13/07/200 (Tratto da www.princefaster.com ) br>
Un po di storiaSolo per capre meglio la storia del nostro paese, e per non dimenticare mai !!!!

IL NOSTRO VITTORIO RE

21 MAGGIO 2001 :
dopo i risultati delle politiche del 13 maggio, Vittorio Emanuele di Savoia invia un messaggio di auguri a Silvio Berlusconi. Nel messaggio afferma, tra l'altro, ''desidero congratularmi vivamente con Lei e manifestarLe la mia personale profonda soddisfazione per la grande vittoria ottenuta da Lei e dalla Casa delle liberta'. Sono convinto che gli italiani abbiano scelto Lei, come capo del nuovo Governo, diverso da quelli che l' hanno preceduta, perche' sono sicuri che sapra' risolvere i tanti problemi dell' Italia''.

- 1 MAGGIO 1997: in un'intervista al Tg2, Vittorio Emanuele dice di non voler chiedere scusa agli italiani per le leggi razziali firmate da suo nonno, leggi che comunque ritiene 'non cosi' terribili'. Dichiarazione smentita il 2 maggio e, in un comunicato, afferma che le leggi razziali 'furono certamente un grave errore'.

- 15 LUGLIO 2000: in un'intervista al Tg1, Vittorio Emanuele afferma di essere pronto a giurare fedelta' alla Costituzione repubblicana, anche ''pubblicamente, se bisogna farlo''.

Dal settimanale "il Mondo"
Sul tesoro della Corona, una cassa di gioielli depositata da Umberto II  prima di partire per l'esilio nel caveau della Banca d'Italia, e della collezione di monete di Vittorio Emanuele III, i Savoia non avanzano pretese ufficiali, ma la famiglia è divisa.

Gli arredi del Quirinale, invece, ipotizza il settimanale, potrebbero essere rivendicati. Non ultima tra i beni che compongono il patrimonio della famiglia Savoia c'è la polizza di assicurazione che Umberto I stipulò presso i Lloyd's di Londra prima di essere assassinato. La famiglia non la riscosse mai: al momento dell'esilio dei Savoia nel '46 ammontava a 6 milioni di dollari.



L'alta corte di Strasburgo contraria al rientro dei savoia in Italia

L'articolo 42 della risoluzione presentata dal liberale danese Bertel Haarder è stato bocciato con 256 voti contrari, 173 a favore e 13 astensioni. L'Europarlamento ha anche respinto un altro articolo, il 41, che riguardava indirettamente gli ex-reali affermando che "nessuno può essere privato del diritto di entrare nel territorio dello stato di cui è cittadino".
Questo articolo è stato respinto con 256 voti contrari, 184 a favore, 21 astensioni.

Sul fronte italiano, Antonio Di Pietro annuncia il suo impegno per sbloccare in commissione Affari costituzionali del Senato il disegno di legge costituzionale per abrogare la tredicesima disposizione della Carta e permettere il rientro degli eredi maschi dei Savoia in Italia.

(16 marzo 2000)


È invece certo che Vittorio Emanuele aveva un posto nell'elenco degli associati alla loggia massonica retta da Licio Gelli. Nella P2 l'erede dei Savoia s'iscrisse più di vent'anni fa. Nel 1982 gli investigatori trovarono il suo nome in un elenco: alla lettera S si leggeva "Savoia Vittorio Emanuele, numero tessera 1621". Ed è tra i massoni che Vittorio Emanuele stringe legami importanti, che entra in contatto con uomini dei servizi segreti italiani e americani, che conosce imprenditori legati a importanti uomini politici. Il faccendiere Silvano Larini, per esempio, che Vittorio Emanule conosce all'isola di Cavallo, in Corsica. Larini, amico di Silvio Berlusconi e cassiere dei conti segreti di Bettino Craxi, si mette in affari con Vittorio Emanuele per fare dell'isola dove passano le vacanze un posto esclusivo per aristocratici e personaggi della "Milano da bere".





