CAPITOLO QUINTO

                                       (Edonismo ed eudemonismo)                               

 

 

                                           5.1 I Cirenaici

 

    Col nome collettivo di Cirenaici si indicano gli aderenti a una scuola di pensiero che pone il piacere come fine primario dall’esistenza e che ha in Aristippo di Cirene (435 circa–366 a.C.) il suo fondatore. Scuola non omogenea, che si articolerà al suo interno in varie sfumature etiche e che si manterrà vitale per almeno due secoli, prima di venire messa in ombra dall’epicureismo, che per molti versi ne è un suo superamento, soprattutto in termini di completezza teorica e profondità. Epicuro, infatti, doterà la sua dottrina edonistica di un fondamento ontologico e gnoseologico che nei Cirenaici è quasi totalmente assente. Il pensiero cirenaico si sviluppa infatti quasi esclusivamente sul piano di un’etica del tutto pragmatica e lontana da principi teorici informatori.  Sulla filosofia cirenaica nella sua generalità esistono giudizi abbastanza concordi nel mettere in rilievo alcuni suoi aspetti fondamentali, che potrebbero essere così sintetizzati: a) un sensismo assoluto sul piano etico, b) un fenomenismo riduzionistico sul piano ontologico, 3) l’abbandono di ogni indagine sul cosmo e sulla natura, divenendo l’oggetto del filosofare l’uomo, la sua fisiologia, le sue emozioni, i suoi desideri e il modo di soddisfarli, 4) un certo disprezzo per le scienze matematiche. Ciò non significa affatto che la filosofia cirenaica sia rozza come gli apologeti cristiani [1] hanno voluto mostrarla, né che all’interno di questo orizzonte etico-edonistico manchino articolazioni dove l’intendimento conoscitivo ed il processo logico diano luogo a sviluppi interessanti. Seneca vede in essa un rientro di aspetti gnoseologici soltanto apparentemente espunti (Lettere a Lucilio, XIV, 1, 12):

 

    I Cirenaici tolsero via le indagini naturalistiche e quelle logiche e si limitarono a quelle morali, ma poi in altro modo reintroducono ciò che pure avevano rimosso. Infatti essi dividono in cinque parti le indagini morali: di modo che una riguarda ciò che è da fuggire e ciò che è da ricercare, un’altra le affezioni, la terza le azioni, la quarta le cause, la quinta gli argomenti. Le cause dlell cose tnono quini il posto dlle indagini naturali, gli argomenti di quelle logiche, e le altre di quelle morali. [2]

 

E Sesto Empirico (Contro i matematici, VII, 190):

 

[…[ Dicono dunque i Cirenaici che criteri di verità sono le affezioni, che esse sole sono comprensibili e che non sono fallaci; ma di ciò che produce le affezioni nulla è comprensibile ed esente da errori; […] [3]

 

Diogene Laerzio si occupa principalmente di Aristipppo e della sua vita ricca di aneddoti ma ci offre anche alcune interessanti valutazioni sui Cirenaici in generale, anche se accentua un po’ troppo la fisicità del loro edonismo, quando afferma (II, 86-87):

 

[…] ammettono due stati d’animo, il piacere come movimento calmo, il dolore come movimento aspro. Il piacere non differisce dal piacere né v’è un piacere più dolce di un altro; tutti gli esseri animali apirano al piacere, rifuggono dal dolore. Tuttavia il piacere è quello fisico, che è anche fine supremo, […] Il piacere particolare è per se stesso desiderabile; la felicità non per se stessa, ma per i piaceri particolari […] La rimozione del dolore, che è difesa da Epicuro, sembra a loro che non sia piacere, e neppure l’assenza di piacere è dolore. Piacere e dolore sono in movimento, poiché né l’assenza di dolore né l’assenza di piacere è movimento, ché anzi l’assenza di dolore è quasi come lo stato del dormiente. […] I piaceri fisici sono molto preferibili ai piaceri dell’anima e le pene fisiche sono peggiori delle pene spirituali. […] È sufficiente che noi godiamo di ogni singolo piacere che ci capiti. […] La ricchezza produce il piacere, ma non è per se stessa desiderabile. Affermavano che le passioni sono intelleggibili, non le cause da cui derivano. Non si dedicavano allo studio della natura per la sua manifesta inintelligibilità, ma coltivavano la logica per la sua utilità. […] Nulla è giusto o onesto per natura, bensì per convenzione e abitudine. [4]

 

    Aristippo di Cirene fu allievo di Socrate, ma se questi ammetteva la ricerca del piacere è difficile cogliere i segni dell’etica socratica laddove venga teorizzato che il piacere va “sempre” perseguito a prescindere da qualsiasi remora di carattere morale. Un edonismo così radicale (e per alcuni versi negatore della “misura” greca) non doveva rendere la vita facile al cirenaico, il quale, tuttavia, non era indigente, poiché godeva di un’estrazione sociale facoltosa e risulta anche che non disdegnasse di farsi pagare dagli allievi. Se pure ha scritto qualcosa esso è andato perduto e la sua figura può quindi essere costruita soltanto attraverso le testimonianze (spesso malevole) che lo riguardano. Sulle quali, copiossissime, non ci soffermeremo più di tanto, in considerazione del taglio del presente saggio. Aristippo emerge da esse come una specie di dandy dell’epoca, coraggioso, indipendente e dotato di quel “bello spirito” (una sorta di wit) che alimentava per un verso il biasimo e per altro verso l’ammirazione dei suoi contemporanei.

    Dice di lui Diogene Laerzio (II, 66):

 

[…] Si adattava con disinvoltura a luogo, a tempo, a persona e recitava il suo ruolo convenientemente in ogni circostanza. Perciò più degli altri godeva del favor di Dioniso, poiché riusciva sempre a rendere accettabile ogni situazione. Godeva il piacere dei beni presenti, ma rinunziava ad affaticarsi per il godimento di beni non presenti. Fu per queto che Dioniso lo chiamava cane (o cinico) regale. [5]

 

    Sarebbe tuttavia un grave errore dar credito all’aneddottica e lasciarsi sfuggire alcuni importanti aspetti dell’etica aristippea che individueremo in a) l’enunciazione di un individualismo estremo e di un’autosufficienza non lontana da quella cinica, b) la svalutazione di ogni convenzione sociale e di ogni rispetto per la tradizione, c) la distinzione di piacere e sofferenza sulla base del “movimento” psico-nervoso che essi implicano, c) il privilegiamento del piacere immediato e dinamico rispetto a quello differito e statico, d) una visione della vita che la considera un processo discontinuo costituito da “istanti”, ognuno dei quali va vissuto in quanto tale, ed e) il riconoscimento di realtà soltanto ai fenomeni e ai sensi che li rilevano (in quanto mezzi di accesso alla realtà e alla conoscenza di essa).  Aspetti etici diversi e che tuttavia, sul piano dei comportamenti, trovano una loro sintesi laddove, ad esempio per a), il piacere va “gestito” senza diventarne succubi, poiché se esso è sempre per il bene ed è sempre da preferire e da perseguire in ogni frangente, nondiméno, qualora da posseduto diventi possessore, dev’essere sospeso,  poiché metterebbe in mora il principio di autosufficienza e autonomia.  Per quanto riguarda l’aspetto b) Aristippo non considera in alcun modo l’ethos della polis, rivendicando lo sganciamento da esso in nome di un nomadismo autosufficiente e svincolato da concetti di patria o di tradizione. Relativamente al “movimento” c) delle sensazioni: nel piacere esso ha carattere di levità (che provoca appunto godimento) mentre nella sofferenza esso è violento (nel sonno non vi è movimento e sono pertanto assenti sia il piacere che la sofferenza). Ma il piacere vero è piacere comunque dinamico (non quindi l’epicurea “assenza di dolore”) ed è il vero motore positivo dell’esperienza umana. Considerare la vita come una successione discontinua di istanti significa mettere in ombra il passato e il futuro, con un’etica del carpe diem che troverà seguaci tra numerosi intellettuali del mondo latino. Infine, relativamente ad e), il fenomenismo aristippeo è assoluto, in quanto sostiene che soltanto ciò che viene percepito è reale e tale riduzionismo sensistico e individualistico rivela in Aristippo indubbi riferimenti anche alla filosofia sofistica. 

    Va tuttavia notato che diversi studiosi tendono a spostare la teorizzazione dell’edonismo cirenaico da Aristippo (il “Vecchio”) a suo nipote Aristippo Metrodidatta (il “Giovane”) attraverso la figlia Aréte, che risulta essere stata donna colta e sensibile alla filosofia del padre. In altre parole, Aristippo-nonno si sarebbe limitato a dirigere i propri comportamenti in senso edonistico (ma ancora con qualche “misura”) e verso un certo aristocratico distacco ironico che privilegiava piuttosto gli elementi dell’autonomia” esistenziale e dell’autosufficienza [6]. Secondo questa interpretazione Aristippo si sarebbe tenuto abbastanza lontano dall’edonismo rozzo che in seguito venne spesso attribuito al suo cirenaismo. Egli sarebbe rimasto fondamentalmente un “socratico”, che avrebbe mantenuto nei confronti del piacere un certo distacco non privo di “riserve”, espresse nel ben noto aforisma “possedere il piacere ma non esserne posseduti”.

    I seguaci di Aristippo come è già stato detto non costituiranno mai una vera e propria scuola univoca, ma svilupperanno il suo edonismo in direzioni differenti, e ciò a conferma della scarsa teorizzazione della sua filosofia, essendosi limitato ad indicare una direzione etica relativamente interpretabile. A parte Aristippo Metrodidatta, di cui si è detto e al quale sarebbe da attribuire una certa radicalizzazione dell’edonismo, emergono come successori più tardi tre personaggi di notevole spessore filosofico, anche se non molto ben documentati, tutti e tre vissuti tra la seconda metà del IV e la prima metà del III sec.a.C. (quindi contemporanei o appena più giovani di Epicuro) che sono: Egesia, Annicéri (o Anniceride) e Teodoro detto “L’Ateo”.

 

    Egesia è un pensatore abbastanza sconcertante, in quanto, scavando nelle più profonde pieghe del piacere e del suo conseguimento, giunge alla conclusione che esso è irraggiungibile ed ha comunque, quando saltuariamente viene raggiunto, caratteri di relatività soggettiva. Da qui il ragionamento consequenziale per cui, se la realizzazione del piacere è lo scopo della vita e se tale scopo, per ragioni non contingenti ma strutturali al vivere stesso, risulta non realizzabile, la via più razionale di risolvere tale fallimento è quello dell’annullamento di ciò che si oppone alla realizzazione del piacere; ovvero, la vita stessa. Si tratta di un’analisi pessimistica che porta ad un deduzione paradossale, ma non per questo illogica, a riprova che la ragionevolezza non coincide sempre con la logica. L’errore di Eresia è di porre una sorta di principio dello “stato di piacere permanente”, laddove la ragione ci dice che ciò è impossibile, e che un’eudemonismo intelligente si realizza nel cercare di raggiungere il “massimo piacere possibile” in base alle condizioni date, restando lontani da un teorizzazione del “piacere costante”. L’alternanza dolore/piacere è ciò che fa sì che si apprezzi il secondo perché viene sospeso il primo e in ciò consiste l’edonismo epicureo, che in questo è estremamente pragmatico e razionale. Tale radicalismo edonistico, una sorta di pulsione autodistruttiva dell’edonismo stesso, farà guadagnare ad Egesia il soprannome di Peisithanatos (Persuasore di morte), a cui seguì l’interdimento dell’insegnamento ad Alessandria per ordine di Tolomeo I Soter. E tuttavia anche Eresia promuove quell’atteggiamento di superiore e distaccata indifferenze che era già stato di Aristippo. Nota Diogene Laerzio a proposito dei suoi seguaci (II, 93):

 

    È assolutamente impossibile conseguire la felicità, perché il corpo è affetto da molte sofferenze, l’anima soffre insieme col corpo e ne è sconvolta, e la sorte impedisce che si realizzino molte speranze. Ne consegue che la felicità non esiste. La vita e la morte sono volta a volta desiderabili. […] Pe lo stolto vivere è utile, per il saggio è indifferente. […] Il sapiente non tanto nella scelta dei bene, quanto nella fuga dei mali sopravanzerà gli altri, perché il suo fine è di non vivere tra pene e dolori: e questo fine conseguono quelli che non fanno alcuna distinzione tra le cause produttrici di piacere. [7]

 

 

    Annicéri (o Anniceride) è un pensatore che cerca di attenuare la spregiudicatezza aristippea e il suo radicalismo nel porre l’autosufficienza (la totale autonomia e indipendenza dagli altri) come fine del saggio. Annicéri capisce che l’uomo, in quanto animale sociale, ha bisogno degli altri e che soltanto nel rapporto con gli altri diventa possibile una ricerca della felicità. Ma per fare questo si deve attenuare l’autosufficienza e l’individualismo, per aprirsi all’altro-da-sé; solo “con l’altro” è conseguibile il massimo piacere possibile, mentre escludere l’altro significa precludersi buona parte delle possibilità di conseguirlo. Da qui la rivalutazione di tutti quei fattori del vivere sociale che Aristippo aveva messo in mora ed in primis l’amicizia; e questa si istituisce e si consegue attraverso una ricerca del rapporto simpatetico col nostro prossimo. Ma per poter costituire legami di amicizia occorre anche liberarsi da un eccesso di individualismo e tentare di comprendere il desiderio dell’altro per contemperarlo col proprio e “insieme” tendere al piacere comune. Insieme all’amicizia Annicéri invita l’edonista a coltivare anche i sentimenti della gratitudine e dell’affetività parentale, nonché persino (contrapponendosi in ciò nettamente al messaggio del cosmopolita Aristippo) l’amore per la patria. Sentiamo in proposito ancora Diogene Laerzio (II, 96-97):

 

[…] esistono nella vita reale l’amicizia e la gratitudine e l’onore dei genitori e che talvolta bisogna agire per amore di patria. […] La ragione non è sufficiente al fine di avere fiducia in noi stessi e di essere superiori all’opinione del volgo, ma dobbiamo educare il nostro carattere e vincere l’innata cattiva disposizione che è cresciuta insieme con noi. Non bisogna farsi l’amico solo per motivi di interesse (altrimenti, venuti meno questi motivi, bisogna allontanarsene), ma anche per un sentimento di benevolenza, per cui siamo disposti ad affrontare anche disagi. Ed infatti pur avendo come fine il piacere e pur affliggendoci se ne siamo privati, dobbiamo tuttavia sopportare volentieri per amore dell’amico. [8]

 

Non sappiamo se questo edificante programma corrisponda realmente alla dottrina etica proposta da Annicéri, ma si tratta comunque di un chiaro segno del fatto che il cirenaismo, evolvendosi, ha finito per recare in sé anche i segni della propria negazione, avendo tra le sue linee evolutive anche la tendenza verso un piacere sempre più complesso, che finiva per coincidere con un eudemonismo partecipativo assai distante dalle premesse poste da Aristippo un secolo prima. E tuttavia, per l’argomento del nostro studio, è importante rilevare che il recupero di aspetti dell’etica tradizionale non è stato accompagnato da quelli concernenti la religione e che quindi il cirenaismo contiene elementi abbastanza spiccati di ateismo.

