CAPITOLO
TERZO
I prodromi dell’ateismo nel mondo
greco.
INTRODUZIONE
Una
ricognizione sull’ateismo più antico è resa
difficile dal fatto che l’affermarsi
(con Platone) del pensiero idealistico, in
opposizione a quello naturalistico,
ha determinato una graduale eclissi di questo
ed in molti casi la perdita dei
testi originali relativi, dei commenti ed
in parte anche delle testimonianze su
di esso. Va rilevato comunque che in epoche
molto antiche la trasmissione dello
scibile è avvenuta prevalentemente per via
orale, e che ciò avveniva ancora in
una buona misura anche in pieno V sec.a.C.
(si pensi al caso di Socrate). Per
quanto riguarda poi il nostro specifico tema
d’indagine si aggiunga che la
corrente di pensiero di maggior interesse,
quella atomistica, è assai male
documentata, poiché gli scritti originali
degli atomisti sono tutti andati
perduti. Ora, se su su Democrito risulta
ancora disponibile una relativamente
vasta messe di frammenti e testimonianze,
per quanto riguarda Leucippo (il
fondatore della teoria degli atomi) i documenti
sono scarsissimi e a volte
(come vedremo) anche piuttosto contraddittori.
Con l’avvento del Cristianesimo
vi è poi stata, verosimilmente, una sistematica
distruzione fisica di tutti
quei testi che in qualche modo contrastavano
la dottrina cristiana. Tra questo
tipo di operazioni si ricordi il caso esemplare
della scomparsa dell’Alethès
lògos (Discorso vero) del neoplatonico Celso, uno dei più accesi
critici della religione cristiana, il cui
pensiero siamo oggi costretti a
desumere dal Contra Celsum del suo implacabile avversario Origene. Noi
abbiamo pertanto soltanto la possibilità
di lavorare su un corpus di
documenti perlopiù indiretti, talvolta approssimativi
o ripetitivi e spesso
stilati molti secoli dopo.
Il politeismo
ellenico, alle sue origini, si è presentato
da subito come una religione ricca
di elementi naturalistici, basata su di un
pluralismo di divinità perfettamente
integrate entro la totalità di una natura
onnicomprensiva, e perlopiù esse
stesse espressione di aspetti e forze di
essa [1].
Le pratiche afferenti l’eusebeia ellenica (ma ciò vale anche per la pietas
romana) rispondono prevalentemente a schemi
appartenenti più al costume
civile che alle esigenze della coscienza,
pertanto hanno un carattere
legalistico-sociale che ha ben poco a vedere
con quello religioso vero e
proprio. Non essendo facile definire, in
quel contesto, il limite al di là del quale
una posizione intellettuale ha assunto caratteri
riferibili all’ateismo ci
vediamo costretti a procedere per linee esterne
e a considerare prodromi
dell’ateismo quelle posizioni e quelle tesi
che si sono allontanate dagli
schemi del mito religioso, con l’elaborazione
di interpretazioni del mondo più
spiccatamente naturalistiche e tendenzialmente
“pluralistiche”. Noi pensiamo
che soprattutto queste ultime mantengano
la teoresi atea al riparo da più o
meno criptate entità mistico-metafisiche,
alla cui deriva sono invece sempre
esposti i monismi materialistico-deterministici,
nei quali la necessità
è un’entità metafisica generante, unificante
e totalizzante che porta sempre i
caratteri (espliciti o criptati) della divinità.
Arriveremo
all’esame delle tesi filosofiche dei pensatori
che, nei termini sopra
enunciati, possono considerarsi legittimamente
atee, ma dobbiamo prima
soffermarci sul pensiero filosofico che le
prepara ed è la prima pietra miliare
di questo percorso. Ci riferiamo allo straordinario
fenomeno culturale del
naturalismo milesio, una sorta di koiné filosofica che per la prima
volta nella storia umana ha osato mettere
da parte ogni principio divino
nell’interpretazione del mondo [2].
Questa sorta di “miracolo” culturale, anticipatore
di uno svincolo dalla
religiosità, che è stato fondamentale nella
storia di tutta la successiva
filosofia, è stato il prodromo diretto dell’ateismo
ellenico e il lontano
precedente di ogni ateismo fiorito nella
cultura occidentale fino ai giorni
nostri.
3.1) Il
naturalismo milesio.
Tutta la storia
della filosofia greca è segnata da un dualismo
di fondo, costituito da una
tendenza naturalistica e da un’altra idealistica
che le si contrappone. Tale
dualismo troverà una qualche conciliazione
in Aristotele, ma l’indirizzo
idealistico (sulle orme del grande successo
del platonismo) finirà per
prevalere [3],
mentre l’incipiente pensiero scientifico
dell’epoca ellenistica ingloberà in
gran parte quello naturalistico. Tuttavia,
la straordinaria stagione del
naturalismo milesio rimarrà sullo sfondo,
a testimonianza di un epoca
irripetibile, che si caratterizza per una
nuova visione del mondo e per il
temporaneo allentamento dei vincoli mitico-religiosi
nell’interpretazione della
realtà, ancorché non si pervenga a un deciso
abbandono del concetto di “divino”
in senso trascendentlistico e sacrale. E
tuttavia l’importanza della filosofia
naturalistica milesia sta anche nell’aver
creato un nuovo clima culturale nel
quale diventava possibile una visione del
mondo ateistica.
Talete ed
Anassimandro, entrambi di Mileto, pongono
un principio (arché)
originario e materiale dell’universo. Tale
principio è l’acqua per il primo e
un più astratto “infinito-indefinito” (intermedio
tra aria, fuoco ed acqua) per
il secondo; con questa nuova teorizzazione
materialistica delle origini del
mondo viene messa da parte d’un sol colpo
ogni entità divina quale causa,
nonché origine, dell’essere del cosmo. La
straordinarietà di tale teorizzazione
non sta tanto nei termini ingenui (specialmente
nel caso di Talete) coi quali
venne formulata, ma col fatto in se stesso,
che fu per l’epoca decisamente
rivoluzionario in riferimento a tutte le
cosmogonie mitiche che lo precedono.
Si trattava sicuramente di un materialismo
che era nel contempo un ilozoismo,
ma non dobbiamo perdere di vista il fatto
che era impensabile per l’epoca
concepire una base materiale dell’universo
priva di una sua “anima” che la
vivificasse; l’importante è che quest’anima
sia ontologicamente omogenea col
suo “corpo”, ovvero la “materia”, e non più
tributaria di alcuna ipostasi
immateriale e divina. Ma per capire come
sia stata possibile la “trovata” di
Talete [4]
e Anassimandro bisogna inquadrare adeguatamente
i singoli protagonisti, nonché
il clima culturale della Mileto della fine
del VII secolo a.C., che ha
rappresentato la “culla” in cui essa ha potuto
sorgere.
Come abbiamo
già visto, lo storico Georges Minois ci fa
rilevare come nel naturalismo
religioso greco ci sia già un’interna propensione
all’ateismo e come le
dottrine dei filosofi ionici costituiscano
un vero e proprio materialismo ante
litteram [5]. Da questa
asserzione ci sembra di poter partire per
una rapida analisi del pensiero
naturalistico dei filosofi di Mileto, con
una considerazione aggiuntiva;
secondo noi, se pure Talete risulta cronologicamente
il primo ad aver posto un
elemento fisico a fondamento del cosmo, ma
l’esiguo scarto di età tra lui e
Anassimandro non ci consente di sostenere
una netta successione storica Talete-Anassimandro
quale evoluzione diacronica del naturalismo
milesio; quindi ci pare più
appropriato parlare di contemporaneità. Si
tratta, in realtà, di due
interpretazioni del mondo che si sviluppano
nella stessa temperie in due
direzioni simili, e delle quali è sicuramente
quella anassimandrea a possedere
maggiore ricchezza teorica e spessore filosofico.
Talete, assai
più viaggiatore, geografo ed astronomo, che
filosofo, contrariamente a quanto
risulterebbe dal noto aneddoto riportato
da Platone nel Teeteto [6],
era tutt’altro che appartenente allo stereotipo
del pensatore “con la testa tra
le nuvole”, tanto è vero che fu uomo anche
di interessi eminentemente pratici,
essendosi occupato di politica e di affari
e non senza qualche successo. Uomo pragmatico quindi, di vasti orizzonti
culturali, che ha viaggiato a lungo nei paesi
del Mediterraneo e che ha
probabilmente tratto la sua famosa tesi reinterpretando
cosmogonie
mesopotamiche od egiziane, nate in contesti
agricoli dove l’acqua è alla base
dell’esistenza [7]. Egli
pensava che ciò che esiste si presenti in
tre forme, vapore, acqua e terra
(ovvero negli stati gassoso, liquido e solido)
e che quest’ultima fosse
soltanto una forma più concreta dell’acqua.
Com’è noto, Talete venne più tardi
considerato uno dei sette savi dell’antica
Grecia e avrebbe acquistato grande
fama e prestigio per aver previsto l’eclisse
di sole del 585 a.C.
Importantissimo fu anche il suo apporto nel
campo della matematica e della
geometria, e tuttavia, come abbiamo già rilevato,
è assai probabile che le sue
conoscenze derivassero da nozioni acquisite
fuori del contesto greco e fossero
state apprese durante i suoi viaggi in area
mesopotamica ed egiziana.