È stato erede bambino di una casata senza regno, poi playboy non brillantissimo e amante di fuoriserie (con attitudine a uscire di strada), poi ancora imputato d'omicidio con ai polsi le manette della Gendarmerie. Ora è pretendente, se non proprio al trono, almeno a un passaporto italiano. Con coro di consensi, a destra e a sinistra.
Si chiama Vittorio Emanuele Savoia, ma lui preferisce di Savoia. Il suo rientro in Italia è un tormentone, un problema che periodicamente ritorna d'attualità - come se il Paese non avesse altri problemi. Ogni volta si torna a parlare (anche se sempre più flebilmente) degli impedimenti a questo ritorno: della norma transitoria della Costituzione; o della non brillante storia di una dinastia che ha consegnato l'Italia al fascismo, che ha accettato le infami leggi razziali, che dopo l'8 settembre ha tagliato la corda lasciando il Paese al suo destino...
I pochi oppositori rimasti continuano a ricordare il passato remoto di una brutta storia. A questo, vorremmo aggiungere il sempre meno ricordato passato prossimo, molto prossimo, del signor Vittorio Emanuele Savoia, uomo d'affari. In questa veste - che poi è l'unica che ha davvero rivestito - Vittorio Emanuele in Italia è già rientrato. Anzi, non ne è mai uscito. Fa parte a pieno titolo della storia recente del Paese: non quella alta, quella dei suoi avi, ma quella invisibile e sotterranea che ha a che fare con lobby riservate, logge segrete, aristocrazie occulte impegnate in affari internazionali sul crinale dell'illegalità.
"Questa grande dinastia, che per secoli ha regnato su Chambery e dintorni...", ironizzava Carlo Emilio Gadda, ha trovato seppur tardivamente un uomo capace di compiere grandi imprese (finanziarie), di andare oltre i confini, di aggirarli anzi, con l'aiuto di qualche società off-shore. Da giovane, ebbe una carriera scolastica un po' difficile. Ma si preparò con scrupolo a divenire cultore dello champagne e dei vini pregiati. Allora gli amici lo chiamavano "Toto la Manivelle" (potremmo tradurlo "Vittorino il Volantino") per via della sua eccezionale capacità a perdere il controllo del volante e a uscire di strada, con gran danno per le carrozzerie delle sue belle auto.
Divenne presto cittadino del mondo. Prese dunque a collezionare conchiglie. Ma, poiché le fuoriserie non gli bastavano, prese anche il brevetto di pilota e acquistò un biplano con una testa di tigre disegnata sulla fusoliera. Infine divenne uomo d'affari: "per ricostruire il patrimonio di famiglia". Il suo lavoro può essere definito in molti modi aulici. Ma per capirsi meglio basterà la definizione di mediatore d'affari, piazzista di lusso, ponte nobile tra grandi imprese occidentali e satrapie orientali, sempre all'ombra di qualche strana consorteria politico-affaristica. I quarti di nobiltà di Vittorio Emanuele costituiscono il valore aggiunto, sono la griffe che garantisce, se non una particolare abilità manageriale, almeno l'accesso ai personaggi utili, alle lobby giuste.
Così negli anni Settanta il signor Savoia fu preso sotto l'ala dal conte Corrado Agusta, l'ex marito di Francesca Vacca, allora padrone di una fabbrica d'elicotteri e mercante internazionale d'armi. Agusta, in verità, era conte per modo di dire: non per lignaggio, ma per decreto di Mussolini. Gli era utile avere attorno un nobile vero, un principe di casa reale, amico o parente o comunque ben introdotto nelle dinastie grandi acquirenti dei suoi prodotti. Lo Scià di Persia, per esempio: Vittorio Emanuele era suo amico di famiglia, e in più all'epoca lo Scià Reza Pahlevi corteggiava Gabriella di Savoia. Insomma, il signor Savoia riuscì a piazzare allo Scià una quantità di elicotteri e armi, guadagnandosi, come ogni piazzista, le sue brave provvigioni.
Non tutto però è alla luce del sole, quando si tratta di armi. Il giudice di Venezia Carlo Mastelloni, per esempio, in una sua indagine sui traffici internazionali di armi raccolse documenti da cui risultava che Vittorio Emanuele, insieme al conte Corrado, non si occupava soltanto di merce regolare da piazzare alla Persia, ma anche di triangolazioni proibite dall'embargo: centinaia di elicotteri Agusta 205 e Agusta 206, sistemi d'arma e pezzi di ricambio partivano dall'Italia ufficialmente destinati all'Iran dello Scià, ma finivano in Giordania o all'Olp; indirizzati alla Malesia e a Singapore, arrivavano invece a Taiwan o nella Sudafrica dell'apartaid. Il tutto non senza il beneplacito dei servizi segreti dei Paesi coinvolti. L'inchiesta del giudice Mastelloni aveva messo sotto osservazione generali, politici, agenti segreti. Poi approdò alla Procura di Roma e lì, come consuetudine in quegli anni, si insabbiò.