 

   Teodoro l’Ateo completa la triade dei successori di Aristippo ed è forse quello il cui pensiero presenta aspetti che travalicano il campo dell’etica per assumere alcuni elementi più specificamente teoretici. Diogene Laerzio nell’occuparsi di lui sottolinea subito l’elemento emergente:

 

Teodoro eliminò radicalmente le comuni credenze negli dèi e ci è occorso di leggere un suo libro Degli dèi punto spregevole. […] Non ammetteva l’amicizia, perché essa non c’è né tra gli stolti né tra i sapienti: per gli uni eliminato il bisogno, svanisce anche l’amicizia; i sapienti bastano a se stessi e non hanno bisogno di amici. Sosteneva anche che è ragionevole che l’uomo buono non esponga al pericolo la propria vita per la patria, perché non deve rigettare la propria saggezza per l’utilità degli stolti. Nostra patria è il mondo. [9]

 

Teodoro si riallaccia così per un verso ad Aristippo il Vecchio e al suo programma provocatorio, ma nello stesso tempo sembra proporre una maggior razionalizzazione dell’atteggiamento etico, sì da scostarsi dalla filosofia puramente sensistica teorizzata da lui (o da suo nipote Aristippo Metrodidatta). È la ricca aneddotica che lo riguarda a renderci l’immagine di un uomo riflessivo, che privilegia l’autosufficienza e la ricerca di un piacere complesso, costituito da elementi sia sensibili che intellettuali. L’aristippeo perseguimento del piacere “per istanti” sembra non interessare più a Teodoro, che nella migliore tradizione greca ritiene che “il giusto mezzo” sia l’unico che possa garantire continuità e persistenza al piacere, permettendogli di istituire una condizione di “gioia” che non ha più a che fare col godimento istantaneo e fuggevole. Le sensazioni fugaci non lasciano traccia e non servono per il conseguimento di un piacere vero, che diventa invece possibile soltanto con una razionale analisi del vivere e delle sue possibilità esistenziali, in base ad un “calcolo” dell’opportunità. Per Teodoro il raggiungimento del piacere possibile presuppone anche una certa relativizzazione del male fisico inevitabile in rapporto al bene fisico possibile; entrambi vanno quindi tendenzialmente considerati realtà (per quanto possibile) “indifferenti” rispetto alle finalità che si pone il saggio. Ne consegue che la tematizzazione bene/male diventa controproducente ed il primo può tanto più emergere quanto meno se ne fa oggetto di desiderio da contrapporre al secondo. Questa sorta di “indifferentismo” edonistico proietta la filosofia teodorea in un ambito che va oltre i limiti del cirenaismo e per un verso lo riallaccia a Democrito (che perseguiva l’eutimìa) e per altro lo rende tangente (ancor più di Annicèri) all’epicureismo, che persegue l’aponìa e l’atarassia. Ma Teodoro riprende anche alcuni atteggiamenti comportamentali di Aristippo che risultano da lui coniugati con quelli di un “antiedonista” come Diogene di Sinope, realizzando quindi sul piano del comportamento interumano una fusione di aristipppismo e di cinismo. Egli riprende infatti la parresìa (spregiudicatezza di eloquio) di Diogene fino ai limiti di quell’anaidéia (impudenza arrogante) che aveva fatto di Diogene la figura dell’”anti-sociale” provocatorio e impudente per antonomasia, che non teme di rendersi antipatico, ma ne fa anzi una bandiera della propria libertà. Questo atteggiamento lo oppone nettamente al suo contemporaneo Annicèri (che abbiamo visto teorizzare invece la simpatia) e lo conduce ad essere un dissacratore dei sentimenti in generale e della ricerca del consenso tramite amicizia e benevolenza.  

    In questo coacervo di atteggiamenti, dove la misura nella ricerca del piacere si coniuga con la dismisura di una ricerca di aristocratica “libertà dagli altri” che va ben oltre Aristippo, si coglie tuttavia un’elaborazione conseguente ad una riflessività razionale che porta Teodoro di Cirene a creare un sistema etico non particolarmente innovativo, ma indubbiamente coerente, aldilà della sua articolazione piuttosto ampia. Questo razionalismo pragmatico non poteva che condurlo ad occuparsi anche della credenza negli dèi, in quanto essa è elemento dirimente per la gestione del vivere quotidiano, delle aspettative escatologiche e del raggiungimento della possibile gioia di vivere, in ragione del “legame” che la credenza, in quanto tale, determina. Infatti, chi crede in un essere superiore in qualche modo sempre ne dipende e la sua libertà di realizzarsi risulta così compromessa in partenza. Il risultato a cui perviene la riflessione teodorea è la recisa negazione dell’esistenza della divinità (è purtroppo perduto il suo scritto Sugli dèi), andando in ciò ben oltre Epicuro, che spedirà gli dèi nei lontani intermondi, ma non ne negherà, almeno ufficialmente, che esistano.  Secondo alcuni Evemero sarebbe partito proprio dalle riflessioni teodoree per trasformare gli dèi della mitologia greca in personaggi mitici divinizzati dalla credulità popolare e ciò farà sì che la sua tesi diverrà utilissimo strumento nelle mani dei teologi cristiani per contrappore la “verità” del dio della Bibbia alla “falsità” degli dèi pagani.  

 

 

 

 

                                                5.2) Epicuro

 

    Sul terreno gnoseologico Epicuro è il pensatore a cui toccherà, in un certo senso, risolvere quelle contraddizioni che la confusione Leucippo/Democrito trascinava con sé. Lo farà conferendo coerenza all’atomismo attraverso alcune importanti innovazioni. Egli, infatti: a) ridimensiona l’importanza della “figura” degli atomi, introducendo col “peso” [10] un elemento più materiale a fondamento del moto, b) sostituisce il movimento vorticoso degli atomi (casuale in Leucippo, necessario in Democrito) con la loro caduta sulla verticale, c) perfeziona il concetto di casualità ma nello stesso tempo anche quello di autonomia, introducendo una declinazione (κλίσις) nella caduta che favorisce lo scontro tra gli atomi, ma la cui causa può essere sia esogena e sia endogena, d) riduce i processi conoscitivi esclusivamente alla sensazione, eliminando la conoscenza razionale di Democrito. Sul terreno dell’etica Epicuro sviluppa quella democritea in termini più spiccatamente sensistici ed edonistici, riallacciandosi anche a quella cirenaica [11] (colla quale è stata spessa confusa in epoca cristiana), ma “intellettualizzandola” ed eliminadone alcune rozzezze. Il piacere si radicalizza come principio eudemonistico unico del vivere (non senza derivarne qualche aspetto anche anche all’Etica Nicomachea di Aristotele) ma è un piacere assai più della mente che del corpo. Un piacere fisico-psichico temperato di intellettualità, realizzabile soprattutto attraverso l’eliminazione dello spiacevole e del turbativo, piuttosto che nella pura ricerca del godimento. Epicuro (come già Democrito) rifiuta il piacere smodato e intenso, considerato negativo in quanto transitorio, instabile e turbativo, mentre consiglia quello misurato ed equilibrato, in quanto foriero di uno stato in cui il corpo, la mente e la sensibilità personale contribuiscono ad una condizione di rilassata tranquillità, ideale per l’attività filosofica.

    Per comprendere adeguatamente l’evoluzione dell’ateismo antico e il suo sfociare nella teoresi epicurea occorre tenere conto del salto temporale che separa Democrito da Epicuro. Tra i due c’è quasi un secolo, e in mezzo le scuole post-socratiche, il pensiero di Platone e soprattutto quello di Aristotele, l’edonismo cirenaico, la matematica dei post-pitagorici, la medicina di Ippocrate, le ricerche naturalistiche di Teofrasto, la storiografia di Erodoto, Tucidite e Senofonte. Ma in meno di un secolo è soprattutto cambiato lo scenario politico; il mondo classico della polis è stato messo in crisi dall’espansionismo di Filippo il Macedone e suo figlio Alessandro sta per conquistare ed unificare il mondo antico verso Oriente. L’uomo greco perde via via la sua identità di cittadino integrato nella ristretta comunità della polis, diventando libero suddito di un grande impero, dove tradizioni ed usanze si diluiscono in un più vasto orizzonte. In tale clima anche la cultura filosofica assume una nuova configurazione, che rende più attuale l’atteggiamento cosmopolita e individualista che era stato di Democrito, il quale aveva in tal senso certamente precorso i tempi. La cooptazione di divinità extraelleniche allenta i legami della religione tradizionale con lo stato e si fa strada un pluralismo culturale prima sconosciuto, in cui anche l’ateismo ha modo di prendere piede.

    La dimensione individualistica che si va instaurando non può che allontanare le persone dalla sfera pubblica, conducendole verso la loro sfera privata; l’etica si sgancia così dalla politica, perdono validità le virtù civiche e si accentua la riflessione sulla singolarità individuale e sui problemi dell’esistenza. Tutto questo favorisce il grande successo della filosofia epicurea, che pure si sviluppa nella riservatezza della comunità chiusa del Giardino. Essa diverrà nota come una razionale e pragmatica lettura materialistica del cosmo e della natura e come base per l’instaurazione di un etica senza dèi. Essi vengono infatti trasferiti in un luogo del cosmo lontano dagli uomini e dai loro problemi, in una sorta di dorato ghetto di indifferenza e di beata apatia. [12] Un operazione per certi versi quasi più blasfema dell’aperto ateismo di un Leucippo e di un Democrito, poiché degli dèi qui non si nega l’esistenza, ma li si rende inutili, antropologicamente privi di alcun significato. L’aggettivo “divino”, che Democrito usava per qualificare gli atomi sferici (più “nobili”) del fuoco e dell’anima, viene assunto dal linguaggio filosofico epicureo per qualificare dei “modelli” di felicità e non per indicare essenze dalle quali attendersi qualcosa, sia nel male che nel bene.

    Epicuro nasce nel 342 a. C. in un zona periferica dell’Ellade; assimila attraverso buoni maestri indirizzi filosofici differenti e per alcuni versi antitetici (il platonismo e l’atomismo), a 32 anni incomincia a insegnare la “sua” filosofia, che è uno sviluppo di quella di Democrito. Vi è qualche apporto dei Cinici sul piano dell “autarchia” individuale, ma dove la provocatoria “naturalezza” di un Diogene, liberata dai bisogni imposti dalle convenzioni sociali (ed in quanto tale “contro” la società) viene fusa con l’edonismo cirenaico dando luogo a una ricerca del piacere intimo, che non si oppone alla società ma le diventa estraneo. La vita pubblica, con le sue tensioni e le sue polemiche, viene espunta dalla sfera individuale, venendo invece privilegiata la ricerca e la riflessione, col fine ultimo di conseguire l’aponìa, poiché l’assenza di dolore è già in se stessa la miglior forma di piacere stabile. La sfera del “pubblico” diventa così una realtà da evitare per i suoi effetti perniciosi sulla riflessione filosofica e quale impedimento peril raggiungimento della felicità. Quando Epicuro giunge ad Atene prende dimora in un sobborgo di periferia, in una casa circondata da un grande orto e prossima all’aperta campagna e questa casa in mezzo al verde diventerà il Giardino, un luogo silenzioso e confortevole, dove il maestro coi suoi allievi (in realtà un gruppo di amici) si incontra per rilassarsi, per riflettere e per conversare.