La
straordinarietà di Talete sta allora nel
fatto di aver dato il via, sia pure in
modo approssimativo, ad un nuovo approccio
all’interpretazione del mondo, che è
quello filosofico. E tuttavia possiamo rilevare
come Talete si limiti ad aprire
una porta che Anassimandro spalanca, nel
senso che la riflessione filosofica di
questi va molto oltre l’intuizione di Talete,
risultando foriera di sviluppi
più specificamente teorici. D’altra parte,
Talete aveva probabilmente troppi
impegni e interessi per sviluppare la sua
intuizione. Dice di lui Diogene
Laerzio (I, 22-44):
Prima si dedicò alla vita politica, poi alla
contemplazione
della natura e, secondo aluni, non lasciò
scritti. La Astrologia nautica che
gli è attribuita si dice sia stata scritta
da Foco di Samo. Callimaco lo
conosce come scopritore dell’Orsa Minore
[…] Secondo altri scrisse due sole
opere, Del solstizio e Dell’equinozio, ritenendo inintelleggiili
tutti gli altri fenomeni. Altri ancora attestano
che egli fu il primo coltivare
l’astonomia ed a predire le eclissi del sole
ed a fissare i solstizi d’inverno
[…] Primo pure scoprì il passaggio del sole
da solstizio a solstizio e primo,
secondo altri, mostrò che la grandezza del
sole è la settecentoventesima parte
<dell’orbita del sole e che la grandezza
della luna> è la
settecentoventesima parte dell’orbita lunare.
Primo chiamò «trigesima» l’ultimo
giorno del mese. Secondo altri fu il primo
a trattare della natura [8].
Come si vede quelle del biografo-dossografo
sono notizie
che affondano quasi nel mito, ed il frequente
“alcuni dicono” rivela le sue
incertezze. Né molto più precisi sono i dati
specificamente biografici, che
però, se autentici, mettono in evidenza una
certa sapida furbizia popolaresca
del milesio:
Alcuni dicono che egli abbia avuto moglie
ed un figlio,
Cibisto; altri che sia rimasto celibe ed
abbia adottato il figlio della
sorella. Interrogato perché non procreasse,
dicono che abbia risposto: «Per
amore dei figli». Dicono pure che, incitandolo
la madre a prendere moglie,
abbia risposto:«Non è ancora tempo»; insistendo
ancora, quando egli aveva
oltrepassato la giovinezza: «Non è più tempo» [9].
Aristotele invece ci trasmette una notizia
che mette in
luce il senso pratico del Nostro e nello
stesso tempo il suo senso etico e la
sua dedizione alla filosofia (Politica, 1259 a 6) :
Tutti questi racconti sul modo di arricchire
sono utili per chi
ne apprezza l’arte, e tra essi anche la storia
che si narra a proposito di
Talete di Mileto. […] Raccontano dunque che
qualcuno, rinfacciandogli la sua
povertà, asserisse che la filosofia non era
di alcuna utilità pratica; allora
Talete che, grazie alle sue conoscenze astronomiche,
prevedeva una grossa
raccolta di olive, prese in affitto fin dall’inverno
i frantoi di Mileto e di
Chio a condizioni vantaggiose perché nessuno
ne offriva di più, dando come
caparra un po’ di denaro di cui disponeva.
Al momento opportuno, quando la
richiesta divenne forte ed urgente, li cedette
di nuovo al prezzo che voleva e
ne trasse molto denaro, per dimostrare che
ai filosofi, se volessero, sarebbe
facile arricchire, ma che questo non è lo
scopo a cui tendono. [10]
Ed è ancora Aristotele a fornirci la più
antica e compiuta
descrizione della filosofia di Talete (Metafisica, 983 b 6-24):
La maggior parte dei filosofi più antichi
ritenne che fossero
principi di tutte le cose soltanto quelli
che rientrano in una specie
materiale. Infatti essi affermano che è elemento
e principio delle cose
esistenti appunto ciò di cui tutte quante
le cose esistenti sono costituite e
da cui primamente provengono e in cui alla
fine vanno a corrompersi, anche perché
la sostanza permane pur cangiando nelle sue
affezioni, e per questo motivo essi
sono dl parere che nulla nasca e nulla perisca
[…]
Non tutti, però, sono d’accordo sul numero
e sulla natura
specifica di tale principio, ma Talete, iniziatore
di tale tipo di indagine
filosofica, sostiene che esso è l’acqua (perciò
egli asseriva che anche la
terra galleggia sull’acqua, e forse questa
sua opinione gli fu suggerita
dall’osservazione che è umido ciò di cui
ogni cosa si alimenta e che anche il
caldo nasce dall’umidità e sopravvive per
mezzo di essa […] [11]
Anassimandro,
di poco più giovane di Talete, come si è
detto è filosofo di maggior spessore,
ma è anch’egli dedito ad attività pratiche,
uomo di mondo che viaggia e che si occupa di politica cittadina.
Geometra e geografo (avrebbe secondo Erastotene
tentato di realizzare una prima
carta della Terra (che poco più tardi Ecateo
avrebbe perfezionato) acquisì fama
specialmente come astronomo e naturalista,
inventando (o almeno introducendo in
Grecia) lo gnomone e altri strumenti per
il calcolo del tempo. Mentre Talete
era stato piuttosto vago nelle sue teorizzazioni
Anassimandro cercò
costantemente di definirne i termini, introducendo
in modo più chiaro il
concetto di arché, quale principio e causa prima del mondo
visibile e
percepibile soltanto nella sua pluralità
che identificò nell’àpeiron,
una sostanza materiale ma invisibile che
precede la differenziazione in
molteplici entità derivate [12].
Viene così posto da Anassimandro un concetto
ante-litteram di materia
elementare in senso moderno, quale sostrato ed origine
del tutto [13].
L’indeterminatezza dell’arché materiale ha dato luogo a svianti e
arbitrarie interpretazioni, in senso metafisico
e spiritualistico, del sostrato
materiale anassimandreo, in aperto contrasto
con tutte le testimonianze e
interpretazioni antiche del pensiero del
milesio. L’àpeiron, in
realtà, ha soprattutto caratteri spaziali,
ed oltre che un principio è anche un
“estensione”, che nella sua totalità abbraccia
il mondo, lo regge e lo regola.
Da ciò l’inferenza aristotelica che l’àpeiron di Anassimandro abbia
buoni titoli per venir definito “divino”, ma sappiamo come lo Stagirita
tenda ad adattare alla propria filosofia
l’interpretazione del pensiero di
quelli che lo hanno preceduto, quando lo
ritiene (in qualche modo) conciliabile
con le proprie teorie.
A partire dal
principio cosmico che tutto comprende ed
abbraccia gli enti, nella loro
pluralità, secondo Anassimandro si generano
per “separazione” di sotto-principi
intermedi, come il caldo e il freddo, il
secco e l’umido. Questa separazione
genera un’infinità di mondi (concetto che
verrà poi ripreso anche da Leucippo e
dagli Atomisti successivi) e la realtà assume
peraltro la configurazione di una
rottura generativa di un’unità primordiale
ed omogenea. Da ciò una sorta di
fenomenologia circolare della materia, nella
quale viene a determinarsi il
processo nascita-morte degli essenti finiti
(molteplici, differenti e
contrastanti) come una loro uscita dall’origine
ed un successivo ritorno ad
essa.
Dagli elementi
di cui sopra si evince come Anassimandro
abbia potuto tuttalpiù fare propria
l’intuizione di di Talete, ma nello stesso
tempo scostarsene per un maggiore
approfondimento del problema ontologico,
da cui deriva una visione filosofica
più specificamente teoretica. Egli capisce
che l’acqua non può essere il
principio primo del tutto, poiché la sua
fisicità (sia pure nella forma di
vapore) è troppo definita per poter costituire
il principio di ogni altra
sostanza della realtà; quindi immagina un
principio più generale, che nei
termini in cui è espresso potrebbe essere
considerato (come già notato) una
delle prime definizioni di “materia”. Sentiamo
in proposito Diogene
Laerzio:
Anassimandro, figlio di Prassiade, naque
a Mileto. Egli
affermava che principio e elemento è l’infinito,
ma non lo definì né aria né
acqua né altro; le sue parti sono mutabili,
ma il tutto è immutabile; la terra
giace nel mezzo, tiene il posto centrale
ed ha la forma di sfera […] Per primo
scoprì anche lo gnomone e lo pose in Sparta
come un quadrante solare […] Egli
per primo disegnò la circonferenza della
terra e del mare ed inoltre costruì
anche una sfera [14].
Però si badi, Anassimandro va oltre Talete
nel non
riconoscere nell’acqua l’arché, ma l’acqua rimane comunque la culla del
vivente. Riferisce Aezio [15](III,
16, 1, Dox.381):
Anassimandro dice che il mare è il resto
dell’umidità
originaria di cui la maggior parte ha disseccato
il fuoco, mentre la parte
rimasta s’è mutata per l’ebollizione [in
acqua salata]. [16]
E altrove aggiunge (V, 19, 4, Dox.430):
Anassimandro sostiene che i primi viventi
furono generati
nell’umido, avvolti in membrane spinose e
che col passare del tempo approdarono
all’asciutto e, spezzatasi la membrana, poco
dopo mutarono genere di vita. [17]
Ma è Plutarco a renderci una testimonianza
(che trae da
Teofrasto) secondo la quale Anassimandro
avrebbe imaginificamente anticipato di
venticinque secoli la teoria darwiniana e
tematizzato la neotenìa con un
argomento non privo di rigore logico. Leggiamo infatti (Stromata, 2,
Dox.579):
[…] Dice pure [Anassimandro] che
da principio l’uomo fu generato da animali
di altra specie perché, mentre gli
alri viventi si nutrono subito da sé, solo
l’uomo ha bisogno per molto tempo
delle cure della nutrice: ora se all’inizio
fosse stato tale [com’è adesso]
non avrebbe potuto sopravvivere. [18]
Ma torniamo
ancora all’àpeiron per rilevare che varie testimonianze relative
a
questo originario illimitato-infinito di
Anassimandro che ci pervengono da
autori più tardi (perlopiù commentatori di
Aristotele), come Alessandro di
Afrodisia, Temistio, Filopono e Simplicio,
sembrano indicare il principio da
lui posto come un “intermedio” tra due o
più elementi materiali originari. Va
tuttavia osservato che in greco apeiron ha sì il significato di
indefinitezza e caoticità, ma su esso prevale
tuttavia quello, peraltro simile
e per molti versi complementare, di infinitezza.