2. Traffici internazionali d'armi
Nel giro d'affari era coinvolta, oltre l'Agusta, anche la statunitense Bell, quella degli elicotteri d'assalto Cobra. Le armi giravano il mondo, Somalia, Congo, Zaire... A vederci chiaro provò anche un giovane giudice di Trento, Carlo Palermo, che aveva messo gli occhi su un doppio traffico: armi dall'Occidente verso Oriente, droga in direzione opposta. Anche Palermo fu bloccato, e in malo modo, probabilmente proprio perché questi traffici non si possono fare senza il consenso di poteri molto forti, che per certi lavori sporchi usano i servizi segreti e che comunque non gradiscono che si metta il naso nei loro affari e che si portino alla luce i loro traffici, dove ragioni di Stato si mischiano spesso a ragioni di soldi...
Comunque Vittorio Emanuele era attorniato e ben sostenuto da una compagnia di personaggi eccellenti, come si conviene nei commerci internazionali d'armi: faccendieri, politici, militari, uomini dell'intelligence. Tra gli altri, c'erano il colonnello Massimo Pugliese, fedelissimo di casa Savoia, già responsabile del centro di controspionaggio di Cagliari; il generale Giuseppe Santovito detto Bourbon per via dei suoi gusti alcolici, direttore nientemeno che del Sismi, il servizio segreto militare; l'ex attore Rossano Brazzi, massone, approdato dal cinema all'entourage di un altro attore che aveva cambiato mestiere, Ronald Reagan. Una bella compagnia di giro, variopinta ma potente. I servizi segreti vegliavano sugli affari. Barbe finte italiane, ma anche i loro padrini della Cia e dalla Nsa, le due massime agenzie spionistiche americane. Del resto l'amministratore dei beni di Casa Savoia, l'avvocato Carlo D'Amelio, era presidente del Cmc, una filiazione della Permindex, che secondo il giudice Palermo era una "creatura della Cia, istituita per coprire i finanziamenti dei servizi segreti americani Cia-Fbi in Italia per attività anticomuniste".
Molti dei soci di questa bella compagnia avevano, come si conviene, una comune appartenenza a un club: la loggia P2 di Licio Gelli, il circolo degli oltranzisti atlantici italiani. Alla lettera S dell'elenco sequestrato nel marzo 1981 dai magistrati milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo nella ditta di Gelli a Castiglion Fibocchi, si legge: "Savoia Vittorio Emanuele, casella postale 842, Ginevra". La tessera era la numero 1621. In una delle cartellette allegate agli elenchi, sempre alla lettera S, accanto a "Sindona Michele, banchiere", "Stammati Gaetano, ministro", "Santovito Giuseppe" e tanti altri (Berlusconi Silvio no, era in un altro documento), compare il nome "Savoia Vittorio, numero 516".
