CONCLUSIONE   (Pensiero ateo e contesto possibile)

 

    Abbiamo delineato nel Capitolo 1 la fenomenologia del sacro e nei successivi l’apparire di forme differenti di pensiero ateo in ambito greco e in ambito indiano, tra l’inizio e la fine del primo millennio precedente la nostra èra. Siamo ora in grado di tentare di dare una risposta più compiuta ad una domanda che è insieme di carattere antropologico e di carattere storico, che potrebbe suonare: «Quali sono le condizioni affinché possa nascere e sussistere il pensiero ateo?». Abbiamo evidenziate ed esaminate le forme più importanti in cui esso si è manifestato in due contesti spazio-temporali significativi, afferenti due delle più grandi civiltà apparse sul nostro pianeta nell’era antica, e non è privo di significato il fatto che praticamente essi siano gli unici in cui è dato storicamenta cogliere la presenza di una teorizzazione dell’ateismo, sia pure con gradi differenti di radicalizzazione di esso, in rapporto o in contrapposizione alle contestuali religioni attive ed operanti.  Non abbiamo avuto modo di evidenziare la presenza di un pensiero ateo nelle regioni dell’Estremo Oriente non già perché esso sia stato assente in Cina, Corea o Giappone, bensì perché in quei contesti abbiamo ritenuto più difficile individuare dei nuclei interessanti di pensiero filosofico, evidenziabili in termini chiari sul piano teoretico.

    D’altra parte, per quanto riguarda l’ateismo in ambito indiano, dobbiamo dire che le forme in cui esso si è manifestato rispondono alla nostra esigenza euristica in senso letterale (si tratta di filosofie “senza dèi”, o quasi) ma non sempre in senso proprio, poiché, sia nel loro articolarsi teoretico che nei loro sviluppi, mostrano poi, per molti versi, caratteri contigui alla religione o comunque forieri di atteggiamenti misticheggianti difficilmente compatibili con un atteggiamento ateo. Noi riteniamo infatti che questo si estrinsechi in termini propri ove escluda ogni riferimento ad aspetti o esperienze dell’esistenza umana che ne trascendano i caratteri di immanenza. Quando, esplicitamente o implicitamente, si consideri l’esistenza corrente come aspetto deteriore o degradato dell’esperire umano, votato a più alti destini, si rischiano sempre le derive religiose, come mostrano chiaramente gli sviluppi del Buddismo, dove l’inventore di esso ha finito per diventarne divinità e oggetto di culto. Una caratteristica di tutti questi ateismi misticheggianti è quella di porsi come dottrine soteriorologiche, dove non si tratta della salvezza dalle conseguenze di un peccato contro la divinità (più presente nella tradizione occidentale), quanto piuttosto di una salvezza dall’ “ignoranza” di una verità cosmica. Un’ignoranza a cui si contrapporrebbe una “sapienza” di tipo mistico, che nell’alternativa materiale-spirituale indica e prefigura un superiore destino dell’uomo, per realizzare il quale esso deve venire “estratto” dalla materialità, quale falsa ed illusoria dimensione della realtà.

    Anche a giudicare delle vicende del pensiero antico e dai successi sviluppi evolutivi delle filosofie che abbiamo esaminato, ci sentiamo qui legittimati a poter affermare che soltanto in ambito greco è stata possibile la nascita di un pensiero scientifico e sulle cui orme l’ateismo abbia potuto presentare quelle caratteristiche basilari nelle quali sia possibile riconoscere le radici e i fondamenti del pensare il mondo e l’esistenza escludendo alcun riferimento alla divinità e alla trascendenza. Solo in tale ambito, infatti, si è riusciti a pensare il mondo come una realtà della pura immanenza, nella quale l’ipostasi di entità o di fondamenti ontologici che ne prescindano e che esorbitino gli orizzonti dell’esistere reale e concreto (nella sua effettualità universalmente presente ed evidente) è stata esclusa. E noi intendiamo per effettualità [1]  la sfera degli effetti sensibili o concernenti la sfera dei sentimenti o dell’intellezione riguardanti ogni uomo, indipendentemente dal contesto di appartenenza, dalla condizione e dalla cultura, in quanto “sfondo reale” del suo esistere ed esperire se stesso e il mondo che lo circonda.