Si comprende allora come
l’infinitezza, attribuita ad un principio
unico, possa prestarsi anche ad una
forzatura interpretativa, con la quale si
potrebbe ipotizzare che l’unità del
principio degradi la molteplicità a pura
forma, negandole ogni materialità. E’
questa un’interpretazione misticheggiante
della filosofia di Anassimandro, affacciatasi
nel XX secolo con Heidegger, che ha stravolto,
e del tutto arbitrariamente, i
termini reali della tesi ontologica anassimandrea. L’autore di Essere e tempo opera una fantasiosa analisi
testuale di un brevissimo frammento assai
lacunoso, che sarebbe stato
riferibile ad un supposto testo originale
di Anassimandro scoperto da Teofrasto
tre secoli dopo (nessuno risulta averne parlato
prima) e ripreso da Simplicio
(un neoplatonico del VI secolo) nove secoli
più tardi. Vale la pena di
riportarlo per rendersi conto di come la
filosofia possa abdicare ad ogni
obbiettività quando si tratta di produrre
dell’ermeneutica mistica. Il
frammento di Simplicio (Physica, 24, 13; A, 9), che è gravato, tra
l’altro, da evidenti integrazioni, recita:
Anssimandro… diceva che inizio
[arché] e elemento primordiale delle cose è l’illimitato….E donde
viene agli esseri la nascita, là avviene
anche la loro dissoluzione secondo
necessità; poiché si pagano l’un l’altro
la pena e l’espiazione
dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo
[19]
Dedurre da un passo così scarno i segni di
una presunta
teoresi spiritualistica anassimandrea, e
quindi anti-materialistica,
stravolgendone pertanto l’autentico significato
naturalistico originario (e
farne un’espressione ontologico-mistica)
è un evidente e pesante arbitrio. Ma
si possono avanzare persino seri dubbi circa
la sua aderenza ad un’affermazione
originale di Teofrasto, così come potrebbe
trattarsi di nulla più che una
parafrasi in gran parte metaforica della
tesi anassimandrea [20].
Va precisato che l’interpretazione a cui
abbiamo accennato è quella dello
Heidegger post-kehre (1946) e che egli si rifà alla traduzione
del
frammento di Simplicio datane da Nietzsche
per cogliervi un’enunciazione ante
litteram della propria tesi dell’apparire della verità in quanto
“non-nascondimento” dell’essere. Ma vediamo come emergerebbe tale
straordinario (ed occulto-occultato) segno
dell’alétheia pevenutoci da
un Anassimandro “in estasi”. Dice Heidegger:
In ogni caso, se vogliamo pensare il detto
di Anassimandro, è
necessario, prima di tutto e sempre di nuovo,
compiere quel semplice passo in
virtù del quale ci traduciamo in ciò che
dice la parola ovunque inespressa έόν,
έόντα, εϊναι. Essa sta a
dire: esser-presente nel non esser nascosto.
Nel che si cela: l’esser-presente
stesso porta con sé il non-esser-nascosto.
Il non-esser-nascosto stesso è
esser-presente. [21]
Ci asterremo da ogni commento del passo heideggeriano,
ma
non possiamo esimerci dal rilevare che né
in Aristotele, né in Teofrasto né in
Simplicio vi è assolutamente nulla che possa
far pensare a un annuncio mistico
della “verità originaria e nascosta”, come
pensa Heidegger, e che, anzi, le
testimonianze (comprese quelle di Simplicio,
che è un neoplatonico) sembrano
escludere tassativamente l’attribuzione di
un senso spiritualistico al
frammento stesso.
Vediamo però
che cosa dice Aristotele dell’infinito (Fisica, 202 b 36) :
Ma un segno che la considerazione dell’infinito
è propria della
scienza della natura è il fatto che tutti
quelli che sembrano aver trattato
tale filosofia in modo degno hanno preso
in esame l’infinito e tutti lo hanno
posto come principio delle cose; gli uni
come i Pitagorici e Platone, in sé e
per sé, non come predicato di un’altra cosa,
ma l’infinito come sostanza…Tutti
quanti i fisici, invece, danno sempre come
sostrato all’infinito un’altra
natura, prendendola dai cosidetti elementi,
come l’acqua, l’aria o qualcosa di
mezzo tra i due. […] [22]
Qui Aristotele, con l’espressione “in modo
degno”,
manifesta chiaramente la sua malcelata ascendenza
idealistica, e nello stesso
tempo enuncia chiaramente quello che pensa
dell’infinito posto dalla categoria
di pensatori a cui appartiene Anassimandro
(i “fisici”). Altrove [23]
lo Stagirita, entrando più nel dettaglio,
ci fa notare che l’infinito di
Anassimandro è la “mescolanza” e non la “pluralità
delle cose in atto
dell’unità originaria (poiché come tale sarebbe
una sorta di infinito
spurio). E a nostro parere proprio qui sta
il nocciolo della questione; se
l’infinito di Anassimandro è principio e
nel contempo mescolanza (o “insieme”)
di elementi fisici esso è materia “fisica”,
ma se viene considerato “unità
originaria” (e quindi aristotelicamente precedente
la pluralità in atto)
se ne fa un’entità primaria ed originaria
che potrebbe teoricamente avere
denotazioni immaterialistiche. Va rilevato
tuttavia che il neoplatonico
Simplicio (Physica, 24, 13) sembra mantenersi abbastanza neutrale
sull’argomento,
senza che vi siano forzature in senso spiritualistico.
Infatti l’àpeiron
non è principio immobile, bensì “mobile”
e quindi implicitamente materiale:
Tra quelli che pongono un unico
principio mobile e illimitato, Anassimandro
di Mileto, figlio di Prassiade,
successore e discepolo di Talete, affermava
che principio e elemento
primordiale delle cose è l’illimitato, introducendo
per primo il termine di
“principio”. [24]
E proseguendo ci precisa:
e diceva che esso non era né
l’acqua né un’altro dei cosiddetti elementi,
ma un’altra natura infinita da cui
provengono tutti quanti i cieli e i cosmi
che sono in essi.
[…] Evidentemente Anassimandro,
avendo osservato la trasformazione dei quattro
elementi l’uno nell’altro, non
volle porre uno di essi come sostrato, ma
qualcos’altro oltre questi [25].
Anche a voler pensare che Simplicio abbia
in mente
l’Uno-Tutto plotiniano ci sembra veramente
difficile affermare che Simplicio
con “altra natura infinita” e “oltre questi”
possa alludere a qualche cosa di spirituale nell’àpeiron anassimandreo.
Appare dunque
inevitabile e quasi d’obbligo opporsi nettamente
all’interpretazione di
Heidegger ed assumere per certa la sostanziale
materialità del principio
cosmico anassimandreo, sottraendolo così
ad ogni arbitrario suo stravolgimento
attraverso l’interpretazione arbitraria di
un testo di per sé ambiguo. Ciò
anche perché, verosimilmente, quel “detto”
di Anassimandro riferito da
Simplicio dodici secoli dopo la sua enunciazione
può essere stato ampiamente
corrotto dalla reiterata trasmissione verbale.
Ma
l’interpretazione heideggeriana del frammento
di Simplicio ci induce anche ad
un’ulteriore considerazione, che va oltre
le conclusioni che abbiamo appena
tratto. Il fatto che l’intepretazione sopra
citata abbia potuto essere posta e
accettata da larghi strati della critica
filosofica dimostra come in filosofia
sia possibile stravolgere i significati dei
testi frammentari o poco chiari in
direzioni del tutto impensabili, soprattutto
quando si parte da posizioni che sono
estranee a quelle che si intende interpretare.
Infatti, il caso considerato
nasce dall’interpretazione idealistico-mistica
di un pensiero che è,
all’opposto, naturalistico-materialistico
e che non può essere, pertanto, che
fondamentalmente anti-idealistico e anti-mistico.
È quindi a partire dalla
consapevolezza che il dominio della filosofia
idealistica, in tutte le sue
varie forme e derivazioni, ha permeato a
tal punto (e permea tuttoggi) la
cultura occidentale dal V sec.a.C in poi
che dobbiamo assumere il sospetto come
nostro pre-criterio interpretativo quando
ci accostiamo alla filosofia antica.
Soltanto una “rilettura” di essa che riparta
quindi da zero ci può mettere al
riparo sia dalle manipolazioni teologiche,
sia dalle interpretazioni mistiche e
non meno da quelle idealistiche.
Per una
rilettura della storia della filosofia con
criteri di neutralità
extra-idealistica risulta quindi indispensabile
mettere dei punti fermi per
salvaguardarci dai molteplici equivoci che
circondano il termine “materia”.
Perciò ci concederemo qui una digressione,
proponendo un ulteriore passo avanti
nelle nostre riflessioni che esula dal tema
della filosofia antica. E lo faremo
al fine di assumere un criterio guida, che
a noi pare indispensabile, qualora
si persegua il tentativo di delineare una
teoresi atea moderna che sia in grado
di evitare equivoci ontologici e ogni (sempre
incombente) deriva metafisica.
Infatti, se noi attribuiamo alla materia una sostanziale e intrinseca
pluralità conserveremo la “materialità” nella
sua autenticità, ma se noi
cederemo alla tentazione di teorizzare una
materia “unitaria”, come
potevano fare i pensatori del passato (ma
non certo noi che disponiamo delle
nozioni acquisite dalla fisica teorica sub-atomica)
non soltanto negheremo la pluralità
ontologica di essa, ma ne faremo un puro
e monistico principio astratto,
passibile di ogni intepretazione metafisico-mistica.
Per evitare esiziali
ambiguità di questo tipo l’ateismo teoretico
non può quindi esimersi dallo
stare alla larga da ogni unitario “principio”
materiale, come originario
rispetto al dispiegarsi della pluralità reale
fenomenica ed anche evidenziare,
ove si verifichi, questo esiziale errore
teorico.