Il principe, si seppe poi, aveva raggiunto il terzo grado della gerarchia massonica, quello di Maestro, e oltre alla loggia P2 aveva frequentato un altro esclusivo club massonico: la superloggia di Montecarlo. Almeno secondo quanto testimonia nell'ottobre 1987 Nara Lazzerini, amica molto intima di Gelli: "Licio mi disse che della loggia facevano parte anche Vittorio Emanuele di Savoia e il principe Ranieri". Chissà se è vero. Un rapporto del Sisde (il servizio segreto civile) del 1982 informa comunque che ai vertici della Loggia di Montecarlo, insieme a Gelli, vi era Enrico Frittoli, ragioniere, titolare di una società di import-export con sede nel Principato e "uomo di fiducia del trafficante internazionale d'armi Samuel Cummings, presidente della Inter Arms di Londra". Il solito cocktail forte di politica, affari e nobiltà.
Con le logge massoniche internazionali Vittorio Emanuele ebbe a che fare anche qualche anno dopo, alla fine degli anni Ottanta, quando cadde il Muro di Berlino e alcuni circoli massonici pensarono bene di progettare il ritorno sul trono di alcuni monarchi europei. I Paesi su cui puntavano erano la Romania e l'Ungheria, Paesi da cui il re era stato scacciato dai perfidi comunisti e in cui, collassato il blocco sovietico, si poteva dunque approfittare della situazione per tentare un ritorno alla grande. Ma era stata presa in considerazione anche la possibilità di un ritorno delle famiglie reali in Italia e in Grecia. I progetti, come al solito, mischiavano politica e affari: alla fine furono realizzati soltanto questi ultimi, nelle fragili democrazie dei Paesi ex comunisti.
Ma un rapporto riservato del ministero dell'Interno del 1993 riporta le dichiarazioni informali di un collaboratore di giustizia il quale racconta di una riunione avvenuta a Barcellona, con la partecipazione di emissari delle famiglie Villaverde, Orleans, Leida d'Aragona e Savoia. Anche in Italia, in fondo, tra il 1992 e il '93 era caduto un Muro: Mani Pulite aveva fatto crollare il sistema dei partiti di Tangentopoli e per molti mesi alcune "menti raffinatissime" (come le chiamava Giovanni Falcone) avevano pensato a come approfittare della situazione. Nel calderone c'era anche qualcuno che aveva pensato di giocare la carta reale: per esempio il principe Giovanni Alliata di Montereale, siciliano, massone, piduista, legato a Cosa Nostra ma anche agli ambienti dell'intelligence Usa e dell'eversione di destra italiana, che dopo essere passato per più di un tentato golpe era stato uno dei registi della riunione di Barcellona con le famiglie reali.
Non se ne fece niente. La storia italiana prese un'altra strada, passando attraverso i momenti drammatici delle stragi del 1992 di Falcone e Borsellino e del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Vittorio Emanuele di Savoia si limitò a chiedere, di tanto in tanto, il rientro dei Savoia in Italia: lui vivo in qualche villa di Napoli o chissà dove, i suoi parenti morti nel Pantheon di Roma. Finora non se n'è fatto niente. Domani, si vedrà: se Silvio Berlusconi dovesse vincere le elezioni, forse la comune appartenenza al club P2 potrà aiutare.

