Michelangelo Antonioni

Di lui mi restano solo tre schede, di cui due delle ultimissime cose. Un articolo sul Deserto rosso, scritto per “Il Mulino” e non pubblicato, lo sto ancora cercando tra le mie carte. Gli altri film li ho rivisti ora.

 

 

Cronaca di un amore

Il primo film di Antonioni, che già si era distinto nel documentario, del 1950.

Stile già raggiunto, il taglio e la pulizia dell’immagine, l’essenzialità. La musica è troppo forte e spesso copre la parola, e sinceramente disturba; né, per quanto l’autore abbia scelto gli strumenti, piano e sassofono soprano, sembra rispondere alla vicenda e al suo pathos; tranne un tema amoroso che compare due volte all'inizio.

Ma l’amore di chi e per chi? Paola, la donna bellissima (una Lucia Bosè singolare nel tipo come nel carattere) che ha sposato il maturo industriale milanese (mi ha comprato, essa dice), e vive nella sua splendida casa, nel lusso, nelle toilettes innumerevoli e sempre sceltissime, nel capriccio dello shopping e del regalo; ora pensa di aver ritrovato il suo vero amore di un tempo. E ha momenti di tenero abbandono; ma è anche dura, spietata. Né  si può dire che Guido, l'uomo, condivida davvero questo sentimento. C'è un distacco di fondo. Perché non ha mezzi e vive di espedienti; e il lusso della donna lo allontana. Perché c’è tra loro la morte dell’amica caduta nel vano dell’ascensore; dove ambedue avevano visto il pericolo e ambedue avevano taciuto; e di questo lei a un certo punto ingiustamente  lo accusa. Lei che non sa accettare la proposta di partire e andare a vivere insieme altrove, accettare per amore la rinunzia e il rischio.  L’idea di uccidere il marito e conservarne così la ricchezza giunge improvvisa, forse troppo presto, e l'uomo la considera insensata; anche se poi l’accetta e prepara l’omicidio.  È sensibile alla colpa e intuisce che l’omicidio peserà tra loro e li dividerà.

Intanto però l’inchiesta, che il marito aveva ordinato per conoscere il passato della donna, giunge al suo termine, e rivela anche il presente. E lui ne è talmente sconvolto che cerca la morte nel canale, con la macchina lanciata, che sbanda. Forse era lui che veramente amava, che adorava la giovane moglie.

Qui la dolorosa scena finale, la donna presa dallo sconcerto, che – avvertita della presenza della polizia – pensa che l’omicidio sia avvenuto, e vaga fuori nella notte in abito da sera (si stava preparando a una festa); e a momenti accusa Guido di quella morte; e lo sconcerto di Guido, che lo induce ad andarsene  per sempre.

L’amore mendace, clandestino, conflittuale ha provocato la catastrofe e si è dissolto. Già sempre incerto anche prima, sempre troppo tormentato. La volontà caparbia della donna, l’incapacità al distacco dalla ricchezza, la debolezza dell’uomo. Debole ma anche più consapevole del limite, più saggio forse.

 

 

Il deserto rosso

1964, primo film a colori di Antonioni, dopo la trilogia dell’incomunicabilità e ad essa affine. Leone d’oro a Venezia.

Qui, però, ciò che anzitutto domina è la pseudociviltà industriale, l’orrida trasmutazione e corruzione della natura. Con le sue fabbriche che la invadono come giganti mostruosi, le sue installazioni, l’intrico dei tubi che le percorrono, i fumi, i vapori (grande scena di un enorme getto di vapore), i miasmi che ne escono (come fanno gli uccellini? chiede il bambino), i detriti su cui l’obiettivo si sofferma, gli scarichi che devastano gli specchi d’acqua, orridamente inquinati. Dove una nebbia perenne tutto avvolge, un cielo sempre grigio, una tristezza fredda, penetrante. Anche il colore è anzitutto intonato a questa atmosfera grigia e triste. Questo il deserto.