Il pensiero
ontologico di Talete ed Anassimandro quindi,
in base al criterio testé esposto,
parrebbe non poter essere considerato quale
antecedente di un’ontologia atea
moderna e tuttavia i due milesii debbono
essere considerati i veri precursori
dell’ateismo, per il solo fatto di aver posto
un principio materiale a base
dell’universo; e ciò in aperto contrasto
con ogni precedente interpretazione
dell’origine e della sostanza del mondo.
Per contro non possiamo considerare
ateo Eraclito, il quale fa sì riferimento
ad un elemento materiale, il fuoco,
ma per assegnargli connotazioni puramente
metaforiche e farlo coincidere con un
logos divino che è netta ipostasi mistica.
Completiamo ora
la triade dei naturalisti milesii con Anassimene,
il quale, forse allievo di
Anassimandro e almeno di trent’anni più giovane,
non condivide l’indeterminazione
dell’àpeiron e identifica decisamente l’arché con l’aria [26].
Tale definizione gli consente di teorizzare
il formarsi e l’estinguersi degli
enti come un processo alternato di “rarefazione”
e di “condensazione” del
principio materiale originario. Entra così
in gioco la pluralità degli
“elementi” (su cui Empedocle fonderà la sua
teoria), ma solo come “stati”
provvisori del sostrato primario unico. Ci
informa su di lui il già citato
Diogene Laerzio:
Anassimene, figlio di Euristrato, milesio,
fu uditore di
Anassimandro; secondo altri fu anche uditore
di Parmenide. Ammise come
principio l’aria e l’infinito; gli astri
si muovono non sotto terra, ma intorno
ad essa. […] [27]
Più interessanti elementi teorici ci offre
Simplicio
quantunque si tratti di un interprete di
tre secoli più tardo di Diogene (Physica,
24, 26):
[…] Essa si differenzia nelle
varie circostanze a seconda del grado di
rarefazione e di condensazione: e così
dilatandosi dà origine al fuoco, mentre condensandosi
dà origine al vento e poi
alla nube; ad un grado maggiore di densità
forma l’acqua, poi la terra e quindi
le pietre ; le altre cose derivano poi da
queste. Anche Anassimene ammette
l’eternità del movimento, per opera del quale
avviene la trasformazione. [28]
Dunque, rarefacendosi o condensandosi, l’aria
dà sostanza
ai vari elementi del mondo. Ma il vero motore
di tutte le sue metamorfosi è
l’eterno movimento. Poiché è la connessione
tra esso e la sostanza che più di
ogni altra si presta ad essere soggetta a
movimento in ogni direzione ontica,
l’aria appunto, che si generano i vari aspetti
del cosmo. Come nota infatti
ancora Simplicio (De caelo, 273
b 45):
Anassimene …diceva che il principio era l’aria,
pensando che la
facilità alle variazioni propria dell’aria
la rendesse adatta al cambiamento. [29]
I sotto-principi che Anassimandro aveva già
identificato
nelle coppie del caldo-freddo e dell’umido-secco
soggiacevano anch’essi
all’eterno divenire del processo rarefattivo-condensativo,
ma è proprio con
Anassimene che tale tesi trova una sua evoluzione
attraverso il concetto di
moto, il quale risulterà fondamentale per
la nascità della teoria atomistica di
Leucippo. Una particolare ed originale spiegazione
dell’arcobaleno avanzata da
Anassimene ci viene riferita da Aezio (III,
5, 10) ed essa rivela, tra l’altro,
le sue eccellenti capacità di osservazione,
poiché la definizione di “nube
spessa” non è poi così lontana da quella
di una massa di gocce d’acqua che per
un processo di rifrazione-riflessione della
luce solare dà luogo al fenomeno:
Anassimene sostiene che
l’arcobaleno è prodotto dal riflesso del
sole su una nube spessa, densa e
scura, poiché i suoi raggi, posatisi su di
essa, non possono traversarla.
L’originalità di alcune teorizzazioni di
Anassimene è
fuori discussione e gli va riconosciuta specialmente
la capacità di
osservazione ed indagine che lo porta ad
operare una riduzione delle differenze
apparentemente qualitative del reale fenomenico
a differenze quantitative, in
quanto ciò che muta la sostanza del reale
è soltanto il grado di
rarefazione-condensazione. E tuttavia, anche
se la filosofia anassimenea
consiste in un’acuto approfondimento delle
tesi di Anassimandro, non vi è in
essa la portata rivoluzionaria del pensiero
del suo precedessore-maestro. Da
esso Anassimene desume anche la concezione
di un divenire ciclico del mondo,
con un suo periodico dissolversi nel principio
originario e un suo successivo
rigenerarsi a partire da esso. Una teoria
palingenetica che verrà più tardi
ripresa dagli Stoici.
Un ultimo
accenno ad un personaggio del mondo ionico
vissuto nella prima metà del V
se.a.C., il quale, in base alle testimonianze,
si è richiamato in modo
esplicito al naturalismo milesio (e specialmente
a Talete) e che da parte di
molti suoi contemporanei veniva giudicato
ateo. Si tratta di Ippone, filosofo e
medico di Samo (o di Crotone) che viene considerato
uno dei più importanti
esponenti della cosiddetta “seconda filosofia
ionica”. Uno degli aspetti
notevoli della filosofia di Ippone deriva
dalla sua attività osservativa,
imposta anche dalla sua professione di medico
e naturalista, che lo conduce a
teorizzare come fondamento del vivente un
“principio vitale freddo” presente
nell’umidità e in tutto ciò che ha come base
costitutiva l’acqua. Ciò in netta
contrapposizione ad Eraclito, il quale, come
è noto, sulla base del fuoco-logos
come origine e generazione del tutto, aveva
sostenuto essere il fondamento del
mondo un divino “principio vitale caldo”
insito nel fuoco. A questo proposito
non sarà peregrino notare come, già a metà
del primo millennio a.C., il mondo
ellenico rivelasse in filosofia una netta
contrapposizione tra i sostenitori di
una filosofia metafisico-mistica del tutto
astratta e coloro che, attraverso
l’osservazione della natura e la riflessione
su di essa, pervenivano a delle
definizioni le quali, per quanto ancora lontane
dalla scientificità più tarda,
mostravano già una netta intuizione dei termini
oggettivi in cui si pone la
realtà fisica e biologica.
Partiamo con
una dichiarazione di Simplicio (Phis., 23, 22) in cui Ippone viene
associato a Talete e dove si fa cenno del
suo presunto ateismo:
[A proposito dei veri
“fisici” per i quali il principio è uno e
mobile] così Talete… e Ippone, il
quale sembra sia stato anche ateo, dicevano
che il principio è l’acqua, spinti
a tale conclusione dall’esame sensoriale
di fenomeni, etc. [30]
Tramite Clemente Alessandrino (Protr., 2,
24) apprendiamo
che un certo Philoponus, in una sua Aristotelis de generatione animalium
(88, 239 , avrebbe dichiarato:
Costui fu denominato ateo per
questo motivo, che la causa di tutto a nient’altro
riportò se non all’acqua. [31]
Conferma di ciò ci viene da Alessandro di
Afrodisia, che
nel suo Metaphysica (462, 29) afferma:
Ippone dapprima fu detto l’ateo,
perché riteneva che non ci fosse niente oltre
le cose dei sensi. [32]
Ed è ancora il cristiano Clemente (Protr.
2, 55) che nota,
tra il serio e il faceto, in riferimento
ai “falsi” dèi pagani:
E non è giusto prendersela
neppure con Ippone che immortala la sua morte.
Egli fece incidere sul suo
monumento questo distico: «È questa la tomba
di Ippone che dopo la morte pari
agli dèi immortali rese la Moira.» [33]
Per chiudere
questo paragrafo dedicato al naturalismo
ionio dobbiamo ancora soffermarci un
istante a definire le ragioni del “perché
a Mileto”, e in quel preciso momento
storico, abbia avuto nascita un percorso
filosofico che darà luogo più tardi,
in epoca ellenistica, alla nascita del pensiero
scientifico (ponendo
implicitamente le premesse per la nascita
di una concezione ateistica del
mondo). Occorrerà allora sottolineare che
si è trattato di una particolare e
felice situazione storica, che ha potuto
determinare il fondamentale
accadimento filosofico di cui Talete, Anassimandro
ed Anassimene sono stati protagonisti,
ma che ha dato luogo, più in generale, ad
un clima culturale nel quale si
inseriscono personaggi collaterali (come
Ecateo [34])
che hanno alimentato una ricerca su base
razionale e critica che era stata del
tutto assente nelle epoche precedenti.
Mileto era infatti, all’epoca, la culla del
pensiero filosofico, delle scienze naturali,
degli studi geografici e
storiografici [35], nonché
luogo di raccolta di varie tradizioni culturali
presenti nell’area
circum-mediterranea. E d’altra parte, era
anche stato in area ionica che
l’epica omerica aveva reso, in termini di
grande poesia, un primo e definito
compendio della multiforme mitologia precedente,
fornendo così un primo
esauriente quadro fenomenologico delle divinità
della religione greca.
Religione che (come si è visto), in maggior
misura di altre religioni antiche,
si caratterizzava per una molteplicità di
entità super-umane che coprivano, a
vari livelli gerarchici, tutti gli aspetti
e tutte le forze della natura. La
pluralità delle ipostasi divine che ne era
derivata, insieme coi caratteri
antropomorfi o antropo-zoomorfi ad esse attribuiti,
si inseriva nella
rappresentazione mitica di una vicenda storica
più o meno recente e con essa
veniva creato un palcoscenico di situazioni
e personaggi, i quali, nel bene e
nel male, rappresentavano lo scenario poetizzato
di una umanità polimorfa e
complessa. Ed è ancora al contesto ionico
che appartengono due dei capostipiti
della poesia lirica greca, Alceo e Saffo,
che sono contemporanei dei filosofi
naturalisti di cui ci siamo occupati.