3. Craxi, Berlusconi, la politica
Già in passato Vittorio Emanuele si era avvicinato a un politico italiano: Bettino Craxi. Era la fine degli anni Settanta, e lo scenario era quello dell'isola di Cavallo, in Corsica. Lì passava una parte delle sue lunghe vacanze Silvano Larini, l'uomo che aveva fatto conoscere Craxi e Berlusconi e che all'epoca era uno dei cassieri dei conti segreti del segretario socialista. A Cavallo, anzi Cavallò, territorio francese, andava in vacanza anche Vittorio Emanuele. Isola esclusiva, lembo di paradiso, pochi gli ospiti ammessi. Naturale incontrarsi, parlarsi. Larini, bon vivant, all'inizio frequentava per lo più Marina Doria, la consorte del principe, ma da cosa nasce cosa. Silvano e Vittorio Emanuele si conoscono e decidono di fare business insieme: lanciare l'isola come luogo esclusivo di vacanze. Ancora una volta, Vittorio Emanuele e il suo blasone funzionano come spot pubblicitario per attirare una selezionata folla di nuovi ricchi e consumati tangentomani a caccia di patenti per entrare nel jet set.
Peccato che un colpo di fucile, nell'agosto 1987, rovini tutto: durante un litigio ad alto tasso alcolico con il playboy Nicky Pende, a Vittorio Emanuele scappa uno sparo nella notte e a farne le spese è un giovane velista tedesco, Dick Hammer, che dormiva tranquillo nella sua barca. Il processo in Francia mandò libero il principe (sola condanna: sei mesi con la condizionale per porto abusivo d'arma), con qualche protesta dell'opinione pubblica e l'indignazione dei parenti del ragazzo morto.
L'affare di Cavallo ne risentì, ma intanto Vittorio Emanuele era entrato, grazie a Larini, nel nuovo giro. Affari e politica, sempre, ma questa volta all'ombra di Craxi. L'industria italiana delle armi, del resto, era finita nell'orbita socialista; l'Agusta, per esempio, era passata dal conte Corrado alle Partecipazioni statali, sotto la guida di un manager craxiano doc, Roberto D'Alessandro. Quante intermediazioni, quanti miliardi sono arrivati sui conti riservati all'estero di Corrado Agusto e del signor Savoia! Su Craxi, Vittorio Emanuele rilasciò ai giornali italiani dichiarazioni entusiastiche, che potrebbero sembrare stupefacenti in bocca a un monarchico per obbligo di nascita. Poi, passata l'epoca del craxismo, l'ammirazione la trasferì direttamente a Silvio Berlusconi: "È un buon manager, può rimettere ordine nell'economia italiana", disse ai cronisti nel 1994. Come? Per esempio cancellando quel "disastro" che è "lo Statuto dei lavoratori, con il divieto di licenziamento". Apprezzamenti naturali, tra compagni di loggia. Ma con un finale obbligato per il principe: "Io? Non faccio politica".
A Ginevra c'è ancora chi favoleggia di una cena a tre al Richmond Hotel, con Vittorio Emanuele, Silvano Larini e il banchiere Chicchi Pacini Battaglia, altro cassiere delle tengenti socialiste. Era l'inizio della lunga latitanza di Larini, che prima di sparire per molti mesi lontano dai magistrati di Mani Pulite - racconta la leggenda - volle vedere i due amici per salutarli e forse, chissà, per chiarire qualche delicata procedura d'affari e di conti. Il principe, comunque, nel maggio 1992 dichiarò al Giornale: "Peccato che ci sia tanta corruzione, la storia delle tangenti, delle bustarelle... è disonorevole". Il manager Vittorio Emanuele di Savoia tentò parecchi affari. E proprio per conto di aziende di quello Stato in cui non può entrare. Fece intermediazioni per Italimpianti e Condotte, entrambe aziende Iri. Il metodo di quegli affari, in piena Tangentopoli, è conosciuto: un fiume di miliardi esce dalle casse dello Stato, va a finanziare opere e imprese spesso inutili, e infine torna in parte nelle casse dei partiti e nei conti all'estero dei loro leader, attraverso l'intermediazione di personaggi compiacenti. Questo in generale, s'intende; sui comportamenti finanziari del principe in particolare, niente d'irregolare è emerso. Del resto, il signor Savoia è un italiano speciale, è l'unico italiano off-shore.
Dunque questo manager particolare operò all'estero, all'ombra della Partecipazioni statali. Ebbe un ruolo, per esempio, negli affari realizzati a Bandar Abbas, in Iran: lì gli italiani buttarono parecchi soldi (pubblici) per costruire un'acciaieria (Italimpianti) e un porto (Condotte). Fu un disastro industriale. Ma fece girare molti miliardi. Tanto che alla fine scoppiò un litigio durissimo (per questioni di soldi) tra l'erede Savoia e un armatore genovese, Enrico De Franceschini. Qualche giornalista andò a curiosare nel fiume di dollari e tangenti che scorgò da quella campagna d'Iran e alle Bahamas scoprì una strana società coinvolta, la Financial. Non si riuscì a saperne molto, ma circolò l'indiscrezione che fosse controllata dal Savoia.