    L’epicureismo gode verso la fine del IV secolo a.C. di un contesto sociologico e culturale indubbiamente favorevole; la filosofia di Epicuro si diffonderà in seguito soprattutto verso Occidente, permeando (insieme allo stoicismo) la cultura romana; ciò fino all’irrompere del Cristianesimo e al suo successivo instaurarsi quale religione di stato. E tuttavia esso non verrà mai annullato, arrivando a lambire persino la trionfante teologia cristiana e ad insinuarsi tra le sue pieghe, e non sempre soltanto come esempio biasimevole di perversione e sregolatezza [13], vi sono anzi giudizi decisamente favorevoli [14]. I frequentatori del giardino sono una sorta di aristocrazia intellettuale e nello stesso tempo un esempio estremo di democrazia d’estrazione; esso infatti è aperto anche alle donne e agli schiavi, due categorie che per ragioni diverse erano state escluse dalla cultura classica. Ma Epicuro non era personaggio esente da pecche: dalle discussioni del giardino [15] era esclusa ogni altra filosofia che non fosse la sua; pur dovendo molto a Democrito egli negava di aver ripreso il suo pensiero (parrebbe arrivando persino a definirlo “giudice di chiacchiere”), instaurando infine tra i suoi allievi un vero e proprio culto della personalità.

    Diogene Laerzio ci rende una biografia di Epicuro sostanzialmente encomiastica, ma nella quale (per dovere di cronaca) riporta una serie piuttosto lunga di maldicenze e diffamazioni sul suo conto. Il suo carattere (pareva facile all’insulto e alla derisione) non risulterebbe tale da essersi attirato molta simpatia, ad eccezione di quella dei suoi discepoli, che rasentava spesso la devozione. Sembrerebbero però, queste diffamazioni, perlopiù dovute ad un sostanziale fraintendimento della sua filosofia, che presentandosi come fondata sul piacere non poteva che generare diffidenza, soprattutto tra i postplatonici e gli stoici. Vale la pena comunque di citare qualcuno di questi fenomeni diffamatori, perché potrebbero essere all’origine, o almeno concause, di atteggiamenti e scritti di Epicuro il cui contenuto è volto soprattutto a difendersi dagli attacchi al suo pensiero e alla sua vita privata [16].  Scrive Diogene:

 

    Lo stoico Diotimo, manifestò la sua ostilità a Epicuro calunniandolo molto amaramente con la pubblicazione di cinquanta epistole scandalose sotto il nome di Epicuro […] inoltre, prostituiva uno dei fratelli e conviveva con l’etera Leonzio e faceva passare per sue la dottrina atomistica di Democrito e quella edonistica di Aristippo […] E a Pitocle, che era un giovane bello: «Mi assiderò – scrive – ed aspetterò che tu, mio desiderio, giunga da me, simile a un dio» […] E viene anche citato un passo della sua opera Del fine, così: «Non so quale bene io possa concepire, se eccettuo i piaceri del gusto o le gioie dell’amore o i piaceri che derivano dall’udito o dalla contemplazione della bellezza» […] Ed Epitteto lo chiama cinedòlogo, ovvero predicatore di sconcezze, e lo critica molto aspramente. […] Inoltre Timocrate … riferisce che Epicuro era così dedito alla dissolutezza che vomitava due volte al giorno […] E che Epicuro molte lacune aveva nella preparazione scientifica, ma ancora maggiore ignoranza mostrava nelle questioni della vita quotidiana […] [17]

 

Per precisare subito:

 

Ma la follia di questi critici è evidente. Perché il nostro uomo ha sufficienti testimoni della sua invincibile probità di sentimenti verso tutti: la patria che l’onorò con statue di bronzo; gli amici, il cui numero fu tale […] l’ininterrotta continuità della sua scuola […] e l’innumerevole schiera dei discepoli […] e la gratitudine ai suoi genitori, la benefica generosità verso i fratelli, la mitezza verso i servi […] [18]

 

Fino ad una piuttosto improbabile religiosità unita all’amor di patria: [19]

 

Le parole non riescono a rappresentare la profondità della sua disposizione spirituale verso gli dèi e di amor di patria. [20]

 

E ad un’invece più probabile sobrietà e frugalità unita ad amicale socievolezza:

 

[…] E gli amici venivano a lui da ogni parte e vivevano insieme con lui nel giardino, come riferisce anche Apollodoro […] con un tenore di vita molto semplice e modesto. «Si contentavano – dice – di una ciotola di vino, ma di solito bevevano sempre acqua». […] Ed egli stesso dice nelle Epistole che si contentava solo di acqua e di un semplice pane. [21]

 

E relativamente alla sua formazione culturale:

 

Apollodoro nella sua Cronologia dice che Epicuro fu allievo di Nausifane [e di Prassifane]. Ma, invero, Epicuro lo nega e nella lettera ad Euriloco affema di essere autodidatta. [22]

 

Quella di negare sistematicamente ogni debito verso i pensatori precedenti è una vera e propria strategia di Epicuro, che in ogni occasione tende a valorizzare se stesso e a sottolineare l’originalità del suo pensiero. In questa prospettiva (a meno che si tratti di pura disinformazione) va anche posta la negazione dell’esistenza di Leucippo. Infatti, pur ammettendo di malavoglia “qualche” debito verso Democrito, egli potrebbe aver cercato di “eliminare” letteralmente Leucippo (da cui Democrito ha tratto praticamente quasi tutta la sua fisica) e “giocarsela” soltanto con l’Abderita sull’attribuzione dell’originalità delle proposte atomistiche.     

    Diogene Laerzio ci ha anche tramandato, fortunatamente, alcuni documenti originali di Epicuro che ci permettono di accedere direttamente al suo pensiero: tre Epistole, le Massime capitali e il Testamento [23]. Cominceremo con l’Epistola ad Erodoto, una sorta di compendio della fisica di Epicuro, destinato a coloro che non hanno la possibilità di studiarne a fondo la dottrina della natura. Ne riporteremo i passaggi principali, ovvero quelli che presentano delle varianti significative rispetto all’atomismo di Democrito, accompagnandoli con un breve commento o una nota a pié di pagina quando opportuno:  

 

(38) […] è in base alle sensazioni che dobbiamo tenere conto di tutte le nostre esperienze sensibili e in genere di ogni atto apprensivo immediato, sia esso un atto conoscitivo della mente o delle stesse affezioni, che si producono in noi per essere in grado di fare induzioni, sia su ciò che attende conferma, sia su ciò che sfugge al dominio dei sensi. […]

(39) Infatti che i corpi esistano è attestato universalmente dalla sensazione stessa che costituisce anche il necessario  punto di partenza per inferire con la ragione ciò che non cade sotto i sensi. [24]

 

Come avevamo anticipato, nel riprendere Democrito, Epicuro pone in sottordine la conoscenza basata sul ragionamento (secondaria) e si affida a quella fornita dai sensi (primaria). E precisa appunto che la sensazione è il “necessario punto di partenza” di ogni inferenza della ragione. In ciò si coglie il pragmatismo e l’empirismo di Epicuro, che vuole eliminare ogni fonte di equivoco relativamente alle nostre possibilità cognitive. Ma questa sua posizione riprende anche quella dei Cirenaici, che consideravano le sensazioni le uniche fonti di conoscenza. Epicuro passa poi ad alcune precisazioni che riprendono l’atomismo di Democrito nel sottolineare che gli atomi rimangono immutati nella dissoluzione dei loro composti. Essi, infatti, si muovono incessantemente ed eternamente nel vuoto e non vengono percepiti dai nostri sensi che sono attivi soltanto nei confronti delle sostanze composte. Dopo averci detto che i mondi sono infiniti (ma già lo sosteneva Leucippo) Epicuro riprende la teoria degli èidola democritei, con qualche interessante precisazione:

 

(46) […] queste immagini noi chiamiamo simulacri (èidola). Il loro movimento attraverso lo spazio, poiché avviene senza incontrare alcun ostacolo di corpi contrapposti, compie ogni percorso immaginabile in un tempo inconcepibilmente veloce: è infatti la presenza o l’assenza di urti che produce lentezza o velocità […] (47) […] perciò la sua velocità [dell’èidolon] sarà adeguata agli ostacoli incontrati […] (48) Oltre a ciò la produzione dei simulacri avviene con la stessa velocità del pensiero. Infatti dalla superficie dei corpi si diparte un continuo flusso di simulacri con una velocità pari a quella del pensiero. Questo flusso dalla superficie dei corpi è incessante [ma non vi è riduzione dl corpo in quanto la materia che lo costituisce si riforma continuamente]; tale flusso conserva per molto tempo la disposizione e l’ordine che gli atomi avevano nei corpi solidi, sebbene qualche volta avvenga che possa subire un certo disordine. Per di più nell’ambiente esterno a noi si verificano improvvise e rapide combinazioni o concrezioni (sustàseis) perché esse non richiedono che la pienezza del corpo si costituisca anche in profondità. [25]

 

Viene poi introdotta la “vibrazione” all’interno dell’atomo, grazie alla quale gli èidola che partono dall’oggetto ne conservano l’esatta forma:

 

(50) Tali immagini si muovono con grande velocità e per questa ragione danno la visione dell’oggetto nella sua unità e compattezza e per di più conservano la corrispondenza dell’oggetto da cui provengono conformemente all’armonico impulso che ha radici nella vibrazione degli atomi che avviene nella profondità del corpo solido da cui le immagini si dipartono.

 

L’èidolon dice sempre il “vero” dell’oggetto da cui parte, ma è la nostra mente che può distorcere i contenuti del messaggio:

 

    L’inganno e l’errore dipendono sempre da ciò che la nostra opinione aggiunge a quello che attende di essere criticamente confermato o almeno non contraddetto; ciò per un moto che in stretta connessione con la facoltà immaginativa e tuttavia da essa distinto produce in noi l’inganno. […] non si potrebbe dare alcun errore se non si producesse in noi un altro movimento connesso in qualche modo con la percezione intuitiva e rappresentativa ma anche  distinto da essa. È a causa di questo moto, dunque, che si verifica l’errore nel caso esso non riceva conferma o riceva prova contraria; se invece viene confermato e non riceve prova contraria abbiamo la conoscenza vera. [26]

 

Si ha qui l’impressione che Epicuro, dopo aver messo fuori dalla porta la conoscenza razionale (o autentica) di Democrito, la faccia poi rientrare dalla finestra, poiché ci pare che possa essere solo la ragione a farci evitare quel “movimento” improprio che distorce l’immagine e che per contro può effettuare la “conferma” del messaggio che ci è pervenuto dagli  èidola.  Per quanto riguarda l’udito e l’olfatto sono sempre i flussi eidolici a determinare la sensazione, ed essi viaggiano come suoni e come odori.

    Occupiamoci ora delle proprietà degli atomi e facciamo un passo indietro al paragrafo (43) dove Epicuro, certamente a conoscenza della Metafisica di Aristotele nella quale veniva rimproverato agli Atomisti di non aver chiarito la natura del moto degli atomi, prova a perfezionare la teorizzazione leucippeo-democritea. Troviamo così l’introduzione del concetto di un declinazione (in greco κλισις, tradotto poi da Lucrezio con clinamen) nella traiettoria degli atomi:

 

    Gli atomi poi sono in continuo moto (43) e gli uni cadono perpendicolarmente, gli altri declinano spontaneamente dal moto retto, gli altri rimbalzano per l’urto; di questi poi gli uni nel loro moto divergono lontani fra loro, gli altri trattengono questo stesso rimbalzo, quando siano respinti dagli atomi che ad essi si intrecciano, o quando sono contenuti da altri atomi fra loro intrecciati. [27]

 

Epicuro ci dice che alcuni atomi “declinano” spontaneamente, ma alcuni paragrafi più in là riprende l’argomento introducendo invece un elemento accidentale ed esterno, che chiama prima “ostacolo” e poi solamente “intoppo”:

 

    Per di più: è necessario che gli atomi (61) siano equiveloci, quando procedano attraverso il vuoto senza cozzare contro nulla: perché il pesante non si muoverà più veloce del piccolo e leggero, quando però non trovi ostacolo, né il piccolo del grande, avendo il suo corso sempre in una sola direzione quando nulla contro esso s’opponga; né più veloce sarà il moto in alto né quello laterale per effetto degli urti, né quello in basso per causa del proprio peso: Infatti fino a quando perduri l’una o l’altra specie di questi due moti, il movimento perdurerà veloce come il pensiero, fino a che qualche intoppo non vi si opponga, o dall’esterno, o dal proprio peso, contro l’impulso ricevuto da ciò che produsse il rimbalzo. [28]

               

    Nel vuoto il moto verticale degli atomi è completamente libero; che cos’è dunque che può produrre resistenza o impedimento sì da “deviare” tale moto? Epicuro non lo precisa. Ciò che se ne deduce è che la caduta in verticale degli atomi può, a causa di “qualcosa” di indefinito, subire una deviazione di traiettoria. Ma a mutare la traiettoria non può essere che un elemento “casuale” presente nel vuoto, che viene a trovarsi o che si pone sulla traiettoria dell’atomo. All’urto segue un “rimbalzo”,  contro cui il peso dell’atomo farebbe opposizione. L’urto avviene quindi con un oggetto esterno e casuale, ma pare che ad esso segua una sorta di “opposizione” interna; se ne deduce che: la declinazione avviene a) spontaneamente, oppure b) perché la traiettoria è deviata da un ostacolo incontrato nella caduta, ma in questo caso il peso dell’atomo “si oppone alla deviazione”. Abbiamo quindi due cause del clinamen, la seconda, esogena e casuale, a cui si oppone il peso dell’atomo e la prima in cui l’atomo “spontaneamente” devia dalla propria traiettoria. Ma questo farebbe pensare che l’atomo possegga una specie di libertà di deviare il proprio percorso, concetto peraltro non esplicitato, ma che farebbe pensare a quanto già Democrito aveva espresso come “automatismo” interno all’atomo (però non libero ma necessitato). Il concetto di questa supposta libertà verrà ripreso e tematizzato da Lucrezio nel De rerum natura (II, 252) trasferendo poeticamente il comportamento dell’atomo a quello dell’uomo, con un’operazione analogica di sicuro effetto lirico, ma di cui non può sfuggire l’arbitrarietà.

