La Morte e la Fanciullail ruolo della donna nel cinema di Dario Argento |
Lei
è dietro una vetrina, chiusa in una specie di acquario muto che le impedisce di
comunicare con l’esterno, ha gli occhi sbarrati dal panico e la mano tesa e
implorante verso la telecamera, nello stesso estremo gesto dell’hitchcockiana
Marion dopo la sua ultima doccia.
Si chiama Monica Ranieri (Eva Renzi),
veste di chiaro, è riservata, esitante, ancora traumatizzata dal tentato
omicidio di cui è stata vittima; ma nello stesso tempo indossa anche abiti di
pelle nera, ama pistole e coltelli e si diverte a torturare sadicamente il
protagonista schiacciandolo sotto una scultura di arte moderna. Monica è solo la prima della lunga galleria di
donne che Argento ritrae nei suoi film e non è la sola ad avere una doppia
personalità e una forte inclinazione al sadismo.
Il
tema della duplicità femminile nel regista si può collegare alla teoria sulle
relazioni oggettuali elaborata da Melanie Klein.
Secondo
la Klein, è proprio del bambino proiettare sulla madre da un lato la propria
aggressività (come meccanismo di difesa dall’angoscia), dall’altro le
proprie “parti buone”. Questa è la posizione o fase schizoparanoide che ha
come risultato l’esistenza di due oggetti contrapposti e irreali: una madre
buona e una cattiva, dunque un seno buono e uno cattivo.
L’amore
verso la figura materna e in seguito verso le altre donne sarà possibile
soltanto in un momento successivo (fase depressiva) in cui avviene la
reintegrazione dell’oggetto scisso.
“Io sono un bambino cattivo” ha dichiarato Argento per mano
dell’assassino che in “Non ho sonno” ha scritto queste parole sulla mano
di una vittima. Una vera e propria dichiarazione stilistica, perché lo sguardo
infantile è uno dei cardini del cinema argentiano ed ha una forte influenza nel
modo di concepire la donna nei suoi film.
Essa
è ancora un oggetto parziale e non integrato e ciò emerge bene nel taglio
delle inquadrature che ricercano ossessivamente il dettaglio, il frammento, di
parti del viso e del corpo. In “Tenebre” il volto della vittima emerge poco
per volta da una maglia squarciata, in “Inferno” l’assassino costringe la
povera Rose a sporgere in fuori il collo verso la lama, in “Profondo rosso”
e in “Opera” il regista insiste sull’occhio femminile, quello truccato
pesantemente della Calamai e quello che non si deve chiudere di Betty.
Un elemento onnipresente nei film di Argento è inoltre l’acqua,
simbolo femminile per eccellenza e che compare con funzioni opposte. L’acqua
può essere infatti buona e rigenerante, ma più spesso è torbida, scrosciante
e si accompagna a tuoni e temporali (Suspiria, Tenebre, Trauma), quando
non a vermi e cadaveri putrefatti (Phenomena); in “Trauma” l’assassino ha
bisogno della pioggia per colpire. In “Inferno” inoltre la sua natura
ambigua è conclamata: da un lato è il liquido amniotico e ovattato che
accoglie Rose mentre nuota, dall’altra la dimora di resti umani in
decomposizione, segno di morte.
Allo
sguardo crudele e infantile del regista, la figura femminile può diventare o
una strega crudele o una fata / fanciulla innocente. Tale dualismo è evidente
in opere in cui la componente irrazionale è più forte, come
“Suspiria” (1977) e “Phenomena” (1987).
In “Phenomena” l’evanescente Sara (Jennifer
Connelly) si colloca al di fuori dello spazio e del tempo, nella dimensione
propria di chi, sonnambulo, vive nel sogno. Sara, da principessa fiabesca,
sembra quasi trasfigurarsi in fata, riunire le forze della magia bianca,
chiamare a sua difesa la natura e, soprattutto, gli insetti contro la malvagia
Miss Bruckner, che di fatto è una vera e propria strega. Argento rappresenta
Sara in un’inquadratura che evidenzia tutta la sua levità ruotandole intorno
e sollevandola al di sopra delle compagne.
Anche
in “Suspiria” l’eterea Susy (Jessica Harper) dagli occhi grandi e
impauriti è molto vicina a una Biancaneve disneyana, immersa in un mondo che ha
i colori irreali del giallo, del blu, del rosso e del violetto. La sua
controparte saranno delle antagoniste totalmente malvagie come Miss Tanner e
Madame Blanc.