Vero? Falso? Il principe non si abbassa a parlare di questi particolari materiali. Quanto ai banchieri, in genere sono riservati, quelli delle Bahamas poi sono blindati. In Iran il principe tentò anche un altro business, più soft: un'impresa editoriale, in società con altri amici del suo club, Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din, compagni di lista P2. La Rizzoli, allora, era nelle mani del banchiere Roberto Calvi (altro socio di loggia), che finì male: rovinato dalla bancarotta, inseguito da creditori molto molto esigenti, infine appeso sotto un ponte di Londra. Così anche quel lavoro iniziato in Iran andò buttato. Del resto, l'amico Scià fu cacciato da Komeini e le porte del Paese furono sbarrate.
Ma Vittorio Emanuele non è tipo da scoraggiarsi per qualche fallimento. Primo, perché dai fallimenti all'italiana un po' di soldi restano comunque attaccati. Secondo, perché, chiusa l'avventura persiana, la sua compagnia si ricicla in altri Paese del Vicino Oriente, Egitto, Giurdania, Israele. Re Hussein di Giordania è suo amico, naturalmente; ma il principe considera suoi amici anche l'ex presidente egiziano Sadat, poi ucciso, e il dittatore iracheno Saddam Hussein, e anche il presidente palestinese Yasser Arafat.
Nel 1995 si recò in Iraq dicendo di rappresentare aziende italiane: "Ma no, niente elicotteri, niente armi", rassicurò in un'intervista, "tecnologia agricola, invece, trattori, strumentazione. Superato l'embargo, l'Iraq di Saddam tornerà benestante e competitivo". La missione terminò con una salmonellosi e la febbre a quaranta. Ad Arafat e "agli amici israeliani" nel 1997 propose la costruzione di un ponte autostradale e ferroviario tra Gerico e Gaza, con la speranza di attirare investimenti del Fondo monetario e della Banca mondiale. Per ora non se n'è fatto niente.
Non andò bene neppure il progetto di sfruttamento turistico di Manoel Island, un'isoletta davanti a Malta. Narra la leggenda che alla fine degli anni Ottanta, durante le vacanze invernali passate a Gstaad, il principe, attorniato come sempre da qualche faccendiere a caccia d'affari, mise a punto un piano per realizzare nell'isoletta un porto turistico, 400 ville extralusso, due alberghi, un campo da golf, un casinò. Investimenti per 200 miliardi dell'epoca. Anche stavolta non se ne fece nulla. Anzi, tutto finì con una causa davanti ai giudici maltesi, perché il socio locale del principe, il giovane avvocato Mark Micalleff, gli chiese un ricco risarcimento per una complicatissima vicenda di patti non rispettati. L'unico ricordo regale che restò a Micalleff, alla fine della vicenda, fu una monarchica, sobria, sintetica scritta sul frigorifero di casa, vergata con un pennarello dalla mano di Vittorio Emanuele, durante una cena in cui cucinò agnello al vino rosso e uova strapazzate: "Viva Io".
Degli affari in Italia del principe, invece, si sa poco. Alla fine degli anni Settanta comprò il 30 per cento di un'azienda laziale, la Industrial Habitat, che produceva villette prefabbricate e godeva degli aiuti della Cassa per il Mezzogiorno. Niente di più. Trasparenza zero: degli affari Savoia si riesce a sapere qualcosa soltanto quando qualche socio si sente fregato o dai rari documenti giudiziari di qualche magistrato coraggioso.
Tornerà in Italia, il principe-manager? Anche a sinistra qualcuno ha cominciato da tempo ad allargargli le braccia. In passato Vittorio Emanuele è riuscito a piazzare dichiarazioni vergognose, come quella sulle leggi razziali firmate da suo nonno nel 1938: "No, io per quelle leggi non devo chiedere scusa, e poi non sono così terribili", disse al Tg2 il 1 maggio 1997. Tra le mille gaffes del suo inesauribile repertorio, il signor Savoia è riuscito ultimamente a pronunciare anche qualche frase non controproducente, come quelle della lettera a Carlo Azeglio Ciampi, "presidente di tutti noi italiani", dopo i funerali di Maria José, la regina antifascista. Basterà? Qualcuno continuerà forse a chiedergli conto degli errori storici della dinastia. Nessuno gli ha mai chiesto nulla sulla sua poco edificante storia personale.
(gianni barbacetto, aggiornamento 12 febbraio 2001)