In questo ambiente denaturato nulla, quasi, accade; diciamo che nulla può accadere. C’è all’inizio uno sciopero operaio che resta marginale, e certo le fabbriche abitualmente funzionano. In questo ambiente si aggirano alcuni personaggi che s’incentrano in Giuliana, la moglie di un dirigente, Ugo, un tipo di una semplicità e anche di una serena freddezza disarmante, un manager che certo fa bene il suo lavoro; ma più vicino alla macchina che alla psiche umana. Giuliana è il prototipo di una persona totalmente estranea a questo mostruoso mondo di macchine, a questa natura mostruosamente profanata dall’uomo; ma soprattutto è una persona totalmente alienata e dissestata. C’è una ragione concreta al suo male: ha avuto un incidente d’auto che l’ha solo superficialmente contusa, ma le ha provocato uno shock fortissimo, che l’ha trattenuta un mese in ospedale; da cui è uscita in questo stato alienativo. E però questo stato ha una probabile ragione più profonda nel mondo innaturale ed orrido in cui si trova a vivere. Questa pseudociviltà industriale che ci disumanizza, ci aliena, ci estenua. In una natura diversa, più autentica, più umana, la donna avrebbe certamente ritrovato quell’equiliìbrio che qui le sfugge.

C’è un personaggio che prova interesse per lei, forse anche per il suo stato, ed è Corrado, l’imprenditore triestino che sta trattando per organizzare le sue imprese, dopo la perdita del padre. Un uomo cortese,  riservato, scarso di parola, e però attento a lei; con cui si giunge anche al bacio e all’abbraccio, ma da cui subito la donna si ritrae. Troppo forte, essenziale è il suo male di vivere.

Giuliana è Monica Vitti, un personaggio difficile.

 

 

Blow-up

cioè l’ingrandimento, 1966.

Siamo nel ’66, e la Grande Contestazione, uno degli eventi epocali  del secolo, è negli USA già giunta a grande maturità (il rifiuto della società tecnoeconomica e carrieristica, della società repressiva - in particolare della repressiva etica sessuale e amorosa -, le comunità alternative, la rivolta universitaria, la rivolta negra), e si sta sviluppando in Europa, particolarmente in Italia e in Francia. Ma l’intellettualità, la politica, la stampa, la pubblica opinione, la banalizzano; in particolare la Sinistra storica l’avversa in quanto ne teme la forza eversiva e il progetto politico.

Antonioni è fermo alla swinging London; all’Inghilterra dei Beatles e dei complessi musicali, di Carnaby Street, la minigonna, la moda, le modelle; alla gioventù trasgressiva di sesso e droga. In questo mondo si muove il film.

 

L’intento è metafisico e si collega con le tematiche heideggeriane e sartriane dell’essere-nulla; del darsi-sottrarsi dell’essere; dell’apparenza in cui si dissolve il reale. Il tema s’impersona nel giovane fotografo, il professionista dell’immagine, cui la realtà può sfuggire e di fatto sfugge, restando mera apparenza. Non vi sono caratteri, non passioni; scarso di umanità.

Il film ha un brano introduttivo, di lavoro fotografico con modelle, in particolare Veruška, famosa in quegli anni. Poi la grande vicenda del parco (i verdi parchi di cui è costellata Londra, gioia dei parchi londinesi) in cui il fotografo è andato per ricavare immagini luminose e morbide, che dovranno concludere un libro. Nel parco c’è una coppia, una giovane donna e un maturo signore, che si scambiano gesti di tenerezza; ch’egli fotografa come parte di quella visione di verde e di pace. E si stupisce quando la donna lo rincorre per chiedergli quelle foto; e lo raggiunge poi nel suo studio; e lui se ne libera dandole un rullino qualunque.

Segue la scena centrale dello sviluppo e dell’ingrandimento, della ricerca e degl’ingrandimenti successivi. Nei quali emerge via via un tipo che nascosto fuori della staccionata manovra una pistola; il volto della donna che guarda stupito attonito; infine il cadavere dell’uomo ai suoi piedi. Una realtà drammatica, tragica stava occulta in quelle ingenue foto; e ora si è rivelata. Intanto si è fatto sera, il ragazzo pensa di compiere una verifica nel parco, e vi trova infatti il cadavere.