Esse, come pure Miss Bruckner,
rappresentano, in termini kleiniani, la vera e propria “madre cattiva”: sono
infatti come delle madri (anche se putative), perché a loro spetta il compito
di accogliere Susy, di proteggerla e di nutrirla, ma tutto ciò che deriva da
loro è ostile.
Il
tema del nutrimento è strettamente legato alla fase orale, quella in cui per il
bambino è centrale ciò che assume per bocca e che gli viene fornito dalla
madre: un “seno cattivo” che dà latte avvelenato è uno dei timori
maggiori che egli può avere verso chi lo alleva.
Ecco
dunque le pillole che l’istitutrice costringe Sara ad ingoiare “per il suo
bene” e che lei sputa di nascosto nel lavandino, chiaro esempio di pharmakon,
cura e insieme veleno. O le medicine che le “streghe” somministrano a Susy
per mano del sedicente psichiatra Udo Kier che non riescono a convincere né
fanciulla né spettatore sul loro potere taumaturgico.
Il
tema del nutrimento ritorna anche in “Trauma”, un’altra pellicola in cui
l’assassina è di nuovo una donna e per di più una madre, Adriana Petrescu. A
essa il regista ha dato origini rumene, non fondamentali nell’economia
del plot, ma che collegano la donna ad una tradizione mitteleuropea legata al
vampirismo e quindi, sul filo di un’affinità un po’ cialtrona, alle
streghe. La protagonista Aura (Asia Argento) è la figlia dell’assassina
ed è anoressica. La privazione totale e volontaria del cibo che la ragazza
esercita, unita al vomito quando è forzata ad ingoiarlo, sono il sintomo di una
consapevolezza inconscia della malvagità della madre, colei che nutre per
eccellenza. Quello di Aura si configura dunque come un estremo meccanismo di
difesa, un astenersi dal “latte avvelenato” per mantenere intatte bontà
e purezza, anche qui risultato della scissione schizoparanoide buono /
cattivo.
Tale
scissione si manifesta a livello intergenerazionale anche nel film “Opera”
(1987). Betty (Cristina Marsillach) è una ragazza debole e insicura,
anche se sul palcoscenico si trasforma nella spietata Lady Macbeth. A questa
prima scissione (che resta comunque all’interno del binomio realtà/spettacolo)
si affianca quella più importante incarnata dal personaggio della madre morta
che le compare in brevi flashback durante i suoi incubi (!). Al termine della
vicenda Betty verrà a conoscenza, proprio per bocca dell’assassino, del
temperamento perverso della madre che si eccitava vedendo il suo amante
seviziare giovani donne. Anche qui un’eroina con una madre sadica e disturbata
dalla quale essa si distingue per contrapposizione: madre cattiva incline alle
torture, figlia buona amante della natura (che Argento spiattella allo
spettatore in un finale implausibile). Sono presenti in “Opera” nuovi
riferimenti all’oralità, non più legati al nutrimento, ma al canto (attività
che si pratica con la bocca), scomoda eredità lasciata a Betty dalla madre e
che sarà la causa della sua disgrazia. L’intero film si configura come il
tentativo da parte della protagonista di ribadire la propria identità e la
propria purezza in contrapposizione alla perversione materna. E proprio su
quest’ultima, nonostante morta, viene scaricata la colpa e la responsabilità
degli omicidi, commessi dall’amante plagiato (e quasi giustificato dal
regista). Emerge dunque come le colpe di queste “madri degenerate” si
riflettano spesso sui figli e ne sono di esempio, oltre alla persecuzione di
Betty, l’anoressia di Aura e lo stato di degrado fisico e psichico del figlio
di Miss Bruckner.