    L’epistola ad Erodoto prosegue trattando dell’anima e sostanzialmente ancora sulla linea di Democrito, ma con la preoccupazione di legarla indissolubilmente al corpo e fugare quindi ogni ipotesi sulla sua trascendenza rispetto ad esso:

 

(63) Dopo di ciò, facendo riferimento alle sensazioni, alle affezioni o sentimenti – così infatti assicureremo un saldissimo fondamento alla nostra teoria – bisognerà considerare che l’anima è una sostanza corporea composta di sottili particelle, sparsa per tutto l’organismo, assai simile ad un soffio mescolato a calore, affine all’uno e all’altro [29].

[…] Ciò è immediatamente manifestato dalle capacità dell’anima, dai sentimenti interni, dalle sue affezioni, dalle passioni, dalle intellezioni e da tutte quelle facoltà alla cui privazione cessiamo di vivere. (64) Bisogna ritenere con certezza che la causa della sensazione risiede nell’anima; essa non l’avrebbe mai avuta se non fosse in qualche modo contenuta nel restante organismo. [30]

 

Le sensazioni sono pertanto la fonte di ogni conoscenza e possono darsi all’uomo solo grazie all’anima, che è anche all’origine delle emozioni e dei sentimenti. Ma essa è fatta di materia ed è tutt’uno col corpo, in una sorta di sinergia per cui le sue funzioni vivificano il corpo e nello stesso tempo ne sono dipendenti, infatti: 

 

(65) […] Non è possibile, infatti, concepire l’anima come senziente se non in questo complesso di anima e di corpo, né pensare che essa possa avere i medesimi moti sensitivi quando il corpo che la contiene e la circonda non è più tale da consentirle quei suoi movimenti […] [31]

 

Quindi non è l’anima che vivifica il corpo, ma è il corpo che vivendo rende possibile il funzionamento dell’anima. Per Epicuro non solo l’anima non è immortale (come pensava Platone), ma non è neppure principio e fonte di vita per il corpo. D’altra parte, nulla di incorporeo esiste, se non il vuoto:

 

(67) Bisogna ancora considerare che ciò che diciamo incorporeo, secondo l’accezione più generale del termine, si riferisce a ciò che può esser pensato come esistente per se stesso; ma in realtà niente di incorporeo può essere pensato come sussistente eccetto il vuoto. [32]

 

Da qui il giudizio inappellabile sui seguaci di Platone:

 

[…] Perciò quelli che affermano che l’anima è incorporea vaneggiano; se lo fosse non potrebbe né agire né patire (68) mentre è evidente che l’anima possiede entrambe queste qualità contingenti. [33]

 

Come l’anima non esiste senza un corpo di riferimento, così le qualità essenziali di un corpo (forma, colore, dimensione, peso, ecc.) sono pensabili soltanto come inerenti ad esso [34], pur esistendo anche altre qualità puramente contingenti e definite per convenzione. Come pure è convenzionale la nozione di “tempo” in quanto mezzo “di misura”:

 

(72) si deve anche ritenere per certo che non possiamo porre il problema del tempo allo stesso modo di tutte le altre proprietà che si osservano nell’oggetto riferendoci alle anticipazioni [35] che troviamo in noi stessi, ma bisogna considerarlo in base a quella evidenza immediata per la quale noi diciamo “molto tempo” o “poco tempo”, […] [36]

 

    I mondi hanno origine nell’infinito e sono di forma diversa, così come diverse, ma non infinite, sono le forme delle cose che li costituiscono. Ma ogni mondo possiede una forma determinata, come determinata è la “natura” che genera gli esseri viventi e che si evolve “apprendendo” dalle circostanze. Così è accaduto che una sua parte, la ragione dell’uomo, abbia in seguito appreso e sviluppato le conoscenze primarie. Infatti:

 

(75) Bisogna anche supporre che la natura apprese molte e diverse cose e molti impulsi, costretta a ciò dalle circostanze; la ragione degli uomini, in seguito, ha perfezionato ed ha aggiunto nuove scoperte a quanto era stato indicato dalla natura più rapidamente in alcuni casi, più lentamente in altri, e in determinati periodi di tempo secondo un processo più rapido, in altri più lento. [37]

 

Questa integrazione dell’uomo nella natura da cui deriva è estremamente importante, perché determina una definizione della genesi del linguaggio a partire dalla natura stessa:

 

Per cui anche i nomi delle cose non furono originariamente stabiliti per convenzione, ma a crearli fu la natura stessa degli uomini che a seconda delle diversità delle stirpi, provando particolari emozioni e ricevendo particolari percezioni, emetteva anche l’aria in maniera propria improntata dal singolo stato d’animo e dalla particolare percezione secondo le differenze esistenti tra i luoghi in cui si trovavano a vivere. (76) Più tardi poi, di comune accordo nell’ambito di ciascun popolo furono stabilite particolari espressioni per potersi capire reciprocamente con maggiore chiarezza e concisione. [38]

 

Mentre Democrito privilegiava l’aspetto “convenzionale” del linguaggio Epicuro ne accentua invece l’origine “naturale”, integrando, sia il linguaggio sia l’animale che lo ha creato e lo utilizza, con la natura stessa.

    Secondo Epicuro un “qualcuno” (Dio o Primo Motore) che regolasse i movimenti degli astri ne sarebbe in qualche modo dipendente e ciò non si accorderebbe con la beatitudine che conviene a un dio, perciò il modo d’essere e di muoversi di essi dipende esclusivamente “dal modo in cui essi si originarono”. Ma neppure essi stessi sono dèi, proprio in quanto il loro movimento contrasterebbe col loro status divino. Opponendo così a una spiegazione causale di tipo teologico una spiegazione naturale e razionale il Nostro fissa un criterio estremamente importante rispetto al monismo di una causa divina o ad una divinità degli astri stessi, quello della pluralità delle cause naturali:

  

    Perciò, se giungessimo a rinvenire le molteplici cause delle rivoluzioni, del sorgere e del tramontare, delle eclissi e degli altri fenomeni simili, non dovremmo credere che su questo punto non si sia arrivati a quella conoscenza necessaria per il (80) raggiungimento della tranquillità e della felicità. […] Così se riterremo che un fenomeno possa verificarsi in una data maniera, ma riconosciamo che esso può verificarsi in più modi, conserveremo la tranquillità proprio come se realmente sapessimo che esso si verificherà in quella determinata maniera. [39]

 

Quindi l’approccio pluralistico alla realtà garantisce non soltanto la correttezza delle tesi cosmologiche, ma anche la condizione etica della tranquillità di chi sa di esser nel giusto. Infatti: 

 

(81) È necessario soprattutto riflettere su questo: il più grave turbamento dell’anima dell’uomo ha le sue origini nella credenza che i corpi celesti siano perfetti ed eterni e nello stesso tempo possano avere volontà, azioni, intenzionalità in contrasto col loro stato; […] [40]

 

    L’epistola ad Erodoto si chiude con una esortazione ad attenersi sempre alla sensazione, quale principio conoscitivo fondamentale, nei termini seguenti:

 

(82) […] La perfetta tranquillità dello spirito consiste nella libertà da questi errori e timori e nel tenersi fermi nella mente i principi generali e fondamentali. Per cui bisogna sempre attenersi all’immediatezza delle sensazioni e delle affezioni che si verificano in noi, secondo un criterio generale per quelle generali, secondo un criterio particolare per quelle particolari, e attenersi all’evidenza immediata in accordo con ognuno dei nostri criteri di giudizio. Se così ci comporteremo, sapremo trovar la causa dell’origine dei nostri turbamenti e delle nostre paure e ce ne libereremo indagando le ragioni dei fenomeni celesti e di tutti gli altri che tanto timore arrecano agli uomini. [41]

 

    L’Epistola a Pitocle inizia con una ripresa del principio della pluralità delle cause, ma essa tratta poi quasi esclusivamente dei fenomeni del cielo e dell’atmosfera considerati sotto i loro molteplici aspetti (astri, nuvole, tuoni, lampi, terremoti, ecc.) e quindi non riveste particolare interesse per la nostra ricerca. Riporteremo tuttavia la chiusa, nella quale Epicuro muove l’esortazione che segue:  

 

    Tutte queste cose, o Pitocle, tienile bene a mente: potrai così in molte occasioni star lontano dalle favole dei miti e potrai comprendere alte dottrine dello stesso genere. In particolar modo considera attentamente le dottrine che trattano dei criteri conoscitivi [42] delle affezioni e del fine a cui si rivolge ogni nostro ragionare. Quando le avrai bene indagate ti potranno far comprendere facilmente le cause dei fenomeni particolari. Coloro che non amano questo genere di ricerche non potranno mai conoscere bene tutto questo né raggiungere il fine a cui tende tale studio. [43]

 

    Passiamo ora all’Epistola a Meneceo, in cui Epicuro ci consegna il nucleo centrale della sua etica, quella che, secondo un termine ormai in uso, delinea il “quadrifarmaco”, ovvero quella sorta di terapia contro il male di vivere, contro i dolori e i turbamenti irrazionali, che permette il raggiungimento del piacere di vivere e della felicità spirituale. Questo eudemonismo radicale si esprime in quattro punti principali: a) Liberazione dal timore degli dèi, che per la loro natura non si occupano degli uomini, b) Liberazione dalla paura della morte, c) Acquisizione della consapevolezza che la felicità è facilmente raggiungibile, d) Apprendimento del modo corretto di sopportare il dolore, che è quasi sempre passeggero e comunque meno temibile di quanto si pensi. [44] Essa si apre così.

 

 (122) Nessuno che sia giovane indugi a filosofare, né divenuto vecchio si stanchi di filosofare, perché non si è mai né troppo giovani né troppo vecchi per acquistare la salute dell’anima. Chi dice che l’età per la filosofia non è ancora venuta o è già passata è come se dicesse che non è ancora giunta o è già passata l’età per la felicità. [45]

 

L’esortazione determina un rapporto indissolubile tra filosofia e felicità; questa va conseguita in ogni fase dell’esistenza e quindi non esiste un’età privilegiata per filosofare. Per il giovane filosofare significa maturare ed allontanare ogni timore per il suo futuro, per il vecchio significa mantenersi giovane ed essere soddisfatto di aver vissuto. Poiché solo la filosofia procura felicità, che è il massimo bene a cui aspira l’uomo. La frase successiva precisa:

 

[…] Per prima cosa considera la divinità come un essere vivente, immortale e felice, secondo quanto suggerisce la nozione del divino quasi impressa in noi dalla natura e non attribuirle niente che sia estraneo all’immortalità e discordante con la beatitudine. Perché gli dèi esistono: evidente è infatti la loro conoscenza. Ma non esistono nella forma in cui li concepisce il volgo togliendo loro ogni fondamento di esistenza reale. Empio non è colui che rinnega gli dèi del volgo, ma colui che riferisce agli dèi le opinioni del volgo. Infatti i giudizi del volgo a proposito degli dèi non sono prenozioni ma (124) false supposizioni. Perciò a causa di esse si usa ricondurre agli dèi i più grandi danni e i più grandi benefici. Non avendo intimità che con le proprie virtù essi accolgono coloro che sono loro simili, considerando estraneo chi non è conforme alla loro natura.

 

Il passo si presenta come una grande metafora filosofica, nella quale è dato cogliere i principi fondamentali dell’etica epicurea attraverso i vari passaggi che la compongono. Nella prima frase citata si afferma che la divinità va considerata “come” un essere vivente, immortale e felice, in accordo con la “nozione” che la natura ha “impresso”, soprattutto “non attribuendole” niente di discordante con l’immortalità e la beatitudine. Ma l’immortalità è degli atomi, che sono alla base di tutto ciò che esiste, mentre la beatitudine è l’apice della felicità a cui ogni uomo idealmente tende; quindi queste entità divine sono dei “modelli” filosofici ed assiologici di riferimento e non essenze dotate di divinità “reale”; perdipiù esse risultano comunque estranee all’uomo nel loro status di immortalità e isolata beatitudine. La frase « Perché gli dèi esistono: evidente è infatti la loro conoscenza.» acquista infatti un senso compiuto soltanto se l’“evidenza” viene riferita alla pregnanza dei principi etici di cui gli dèi sono investiti e dei quali sono soltanto “forma” linguistica. Epicuro è infatti consapevole che “immortalità” e “beatitudine”, in quanto principi astratti e fuori della portata dell’uomo (ma nello stesso tempo immaginati come reali) debbono ricevere un’investitura reale, ancorché puramente simbolica. Gli dèi sono pertanto “simboli” di un’umanità ideale a cui tendere attraverso la filosofia, tale da determinare un’altrettanto simbolica “assenza di morte” nell’orizzonte dell’uomo. Sul piano reale del vissuto vi corrisponde l’aponìa, che predispone alla meditazione filosofica e rende possibile la felicità che ne è suo compimento.