Ma non sa custodire la realtà che ha scoperto. Dovrebbe avvertire la polizia, ritornare nel parco e attenderla; ma probabilmente i giovani della swinging London non amano la polizia; e ne temono le complicazioni. E così consuma la notte nella ricerca dell’amico dell’album di foto, lo scova infine mezzo fatto d’alcol e droga in un raduno giovanile, che non intende nulla; e così rientra all’alba e trova che le foto sono scomparse, qualcuno le ha prese; e trova che anche il cadavere nel parco è scomparso.

L’intenzione metafisica si discopre pienamente nel finale, nella troupe di giovani attori che gioca a tennis coi soli gesti, senza cose, come se le cose (la racchetta, la palla) ci fossero; mentre non ci sono. C’è solo l’apparenza.

Il film non è privo di una certa morbosità voluta, forse perché appartiene a quell’età e società. La donna che cerca le foto è facile, e quasi cede al fotografo; si salva perché «è tardi». Le due ragazze che vorrebbero farsi fotografare e quel gioco dello spogliarsi a vicenda; che però non va oltre. Il notturno raduno giovanile di sesso e droga; ma il sesso non vi compare.

Il film è notevole anche nella forma, nel colore (molto colore); equilibrato, parco nella musica.

 

Resta da capire se la sua filosofia sia autentica o segua solo una certa vicenda di pensiero, che consegue alla crisi della ragione moderna; e di cui non è consapevole. Se segua in certa misura una moda. Mentre è assente ogni valenza etica, ogni senso di bene e di male.

   

 

Identificazione di una donna, 1982

Questo sarebbe forse il titolo del film che il regista quarantenne Nicolò vorrebbe fare; non il titolo e tema di questo film. Non si tratta per Nicolò d'identificare una donna, ma di trovarla e stabilire un rapporto duraturo, rapporto personale e di amore, spirituale e fisico, intimità, estasi amorosa; rapporto di coesistenza e convivenza, vivere insieme amandosi, e in quel dono e scambio e compimento reciproco portare innanzi insieme la vita, le sue stupende gioie, le sue difficoltà anche aspre, i suoi dolori; le difficoltà del rapporto, in cui le due personalità e la peculiarità di ciascuna, e i suoi difetti e limiti, devono tuttavia comporsi e ritrovare l'armonia di sempre.

Tutto questo non è detto, ma risulta dai rapporti instaurati e dalla loro tensione, dal loro stesso scacco. È ciò che Nicolò cerca, cerca la donna con cui instaurare quel rapporto vitale. Ha già dietro a sé uno scacco, la moglie, da cui è divorziato.

È un carattere leale, nervoso, non privo di angolosità, incapace di donarsi sino in fondo, di essere sino in fondo generoso.

Ha un rapporto con una giovane donna, Mavi (Maria Vittoria), non bellissima ma tipica, alta, grande slancio, grande stile, corpo perfetto. Il corpo è messo in risalto nella scena del sonno mattutino in cui giace nuda sul letto; le scene amorose non sono particolari. Il rapporto raggiunge una certa intensità; è molestato, ma solo esteriormente, da una persecuzione minacciosa che sembra provenga dal patrigno, molto legato, forse amoroso, ma rifiutato. Si dissolve alla prima difficoltà, quando nella nebbia egli corre, ella ha paura, vorrebbe rallentasse, egl'insiste duro, lei scende e scompare nella nebbia. Quando si ritrovano in macchina, poi nella casa di campagna, lei di nuovo scompare per sempre. Lui la cerca insistente, segno che l'amore è rimasto, sia pure allo stato incoativo.

La seconda donna, Ida, è in certo modo l'opposto della prima, alta e aristocratica (ma dall'aristocrazia è uscita fuori, dice). Non bella ma piena di cose essenziali, la semplicità, la natura, la campagna, i cavalli, il gusto semplice e intenso di vivere; è un'attrice di teatro. Lui vuole che vadano insieme a Venezia, nella laguna grande e solitaria; che poi trova triste, ma la tristezza è in lui. Lì Ida apprende per telefono di essere incinta da un altro ragazzo, il suo ragazzo, e tutto finisce. Nicolò non sa superare questo ovvio ostacolo, anche perché il rapporto non s'era approfondito.