Un
altro personaggio di madre / matrigna è la madre di Carlo in “Profondo
rosso” (1975), interpretata da Clara Calamai. Si tratta forse della
“strega” più inquietante dell’universo argentiano proprio perché il suo
aspetto di madre amorevole, protettiva e un po’ bizzarra, nasconde una
personalità psicotica e criminale. La figura dell’assassina, un’attrice in
declino costretta ad abbandonare la scena, ricalca in parte quello di Norma
Desmond in “Viale del tramonto” di Billy Wilder: in entrambe le pellicole,
pur con le dovute differenze, aleggiano spettri del passato e necrofilia. Quello
della donna doppia e perversa è un archetipo che compare frequentemente nel
cinema noir, un esempio tra tutti “Il grande caldo” di Fritz Lang, un autore
molto amato da Argento. Qui la seducente dark lady Debbie (Gloria Grahame) ha il
viso per metà sfigurato, ad esprimere la sua anima contraddittoria: crudele per
buona parte del film, sconterà la sua cattiveria con la morte suscitando pietà
sia nel protagonista sia nello spettatore. A differenza di molti noir, nei film
di Dario Argento nessun cattivo trova mai una redenzione o acquista una dose di
umanità, anzi, non è altro che un colpevole folle cui il regista riserva
un’esecuzione tanto casuale quanto efferata. Si pensi alla madre di Carlo
decapitata dall’ascensore, all’incidente spettacolare di Nina contro
il camion, a Miss Bruckner accoltellata dallo scimpanzé o alla decapitazione di
Adriana Petrescu per mano di un bambino (!).
Viene
da chiedersi quale sia il comportamento dell’uomo, quando si trova dinanzi a
figure femminili rivelatesi inquietanti serial-killer. Se la fanciulla, come si
è detto, reagisce ribadendo la propria purezza (Suzy, Sara, Betty), a volte
anche a costo di patologizzarsi (Aura), l’uomo risponde o con l’indifferenza
o assumendosi la colpa dei crimini da lei commessi.
Il
primo caso lo ritroviamo in “Quattro mosche di velluto grigio” in cui
Roberto Fabiani, perseguitato e coinvolto in una ridda di omicidi, non sospetta
minimamente che la responsabilità possa ricadere su sua moglie Nina (Mimsy
Farmer). La donna, di famiglia molto ricca, assume per Fabiani anche la
connotazione di madre. Egli è infatti un giovane musicista spiantato e per
vivere ha bisogno di appoggiarsi a lei. Ritorna il tema del nutrimento,
simboleggiato dal denaro che Fabiani riceve da un seno che si rivelerà
“cattivo” soltanto alla fine.
L’altra
reazione dell’uomo alla follia femminile è, come ho accennato, l’autoaccusa
a fini protettivi, spesso indice di una personalità succube e debole.
Un
classico è la sbandierata colpevolezza di Carlo in “Profondo rosso” per
tutelare la madre, ma lo stesso meccanismo è presente nell’“Uccello dalle
piume di cristallo” e in “Trauma”.
Nel
primo Ranieri si costituisce e muore pur di salvare la moglie, nel secondo il
dottor Judd è disposto a riempirsi il cofano dell’auto di teste umane
decomposte pur di scagionare l’amante Adriana Petrescu. La tematica della
“protezione dell’omicida” è presente anche in “Sei donne per
l’assassino” (1964) di Mario Bava, autore che ha ispirato sotto molti
aspetti il regista romano. Da esso egli desume il tema del finto colpevole (che
diventerà uno stilema dei plot argentiani), con la differenza che in “Sei
donne” i ruoli sono invertiti. La crudele Cristiana, che ricorda
nell’aspetto Monica Ranieri, è in realtà succube dell’amante Morlacchi e
per lui è pronta anche ad uccidere, mentre quest’ultimo non esita ad
approfittare della sua debolezza. Nella cinematografia di Bava si rintraccia
anche il tema della scissione femminile bene / male, in particolare nel suo
primo lungometraggio, “La maschera del demonio” (1960). La regina
dell’horror Barbara Steele interpreta due donne, Katia e Asa, l’angelo e la
strega, creando un senso di confusione e ambiguità negli altri personaggi e
negli spettatori. Qui il male e il bene sono dicotomicamente separati, ma alla
fine amore e bontà trionferanno.
Alla
fanciulla gotica e perseguitata di Mario Bava l’innamoramento e l’amore sono
concessi, a differenza di ciò che avviene per le donne di Dario Argento, alle
quali amore e sesso sono la maggior parte delle volte preclusi. Esse hanno
spesso fattezze androgine, come la Nina di “Quattro mosche” che ha assunto
il portamento e i modi del padre aguzzino, oppure hanno rifiutato la loro
femminilità e il loro corpo attraverso la malattia (vedi il digiuno anoressico
di Aura e la sua abitudine a fasciarsi il seno), quando non si tratta della
bellezza ambigua del travestito Eva Robbins.