    Il fatto che gli dèi non esistano nella forma in cui “li concepisce il volgo” conferma questa tesi, poiché gli dèi ufficiali della mitologia greca per loro natura sono eminentemente “come li concepisce il volgo”, vale a dire coinvolti nell’umanità che non si dà la pena di pensarli ”filosoficamente”. Allora essi diventano come li si vuole, differendo solo per rango dall’uomo comune e presentandosi come entità che possono esser blandite con devozione ed offerte, al fine di ottenere da essi favore o protezione. Infatti «i giudizi del volgo a proposito degli dèi non dono prenozioni ma false supposizioni. Perciò a causa di esse si usa ricondurre agli dèi i più grandi danni e i più grandi benefici.» E’ difficile scorgere condanna più radicale di tutta la religione greca dopo quella di Senofane, ma Epicuro è riuscito a porla in modo da non incorrere in una  censura troppo severa, avendo egli asserito preliminarmente e con forza la “realtà” degli dèi. Ma non solo gli dèi “del volgo”, ovvero quelli della tradizione, sono “fuori” dalle prenozioni (dalle prolessi) che anticipano la conoscenza vera, che è quella conseguibile con la filosofia, perciò la frase finale corona emblematicamente (ed anche astutamente) la tesi soggiacente a tutto il periodo. Infatti, non avendo gli dèi che “intimità con le proprie virtù” (con le quali si identificano) essi possono “accogliere” soltanto l’attenzione dei loro simili (ovvero di quelli che filosofano), considerando estraneo chi non è conforme alla loro natura (cioè quelli che considerano gli dèi essenze “realmente” interessate agli uomini e alle loro vicende). Questa frase perderebbe ovviamente ogni senso qualora non la si connettesse alla premessa epicurea che gli dèi sono estranei alla vita degli uomini e che sono collocati in un intermondo privo di alcun rapporto col mondo umano. [46]

    Epicuro passa poi a parlare della morte, un altro elemento topico della sua filosofia, affermando che “niente è per noi la morte”, infatti:

    La retta conoscenza che la morte è nulla, per noi rende godibile la stessa condizione mortale della nostra vita, non prolungando indefinitamente il tempo ma togliendo il desiderio dell’immortalità. [47]

 

Infatti immortali sono soltanto gli atomi che ci costituiscono e che costituiscono la natura di cui facciamo parte, la quale, attraverso le prolessi, ci permette di intuire le cose del mondo e i principi gnoseologici ed etici che lo concernono. Chiude questo passo la frase famosa:

 

[…] quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando essa sopravviene non ci siamo più noi. Ma il volgo ora fugge la morte come (126) il più grande dei mali ora la cerca come cessazione dei mali della vita. Il saggio, al contrario, non rifiuta la vita né teme la morte; non è contrario alla vita né ritiene che sia un male non vivere. [48]

 

Si noti che, qui come altrove, il termine “volgo” va contrapposto a “saggio” e non riferito all’estrazione sociale (che come sappiamo per Epicuro era priva d’importanza), ma piuttosto alla categoria di coloro che non perseguono la saggezza, ovvero non coltivano la filosofia (per questa ragione altre traduzioni sostituiscono il termine con la perifrasi “la maggior parte”). [49] Segue un rimprovero verso coloro che non amano la vita e si rammaricano di essere nati, ai quali chiede per quale ragione, coerentemente, non si suicidino. Occorre poi sapere che il nostro futuro non dipende dalla nostra volontà, ma nello stesso tempo non ci è del tutto indipendente: in altre parole (come traduce il Bignone) “non è né nostro né interamente non nostro”. [50] Viene poi affrontato il problema del desiderio, assolutamente centrale nell’etica di Epicuro, e che è espresso in modo straordinario nella sua lapidarietà da una frase a lui attribuita riportata da Giovanni Stobeo (Florilegium, III, 17, 23, p.495 Hense): «Se vuoi far ricco qualcuno, non aggiungere niente ai suoi beni, ma detrai qualcosa ai suoi desider.i». Poiché i desideri sono solo in parte naturali e perlopiù invece vani (e quindi negativi), essi vanno scelti o rifiutati in base ad una previa valutazione della loro natura:

 

[…] Infatti, una sicura conoscenza di essi sa riferire ogni atto di scelta e di rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell’anima: questo è il fine di una vita felice. Perché è in vista di questo che compiamo tutte le nostre azioni allo scopo di sopprimere sofferenze e turbamenti. [51]

 

Non si può non cogliere un interessante rapporto della filosofia epicurea col Buddhismo. Qui come là (ma in modo più radicale in questo) viene incriminato il desiderio vano, come sicura fonte di sofferenza, che allontana l’uomo dall’aponia (e in definitiva dall’eudaimonia) per Epicuro e dal nirvana per il Buddha. Dopo aver poi ribadito che «il piacere è principio e fine della felicità», ma che «non tutti i piaceri sono da ricercarsi, così come non ogni dolore è da rifuggirsi» Epicuro ci dice che bisogna sempre valutare attentamente “vantaggi e svantaggi”. Segue allora un altro aspetto fondamentale della sua etica, cioè l’autosufficienza (di derivazione cinica e cirenaica), che è fondamentalmente l’indipendenza dai desideri e dai beni non indispensabili:

 

(130) Consideriamo un grande bene l’autosufficienza, non perché sempre ci debba bastare il poco, ma perché se non abbiamo molto, dobbiamo saperci contentare del poco, profondamente convinti come siamo che tanto più piacevolmente si gode l’abbondanza quanto meno se ne ha bisogno, e che tutto ciò che è secondo natura è facilmente procacciabile, mente ciò che è vano è di difficile attuazione. [52]

 

Ritorna il concetto di “naturalezza”, di sintonia con la natura: che è insieme frugalità e “misura”. Con ciò Epicuro coglie l’occasione per fugare le maldicenze che avvolgono il suo pensiero:

 

    Quando noi diciamo che il piacere è un bene non intendiamo parlare del piacere dei dissoluti e dei gaudenti, come credono alcuni che o non conoscono la nostra dottrina o le sono avversi o la interpretano male, ma il non soffrire in quanto al corpo (132) e il non avere turbamenti nell’anima. Perché non banchetti o feste continue, non godersi giovinetti e donne, né il mangiar pesci o altro che offra una ricca mensa rendono dolce la vita, ma la sobria ragione che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta o di avversione e allontani le false opinioni che rendono gli animi colmi di inquietudine. [53]

 

Da ciò l’elogio della phrónesis (saggezza e prudenza), che è addirittura più importante (in quanto più basilare) della filosofia, in quanto da essa derivano tutte le altre virtù. Epicuro riassume poi i punti principali della sua esposizione (l’atteggiamento verso gli dèi, quello di fronte alla morte, quello delle aspirazioni “secondo natura”, quello del perseguimento della felicità) per stigmatizzare coloro che ritengono che tutto accada “per necessità” ed è evidente con ciò che si riferisce principalmente agli Stoici, ma non meno a Democrito, che come abbiamo visto aveva indebolito la “casualità” leucippea a favore di un maggior necessitarismo nel moto degli atomi, come si evince dalla frase seguente [54]:

 

[…] Era meglio infatti credere ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici: quelli offrivano una speranza con la possibilità di placare gli dèi con onori, mentre nel fato vi è una necessità implacabile. [55]

 

Epicuro è così preoccupato di difendere la libertà, e con essa la speranza di poter incidere sul proprio destino, che non esita a preferire al necessitarismo persino quella “religione del volgo” contro la quale si era scagliato in precedenza. Prima della frase di esortazione finale e commiato perciò egli fa da ultimo l’elogio della ragione, che sempre deve guidare i nostri atti, contro l’affidamento alla fortuna, della quale il saggio non deve mai tenere conto:

 

[…] è meglio cadere nella sfortuna con retta ragione che avere grande fortuna ed essersi comportati sconsideratamente; perché è preferibile che nelle nostre azioni qualcuna di esse, pur compiuta con ragione, non sia condotta a buon fine piuttosto che un’azione stolta sia condotta a buon fine dalla fortuna. [56]

 

A completamento di questa esposizione dell’etica epicurea riporteremo alcune delle 40 Massime Capitali e qualche altra del Gnomologio Vaticano (81 in tutto, ma parecchie corrispondono a Massime capitali); si tratta di quelle che ci pare aggiungano qualcosa o completino i temi trattati dall’Epistola a Meneceo. Cominciamo con le prime [57]:

 

II – Nulla è per noi la morte: perché ciò che si dissolve non ha più sensibilità e ciò che è insensibile non è niente per noi.

 

III – Non dura ininterrottamente il dolore della carne ma il massimo permane un tempo brevissimo; e quello che appena supera il piacere corporeo non dura molto tempo. Le lunghe malattie poi arrecano alla carne più piacere che dolore.

 

V – Non è possibile vivere felici se non si vive saggiamente, giustamente e bene, né una vita prudente, moderata e giusta senza vivere felici. A chi manca ciò non è possibile vivere felicemente.

 

VIII – Nessun piacere per se stesso è un male, ma i mezzi per procurarsi alcuni piaceri spesso recano molti più turbamenti che piaceri.

 

XI – Se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e non temessimo che la morte possa essere per noi qualcosa che ci tocca da vicino e non ci nuocesse l’ignoranza del confine dei piaceri e dei dolori, non avremmo alcun bisogno della scienza della natura.

 

XVI – Poca importanza ha la fortuna per il saggio, perché le cose più grandi e più importanti sono preordinate dalla ragione, e così, per tutto il corso del tempo le governa e le governerà.

 

XXI – Chi ha chiara consapevolezza dei limiti della vita sa che è facile liberarsi dal dolore per ciò che manca e ottenere ciò che rende la vita perfetta, pertanto, egli non ha affatto bisogno di tendere a cose che comportino lotta.

 

XXII – Bisogna considerare attentamente il fine reale che ci è dato e fare in modo di riportare tutte le nostre opinioni ad una certezza evidente; altrimenti tutto sarà pieno di dubbi e di inquietudini.

 

XXVII – Di tutti i beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita il più grande è l’acquisto dell’amicizia.

 

XXXI – Il diritto secondo natura è il simbolo dell’utilità reciproca al fine che non sia fatto né ricevuto danno.

 

XXXIII – La giustizia non è qualcosa che esista per sé, ma è una convenzione nata nei reciproci rapporti e in quei luoghi nei quali si sia stretto un patto di non recare o ricevere danno.

 

Ed ora alcune massime dal Gnomologio Vaticano:

 

XIV – Una volta sola si nasce, due volte non ci è concesso ed è necessario non essere più per l’eternità; tu però pur non essendo padrone del tuo domani rimandi la gioia; ma la vita se ne va in questo indugio ed ognuno di noi giunge alla morte senza aver mai goduto della pace.

 

XXIII – Ogni amicizia è desiderabile per se stessa anche se ha avuto origine dall’utilità.

 

XXV – La povertà commisurata al bene secondo natura è una grande ricchezza; la ricchezza senza misura è una grande povertà.

 

XXXIII – Grida la carne: non avere fame, non avere sete, non avere freddo; chi abbia queste cose e speri di continuare ad averle potrebbe contendere in felicità con lo stesso Giove.

 

XXXVIII – Assolutamente da poco è colui per il quale sussistono molte ragioni convincenti per abbandonare la vita.

 

LII – L’amicizia tutta intorno, con ritmo di danza trascorre la terra annunciando a tutti noi di destarci all’elogio della felicità.

 

LVIII – Bisogna liberarsi una buona volta dal carcere delle occupazioni quotidiane e dalla politica.

 

LXVIII – Niente basta a colui cui il sufficiente non basta.

 

LXXVII – Il più grande frutto del bastare a se stessi è la libertà.

 

    La preoccupazione che il Giardino continui a vivere come scuola di filosofia e di vita è in queste poche parole del suo Testamento:

 

[…] Ed in continua successione, a quelli che seguano la mia scuola, assegno la dimora del giardino, affinché, insieme con Aminomaco e Timocrate, secondo il loro potere, la mantengano, ed a coloro che succederanno ad essi come eredi, secondo il modo più sicuro di trasmissione, perché conservino il giardino essi pure, come quelli a cui l’abbiano a lasciare i discepoli della mia scuola. [58]  

 

 

 

 

                                            5.3) Lucrezio.

 

    Passiamo ora ad occuparci di Tito Lucrezio Caro (98 ca – 54 ca a.C.), il poeta latino che nel De rerum natura tradurrà la filosofia di Epicuro in poesia, introducendovi un tormento esistenziale sconosciuto all’impassibile greco e rendendo famoso quel termine clinamen che, forse proprio grazie a lui, acquisterà una connotazione decisamente etica, quasi come sinonimo di “libertà”. Il poema didascalico De rerum natura (dedicato a Gaio Memmio) si compone di sei libri. Nel primo e nel secondo Lucrezio tratta della materia, dello spazio, della nascita e corruzione delle cose del mondo. Nel secondo e nel terzo l’attenzione si sposta sull’uomo. Negli ultimi due il tema è l’universo in generale e i fenomeni fisici. 