Ma se le città
sulle coste della Ionia, e le isole che vi
si affacciavano, erano in quel
momento il crogiolo della cultura ellenica
vi era anche una ragione
extra-culturale, identificabile col felice
momento economico che l’area viveva,
in un fervore di attività commerciali ed
artigiane basate specialmente sulla
navigazione. La contiguità territoriale colla
potente e ricca Lidia, essendo in
quegli anni regnante il famoso e ormai mitico
Creso, determinava una situazione
economica particolarmente favorevole (sia
pure con qualche elemento di
dipendenza politica) agli sviluppi della
cultura in tutte le direzioni. Mileto
era infatti un tramite indispensabile per
i rapporti che quel regno
intratteneva con tutte le altre civiltà contemporanee
del mediterraneo. Dalle
quali, la Ionia, dopo averne raccolto gli
apporti conoscitivi e tecnologici, si
avviava ora a irradiare un nuovo tipo di
cultura, basata essenzialmente su una
razionalità che non mortificava l’immaginazione
e che nello stesso tempo
metteva in ombra la religiosità del mito
e con essa la sacralità che aveva
permeato le società dei secoli precedenti
[36].
L’area ionica,
e in particolare la polis di Mileto, almeno fino al disastro militare
che seguì la sua sfortunata rivolta contro
lo strapotere dell’impero persiano
(nel 494 a.C.), per mezzo del commercio e
delle comunicazioni aveva aperto i
propri orizzonti in ogni direzione e si era
avviata a prendere la guida
culturale di tutto il mondo antico. Attraverso
un coacervo di conoscenze
pre-scientifiche e di capacità tecniche,
di internazionalismo e di nuovi
rapporti sociali, si gettavano nel contempo
le basi di una società urbana
mediamente agiata e culturalmente aperta.
È al centro di tale contesto che una
comunità sociale ben organizzata, costituita
principalmente da artigiani e da
commercianti, poteva vedere la fioritura
dell’architettura e della medicina,
dell’astronomia e della geografia, della
poesia epica e lirica, ed infine (per
ciò che concerne la nostra ricerca) di un’ontologia
laica e post-mitologica che
avrebbe aperto i nuovi orizzonti della filosofia.
3.2) Empedocle
Parlerò ancor più chiaramente. Essi ritengono
che il fuoco,
l’acqua, la terra e l’aria sono tutti elementi
naturali o frutto del caso, […] [37]
Con queste parole Platone, nel Libro X de
le Leggi
(888 b), inizia una lunga requisitoria contro
quel complesso di concezioni
foriere di empietà che devono incorrere nei
rigori delle sue virtuose “leggi”.
Qui il riferimento va ad un pensatore che
certo ateo non è, ma che agli occhi
del Sommo ha comunque il peccato imperdonabile
di essere un casualista, mentre
Aristotele, con motivazioni non inconsistenti
(ma probabilmente pro domo sua),
dubita che egli sia invece un necessitarista
(Physica, Θ, 1, 252 a
7). Ma ciò che, in aggiunta, indigna Platone
ai limiti dell’intollerabilità, è
il fatto che anche Empedocle possa teorizzare
un ontologia pluralistica e una
causazione “fisica” dell’essere del mondo
(sia pure, nel suo caso, in termini
mitico-metaforici). Così, in nome della monistica
“nostra famiglia eleatica”,
ne fa un fascio con altri (secondo lui) “fisici”
pluralisti (Sofista,
242 c-d) nei termini seguenti :
Mi sembra che ciascuno ci racconti una specie
di favola,
come se fossimo dei ragazzini. […] Uno [Ferecide
di Siro o Ione di Chio] dice
che gli enti sono tre […] Un altro [Archelao?]
afferma che gli enti sono due,
l’umido e il secco […] La nostra famiglia
eleatica, invece, che comincia da
Senofane, ed anche da prima, ritenendo che
sia una cosa sola quelle che sono
chiamate “tutte le cose”, è in questo senso
che ne tratta nei suoi miti. Ma
alcune Muse della Ionia [Eraclito] e in seguito
di Sicilia, ritennero che fosse
più sicuro intrecciare le due concezioni
e dire che l’essere è insieme
molteplice e uno, e che è abbracciato da
Odio e Amicizia.
E meno male che, secondo lui, Empedocle opererebbe
una
sorta di “compromesso” con la divina unità
eleatica, altrimenti lo avrebbe
trattato probabilmente già qui (ma si scatenerà
poi nelle Leggi) molto peggio.
In realtà invece (e lo vedremo) Empedocle
è un pluralista puro, che pensa il
mondo come costituito dai quattro elementi-base
e da due forze che li separano
e li connettono in un divenire cosmico continuo.
Il Nostro, che
nasce ad Agrigento intorno al 492 e muore
nel 432 a.C., pone per primo la
struttura plurale dell’essenza del mondo,
ed è da esso che possiamo far partire
la storia del pluralismo ontologico che porterà
all’ateismo teoretico, ancorché
Empedocle non possa definirsi ateo. Ma tale
lo considerava certamente Platone,
sia per la sua cosmogonia pluralistica e
sia per il suo uso del concetto di Tyche
come sinonimo di caso, concetto fisico-ontologico che Platone
non poteva
certo tollerare. Leggiamo così, ancora, nelle
Leggi (X, 891, c-d):
« […] V’è pericolo infatti che
colui che dice queste cose ritenga il fuoco,
l’acqua e la terra e l’aria come
principi di tutte le cose e proprio queste
cose chiami “natura” e ne derivi
successivamente l’anima. Anzi mi sembra non
che ci sia pericolo ma che proprio
questo ci indichi in realtà col discorso.
[…] Ebbene, per Zeus, non abbiamo
forse trovato una fonte, in certo modo, della
stolta opinione di tutti gli
uomini che mai abbiano messo mano alle indagini
sulla natura? Esamina anche tu,
analizzando [d] ogni discorso loro; perché sarebbe molto
importante se a
noi risultasse che coloro che si sono attaccati
a dottrine empie, nelle quali
guidano anche altri seguaci, neppur del discorso
sanno usar bene, ma commettono
degli errori.» [38]
Di Empedocle (che scrive in versi secondo
l’uso
dell’epoca) ci sono pervenute fortunatamente
due opere (sia pure incomplete),
il Poema fisico e il Poema lustrale, dalle quali è possibile
desumere il suo pensiero con una certa chiarezza,
anche se su di esso non sono
mancati equivoci da parte di chi ha voluto
vedere in lui un “mistico”, ben
aldilà di quanto alcune sue posizioni (nel
Poema lustrale) possano
far pensare. Anche nella lettura del Poema
fisico occorre non cadere in quegli equivoci che
talvolta possono sorgere
dalla traduzione letterale; non va infatti
mai dimenticato che si tratta di un
poema appartenente ad un genere filosofico-letterario
che doveva osservare
regole formali abbastanza codificate, riferibili
alla retorica mitologica e
poetica dell’epoca. Ma fin dal proemio, Empedocle, nel porre
chiaramente i sei fattori fondamentali dell’universo,
i quattro elementi e le
due forze antagoniste, che sono alla base
di tutta la dinamica dell’essere,
ci rivela il contenuto filosofico dell’opera.
Essi sono ingenerati ed “eterni”
(ma anche “eternamente instabili, come si
vedrà), mentre tutte le cose
inanimate e gli esseri viventi presenti nell’universo,
che da essi derivano,
sono “mortali” (1, 1-4):
Se mai per qualcuno degli
effimeri tu, musa immortale
Hai voluto visitare le umane
prove del pensiero,
allorché ti pregarono, anche ora
sii presente, o Calliopea,
mentre espongo il mio probo
ragionamento sopra gli dei felici;
dove gli “dei felici” non sono evidentemente
quelli
olimpici, bensì i sei fattori dell’universo,
che vengono specificati subito
dopo (1, 5-13): [39]
e in mezzo porterò questo tema
degli elementi non generati,
il fuoco e l’acqua e la terra e
l’immenso culmine dell’aria,
che mai non hanno inizio né
hanno termine alcuno,
e l’astio rovinoso, da parte, e
la concordia conciliatrice.
Di qui tutte le cose che furono
e saranno, e le cose che sono:
<gli uomini e le fiere ed i
pesci ed i virgulti>;
perché, quanto esisteva prima,
anche sussiste sempre; né mai,
per causa di uno solo
di entrambi, il tempo infinito
resterà deserto. [40]
Dato l’uso
poetico del tempo, dopo aver invocato Calliope
(quale musa della poesia epica e
didattica) e dopo aver poeticamente chiamato
“dei felici” gli eterni fattori
dell’universo (anche Lucrezio chiamerà talvolta
“dei” gli atomi democritei ed
epicurei) nel ribadire il rapporto metaforico
degli elementi (chiamati
anche radici) Empedocle delinea il suo criterio di conoscenza
col quale
“il simile conosce il simile” (un criterio
presente anche in Leucippo e
Democrito). Così prosegue l’agrigentino (1, 53-62):
Senti prima i quattro nomi che
sono le radici di tutto:
lo smagliante Zeus ed Hera
altrice, ed Aidoneo
e Nestide, che inonda di lacrime
la vasca umana.
Con la terra, infatti, noi
vediamo la terra, e con l’acqua l’acqua,
e on l’etere l’etere celeste, e
con il fuoco il fuoco tremendo;
e l’amore vediamo con l’amore, e
così l’astio con l’astio luttuoso;
perché con i mezzi che
compongono in armonia tutte le cose del mondo
con quelli pensano gli uomini, e
si rallegrano e si angustiano;
e poi, quanto diversi
cangiamenti hanno subito, tanto diverse immagini
ogni volta anche il pensiero
suggerisce a loro nel sonno. [41]
Troviamo più avanti un nuovo accostamento
metaforico
elemento/dio nell’elogio della concordia
(4, 20-24):
Ma la concordia tu mirala con la
mente; non rimanere stupefatto con gli occhi.