ALTRE STORIE

29 gennaio 99

Un bel febbrone a quaranta, una manna dal cielo - dolori muscolari a parte - per evitare d'incazzarsi troppo per i capricci di Francesco Cossiga e per la leggerezza con cui i deputati Ds hanno avallato le misure-mordacchia contro i giornalisti e non anche contro i magistrati che soffian loro le notizie (ma per fortuna c'è anche un Senato…). Ma poi, tàcchete, ecco farsi vivo via fax Valter Bielli, deputato diessino tanto attento a non dimenticare le vicende della prima repubblica quanto ostinato a pretendere che sia fatta luce su risvolti impressionanti eppur dimenticati di Tangentopoli, della P2, e di altri loschi traffici. Valter Bielli, dunque, mi recapita posto casa un dossier impressionante che - chicca non secondaria - ripropone anche la liceità di un ritorno in Italia di Vittorio Emanuele di Savoia senza che questi abbia preventivamente chiarito i suoi traffici.
Una premessa è d'obbligo, per capirci qualcosa in questa storia esemplare di malcostume, di tangenti, di denunce ancora (e da anni) senza seguito. E la premessa consiste nelle ammissioni che il defunto sen. Giuseppe Petrilli, presidente dell'Iri dal '60 al '79, e poi parlamentare dc. Nei suoi confronti fu concessa autorizzazione a procedere avendo Petrilli ammesso la mancata contabilizzazione di proventi derivanti da attività di società a partecipazione statale e delle somme rappresentate dagli interessi attivi e la conseguente, oggettiva alterazione sul conto profitti e perdite dei bilanci societari, e quindi del bilancio Iri nel quale confluiscono tutti i dati contabili delle società partecipate o controllate anche indirettamente. Petrilli aveva aggiunto che i fondi neri, nerissimi, erano destinati al pagamento di provvigioni, di tangenti, di compensi a favore di terzi; e che le relative operazioni erano necessariamente coperte dal più assoluto riserbo, né potevano essere registrate perché non documentabili pena l'autoaccusa.
I fatti successivi, ora. Il consigliere per gli affari arabi, signor Hamed El Alba, denuncia alla procura di Genova di esser stato vittima di una colossale truffa legata appunto alla incontrollata gestione dei fondi neri dell'Iri. Nel '79, dunque, dopo la rivoluzione iraniana ed il veto posto dall'Iman Khomeini alla costruzione a Bandar Abbas della famosa acciaieria dell'Italimpianti (che aveva acquisito la commessa grazie allo Scià di Persia), Hamed El Alba, amico di influenti ministri di Khomeini, viene incaricato dall'Italimpianti di fornire la propria "assistenza" per sbloccare la situazione. E infatti Khomeini, dopo aver ricevuto El Alba, sblocca la situazione: il centro siderurgico verrà costruito dall'Italimpianti a Esfahan, anziché a Badar Abbas, assicurando 20mila posti di lavoro, in gran parte italiani. L'uomo d'affari arabo racconta (e documenta) di:
· aver trattato le proprie commissioni - cioè la propria quota di tangente - con l'amministratore delegato dell'impresa dell'Iri, Lucien Secoury (noto anche come iscritto alla loggia segreta di Licio Gelli, la P2);
· di essere stato messo in rapporto con il principe Vittorio Emanuele di Savoia (anche lui, vedi caso, iscritto alla P2, e che del progetto Italimpianti si era interessato ai tempi dello Scià suo amico);
· di aver firmato contratti di collaborazione con la Zapco, società con sede a Ginevra e paravento dell'Italimpianti per gestire l'operazione iraniana;
· di aver ricevuto, nonostante tutta l'operazione sia terminata nel 1989, solo un anticipo della provvigione pattuita (naturalmente pagata dall'Italimpianti su banca svizzera);
· di sapere che per le commissioni sull'affare sono stati versati circa 50 miliardi di lire (dell'epoca) in nero. Come dire che non solo il signor El Alba sarebbe stato truffato (ammesso che in questi sporchi affari ci possano essere vittime incolpevoli) ma anche la stessa Italimpianti sarebbe stata sfruttata da chi ne aveva i mezzi per assegnarsi in modo illecito somme altrettanto illecite.
Tre le domande rivolte da Valter Bielli al ministro della Giustizia. Intanto: quali indagini sono state condotte, a Genova e altrove, dopo la denuncia di Hamed El Alba? Insomma: l'inchiesta è andata avanti (e con quali risultati) o è stata insabbiata, e in questo caso da chi? Poi: sono stati disposti accertamenti per quantificare (e addebitare ai responsabili) i danni erariali arrecati dalle pratiche corruttive di questo solo affare? E infine: non sarà il caso, prima di decidere sul suo rientro in Italia, che Vittorio Emanuele chiarisca i suoi trascorsi piduisti e dica tutto ciò che sa "in ordine a fatti di corruzione"?
Dite la verità: valeva la pena o no di dimenticarsi del febbrone per raccontarvi quest'altra istruttiva storia di una prima repubblica che non finisce mai?
Giorgio Frasca Polara