    Ci sembra importante iniziare il nostro esame dell’opera di Lucrezio con la presentazione del suo eroe (I, versi 62-79):

 

    Mentre la vita umana giaceva sulla terra

Turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione,

che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile

aspetto incombendo dall’alto sugli uomini

per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi

mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro;

non lo domarono le leggende degli dèi, né i fulmini, né il minaccioso

brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono

il fiero valore dell’animo, così che volle

infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo.

E dunque trionfò la vivida forza del suo animo

E si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo

E percorse con il cuore e la mente l’immenso universo,

da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere,

quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa

ha un potere definito e un termine profondamente connaturato.

Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione

È calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo. [59]

 

Non manca di epicità questo elogio ad Epicuro (sì, che qualcuno vi ha colto un eco dell’omerica Iliade) in cui viene sottolineata la sfida quasi prometeica che Il Greco ha mosso contro la religione. In realtà noi sappiamo che (stando alla lettera dei testi epicurei) le cose non stanno proprio così, ma è interessante cogliere qui come Lucrezio attribuisca ad Epicuro il “proprio” ateismo radicale per sottolinearne l’autorevolezza d’origine.  Nel filosofo greco (invece assai prudente in fatto di religione), che egli ha eletto a padre spirituale, Lucrezio proietta il suo senso di rivolta verso la religione istituita e il suo deciso rifiuto di ogni spiegazione sacrale dell’universo. Un poco più avanti si rafforza questo atteggiamento antireligioso (I, versi 101-109):

 

[…] Tanto male poté suggerire la religione

    Ma anche tu [Memmio] forse un giorno, vinto dai terribili detti

Dei vati, forse cercherai di staccarti da noi.

Davvero, infatti, quante favole sanno inventare,

tali da poter sconvolgere le norme della vita

e turbare ogni tuo benessere con vani timori!

Giustamente, poiché se gli uomini vedessero la sicura fine

Dei loro travagli, in qualche modo potrebbero

contrastare le superstizioni e insieme le minacce dei vati. [60]

 

Dunque le “favole” dei sacerdoti sconvolgono la vita delle persone, introducendo degli elementi estranei di timore infondato che turbano ogni possibile tentativo di sentirsi felici. E poco più avanti (I, versi 146-150 e 155-158):

 

     Queste tenebre, dunque, e questo terrore dell’animo

occorre che non i raggi del sole né i dardi lucenti del giorno

disperdano, bensì la realtà naturale e la scienza.

Il suo fondamento per noi di qui assumerà il proprio inizio:

che mai nulla nasce dal nulla per cenno divino. […]

E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla,

allora già più agevolmente di qui potremo scoprire

l’oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza,

e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dèi. [61]

 

Lucrezio prosegue nel suo sviluppo poetico della fisica epicurea fino al punto in cui confuta la tesi eraclitea del fuoco come origine di tutte le cose. È qui interessante notare come il poeta, senza mezzi termini, bolli il linguaggio filosofico poco chiaro (I, 635-644):

 

    Perciò quanti ritennero che la sostanza delle cose fosse il fuoco

E che di solo fuoco consistesse l’intero universo,

in grande misura appaiono aberrare dalla retta ragione.

Entra per primo in battaglia il loro capo Eraclito,

famoso per l’oscurità del linguaggio più fra gli stolti

che fra i savi greci i quali ricercano il vero.

Infatti gli sciocchi ammirano a amano tutto ciò che appena

Distinguono celato sotto contorte parole

E affermano vero quel che può accarezzare con eleganza l’orecchio

E quel che sia camuffato in gradevole suono. [62]

 

Dopo aver contestato Eraclito, viene il turno di Anassagora e delle sue omeomerìe per giungere alla conclusione del libro col discorso diretto a Memmio (I, versi 1114-1117):

 

    Così con lieve sforzo potrai comprendere queste verità;

infatti un concetto trarrà luce dall’altro, né l’oscura notte

t’impedirà il cammino, così da non lasciarti scorgere gli ultimi segreti

della natura: tanta luce fra loro si daranno le cose.

 

    Passiamo ora al Secondo Libro e andiamo direttamente al passaggio dove viene posto il clinamen degli atomi, per constatare come esso si traduca immediatamente (sotto forma di domanda retorica) in contenuto etico analogico, quale “libero arbitrio” dei viventi sempre volti alla ricerca di ogni possibile piacere (II, 243-262):

 

Perciò è sempre più necessario che i corpi deviino un poco;

ma non più del minimo, affinché non ci sembri di poter immaginare

movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce.

Infatti è evidente, a portata della nostra vista,

che i corpi gravi in se stessi non possono spostarsi di sghembo

quando precipitano dall’alto, come è facile constatare.

Ma chi può scorgere che essi non compiono affatto

Alcuna deviazione dalla linea retta del loro percorso?

    Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri

E quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine certo,

se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche

inizio di movimento che infranga le leggi del fato

così che da tempo infinito causa non sussegua a causa,

donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero arbitrio,

donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati,

in virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida,

e deviamo il nostro percorso non in un momento esatto,

né in un punto preciso dello spazio, ma quando lo decide la mente?

Infatti senza alcun dubbio a ciascuno un proprio volere

Suggerisce l’inizio di questi moti che da esso si irradiano nelle membra. [63]

 

Il cupo pessimismo di Lucrezio (che morrà suicida) erompe verso la fine del libro con una sorta di profetico annuncio della corruzione e della morte del mondo “ormai stremato ed esausto” (II, versi 1139-1152):

 

Giustamente dunque le cose periscono quando estenuate

dal deflusso soccombono tutte agli urti esterni,

poiché in vecchiaia il cibo infine viene a mancare

e i corpuscoli martellanti dall’esterno non cessano di stremare

alcuna cosa e di vincerla ostili con gli urti.

Così dunque anche le mura del vasto mondo

espugnate d’attorno crolleranno corrose in rovina.

Ogni cosa dev’essere infatti ristorata dal cibo che la rinnovi,

e sostenuta da esso: tutto dev’essere sostentato dal cibo,

ma invano, perché con il tempo le vene non sopportano più

quanto basti alla vita, né la natura appresta il necessario.

Ormai la nostra età è stremata, la terra esausta produce

A stento meschini esemplari, la terra che un giorno generò

Ogni specie e creò dal suo grembo animali dai corpi possenti. [64]

 

 

La poesia visionaria lucreziana immagina il mondo come un immenso organismo “le cui vene non sopportano più quanto basti alla vita”. Ma sono specialmente “i corpuscoli martellanti dall’esterno” che “non cessano di stremar alcuna cosa e di vincerla ostili con gli urti”. Ma che cosa sono questi “corpuscoli”? Gli atomi stessi o le misteriose entità che urtando contro di essi ne declinano la caduta? Più che un teoria della “distruzione” forse un topos poetico dettato dalla depressione.

    Passiamo ora al Terzo Libro, nel quale ci è dato cogliere un passaggio concettuale molto importante, poiché si cerca di chiarire attraverso la differenza tra anima e animus ciò che in Epicuro era rimasto piuttosto indeterminato. Va tuttavia notato che nella lingua latina esiste tra i due termini una differenziazione che ricorda in qualche modo quella già esistente nella lingua greca tra psyché (anima) e noùs (intelletto). L’anima (come la psyché) è diffusa in tutto il corpo e costituisce il soffio vitale (ma per Epicuro “corpo nel corpo”) di esso. L’animus invece è qualcosa di più simile al noùs (III, versi 136-140):

 

Ora affermo che l’anima e l’animo sono tenuti

Avvinti tra loro, e formano tra sé una stessa natura.

Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare tutto il corpo:

quello che noi denominiamo animo e mente

e che ha stabile sede nella zona centrale del petto. [65]

 

Per Lucrezio animus e mens sono la stessa cosa e tale cosa ha sede nella zona centrale del petto, vale a dire in quella collocazione che ancora oggi nel linguaggio comune viene riferita al “cuore”, quale recettore delle emozioni e centro della sensibilità etica ed estetica. Ed infatti la mens latina (che non possiede la ratio) non corrisponde a ciò che indica la parola italiana “mente” (centro del pensiero) ma piuttosto sentimento, indole, carattere, coscienza, cuore. Lucrezio poi aggiunge (versi 141-146):

 

Qui palpitano infatti l’angoscia e il timore, qui intorno

Le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l’animo.

La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo,

obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente.

Questa da sé sola prende conoscenza, e da sé gioisce,

quando nessuna cos stimola l’anima e  il corpo. [66]

 

Dunque l’animo e l’anima sono connessi, ma questa dipende da quello. L’animus-mens infatti “prende per sé conoscenza” e “per sé gioisce”. Noi abbiamo pertanto un concetto di animo che si avvicina a quello moderno di anima, come centro delle emozioni e della sensibilità. Lucrezio anticipa così, attraverso una duplicazione del “mens sana in corpore sano” in un “corpus sanum a mente sana”, il concetto moderno di stato psico-somatico, dove lo stato della psiche determina il benessere o il disagio corporeo attraverso il sistema nervoso simpatico.  Infatti (versi 152-162):

 

Tuttavia se la mente è turbata da un più veemente timore,

constatiamo che tutta l’anima corrisponde attraverso le membra,

e così sudore e pallore appaiono per tutto il corpo,

la lingua sembra impastoiarsi e la voce morire,

gli occhi annebbiarsi, sibilare le orecchie, gli arti afflosciarsi,

infine vediamo spesso gli uomini crollare a terra

per il terrore dell’animo; così che è facile a chiunque arguire

che l’anima è congiunta con l’animo e, percossa da una violenta

emozione dell’animo, a sua volta scuote e turba il corpo.

    Questo medesimo ragionamento dimostra che la natura dell’animo

e dell’anima è corporea. […] [67]

 

Prosegue Lucrezio spiegandoci che l’animo è costituito da atomi ancora più sottili di quelli dell’anima, ma che si deve pensare a qualche cosa d’altro di ancora pù originario e costuituito da atomi ancora più piccoli e mobili (i principia ab origine, gli elementi primordiali o particelle basilari) per spiegare “i moti sensitivi” e “il pensiero” ed essi sovrintendono al “senso” [68] basilare del corpo che vive (III, versi 241-246 e 258-265):

 

È dunque necessario che ad esse si aggiunga una quarta natura.

Questa è tuttavia completamente priva di nome;

ma nulla esiste più mobile e sottile di essa,

e neanche costituito da particelle più piccole e levigate:

è questa a diffondere per prima i moti sensitivi delle membra.

Infatti si muove per prima, costituita da minuscoli elementi; […]

    Ora mio malgrado la povertà del patrio linguaggio

Mi trattiene, pur anelante, dallo spiegare in qual modo

armonizzati fra loro i primi elementi esplichino le vitali funzioni;

tuttavia, secondo le mie forze, toccherò per sommi capi l’argomento. [69]

 

“Secondo le sue forze” Lucrezio tenta di spiegarci che questi elementi primordiali agiscono in modo coordinato e che da essi dipende tutta la nostra esistenza: dal movimento, alle emozioni, ai sentimenti. Ma essi sono anche alla base “della violenta forza dei leoni”, “della fredda mente dei cervi” e “della natura più placida dei buoi” dai quali l’uomo non differisce più di tanto, poiché in fondo esso resta pur sempre un animale (versi 307-318):

 

Così è la stirpe degli uomini. Sebbene l’educazione ne renda

Ugualmente forbiti alcuni, tuttavia essa lascia

Le primitive tracce del carattere nell’animo di ognuno.

Né si deve credere che quei mali si possano estirpare dalle radici,

così che uno non sia eccessivamente incline all’ira,

l’altro non sia troppo presto afferrato dalla paura,

e un terzo non subisca torti più arrendevolmente del giusto.

In molte altre attitudini devono differire tra loro

le varie nature degli uomini e i costumi che ne derivano;

dei quali ora non posso esporre gli occulti motivi,

né trovare tanti nomi per le molteplici forme

dei corpuscoli primordiali, da cui ha origine la diversità delle cose.

 

Dunque se l’anima rende vivo il corpo e l’animo determina i moti sensitivi e il pensiero, a determinare la profonda “differenza” tra uomo e uomo sono i corpuscoli primordiali che conferiscono il “senso”. Infatti (III, versi 331-336 e 350-353):

 

Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine [dell’essere vivente]

Si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino;

ed è chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra,

le facoltà del corpo e dell’anima separate, non potrebbero aver senso;

ma con moti reciprocamente comuni spira dall’una e dall’altra

quel senso acceso in noi attraverso gli organi. […]

    Per il resto, se alcuno nega che il corpo sia provvisto di sensibilità

E crede che l’anima mista all’intera compagine del corpo

Assuma da sola questo moto che usiamo denominare senso,

entra in conflitto con i fenomeni reali e palesi. [70]

 

Ma l’animo si può ammalare né più ne meno del corpo e la “morte dell’animo” non è meno terribile delle morte del corpo (versi 461-466):

 

[…] così vediamo l’animo soffrire crudeli affanni,

cordoglio e timore; perciò dev’essere anch’esso partecipe della morte. [71]

 

Lucrezio si lancia in una lunga esposizione in cui rivela una conoscenza dell’animo umano e dei suoi problemi da far invidia a uno psicologo moderno; si sofferma poi a dimostrare (seguendo da vicino Epicuro) come pensare l’anima come qualcosa di immortale sia un’assurdità e che lo stesso valga per la natura dell’animo che “non può nascere sola, priva del corpo, né esistere separata dai nervi e dal sangue (versi 788 e 789) per arrivare all’epicureo “Nulla è la morte per noi” che sviluppa sino alla fine del capitolo, in un crescendo che pone in evidenza una pesante inevitabilità della morte che ha poco a vedere con la leggerezza epicurea di una morte “quasi felice”.

