Ingmar Bergman

 

Certo uno dei più grandi registi del ‘900. Per almeno trent’anni abbiamo seguito i suoi film. Ma nel mio schedario ne sono rimasti solo due. Il terzo è uno degli articoli di cinema inviati da Colonia a “Il Mulino”, la rivista bolognese (nell’anno che vi trascorsi; nel triennale soggiorno di ricerca in Germania con una borsa Humboldt), ma non pubblicati perché esulavano dal contesto e non erano stati concordati.

 

 

Scene da un matrimonio

il 7 ottobre 1975 all’Apollo di Lecce.

Quasi tre ore. Quasi tutto in interni. Quasi tutto condotto da due sole persone, la donna e l’uomo. Raramente il discorso s’indebolisce, un discorso-azione. Senso armonioso e sicuro della scena, il taglio, i primi piani, i dettagli. Nella notte oscura, in una stanza buia, in qualche luogo nel mondo.

 

Un’apparenza di perfetta intesa; una realtà di conflitto che la donna non avverte, che l’uomo penetra  e divarica improvviso e violento. Affiorano i motivi:

La famiglia dei genitori e la convenzione sociale che incarnano.

La donna come più facilmente legata alla convenzione: compleanni, cene, inviti, banalità. La donna come più disumana dell’uomo: in quanto con la sua sensibilità, la sua forza vitale, il buon senso, l’esperienza raggiunge una più vigorosa sicurezza; mentre l’uomo cede più facilmente alla vita, e però riconosce allora il suo limite, si fa più concreto e più umano. Mentre la donna nel conflitto è spietata sino in fondo. Ritorna qui la misoginia bergmaniana.

 

Nel rapporto manca la conoscenza di sé e della vita; ciò che nessuno insegna né aiuta a comprendere. Manca un’autentica comunicazione, la possibilità stessa di comunicare: il dialogo s’interrompe sempre nell’inflessione ironica, nell’insofferenza, nel rimprovero. I due si amano ma non riescono a tradurre il loro amore in una realtà concreta; ogn’incontro diventa un tormento reciproco.

Un punto risolutivo è intravisto dall’uomo: essenziale è vivere bene insieme, sostenersi l’un altro. È questo il senso concreto dell’amore, in questo si vince la solitudine. Il resto non è tanto importante; a cominciare dalla sessualità, che pure esige un suo adeguato spazio.

 

Si direbbe che la problematica della famiglia viene qui ristretta nella sfera individuale o biunivoca, la coppia mononucleare, un punto estremo dell’individualismo moderno; cui va la critica aspra di Fourier. La coppia isolata che si nevrotizza e si esaspera. Assente il ruolo dei figli, assente la sfera amicale, assente la sfera della professione; assente tutta quella rete di socialità in cui la coppia si espande, si arricchisce, si libera, scarica le sue tensioni.  

 

 

Fanny e Alexander

il 19 febbraio ’84 al Fiamma di Lecce.

Come un grande affresco la storia di una famiglia, in quegl’interni che Bergman sa usare da inimitabile maestro del fotogramma, di ogni singolo.

C’è un fiume spumoso e rabbioso che, riapparendo a tratti, sembra segnare il tempo, sembra soprattutto avvertire l’incombere del dramma e della catastrofe.

Fanny è troppo piccola, poco consapevole, al massimo solidale col fratello.

Alexander è una specie di protagonista interiore, nel fanciullo uno spirito di verità, che vede e sente le cose nella loro verità semplice e schietta, senza gl’infingimenti degli adulti. In particolare il filo che va dalla morte del padre alla tragica infatuazione della madre sedotta dal vescovo luterano, alla durezza spietata di questo campione del rigido nordico luteranesimo; che il ragazzo rifiuta inflessibilmente, e lo odia fino ad annientarlo. Così lo sente, e lo stimola, il veggente giovane androgino ebreo nella notte dell’annientamento: quando la madre lo rende impotente col bromuro, e l’odio di Alexander compare a provocare quella fiamma che avvolge prima la zia malata (ma è anche, in lei, la follia dell’infermità e della stanchezza del vivere) e poi il patrigno, che dorme il suo sonno pesante e avvelenato fino a che non lo divorano le fiamme.

La grande scena notturna è il clou della vicenda. Quando il bambino, nella casa del vecchio antiquario ebreo (grande amico della madre), s’aggira tra le sculture fantasma, e il giovane Aaron evoca il meraviglioso, la mummia che respira e splende; legge il suo pensiero, il suo odio, la forza distruttiva che quest’odio sprigiona, mentre Emily la madre avvelena il vescovo aguzzino, e il fuoco  invade poi i corpi. Il nodo drammatico strettosi con l’ingresso in scena del vescovo, con la prigionia di madre e figli, la vita dura insopportabile, il contrasto insanabile, si scioglie.

In quella stessa notte esplode anche la concezione negativa e distruttiva di Bergman; il quale ha avuto modo di far dire al ragazzo che «Dio è merda e piscia»; sì che l’odio per il patrigno si ripercuote su Dio come sul responsabile delle nefandezze del mondo (un passaggio che ci rammenta la famosa maledizione a Dio scagliata dal padre di Kierkegaard – pastore luterano anch’egli – dall’alto di un colle; e che ha poi angosciato l’intera vita del figlio). Poiché il mondo, quello “grande”, è nefandezza e dolore e catastrofe. Il tema che ritorna nel finale, nel discorso del personaggio fatuo e donnaiolo, Gustav Adolf, – ed è strano che proprio a lui Bergman lo affidi –, il dilagare ovunque del male, il nonsenso delle cose; per cui all’uomo non resta che il “piccolo” mondo, quello della casa, degli affetti familiari, i buoni cibi, i fiori, gli alberi del giardino.

 

Siamo in una famiglia dell’alta borghesia, ricchissima; sulla quale si apre il film. La casa sontuosa, grande a non finire. Le scene fastose, grasse, del Natale, sovraccariche di alberi luminosi, doni, cibi, e cameriere.

Il vecchio padre è morto. La madre è dolce, un centro di dolcezza per la famiglia. Dei tre fratelli, l’unico forse valido, l’attore, muore presto; degli altri due Gustav Adolf è fatuo, Karl è incapace, carico di debiti, disperato. Più sagge le donne. Posseggono un teatro, alcuni sono attori. Ma nuotano piuttosto nella ricchezza, nel lusso; nei grandi pranzi di famiglia, nel mangiare e nel bere. Le gioie dell’arte s’intravvedono appena (“ci siete voi, attori, a richiamarci certe cose”, che per noi però non valgono). Il “piccolo” mondo, per quanto sontuoso, è per lo più banale. Si salva l’affetto e la dolcezza dell’anziana madre; e lo sguardo attonito e sofferente di Emily, la più giovane madre, la donna straziata e forse salvata dal dolore.