, una Sandrelli un po’ bambina, ingenua e superficiale; devota, sottomessa; nessun confronto con Anna, la donna forte, decisa, oltre che splendida. Che per il matrimonio accetta di confessarsi anche se non ci crede; che con la piccola figlia recita l’Avemaria, la preghiera della sera. Il compromesso sempre. Fino alla scena finale in cui, caduto il regime, lui fascista insulta e denunzia il conoscente e l’amico fraterno. Un grande film , uno dei migliori del maestro.

 

L’ultimo imperatore

Al Massimo di Lecce il 22/11/1987.

Bertolucci torna al grande, al gigantesco; ad un’opera di grande respiro e bellezza in tutte le sue parti: la città proibita, i suoi immensi cortili dove centinaia di persone si prostrano di fronte al sovrano, le sue preziose immense stanze dorate, i suoi misteriosi rituali.

Qui il paradosso dell’imperatore-bambino e della sua adorazione, il divario enorme e insensato tra il bambino e il carico sovrumano di potere riposto in lui. E il paradosso, poi – con l’avvento della repubblica – tra la sua prigionia e il rituale di potere e adorazione che ancora continua in quella città isolata e fuori dal tempo.

La seconda fase è la Manciuria, cioè l’ambizione di un impero fittizio; di un giovane imperatore prigioniero dei giapponesi e traditore della patria; che illude se stesso in quella ch’egli dice sua vera patria, mentre chiude gli occhi di fronte alla prepotenza, all’arbitrio, alla crudeltà. Con la moglie indotta all’oppio da una giovane spia falsa amica, e dall’oppio straziata; mentre tutto crolla, e lo stesso Giappone.

La terza fase, la prigionia dell’uomo ormai comune, s’intreccia con le altre due: gl’interrogatori, l’arroganza di certi carcerieri, l’umanità di altri. E infine la liberazione e la nuova vita dell’operaio, del giardiniere, che conclude il film. Ora è un uomo buono, saggio; più buono e saggio dei suoi rieducatori che si scatenano nelle follie e crudeltà della pseudo-rivoluzione culturale, del culto di Mao. Che imprigionano e sbeffeggiano il suo carceriere buono, e lui stesso quando lo difende.

Un grande poema in cui passato e presente, favola e realtà s’armonizzano. Grande senso stilistico.

 

Il tè nel deserto

Al Fiamma di Lecce il 26 gennaio 1991. Ma il film è del ’90.

The sheltering sky  è il titolo originale, il cielo che protegge: ma quale cielo? quale protezione? Da un romanzo di Paul Bowles.

Film di alienazione e di morte. L’uomo finisce nella morte, la donna nell’alienazione, nel manicomio. La malattia infettiva da un lato; l’ambiente primitivo inospitale ostile, la prigionia e segregazione della donna nella stanza isolata sui tetti, chiusa a chiave, prigioniera del beduino, oggetto e trastullo del suo desiderio.

La coppia americana s’avventura ingenua in un mondo troppo diverso. Già la natura, prima le valli larghe e verdi tra le montagne, poi il deserto di sabbia. Ma tutto è deserto, tutto è desolato isolato inospitale.

Sono forse gli anni ’30. Vecchi abiti sporchi, pieni di mosche; treni stipati di gente, che non arrivano mai; vecchi autobus sovraccariche di valige e fagotti- Poi la carovana di dromedari che cammina lenta i giorni le notti. Il mondo thuareg sembra intatto, fermo nel tempo, incomprensibile nel linguaggio come nel gesto, nel vestito, nel costume. Colto qui con fedeltà, con sapienza. Le sue nenie stridenti, la sporcizia, l’abbandono. Le città chiuse tra mura altissime, le case serrate tra loro senza spazi, come una casa sola. Un abisso divide i popoli, diversità abissale, abisso del tempo, secoli di arretratezza.

In questo abisso corrono l’alienazione e la morte. L’alienazione corre lungo tutta l’opera, spaurisce ed esaspera lo spettatore. Bisogna che i popoli ritrovino l’unità, che l’antica frattura sia composta.

 

Io ballo da sola

Al Santa Lucia di Lecce il 14/04/1996.

Il titolo italiano è narcisistico, eccessivo. L’originale è Stealing beauty, bellezza furtiva.