Anche in mortali membra si
ritiene ch’essa si generi,
ed è così che la gente nutre
pensieri affettuosi, e compie azioni amorose,
chiamandola coi nomi di Gioia e
di Afrodite; ma nessuno degli uomini mortali
ha imparato che turbina con
tanta massa degli elementi.
passa quindi a precisare meglio la natura
dei quattro elementi
nei termini seguenti (4, 26-39):
Questi fattori si equivalgono
tutti, ed hanno uguale l’età,
ma ognuno possiede il proprio
rango, ognuno ha l’indole propria
ed a vicenda comandano durante
il tempo trascorrente,
Oltre a questi, poi, non si
aggiunge nulla, e nulla neppure finisce.
Se infatti perissero nella
successione del tempo, già più non ci sarebbero.
Oppure questo che è il tutto
sarebbe aumentato: ma con che cosa, che pure
arrivi da qualche parte?
Nel
tutto non c’è un posto che sia vuoto: da
dove, dunque, qualcosa può
sopraggiungere?
Né poi c’è nulla di vuoto,
quando sussiste l’uno, né nulla di soverchio.
E
allora, come può qualcosa anche venire a
mancare, quando al di là di tutto
questo non c’è nulla abbandonato?
Invece
esistono solo questi elementi, e gli uni
trascorrendo attraverso gli altri
si
presentano via via in corpi diversi, ma sempre
uguali a sé permangono
perpetuamente.
Infatti
tutti gli elementi, l’elettro e la terra
ed il cielo ed il mare,
sono
bene disposti verso quelle parti di loro
stessi,
che,
staccate da loro, si sono prodotte in corpi
mortali. [42]
Ma vediamo ora
come si formano le singole cose (i corpi
mortali) in questa fenomenologia
dell’universo empedocleo (6, 8-13):
Da quella materia mescolantesi
alla rinfusa, molti elementi permangono distinti:
tutti quelli che l’astio,
sollevato in alto, ancora tratteneva; e strenuamente
giacché
non è rimasto, verso gli estremi
confini dell’orbita, al di fuori del tutto,
ma dentro rimaneva in una parte
dei componenti, e dall’altra era uscito;
e di quanto volta a volta gli
avvenisse di cedere, di tanto subentrava,
volta a volta,
il benigno slancio inestinguibile
della stregua concordia. [43]
I quattro
elementi-base dell’universo danno luogo alla
pluralità del reale percepibile in
virtù della concordia-amore-amicizia e queste si disgregano a causa
dell’astio-odio. Le azioni di questi due principi “dinamici”
si
avvicendano e con ciò determinano il ciclo
cosmico, che si estrinseca nelle
fasi dello sfero (quando prevale l’amore) e del caos (quando
prevale l’odio). Come si noterà non si può
pensare all’opera empedoclea come ad
un capolavoro di coerenza; non mancano infatti
dei punti del Poema fisico in
cui l’autore sembra tirare in ballo una natura
divina dello sfero, quale
principio di tutto ciò che esiste (una specie
di intelletto che muove il
mondo), ma tralasciando tali sporadici elementi
di incoerenza si può
ragionevolmente ascrivere alla concezione del mondo di Empedocle una
sostanziale coerenza materialistica. Né questa
lettura può ritenersi intaccata
dal successivo Poema lustrale (letteralmente Purificazioni), in
realtà un’epistola di argomento etico, dove
egli espone una teoria della
metempsicosi [44] ed
implicitamente dell’anima. [45]
Un aspetto
molto importante della fisica empedoclea
è la totale assenza di una legge
cosmica universale (come sono il logos in Eraclito e, in qualche misura,
il noùs di Anassagora), così come manca un principio
di necessità
nell’esistenza dei sei fattori fondamentali
dell’universo, che nella loro
continua dinamica mutazionale creano la realtà.
La fenomenologia formativa e
distruttiva pare avvenire assolutamente “a
caso” e ciò è testimoniato dai
ricorrenti “a volte….a volte” (4, 7 ed 8; 4, 47 e 49; 22,
5 e 6; 44 1-3) [46].
Lo Zeller mette in rilievo che: «In realtà Empedocle spiega diversi fenomeni
con un non meglio chiarito e perciò casuale
moto degli elementi. Egli non ha ancora
teorizzato la presenza di una legge costante
in tutti i fenomeni naturali».
Estremamente interessante questo “non ha
ancora”, che rivela come il grande
studioso della filosofia greca colga ciò
come un “mancanza” e gli sfugga il
fatto fondamentale che il divenire di Empedocle è del tutto differente
da quello mistico che Eraclito aveva precedentemente
posto, essendone un
superamento che lo Zeller, nella sua intepretazione
platonico-aristotelica, non
riconosce. Noi riteniamo, infatti, che si
potrebbe ragionevolmente ribaltare il
giudizio e affermare che era Eraclito a “non
aver ancora” superato il principio
di necessità, come d’altra parte Parmenide, che addirittura
la
considerava come “perfezione dell’essere”. In realtà lo Zeller è,
probabilmente, ancorato all’opinione di Aristotele,
che ovviamente non poteva
che rimproverare ad Empedocle questa
“indeterminazione” [47]. Ma d’altra parte lo Stagirita non poteva
sapere che i fisici e i biologi di 25 secoli
dopo sarebbero stati costretti a
riabilitare il caso per una questione di gnoseologica “necessità”
scientifica.
Ci prendiamo
qui nuovamente la libertà di astrarre per
un’istante dall’ateismo antico, di
cui ci stiamo occupando, per concederci un
inciso. E lo facciamo cogliendo
l’occasione che proprio Empedocle ci offre
(in quanto primo sostenitore,
accanto ad Anassagora, del pluralismo ontologico)
per confermare qui il nostro
punto di vista sull’essenza della teoresi
atea di cui stiamo cercando le
origini. Noi riteniamo che essa possa dirsi
autentica soltanto ove si tenga
lontana da ogni forma di metafisica, poiché
questa è sempre il Cavallo di Troia
del divino, e il divino messo fuori dalla
porta dal naturalismo riesce sempre a
rientrare dalla finestra attraverso la metafisica
dell’idealismo. Un filosofia
atea degna di questo nome si realizza concretamente
non soltanto quando ci si
liberi da ogni evidente ipostasi divina,
ma quando la si basi su due fondamenti
teorici irrinunciabili, che sono: la già
citata pluralità delle sostanze
ed il caso. Questo va ammesso (accanto alla necessità) come
fattore ontologico a pieno titolo, e ciò
in base al sostanziale indeterminismo
del divenire macro-cosmico, a cui si accompagna quello
micro-cosmico
della materia elementare. Ogni sedicente
filosofia atea che abbia esplicitamente
o accarezzi tendenze monistiche e/o ponga
la necessità come assoluta,
ovvero il determinismo, a fondamento dell’essere, diventa, a nostro parere, irrimediabilmente
autocontraddittoria e potenzialmente soggetta
ad una sua “metafisicizzazione” che nasconde
sempre una forma criptata di “teologizzazione”.
Il determinismo, ponendo l’unità-totalità di un essere
necessitato, non fa che ri-vincolarsi ad
una metafisica che non riesce né a
rinunciare alla compulsiva ipostasi dell’unitarietà
dell’essere né alla
soggiacenza a una qualche legge divina o
pseudo-divina che elimini la
casualità. Il caso, in quanto risultante di cause sconnesse [48],
è secondo noi il vero “motore fisico” di
ogni cambiamento macroscopico
dell’universo e dei comportamenti delle particelle
elementari subnucleari; come
lo è anche di tutte le mutazioni genetiche
che hanno determinato, determinano e
determineranno l’evoluzione biologica del
pianeta, in ogni suo aspetto.
Dopo aver
enucleato , sia pur sinteticamente, il pensiero
empedocleo in base ai suoi
scritti, seguiremo ora alcuni commenti posteriori,
laddove essi assumano un
particolare interesse. E tra questi vi sono
certamente quelli di Aristotele,
che ha considerato attentamente il suo pensiero
in modo analitico, cogliendone
gli aspetti (secondo lui) positivi ed altri
negativi, ma, probabilmente, con
qualche equivoco. Nella Metafisica
(I, A, 4, 985 a 21 – 28) si dice:
[…]; ed Empedocle più di
Anassagora fa uso delle cause, ma neanche
lui in modo sufficiente, né riesce a
mettersi d’accordo con se stesso. Non poche
volte pertanto secondo lui
l’Amicizia disgrega e la Contesa è causa
di aggregazione. Difatti, quando
l’universo vien ridotto ai suoi elementi
differenziali per opera della Contesa,
allora si riscontra una riduzione all’unità
del fuoco e di ciascuno degli altri
elementi; quando, poi, questi vanno a ricomporsi
in un’unità per opera
del’amicizia, allora inevitabilmente le particelle
di ciascun elemento vengono
di nuovo separate tra loro. [49]
Quello che sfugge qui allo Stagirita, che
ragiona dal
punto di vista di un’ontologia eminentemente
“statica”, è che quella di
Empedocle (aldilà dei suoi aspetti metaforici)
è invece un’ontologia “dinamica”
(all’incirca, un panta rei meno mistico e più intermittente di quello
eracliteo). Cosa che sembrava aver meglio
colto Platone, laddove nel Sofista
l’aveva accostato ad Eraclito. Mentre invece
Aristotele ha abbastanza
ragione là dove osserva che i quattro elementi
non sono del tutto equivalenti,
poiché il fuoco pare assumere un ruolo “speciale”.