    Il pensare ateo è quindi una maniera di rapportarsi al mondo e alla vita che si fonda sull’esperienza del quotidiano e che concede al pensiero immaginativo soltanto quanto costituisce un’attività deduttiva ed induttiva, estrapolativa ed interpolativa, che non determini “salti metafisici” rispetto all’esperire corrente e comune dell’homo sapiens in generale. Tutte le esperienze che abbiano carattere particolare ed esclusivo (ci riferiamo a quelle mistiche o paranormali) vanno respinte fuori di ogni orizzonte ateo, in quanto sono estranee al vivere nella sua realtà corrente e comune, quale sicuro terreno di riferimento dell’esperienza antropica, rispetto al quale esse ci estraniano, conducendoci verso un mondo che spesso ha caratteri di pura illusorietà. Non intendiamo con questo affermare che riteniamo di escludere categoricamente aperture di orizzonte che vadano aldilà della materia che ci costituisce, poiché anzi siamo sostenitori di una weltanschauung pluralistica e per alcuni versi post-materialistica, che interpreti la sfera dei sentimenti e delle emozioni secondo criteri che vadano oltre il tradizionale monismo materialistico. Ma un conto è riconoscere alla sfera dei sentimenti e delle emozioni una specificità esperienziale ed effettuale, che può avere o meno caratteri di extra-fisicità nell’immanenza, e un conto è riferire tale specificità ad un ambito che si costituirebbe nella trascendenza. Noi vediamo in ogni trascendimento della materia verso ipostasi spiritualistiche una deriva che prima o poi conduce inevitabilmente alla formulazione di dottrine religiose, o almeno a comportamenti di tipo superstizioso.

   A questo punto, se è vero che soltanto in ambito greco si è data nell’antichità un autentica teoresi atea, non possiamo fare a meno di chiederci, ancora una volta, che cosa abbia posseduto quel contesto per renderla possibile. Abbiamo già rilevato che i contesti arcaici ancora oggi indagabili denunciano l’assoluta impossibilità del pensiero ateo, sia perché la weltanschauung mistica che li caratterizza lo esclude radicalmente dal proprio orizzonte, e sia perché l’individualità personale (che da essa potrebbe volerne uscire) è assai debole, sì ché ogni componente della comunità si identifica con questa e in essa si annulla, come in una totalità di significati cogente e irrinunciabile che appare come l’unica realtà umana possibile. Il mondo ionico del VII secolo a.C. si presentava con caratteristiche già completamente differenti: a) era caratterizzato da una certa democraticità, che riconosceva al cittadino le libertà fondamentali, b) aveva contatti col mondo circostante e anche con quello relativamente lontano attraverso il commercio; con scambio di derrate, prodotti artigianali finiti e conoscenze tecniche relative, c) era alla ricerca costante di ogni elemento tecnologico utile ed innovativo per la soluzioni di problemi concernenti la vita sociale e privata, e) era avido di cultura sia letteraria che artistica ed aperto ad apporti esterni comunque utili a vivificarla. Ma il mondo ionico soprattutto si caratterizzava per una scarsa cogenza della religione in termini fideistici, per cui essa né interferiva sulla ricerca naturalistica e tecnologica né impediva la formulazione di filosofie che potessero entrare in contrasto con la sfera del sacro. Ciò aveva fatto sì che fosse possibile trarne elementi per la formulazione di teorie di carattere generale, ovvero di quella forma aurorale di scienza che aveva ormai preso le distanze dal mito e dalla magia. 

    Sarebbe tuttavia azzardato sostenere che nella Ionia del VI secolo a.C. fosse già presente un pensiero scientifico vero e proprio, ma ne erano sicuramente presenti tutti i presupposti, al punto che un filo di continuità lega il naturalismo milesio all’atomismo abderita, fino alla formazione di un pensiero scientifico ormai sviluppato e comune a tutto il mondo greco, quale è dato cogliere in epoca ellenistica [2]. Pensiero scientifico il quale, un po’ per il prevalere dell’idealismo platonico, un po’ per l’avvento del Cristianesimo e un po’ per la scarsa propensione alla speculazione della cultura romana, ha poi finito per essere messo in soffitta per molti secoli per ridispiegarsi soltanto agli albori del Rinascimento [3].  Se vogliamo poi fissare un atto di nascita del pensiero scientifico, e con esso dell’ateismo, dobbiamo riferirci a Mileto, con una data approssimativa intorno all’inizio del VI sec.a.C.).