    Nel Quarto Libro Lucrezio tratta delle senzazioni in termini sostanzialmente fedeli ad Epicuro, ma amplia poi il discorso su tutto ciò che risulta ingannevole per l’uomo: le illusioni, i miraggi e i sogni. Ma verso la fine introduce l’argomento relativo alla peggiore e dolorosa tra queste esperienze fallaci: quella dell’amore. Vediamone qualche passo (IV, 1058-1072):

 

    Questa è Venere per noi; di qui il nome amore,

di qui prima stillarono dolcissime gocce

nel cuore, e a vicenda successe la gelida pena;

se infatti è lontano chi ami, ti è accanto l’immagine

del suo volto, ti aleggia alle orecchie il suo nome soave.

Ma conviene che tali fantasmi si fuggano, che si ricusi

Ogni alimento d’amore, ad altro il pensiero si volga,

e il seme si eiaculi in casuali amplessi,

né lo si serbi, una volta filtrato, a un amore esclusivo,

futura pena a se stessi e sicuro travaglio.

Brucia l’intima piaga a nutrirla e col tempo incarnisce,

divampa nei giorni l’ardore, l’angoscia ti serra,

se non confondi l’antico dolore con nuove ferite,

e le recenti piaghe errabondo lenisca d’instabili amori,

o ad altro tu possa rivolgere i moti dell’animo. [72]

 

Lucrezio delinea in pochi ed efficacissimi versi lo strazio dell’amore deluso, con tratti espressionistici nei quali è dato cogliere il segno di una bruciante esperienza personale. Poi egli descrive l’amplesso con crudo realismo, fino al momento culminante dell’orgasmo seguito da un altrettanto breve momento di pausa, dopo di ché il desiderio si riaccende e gli amanti «vorrebbero sapere» che cosa esso sia veramente per poter lenire quella “piaga segreta”(IV, versi 1113-1120):  

 

[…] a tal punto si serrano cupidamente nella stretta di Venere,

finché le membra, stremate dall’intensità del piacere, si struggono.

Infine quando il piacere raccolto si effonde dai nervi,

per un po’ si produce una breve pausa dell’ardore,

poi torna la medesima rabbia, di nuovo quella smania li assale,

mentre gli amanti vorrebbero sapere che cosa desiderano,

e non riescono a trovare un rimedio che plachi il tormento:

in tale incertezza si consumano per una piaga segreta. [73]

 

Lasciamo il Quarto Libro, dove Lucrezio ci ha dato alcuni tra i luoghi più alti della sua poesia, e veniamo al Quinto, nel quale viene ripreso il tema dell’inarrestabile declino del mondo e dell’assenza di ogni provvidenza divina che possa rimediare ai suoi mali, poiché (V, versi 198 e 199) «non per volere divino è stata per noi generata la natura del mondo, segnata da pecche sì gravi». Lucrezio pone così, diciassette secoli in anticipo, il problema di un’impossibile teodicea.  Con un taglio esistenzialistico ante litteram (a cui sarà sensibile Giacomo Leopardi) il poeta descrive la condizione umana “gettata” in un mondo pieno d’angosce, al quale forse sarebbe stato meglio non essere mai nati, poiché (V, versi 222-227):

 

    Ed ecco il fanciullo, come un naufrago buttato a riva

Dalle onde infuriate, giace nudo sul suolo, incapace di parlare,

bisognoso d’ogni aiuto vitale appena la natura lo getta

sulle prode della vita, con doglie del grembo materno,

e riempie lo spazio d’un disperato vagire, come è giusto che faccia

colui cui in vita è serbato il passare per tante sventure. [74]

 

Non un dio benevolo quindi, ma una natura matrigna getta l’uomo “sulle prode della vita”, per poi abbandonarlo al suo destino di sofferenza e solitudine. Un mondo casuale e caotico, creato da nessuno, senza ragion d’essere e nato da una materia informe ci accoglie e ci accompagna (V, versi 416-423):

 

Ma ora spiegherò con ordine come il caotico ammasso

di materia abbia stabilmente formato la terra, il cielo,

le profondità marine, il corso  del sole e della luna.

Infatti di certo gli elementi germinali delle cose

non si disposero ognuno al suo posto per il criterio d’una mente sagace

né pattuirono i moti che ognuno avrebbe dovuto imprimere,

ma poiché i numerosi germi della natura in molteplici modi

ormai da tempo infinito sospinti dagli urti

e dal loro stesso peso sogliono spostarsi velocemente,

aggregarsi in ogni guisa e produrre tutte le combinazioni [75]

 

Gli stessi atomi e lo stesso mondo da essi formato, che per Epicuro configuravano una realtà nella quale fioriva la vita e in cui vi potevano essere dolori sopportabili e piaceri da scegliere, nella quale era possibile realizzare una stabile e pacata felicità, delineano invece per Lucrezio un contesto senza scopo e senza finalità, in cui l’uomo è gettato alla provvisorietà e alla sofferenza. La morte, che per Epicuro era il compimento significativo di un esistenza regolata da un saggio eudemonismo, diventa in Lucrezio un assurdo pozzo di non-senso che tutto risucchia. Ma non è tutto, poiché l’uomo volontariamente si è legato mani e piedi alla credenza del divino. E il poeta si avvia a dare la spiegazione di questo legame (V, versi 1161-11689):

 

Ora qual causa ha diffuso fra le grandi popolazioni

I numi degli dèi, riempito di altari le città

e fatto sì che venissero accolti i riti sacri

che tuttora si celebrano splendidamente in solenni eventi e sedi,

da dove ancor oggi s’insinua nei mortali il terrore

che innalza su tutta la terra nuovi templi agli dèi

e costringe la folla a frequentare nei giorni festivi,

non è certo difficile spiegare con chiare parole. [76]

 

La causa di tutto è l’ignoranza. Fin dai tempi più remoti gli uomini hanno fantasticato degli dèi, immaginandoseli grandi e potenti, assegnando loro l’eternità e la beatitudine e ad essi connettendo i fenomeni celesti e naturali come se questi obbedissero alla loro volontà (V, versi 1183-1193):

 

Scrutavano inoltre l’inflessibile norma del cielo,

la vicenda delle varie stagioni dell’anno,

né potevano comprendere per quali ragioni questo accadesse.

Non avevano dunque altro scampo che affidare ogni cosa agli dèi,

e pensare che tutto obbedisse ad un loro consenso. [77]

Posero in cielo le sedi e le dimore egli déi,

perché appaiono volgersi in cielo la notte e la luna,

la luna, il giorno e la notte,e della notte gli astri severi,

le erranti meteore notturne, le fiamme volanti,

il sole, le nubi, le piogge, la neve, la grandine, i venti

i fulmini, i rombi improvvisi, il minaccioso mormorio dei tuoni. [78]

 

Gli uomini non si rendono conto di quanto quell’errata interpretazione della realtà abbia funestato la loro esistenza (versi 1194-1197):

 

    O misera stirpe dei mortali, quando ebbe assegnato

Tali effetti agli déi, e aggiunto loro la collera acerba!

Quanti gemiti procurarono allora a se stessi,

quante sofferenze a noi e lagrime ai nostri figli! [79]

 

    Il Sesto ed ultimo libro concerne i fenomeni naturali in ogni loro aspetto, che non vanno attribuiti ad alcuna potenza divina, ma a forze inconoscibili e imprevedibili legate al caso e al caos che pervadono tutta la realtà, fino al caso estremo dell’epidemia di peste che Atene ha dovuto sopportare [80]. Uno scenario di morte, che chiude significativamente un poema didascalico con un grido di dolore senza speranza. Uno sforzo poetico che ha al suo centro l’esistenza dell’uomo, le sue illusioni, i suoi fraintendimenti, il suo autolesionismo e le sue inevitabili sofferenze. 

    Fin’ora abbiamo seguito passo passo il testo lucreziano, dobbiamo adesso tentare una sintesi del suo pensiero in relazione ai contenuti e alla forma poetica che li riveste. Nell’ermeneutica lucreziana si delineano due flussi poetico-descrittivi, un primo che potremmo chiamare “espressionistico” e un secondo che definiremo “razionalistico”. L’interpretazione espressionistica di Lucrezio si fonda sugli evidenti caratteri pessimistici, fino ad estremi nichilistici (e fin quasi alla celebrazione del “trionfo della morte”), della sua poesia. Una poesia che progetta l’apologia di una filosofia rasserenatrice, ma ne realizza il suo opposto nell’angoscia delle cupe e disperanti atmosfere descrittive, che punteggiano il poema e che lo concludono (la peste di Atene chiude il Sesto Libro). L’interpretazione razionalistica presuppone invece il distacco concettuale dell’autore e la sua entusiastica adesione all’epicureismo, proprio allo scopo di proporre “didascalicamente” una via razionalistica per il superamento dell’ignoranza, dell’angoscia e della sofferenza, delle l’uomo soffre anche (o forse soprattutto) per aver tolto alla natura la sua autonomia causale, riponendo in presunti voleri divini i fenomeni che l’uomo percepisce e patisce. Ciò coinciderebbe con la riappropriazione di un rapporto naturale con la natura, madre e matrigna, ma comunque “vera” rispetto alle “false” ipostasi divine. Noi pensiamo che entrambe siano attendibili e che il loro connettersi e sovrapporsi costituisca l’aspetto più affascinante e problematico de La natura delle cose.

    Emerge anche in Lucrezio un sentimento nostalgico nei confronti di una primitiva “naturalità” umana che l’avvento delle religioni avrebbe pervertito, precipitandola così in un coacervo di false illusioni e di falsi timori che condizionano l’esistenza e la coscienza, impedendo all’uomo di scoprire una via naturale alla felicità. D’altra parte, innegabilmente in lui vi è anche una sorta di millenarismo fatalista, che vede in un’imminente rovina del mondo la conclusione ultima di un progressivo esaurimento della sua vitalità. In questo clima la necessità e la casualità si intersecano in una matassa a due fili della quale è difficile trovare i capi e il loro razionale e opportunistico svolgimento.

    La natura domina il poema lucreziano nella duplice veste della minaccia di dolore e morte e della promessa di rinascita e vita. Visioni idilliche piene di speranza vitalistica si alternano a scene cruente di disperante e nichilistica rovina. In tale contesto l’uomo è solo, senza alcun dio che lo possa aiutare a risolvere i suoi problemi, e la sua solitudine è la causa di una impropria evoluzione basata che ha condotto all’affermarsi dei feticci della religione. L’operazione soteriologica che Lucrezio vuole avviare, sulle orme di Epicuro, è quella di liberare l’uomo dalla schiavitù e dalla deferenza verso il “divino”, per poter ritornare all’immanente natura che lo ha generato e l’avvolge. Ed infatti egli oppone il mondo animale, sereno e vitale, al mondo umano pervaso di angoscia e di doloroso pathos. La realizzazione dell’atarassia sembra allora prevedere un implicito ritorno ad una condizione perduta, dare recuperare attraverso il rifiuto del “sacro”. 

    Ma su tutto insiste l’insufficienza dell’uomo a penetrare quei misteri che ciò che è a lui “esterno” racchiude: ovvero la totalità dell’universo, il nulla che incombe, un passato da decifrare e un futuro da gestire. Il De rerum natura si offre così come un’immensa impresa didascalica e nello steso tempo come un affettuoso e disperato affresco di un’umanità sensibile e sofferente, che non riesce a trovare la strada per realizzare compiutamente la propria più autentica essenza all’interno della natura, la quale a volte si presenta come una madre accogliente e a volte come una terribile minaccia.  

 

    Con Lucrezio abbiamo concluso questo quinto capitolo del nostro lavoro e con lui possiamo giungere alla conclusione che l’epicureismo è l’unica dottrina atea antica che presenta un assetto teoretico compiuto. Essa dovrà competere nei secoli successivi all’affermarsi del Cristianesimo con un dominante Aristotelismo (sotto forma di Tomismo), con una resistente tradizione neoplatonica (da Agostino alla Scuola di Chartres) e con lo Stoicismo, ad esso antitetico col suo necessitarismo. In questa tradizione epicurea, minoritaria nel panorama filosofico post-antico, si andranno delineando due correnti principali: una prima che avrà denotazioni “teoretiche”, concernendo una visione atea del mondo e della vita, ed una seconda che si caratterizzerà per la tendenza a privilegiare gli aspetti edonistici ed eudemonistici della filosofia di Epicuro (e non necessariamente in senso ateistico). In questo contesto la poesia lucreziana, che sarà il principale veicolo dell’epicureismo nell’Europa Occidentale si collocherà in posizione neutra; ciò grazie alla fondamentale contraddizione interna che la pervade: l’aderenza ad una filosofia che intende essere rasserenante e tranquillizzante e nello stesso tempo il suo inserimento in un contesto pessimistico, che sembra rivelare il fallimento proprio di ciò che è elemento principale della filosofia epicurea, vale a dire la sua etica eudemonistica. Infatti, Lucrezio intendere fare l’apologia dell’eudemonismo epicureo, ma il suo intento appare diffusamente compromesso da un espressionistico senso dell’ignoranza dell’uomo e della sofferenza che lo investe, nonché dal soffuso nichilismo mortifero che pesa sull’atmosfera poetica dell’opera, almeno dal Terzo all’ultimo capitolo del poema. Vedremo, tuttavia, come la tradizione epicurea, in modo per lo più sotterraneo rispetto al dominio della dottina cristiana, giungerà vitalissima al XVII secolo, per vivificare una corrente ateistica del naturalismo, che concorrerà a creare le premesse per l’avvento dell’Illuminismo razionalistico e scientistico.