Incapacità d'instaurare un rapporto durevole, di sostenerlo nella prova, di recuperarlo.

Finale singolare e bellissimo di un'astronave ricavata da un meteorite che s'avvicina al sole. Il nuovo film fantascientifico di Nicolò, che accanto al sole, a quel sole in molti modi bruciante ch'è l'amore, non resiste. 

 

Due brevissimi passaggi banali: su Dio (che cosa faceva Dio prima della creazione? nulla), sulla politica.

 

 

Al di là delle nuvole

al Politeama di Lecce il 5/11/1995.

Il famoso ritorno dopo il lungo silenzio, di cui tanto si è parlato, con la collaborazione di Wim Wenders.

Quattro episodi. Un primo incontro nella nebbiosa Ferrara, in cui il ragazzo se ne va: per timidezza? per incertezza? Un secondo in una Portofino battuta dal vento e dalle onde, insistente, unica musica: l’uomo segue tenace la ragazza che ha ucciso il padre, lei si concede, lui la lascia forse perché quel delitto lo sconcerta. In ambedue in casi l’intimità è troppo rapida, immotivata; e la donna poi abbandonata nella sua nudità, nel segno del suo completo inutile dono fisico. Una nota misogina?

Anche nel terzo l’incontro è troppo rapido, a Parigi, tra l’americano e la ragazza italiana, dopo la piccola storia; ma non lo si vede. V’è un duplice conflitto, tra l’americano e la moglie gelosa, tra l’altra donna e il marito che trova l’appartamento vuoto. Squallore dell’appartamento, squallore in cui  finisce l’amore.

Nel quarto il ragazzo segue con insistenza la ragazza che va in chiesa e poi ritorna, e gli dice infine che all’indomani non potrà incontrarlo come lui chiede, perché entrerà in convento; ad Aix-en-Provence.

Musica solo nel primo episodio (troppa) e alla fine dell’ultimo (leggera; forte il coro nella chiesa). Rara la parola, parlano le immagini, la vicenda che si dispiega. Immagini nitide, sicure, senz’apparente ricerca. Ancora il tema dell’incomunicabilità, il classico tema di Antonioni? Forse, nei primi due episodi; o forse più una ricerca di amore e d’incontro che si frange, si dissolve; si trascende forse nell’ultimo, nella ragazza che ha incontrato Dio, l’Amore sussistente.

 

 

Eros

con Steven Soderbergh e Wang Kar-Wai, al Santa Lucia di Lecce l’8/12/04.

Antonioni non riesce ad intessere una pur piccola storia. Una coppia giovane e un po’ litigiosa, la ragazza a cavallo che abita nella torre, il ragazzo che va da lei e fanno sesso; poi sulla spiaggia lei danza nuda e si distende al sole; e anche l’altra ragazza ricompare nuda. Ci sono solo bellissimi paesaggi d’acque e boschi, forse del delta padano, e luminosità, e colore.

Soderbergh si diverte con una seduta analitica in bianco e nero, dove il paziente tenta di raccontar sul lettino il suo sogno di una donna che non ricorda chi sia; mentre l’analista è preso da una probabile figura femminile che vede dalla grande finestra, cui invia degli aeroplanini di carta che non si sa dove finiscano. Il suo armeggiare di qua e di là, l’alzarsi, certo buffo, curioso; ma non v’è altro.

Il pezzo forte e perverso è quello di Wang, del giovane lavorante di sartoria dove la meretrice d’alto bordo ottiene i suoi splendidi abiti; che da lei è irretito fin dal suo primo presentarsi, quando col suo tono imperioso gli fa calare i calzoni e lo masturba. E così lo fa suo schiavo, impotente ormai, legato a lei dall’assillo interno, pronto sempre a servirla, devoto e succube, divorato da una meschina passione.

Ma Wang naviga troppo nel meretricio, sia pur con la sua tipica finezza di stile.

 

I titoli: Il filo pericoloso delle cose (titolo magniloquente che non contiene nulla); Equilibrium (quale? dei due, del loro approdare a nulla?); La mano (questo sì!).