Tutto
questo senza citare il personaggio completamente fuori fase e decisamente
improbabile di Anna (Asia Argento) ne “La sindrome di Stendhal” (1996) che
passa dall’esibizione di un’innaturale mascolinizzazione a quella di una
femminilità prorompente e falsa. A lei l’unico atto sessuale che viene
riservato è lo stupro e ad esso, come Monica Ranieri nell’“Uccello”,
risponderà col delitto. Nella poetica di Dario Argento la violenza e
l’omicidio sono spesso i sostituti dell’amplesso, che non è mai visto in
modo sano, ma piuttosto come generatore di turbe e traumi, seguendo il pensiero
psicoanalitico freudiano più classico. La scena chiave di “Profondo rosso”,
rievocata tramite flashback all’inizio e alla fine del film, si ispira a
quella che Freud definisce “scena primaria” e che consiste nella visione da
parte del bambino del rapporto sessuale dei genitori. La differenza della messa
in scena argentiana è però fondamentale: il piccolo Carlo non assiste a un
amplesso tra i genitori, bensì all’omicidio del padre da parte della madre,
evidenziando la sostituzione sesso – violenza che diventerà la costante di
ogni film. Le eroine del regista, le varie Suzy, Sara, Aura, Betty, sono
virginali di aspetto e di fatto ed è proprio la loro assenza di Eros che le
tiene lontane da Thanatos. Emerge qui una grande differenza (e in un certo senso
coerenza) con gli splatter movie americani (e con le loro parodie, ad esempio
“Scream”), in cui le ragazze vengono massacrate dal mostro di turno proprio
mentre consumano il loro primo rapporto sessuale.
Non
assente dall’universo argentiano è una certa necrofilia, un’attrazione per
la donna resa possibile nel momento in cui essa è più innocua. Così i
cadaveri femminili vengono rappresentati con una precisione e un gusto estetico
inusitati donando a molte vittime, prima piuttosto sbiadite, l’identità che
non avevano da vive. E alcune di loro, come Bianca Merusi ne “Il gatto a nove
code”, devono essere riesumate per essere nuovamente mostrate allo spettatore.
L’autocompiacimento di Argento nel ritrarre un cadavere femminile da poco
inumato ricorda l’ossessione di Poe per le fanciulle sepolte vive, la schiera
delle Ligeia, Berenice, Madeleine che soltanto da morte possono essere amate e
che solo allora, paradossalmente, rivelano il proprio doppio. Una citazione
immediata (e pretestuosa) alla Berenice di Poe compare nell’episodio “Il
gatto nero” di “Due occhi diabolici” in cui Harvey Keitel fotografa al
cimitero un cadavere di fanciulla a cui sono stati strappati tutti i
denti.
Interessante è il ruolo riservato alle figure
femminili in “Inferno” (1980), la summa dell’arte delirante e irrazionale
del regista. In esso giovani fanciulle vengono barbaramente trucidate perché,
come osserva il losco antiquario Kazanian, “sono troppo curiose”. La
curiosità è donna ed è lei a guidare Rose e Sara nelle viscere della Terra,
alla ricerca di quella che Jung chiama Ombra e Stephen King “metà oscura”.
Le due ragazze non soltanto moriranno di morti orrende, ma lo faranno gettando
lo spettatore in una situazione inattesa. Egli infatti, con un effetto simile a
quello che Hitchcock aveva ottenuto in “Psycho” (1960) si vede sparire, una
dopo l’altra, quelle che aveva appena eletto a protagoniste della vicenda. Ma
lo spettacolo finale, ovvero la rivelazione dell’Ombra, del rimosso, della
Madre di tutte le Madri toccherà al fratello di Rose: “Chi sei tu?” chiede
a una cupa Veronica Lazar che ufficialmente dovrebbe fare l’infermiera.
“Mater Tenebrarum, Mater Lachrimarum, Mater Suspiriorum, ma gli uomini ci
chiamano con un solo nome. Un nome che incute paura a tutti! Ci chiamano… LA
MORTE! … LA MORTE!”.
Davvero
non esiste un ruolo più inquietante che un regista possa affidare ad una donna.