Così egli osserva poco dopo
(I, A, 4, 985 a 29 – 985 b 2):
Empedocle, comunque, introducendo questa
causa, seppe operare,
a differenza dei suoi predecessori, una distinzione
col porre non un unico
principio di movimento, bensì due che fossero
anche contrari tra loro e, oltre
a ciò, egli fu il primo ad affemare che sono
quattro i cosiddetti elementi di
specie materiale (quantunque egli non si
serva di tutti e quattro, ma li riduca
in realtà solo a due, ossia da una parte
si serve solamente del fuoco e,
dall’altra aprte, degli opposti di questo
– terra, aria e acqua -, come se
costituissero un’unica natura; e ciò si può
evincere dall’esame dei suoi versi.
[50]
Chiudiamo con
Aezio, il quale (non sappiamo su quel base
e col dubbio di qualche confusione
con altri pensatori), ci rilascia su Empedocle
alcune informazioni che suonano
un po’ difformi da quelle consuete e che
potrebbero essere forse (ma il dubbio
è d’obbligo viste anche altre sue arbitrarietà)
riferite a ciò che degli
scritti dell’agrigentino non ci è pervenuto. Abbiamo così (I, 13, 1, Dox.312,
Vors.31.A.43a) una nota circa il fatto che i quattro
elementi sarebbero
stati a loro volta costituiti da sub-elementi
“minimi” della materia:
Empedocle parlava di frammenti
minimi, anteriori ai quattro elementi, come
dire, cioè, di elementi similari
anteriori agli elementi. [51]
Se la notizia fosse attendibile Empedocle
potrebbe aver
anticipato Leucippo nel teorizzare gli “indivisibili”,
ma non meno i “semi” di
Anassagora; oppure, e sembrerebbe più plausibile,
che gli fossero giunte
notizie sulla filosofia di quei due suoi
colleghi e che egli le avesse ritenute
non inconciliabili con la propria. Ma a complicare
le nostre ipotesi ci pensa
lo stesso Aezio là dove accosta Empedocle
a Senocrate (un post-platonico che
succedette a Speusippo nella guida dell’Accademia
dal 339 al 315 a.C.) in un
frammento successivo (I, 17, 3, Dox.315, Vors.31.A.43b)) dove
afferma:
Empedocle e Senocrate compongono
gli elementi da masse più piccole, le quali
sono minime e quasi elementi degli
elementi. [52]
Ma Senocrate non avrebbe certo pensato tali
“elementi
degli elementi” in termini fisici, ma semmai
puramente matematici (qualcuno ha
parlato di un suo para-atomismo misticheggiante
che avrebbe potuto influenzare
persino Epicuro). E tuttavia Aezio insiste
ancora (I, 24,2, Dox. 320, Vors.
31.A.44) accostando questa volta Empedocle
ad Anassagora, a Democrito e ad
Epicuro sostenendo che:
Empedocle, Anassagora,
Democrito, Epuro e tutti coloro che costituisono
l’universo per aggregazione di
minuscole particelle corporee, introducono
la mescolanza e la disgregazione, ma
non propriamente la generazione e la corruzione;
giacché queste cose [secondo
loro] si hanno non per mutazione secondo qualità,
ma per aggregazione
secondo quantità. [53]
E qui emerge il peripatetico che probabilmente
eccheggia
lo Stagirita, il quale, nel De cielo (III, (Γ), 5, 3 b e ss.) aveva
affrontato diffusamente questo argomento.
Chiudiamo con un’ultima affermazione
di Aezio, anch’essa del tutto insolita in
riferimento ad Empedole (I, 24,2, Dox.
320, Vors. 31.A.44):
Empedocle dice che vi è un solo
mondo, ma che tuttavia questo mondo non costituisce
il tutto, bensì solo una
piccola parte del tutto. [54]
Se Empedocle avesse veramente pensato questo
avrebbe
anticipato (ancora una volta) di venticinque
secoli quei fisici contemporanei
che teorizzano essere il nostro universo
soltanto uno dei moltissimi universi
esistenti. [55]
3.3 Anassagora
Relativamente
ad Anassagora ci troviamo di fronte ad un
pensiero che non ha ancora i
caratteri dell’ateismo, ma che ne è tuttavia
propedeutico in quanto possiede
quel carattere naturalistico e antimitico
che già rilevavamo nei milesii, con
in più un elemento nuovo (già posto da Empedocle
in forma mitica), foriero di
grandi sviluppi ontologici, che potremmo
indicare, appunto, come “ontologia
pluralistica”. Nel caso di Anassagora ci
troviamo di fronte ad una fase
estremamente interessante del processo evolutivo
che porterà all’atomismo,
costituito dal fatto che egli per primo introduce
una concezione pluralistica
del cosmo in termini di infinità di “semi”
elementari nel costituirsi dei corpi
estesi e non come Empedocle in termini di
“elementi” del cosmo in quanto
espressioni fondamentali del suo mostrarsi
[56].
È pur vero che poi Anassagora introduce con
il nous (l’intelligenza
della materia) un concetto per molti versi
equivoco e che può esser facilemente
identificato con un principio divino, ma
occorre poi considerare attentamente
quanto di originario vi possa essere in questa
presunta “divinità” del nous
anassagoreo (traducibile con intelligenza o intelletto) e
quanto di interpretativamente sovrapposto
a posteriori.
Fatte salve le considerazioni
di cui sopra rimane comunque il fatto (quale
viatico alla nostra analisi) che
Platone vedeva in Anassagora un ateo a tutti
gli effetti e che a lui si
riferisce nelle Leggi quando fa dire all’Ateniese (886 d-e,):
Ora piuttosto, è il momento di mettere sul banco dgli
accusati i nostri moderni sapienti pe veder
come facciano ad esser causa di
mali. Ed ecco i bei risultati dei loro ragionamenti.
Quand’anche noi due
esibissimo le prove dell’esistenza degli
dèi, e citassimo ad esempio di realtà
divine il sole, la luna, gli astri e la terra,
i seguaci di quei tali
sapientoni ci ribatterebbero che tutte queste
cose non sino altro che terra e
pietra e non hanno quindi alcuna possibilità
di pensare alle faccende umane; [e]
e queste tesi le saprebbero guarnire con
bei discorsi fino a renderli
credibili. [57]
Come è noto è di Anassagora la tesi che gli
astri non
siano altro che “pietre infuocate” e questo
agli occhi di Platone è un peccato
imperdonabile, che poco dopo gli fa dire
(887 a):
[…] ci sarebbe da dimostrare
come si conviene a questi pervicaci peccatori
quanto loro pretendono che si
dimostri, e poi da incutere loro paura, e
infine da suscitare repulsione per
certi vizi. Solo dopo aver fatto tutto ciò
ci potremmo disporre a fissar quelle
leggi che sono necessarie [b]. [58]
Ma ciò che l’Ateniese pensa di Anassagora
lo si ritrova
anche in numerosi luoghi dei dialoghi precedenti,
a cominciare dall’Apologia
di Socrate dove mette in bocca a questo (26 d):
Ritieni. Caro Meleto, di accusare Anassagora? E hai
tanto disprezzo di costoro, e li ritieni
così privi di istruzione da non sapere
che i libri di Anassagora di Clazomene sono
pieni di tali affermazioni? E i
giovani apprendono proprio da me queste cose,
mentre possono, al prezzo di una
dracma a dir tanto, comprarsele talvolta
dall’orchestra e ridersi di Socrate
[…] [59]
Tuttavia è nel Fedone
(96-99) che ci è dato ritrovare la prima
descrizione delle tesi anassagoree,
assumendo così questo dialogo un notevole
valore testimoniale sul Nostro, poiché
si tratta di un giudizio sul concetto di
nous che possiamo ritenere
piuttosto attendibile, forse proprio per
il fatto che la filosofia anassagorea
è combattuta da Platone. Una lunga esposizione
abbastanzaa esaustiva, della
quale prenderemo qui in considerazione i
punti che ci paiono principali e la
conclusione che ne segue. Socrate comincia
col raccontare all’allievo come si
fosse inizialmente dedicato alle scienze
natrurali e come ne fosse rimasto
deluso (96 a – 97 b):
Io, o Cebete, da giovane nutrii un desiderio
vivissimo di
possedere quella scienza che chiamano “indagine
sulla natura”. Infatti mi
sembrava una cosa straordinaria sapere perché
ciascuna cosa si genera, perché
si corrompe e perché esiste. […] E
procedendo di questo passo finii col convincermi
che a tale ricerca io ero meno
idoneo che a qualunque altra cosa. Te ne
darò ora una prova convincente. Tutto
quello che io sapevo con chiarezza, almeno
come pareva a me e agli altri,
allora, da questa ricerca mi si fece a tal
punto oscuro che disimparai perfino
quello che prima ero convinto di sapere […]
E cerco di mettere insieme alla
meglio un altro tipo di indagine, e non accetto
più questa in alcuna maniera .
[60]
E a questo punto entra in gioco Anassagora
(97 c – 98 b):
Ma, un giorno, io udii un tale leggere un
libro, che affemava
essere di [c] Anassagora, il quale diceva che è l’Intelligenza
che
ordina e che causa tutte le cose. Io mi compiacqui di questa causa e mi
parve che, in un certo senso, andasse bene
porre l’Intelligenza come causa di
tutto, e dentro di me pensai che, se questo
fosse stato vero, l’Intelligenza
ordinatrice avrebbe dovuto ordinare tutte
quante le cose e disporre ciascuna di
esse in quella maniera che per esse è la
migliore […] Sulla base di questo
ragionamento, io pensavo, che all’uomo non
convenisse considerare, intorno a se
stesso e intorno alle altre cose, se non
quello che è l’eccellente e l’ottimo.