 

 



[1] Numerosi sono i giudizi da parte di Eusebio di Cesarea (Praeparatio evangelica XIV) e di Lattanzio (De ira dei, Divinae institutiones, Inst. Epitome) .

[2] Gabriele Giannantoni  I Cirenaici – Sansoni  1958, p.310.

[3] Ivi, p.342.

[4] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.I, p.78-79 passim.

[5] Ivi, p.71.

[6] Così si esprime Francesco Adorno sul cirenaico (La filosofia antica, vol.I, Feltrinelli 1961, p.171): «Distacco, dominio, piacere come misura, urbanità e calma nella discussione, comprensione umana, “rimanendo dappertutto uno straniero”, raffinamento della cultura e dell’intelligenza sembrano, dunque, i tratti salienti del socratismo di Aristippo, amico di tutti e di nessuno, che poteva stare con tutti e con nessuno, che amava le ricchezze ma poteva farne a meno, come risulta dai molti aneddoti sulla sua vita, narratici fin dalle fonti più antiche.»

[7] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.I, p.80.

[8] Ivi, p.80-81.

[9] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.I, p.81.

[10] Si ricordi che già  Leucippo aveva teorizzato il peso come causa di stratificazione nel vuoto degli atomi, non però come causa del movimento.

[11] Epicuro riprende certamente l’etrica di Aristippo di Cirene nell’assunzione del piacere come fine ultimo della vita. Ne differisce in quanto l’edonismo cirenaico era di tipo dinamico, mentre Epicuro teorizza un piacere di tipo statico. Per Epicuro il fatto stesso dell’assenza di dolore (aponia) è già una condizione di piacere. A questa si affianca l’assenza di turbamento, l’atarassia, che nell’epicureismo successivo acquisterà sempre più importanza, diventando prevalente rispetto all’aponia.

[12] Vittorio Enzo Alfieri ha messo a confronto Democrito ed Epicuro sul problema della divinità, rilevando che mentre il primo adotta un punto di partenza gnoseologico il secondo si baserebbe su esigenze logico-metafisiche relative al suo ideale etico (Il concetto del divino in Democrito ed Epicuro in Studi di filosofia greca a cura di V.E.Alfieri e M.Untersteiner – Laterza 1950, pp.87-120). 

[13] Nota il Bignone: «Chi passi dalla lettura di alcuni frammenti, pur così scarni, delle lettere di Epicuro alle Confessioni di S.Agostino, o alle epistole e ai trattati di S. Giovanni Crisostomo, di S.Basilio o di Gregorio Nisseno, s’accorge che l’epicureismo fu il tramite, per cui l’antichità mosse a condizioni di spirito che il Cristianesimo sembra aver tratte dal proprio fondo.» (L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, vol.II, p.223) e più avanti:«Quando S.Agostino, negli anni più agitati della sua giovinezza, meditava di ritirarsi dal mondo coi suoi amici, in un asilo lontano, ove vivere tra la campagna e gli studi […] non faceva che rinnovare l’ideale stato del saggio epicureo […] (Confess., VI, 26)». (Ivi p.235)

[14] Lattanzio (Divinae Institutiones, III, 7, 7) nota: «Epicuro ritiene che il sommo bene consista nel piacere dell’animo, Aristippo in quello del corpo.» (in G.Giannantoni I Cirenaici, Sansoni 1958, p.324).

[15] Scrive a questo proposito Howard Jones: «La scuola aveva un’organizzazione di tipo gerarchico, dove il ruolo di guida (hegemon) aspettava a Epicuro, il solo a fregiarsi del titolo di “sapiente”. Ci si sottometteva alla sua autorità prestando solenne giuramento. Gli altri membri, chiamati philosophoi, potevano ricoprire le cariche di maestro (kathergemon) come Metrodoro, sostituto di Epicuro, e Polieno; di precettori (kathegetes) come Ermaco, il primo successore di Epicuro; e di discepoli (kataskeuazomenoi).» (in La tradizione epicurea – ECIG 1999, p.32.

[16] È quanto sostenuto da Ettore Bignone (uno dei maggiori studiosi di Epicuro) il quale vede, a cominciare dalla precipitosa e drammatica fuga da Mitilene (accusato di corrompere i giovani), un calvario esistenziale costellato da accuse di empietà e di dissolutezza che avrebbe portato il Nostro a una costante difesa del suo pensiero attraverso chiarimenti o vere e proprie sistemazioni concettuali. Secondo questo studioso Epicuro avrebbe impiegato buona parte del suo tempo e delle sue energie intellettuali per mettersi al riparo, per quanto possibile, dai problemi provocati dagli attacchi dei suoi detrattori (soprattutto i seguaci di Platone e Aristotele, e più tardi gli Stoici) che mettevano in difficoltà la stessa permanenza della sua scuola. Ciò spiegherebbe anche, in qualche fase, le sue esortazioni agli allievi a rispettare gli dèi proprio per allontanare da sé l’accusa di ateismo.

[17] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.II, pp.401-402 passim.

[18] Ivi, p.403.

[19] Nota il Bignone: «[…] Timocrate, come vedremo, accusava Epicuro anche di ateismo. […] Non bisogna infatti dimenticare quanto fosse pericoloso per un filosofo in quel tempo cadere sotto un accusa di empietà» (L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro - vol.I. – pp.475-476).

[20] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.II, p.403.

[21] Ivi p.404.

[22] Ibidem.

[23] A questi documenti va aggiunto il Gnomologio Vaticano (o Sentenze Vaticane). Questo gruppo di massime coincide in parte con le Massime Capitali e sono relative ad un manoscritto scoperto nel 1888   nella Biblioteca Vaticana da H. Wotke e H. Usener. A completamento del quadro complessivo della documentazione su Epicuro va precisato che esistono anche meno importanti frammenti di lettere e di passi di opere perdute. A questi vanno aggiunti gli scritti, le note e i giudizi di autori romani come Cicerone, Plinio, Plutarco, Sesto Empirico, ecc.

[24] Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando 1998, pp.78-79.

[25] Ivi pp.81-83 passim.

[26] Ivi p.84.

[27] Epicuro Opere (a cura di E.Bignone) – Laterza 1984 – p.45.

[28] Ivi p. 53.

[29]  Impossibile non cogliere qui un forte elemento di polemica nei confronti di Platone, il quale, nel Fedro (245 c e seguenti) aveva esplicitamente affermato: «L’anima è immortale; perché ciò che sempre si muove è immortale. Ora, ciò che provoca movimento in altro ed è mosso esso stesso da qualcos’altro [il corpo], se subisce un arresto di movimento, smette di vivere. Solo dunque ciò che muove se stesso, in quanto non può abbandonare se stesso, mai cessa di essere in moto, anzi è scaturigine e principio di moto di tutte le cose che sono mosse. Ora, il principio non è generato perché, mentre ogni cosa che nasce deve per forza nascere da un principio, questo invece non deve esser generato da niente: se altrimenti il principio procedesse da qualcosa, cesserebbe di esser ancora il principio».

[30] Epicuro  Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.89.

[31] Ivi p.90.

[32]  Ibidem.

[33]  Ibidem.

[34] Nota Domenico Pesce nel suo Epicuro (Laterza 1980 – p.43): «Per ottenere il suo scopo [garantire la validità oggettiva della sensazione] Epicuro si vale della dottrina delle categorie (ad Her 68-71) in cui di solito si ravvisa l’influsso di Aristotele ma che risulta, nella sua costituzione, lontanissima da Aristotele. Punto di partenza (ad Her 39-40) è l’affermazione veramente capitale che il tutto è costituito di corpi e di vuoto e che su questo stesso livello ontologico, che noi diremmo aristotelicamente della sostanza, ma che Epicuro designa come quello delle “nature compiute”, nient’altro è non soltanto esistente ma addirittura concepibile

[35] Il concetto di anticipazione o prolessi (πρόληψις) è comune anche alla logica stoica. Le anticipazioni sono quei concetti generali presenti nella mente mediante il quale vengono anticipati i dati dell’esperienza.

[36] Epicuro  Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.92.

[37] Ivi p.93.

[38] Ibidem.

[39] Ivi p.95.

[40] Ibidem.

[41] Ivi pp.95-96.

[42] Secondo Domenico Pesce (Introduzione a Epicuro – Laterza 1981 – pp.62-63) nell’Epistola ad Erodoto e nell’Epistola a Pitocle vi è da parte di Epicuro la messa a punto di una dottrina dei principi che si articola in sette punti: 1) Non c’è nascita dal niente né morte nel niente; donde segue che tutto è immutabile. 2) Il tutto è costituito di corpi e di vuoto. 3) I corpi sono o composti o semplici; questi ultimi sono gli atomi. 4) Il tutto è infinito; infinito è il numero degli atomi ed infinita è l’estensione del vuoto. 5) Le figure atomiche sono di numero inconcepibile, ma non infinito. 6) Il movimento degli atomi è eterno, essendo causato dal peso e dal vuoto. 7) Gli atomi differiscono per grandezza , figura e peso.

[43] Epicuro  Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.108.

[44] Del quadrifarmaco questo è certamente il punto meno convincente, ma va detto che Epicuro lo ha sempre difeso (vedi la IV massima capitale) e che Diogene Laerzio ricorda le seguenti su affermazioni in una lettera scritta ad Idomeneo in punto di morte: «Volgeva per me il giorno supremo e pur felice della mia vita, quando questo ti scrivevo. Tali erano i miei mali dei visceri e della vescica, che non comportavano eccesso di violenza. Pure ad essi tutti s’adeguava sempre la gioia dell’animo, nel ricordo dei nostri passati ragionamenti filosofici.» (Epicuro Opere (a cura di E.Bignone) – Laterza 1984 – pp.122-123).

[45] Ivi p.109.

[46] Va tuttavia rilevato che questa nostra lettura, aderente al giudizio prevalente sulla filosofia epicurea, non è condiviso da alcuni. Ad esempio, Domenico Pesce scrive: « […] a dispetto della stretta connessione che una mente moderna è portata a porre tra materialismo ed ateismo, nessuno dubita più della genuinità del sentimento religioso di Epicuro e della serietà del suo pensiero teologico. Vero è che questo sentimento e questo pensiero, proprio perché non debbono contrastare con le premesse del sistema, riescono alquanto singolare l’uno e paradossale l’altro, di modo che la teologia epicurea costituisce un unicum nella storia della filosofia.» (D.Pesce (Introduzione a Epicuro – Laterza 1981 – pp.87-88).  Opinione che a noi pare un po’ contorta, poiché, se la filosofia epicurea è un innegabile struttura di grande coerenza filosofica, non si vede per quale ragione dovrebbe diventare un unicum di incoerenza per difendere una supposta “serietà del suo pensiero teologico”.

[47] Epicuro  Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando 1998, p.110.

[48] Ivi p.110-111.

[49] È questo il caso della prestigiosa traduzione del Bignone (Epicuro Opere – Laterza 1984, p.32). 

[50] Ibidem.

[51] Epicuro  Epistème ed éthos in Epicuro – Armando Editore 1998 – p.111.

[52] Ivi p.112.

[53] Ivi. pp. 112-113

[54] Molti hanno visto in questa frase il motivo di fondo per l’introduzione della klisis (= latino clinamen) e cioè quello di difendere (analogicamente) la libertà dell’uomo nel determinare la propria vita. Secondo questa tesi, non solo Lucrezio avrebbe interpretato correttamente il pensiero di Epicuro, ma la klisis assumerebbe proprio una valenza etica e non fisica, come parrebbe logico pensare. Vedi anche il saggio La dottrina epicurea del “clinamen” di Ettore Bignone in L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro - vol.II - La Nuova Italia 1973, pp.409-456.

[55] Ivi pp.113-114.

[56] Ibidem.

[57] Ivi pp.115-123 passim.

[58] Epicuro Opere (a cura di E.Bignone) – Laterza 1984, p.79.

[59] Lucrezio  La natura delle cose –Rizzoli 2000 – p.77.

[60] Ivi p.81.

[61] Ivi p.85.

[62] Ivi p.121.

[63] Ivi pp.175-177.

[64] Ivi p. 241.

[65] Ivi p. 257.

[66] Ibidem.

[67] Ivi p.259

[68] In latino sensus significa sia ciò che concerne le sensazioni relative alla sensibilità corporea (i cinque sensi) sia la capacità di comprendere, la coscienza e l’origine dei sentimenti.

[69] Ivi p. 265.

[70] Ivi pp. 271-273.

[71] Ivi p. 281.

[72] Ivi pp. 407-409.

[73] Ivi p. 411.

[74] Ivi p. 411.

[75] Ivi pp. 455-457.

[76] Ivi pp. 509-511.

[77] Vedi nota 114 (Par.2.4) su Giambattista Vico.

[78] Ivi p. 511.

[79] Ibidem.

[80] Lucrezio si riferisce al morbo che ha colpito Atene dal 430 al 425 a.C., durante le guerre del Peloponneso poi descritte da Tucidite.