Uno strano film. Una ragazza diciannovenne americana, Lucy (Liv Tyler), giunge in vacanza in una grande casa di campagna sull’Appennino senese dove vive uno scultore con la sua famiglia, e dove si trovano molti amici loro. La ragazza è giovane, è bella (è anche vergine), ed è subito oggetto del desiderio dei molti uomini – “vecchiacci”, dice la padrona di casa; dai quali si difende senza difficoltà. Quest’atmosfera sensuale e decadente è sensibile nella prima parte, e anche in seguito; ed è fastidiosa.

Ma la ragazza è venuta per un preciso motivo; perché quattro anni prima aveva passato lì una settimana – era solo quindicenne – e aveva incontrato un ragazzo, Nicolò, e con lui aveva stabilito un inizio di rapporto amoroso, cui era seguita una corrispondenza che lui aveva poi interrotto. Cerca lui; ma lui è in viaggio in Turchia assieme ad un amico. La ragazza trova l’ambiente insopportabile e prenota un volo di ritorno; ma proprio allora i due ragazzi improvvisamente arrivano.

E però Nicolò è ormai legato ad un’altra; quando questa parte, tenta un approccio ma inutilmente; Lucy cerca per sé un uomo, ma vuole un rapporto autentico. E però, a un certo punto, passa la notte con un inglese semiubriaco, una casualità non ben spiegata e non ben comprensibile. In ogni caso l’incontro con l’uomo è diventato per lei ossessivo e questo disturba la fase finale. Perché lo troverà infine, l’amico di Nicolò, che attraverso lui l’ha conosciuta e quasi l’ha amata, e le ha scritto perfino una lettera anonima ma che ben ricorda, e anche lei la ricorda. E con lui avviene infine l’incontro, una notte, nella campagna. Avviene infine, l’incontro troppo desiderato; avviene proprio in extremis, quando il film chiude.

Storia non ben calibrata; troppo centrata nella sola ragazza; troppo presa dall’ossessione dell’incontro e della deflorazione. Bellezza di luoghi e di colori, bellissima la campagna senese.

 

 

L’assedio

All’Odeon di Lecce il 14/02/1999.

Ecco dunque che Bertolucci torna a noi con un’opera forte e vitale, dopo lo smarrimento de Il piccolo Buddha e di Io ballo da sola. Smarrimento, insignificanza. Qui poi non v’è nessun assedio, non sembra esservi.

V’è invece un senso alto e fraterno del rapporto interetnico, punto dolente del nostro tempo. La ragazza nera, che è fuggita dall’Africa in seguito al golpe e all’arresto del marito, è al centro; fa sì la colf in casa del musicista ma studia medicina con profitto, supera l’esame con trenta. La comunità nera ha una sua chiesa e suoi sacerdoti, celebra coi suoi canti e ritmi e danze; v’è attorno ad essa una simpatia, una visione gioiosa.

La ragazza è amata dal musicista ma non gli corrisponde perché legata al marito, e tanto più al suo dolore. Allora il musicista, attraverso i sacerdoti, cerca un rapporto con la comunità nera, un rapporto che gli spiani la via  (ma è lui che si alza dal letto e va alla finestra in una delle prime scene? è fuggito anche lui da laggiù dopo il golpe? Lei lo vede ritratto accanto al nuovo dittatore, in divisa; ma è forse un sogno, se lo raffigura potente tra i potenti. Ma ha anche trovato nel cestino una busta dall’Africa. Il racconto è ellittico). Il musicista vende a poco a poco le sue cose di valore, e persino il pianoforte a coda, per il riscatto del marito di lei. Un amore puro. Ed è questo l’assedio? Eppure sa che la ragazza non gli corrisponderà; o meglio gli corrisponderà per un momento, si sdraierà accanto a lui la notte che precede la venuta del marito e, al mattino, quando egli arriva e suona, non s’alzerà a rispondergli. Segno che lo ha lasciato? Non sembra; piuttosto solo un momento di affetto riconoscente, e che indugia.

Opera di grande valore etico e umano, tra le più alte di Bertolucci, altamente positiva. Costellata di silenzi, la musica del piano, il canto dolente d’Africa sotto l’albero all’inizio, straziante.