    In quella città della Caria, sulle coste della Ionia (oggi Asia Minore), ad opera di alcuni uomini, ma in un contesto culturale che li supporta e li integra, avviene infatti una frattura epocale nell’interpretazione del mondo, poiché, per la prima volta nella sua storia, l’uomo cerca una spiegazione di esso senza ricorrere a cause divine. Aver accertato che là, e in quel momento, ciò sia avvenuto ci pare preliminare per ogni ricerca volta a comprendere come l’uomo abbia potuto sganciarsi dall’ipoteca religiosa nelle spiegazioni dell’essere del mondo. Condizione indispensabile perché la cultura umana si potesse avviare su quella strada innovativa e rivoluzionaria che condurrà, in epoca ellenistica, al dispiegarsi del pensiero scientifico.

    Ma una teoria laica della conoscenza, e con essa la filosofia ateistica che era divenuta possibile, continuerà a rimanere abbastanza estranea al di fuori del mondo ellenico. Né si può certo affermare che la condizione fondamentale di ogni filosofia atea, la libertà metafisica, fosse già compiutamente realizzata nel mondo greco. Anche un ateismo monistico e necessitaristico come quello democriteo, a nostro avviso, non poteva ancora consentire un completo sganciamento da ipoteche religiose, poiché la “necessità” è già sempre una forma implicita di “divinità”. E tuttavia lo strappo con le cosmologie mistiche su base sacrale era avvenuto pienamente e definitivamente; ciò dava inizio ad un nuovo corso nella storia della cultura umana, dal cui solco è seguita la più ampia strada che ha portato al dispiegamento della cultura scientifica ed umanistica contemporanea.

 

                                                             FINE

 

 



[1] Cfr. Necessità e libertà, Clinamen 2004,  nota 3  di p.11 e Glossario a p.279.

[2] Su questo argomento consigliamo la lettura dell’ottimo saggio di Lucio Russo  La rivoluzione dimenticata (Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna), Feltrinelli 2001. 

[3] Occorre però notare che una rinascita del pensiero naturalistico si ha già nel secolo XIII in ambito oxoniense. A Oxford Roberto Grossatesta (Robert Greathead) è il propugnatore di un ritorno allo studio della natura. Egli vede nella matematica un adeguato mezzo di approccio ad essa e più in generale si presenta come un cultore del quadrivium (aritmetica, geometria, musica e astronomia) piuttosto che del trivium umanistico. È uno dei pochissimi filosofi cristiani dell’epoca a conoscere il greco e può così accedere agli originali greci, traducendo Aristotele e Dionigi L’Areopagita. La sua è però una filosofia il cui lo scopo principale è di opporsi alla diffusione dell’aristotelismo, promuovendo un ritorno a Platone e al neoplatonismo. Nel suo De luce egli elabora una metafisica della luce di ispirazione neoplatonica, con ampi riferimenti a Sant’Agostino. Il suo allievo Ruggero Bacone (Roger Bacon) ne sviluppa le premesse, aggiungendovi l’evidenza sperimentale come elemento determinante. Bacone basa perciò la sua filosofia sull’esperienza, ma ne distingue due specie, l’esperienza “esterna” (quella dei sensi) e l’“interna” (quella dell’illuminazione divina). Privilegiando però questa come la vera fonte della conoscenza, finisce per concludere nella mistica, svalutando così le stesse premesse scientifiche da cui era partito. Va tuttavia notato che nella filosofia cristiana britannica si svilupperà anche in seguito un certo atteggiamento pseudo-scientifico, rilevabile sia in Duns Scoto, che stacca la scienza dimostrativa (la metafisica) dalla scienza pratica (la teologia), sia in Guglielmo di Ockham, che riprende in modo più radicale l’atteggiamento di Ruggero Bacone a favore dell’esperienza sensibile. Ockham, col suo atteggiamento anti-metafisico, prepara l’eclissi della Scolastica, spostando decisamente l’attenzione della ricerca filosofica sulla natura e teorizzandone un approccio basato su un diffuso empirismo.