[…] e ragionando in questo modo, tutto contento,
credevo di aver trovato in
Anassagora il maestro che mi avrebbe insegnato
la causa delle cose che sono […]
In effetti io non avrei mai creduto che uno
che sosteneva che queste cose
furono ordinate dall’Intelligenza, attribuisse
loro altra causa che non fosse
questa, ossia che il loro meglio era di essere
così [b] come sono. [61]
Le cose “così come sono” è il punto focale
dell’argomentazione del Socrate “platonico”,
il quale, dopo aver affermato di
essersi dedicato in gioventù al naturalismo
rimanendone deluso, afferma poi di
aver creduto di trovare nell’intelligenza anassagorea la
concettualizzazione di un’intelligenza sovra-materiale
ed “etica” in grado di
causare “il miglior bene” delle cose. Un
“bene” divino e trascendentale che
naturalmente non sarebbe altro che il Dio
supremo dlle Idee Super-uranie, quel
Sommo Bene teorizzato dallo stesso Platone
come causa del “bello e buono”, al
quale (sia detto per inciso) con tutta probabilità
il “vero” Socrate storico
non ha mai pensato, occupato com’era a fare
l’educatore e non l’ontologo
metafisico (ma per ora non è questo ad interessarci).
Argomentazione, quella
platonica, assai efficace e nel contempo
puramente retorica e strumentale,
poiché, com’è sempre nei dialoghi, tale preparazione convoglia e
concentra l’attenzione del lettore verso
il sempre prevedibile finale, che qui
però viene ancora un po’ ritardato (98 b
– c):
Ma da questa meravigliosa speranza, o amico,
venivo portato
via, perché, mentre procedevo nella lettura
del libro, vedevo che il nostro
uomo non si serviva affatto dell’Intelligenza
e non le attribuiva alcun ruolo
di causa nella spiegazione [c] dell’ordinamento delle cose e attribuiva,
invece, il ruolo di causa all’aria, all’etere,
all’acqua e a molte altre cose
estranee all’Intelligenza. [62]
Se dovessimo dar retta alla provocazione
platonica
dovremmo dedurre che Anassagora pecca di
incoerenza, il ché risulta poco
credibile, anche a dedurre dal successo delle
sue teorie nell’ambiente
culturale pericleo. E tuttavia, secondo noi,
c’è una parte dell’argomentazione
platonica che risponde al vero, ed è quella
concernente il fatto che
l’Intelligenza di Anassagora sembra non quella
che lascia intendere Aristotele
in un passo della Fisica (ma smentita poco dopo) poi largamente ripreso
dai suoi seguaci, ma invece un’intelligenza
molto più legata alle “cose”
materiali nel loro formarsi e disporsi nel
cosmo, ed in quanto tale “immanente”
al mondo fisico come sua proprietà di generare
i corpi estesi. Se così non
fosse stato, Platone, per quanto al vertice
del suo successo e personaggio
dominante della cultura ateniese nella seconda
metà dl IV sec., non si sarebbe
mai permesso di mistificare il pensiero,
del tutto noto, di un
naturalista-filosofo la cui autorevolezza,
a dispetto del bando del 432, doveva
esser ancora molto viva nella città attica.
Ed a farci pensare che in realtà il nous fosse concepito da
Anassagora come una forza ordinatrice intrinseca
al mondo fisico, piuttosto che
ad esso sovrapposto, ci induce il passo che
segue (98 c – e):
E mi pareva che egli cadesse nel medesimo
equivoco di colui che
dicesse che Socrate fa tutto ciò che fa con
l’Intelligenza, ma poi, quando
venisse a dire in particolare le cause di
ciascuna delle cose che io faccio
dicesse, prima, che io sto seduto qui, perché
il mio corpo è fatto di ossa e di
nervi, e perché le ossa sono solide e hanno
giunture che le separano le une
dalle altre e i nervi sono capaci [d] di distendersi e di allentarsi e
avvolgono le ossa insieme con la carne e
la pelle che li ricopre; e, poiché le
ossa sono mobili nelle loro giunture, fanno
sì che io sia ora capace di piegare
le membra e per questa causa appunto io ho
piegato le membra e per conseguenza
me ne sto ora qui a sedere; e così pure se,
volendo spiegare il mio conversare
con voi, egli indicasse cause di questo genere,
come la voce, l’aria e l’udito,
e adducesse altre infinite cause di questo
tipo, [e] trascurando di dire
le vere cause […]. [63]
La lunga esposizione didascalica concernente
elementi del
corpo e loro meccanismi ha probabillemte
proprio lo scopo di richiamare due dei
“semi” posti da Anassagora (la carne e le
ossa) e nel contempo, accentuandone
il carattere materiale e meccanicistico [64],
di renderli incompatibili col concetto di
intelligenza da lui avanzata. Ed in
effetti, se così stessero le cose, non si
potrebbe che approvare la conclusione
impietosa (99 b):
Questo vuol dire non essere capace di distinguere
che altra è
la vera causa e altro è il mezzo senza il
quale la causa non potrebbe mai
essere causa. E mi sembra che i più, andando
a tastoni come nelle tenebre, usando
un nome che non gli conviene, chiamano in
questo modo il mezzo, come se, fosse
la causa stessa. [65]
Il problema
posto da Platone è degno di attenzione, poiché
(si consideri che egli è il
testimone più vicino per luogo e tempo all’insegnamento
anassagoreo) potrebbe
mettere in evidenza, se non un’argomentazione
incoerente, certo un’improprietà
di linguaggio nell’aver chiamato nous una sorta di “super-physis” che
avrebbe dovuto essere indicata con una nome
più appropriato. Eppure Platone
avrebbe persino potuto scorgere nel nous una prefigurazione del suo demiurgo,
e che non l’abbia fatto ci sembra non irrilevante
ai fini delle nostre
interpretazioni. Noi stiamo qui
citando la posizione di Platone proprio per
sottolineare l’arbitrarietà (da
parte dei suoi epigoni) di una lettura “platonica”
del nous anassagoreo.
Lettura distorta, che dapprima ne farà una
causa metafisica, poi divina ed
infine “spirituale” [66].
Dopo Platone
Aristotele è il più vicino in ordine di tempo
ad occuparsi di Anassagora e lo
fa in diversi luoghi della sua opera, fornendoci
ogni volta, e relativamente ad
argomenti differenti, una serie di tasselli
che alla fine ci permettono di
avere un’idea abbastanza precisa del pensiero
anassagoreo, col quale perlopiù lo
Stagirita dissente. Cominceremo con quel
passo del primo libro della Metafisica
che ha dato origine a tutte le posteriori
interpretazioni metafisiche (e
secondo noi improprie) del nous anassagoreo, laddove afferma (Metafisica,
I, A, 3, 984 b 15-19):
[…] Ecco perché, quando qualcuno
disse che proprio come negli animali, così
anche nella natura la causa del
mondo e tutto quanto il suo ordinamento è
un Intelletto, egli apparve come una
persona sobria rispetto ai più antichi che
parlavano a casaccio. [67]
Ma appena poco oltre (A, 4, 985 a, 18-22)
lo spirito
critico dello Stagirita emerge con un giudizio
implacabile, che si riallaccia
anche al parere platonico visto sopra, e
ne esce la seguente
puntualizzazione:
[…] Anassagora, infatti, usa l’Intelletto
come un meccanismo
per la produzione dell’ordine universale,
e, quando non sa spiegarsi per qual
motivo un ordine è necessario, allora tira
in ballo l’Intelletto, mentre nei
rimanenti casi egli considera come causa
degli accadimenti qualsiasi altra cosa
tranne che l’Intelletto. [68]
Aristotele ci dice qui come il nous anassagoreo si
presenti, in pratica, come un “espediente”
teoricamente poco consistente, ma
nel contempo con l’espressione “qualsiasi
altra cosa” non ci precisa che cosa
intenda. Possiamo ritenere che il grande
metafisico intenda dire che Anassagora
non sapesse bene “per qual motivo un ordine
è necessario” e da ciò le sue
imprecisioni e il suo ricorre a una sorta
di “deus ex machina” [69] del tutto strumentale e immotivato. Questo
ci induce a pensare che il giudizio severo
dello Stagiìrita possa essere colto
qui (ed in contrasto con quanto precedentemente
affermato) come un rimprovero
di scarsa “metafisicità” del nous anassagoreo. Ma da ciò ne deriva che
da Aristotele stesso ci viene la maggiore
condanna dell’identificazione del nous
con un principio divino; identificazione
relativa ad esegesi molto posteriori
(come quella di Plutarco) e che tuttavia
imperversano in gran parte
dell’enciclopedistica e della manualistica
corrente.
Veniamo ora al
passo in cui Aristotele conia il termine
di όμοιομέρειαι
(omeomerìe od omeomeri = parti simili) per indicare gli
σπέρματα
(semi) di Anassagora (Metafisica,
I, A, 3, 984 a 11-17):
[…] Anassagora di Clazomene,
invece, che è più anziano di Empedocle, ma
che ha prodotto la sua opera dopo di
lui, afferma che i principi sono infiniti;
infatti egli dice che quasi tutte le
cose formate da parti simili, come sono appunto
l’acqua o il fuoco, nascono e
periscono in questo modo, cioè soltanto per
aggregazione e separazione, mentre
sotto altri aspetti esse né nascono né periscono
ma permangono eterne. [70]
Lo Stagirita ci offre qui con grande chiarezza
tre dati
molto importanti: a) l’”infinitezza dei principi”
fisici, b) le cose “formate
da parti simili” (le omeomerìe), c) la nascita e la morte di esse “per
aggregazione o separazione” insieme ad aspetti
“eterni” di esse. È evidente che
tale eternità debba in qualche modo concernere
l’attività del nous, ma,
in effetti, non ci sarebbe neppure bisogno
di tirarlo in ballo, qualora si
ricordasse che il naturalismo milesio, a
cui indubbiamente Anassagora si lega, era caratterizzato anche
da un sostanziale ilozoismo. Quindi l’intelletto potrebbe anche essere
stato concepito dal Nostro come “vita” della
materia amorfa, più o meno nei
termini sottintesi dai milesii. Come abbiamo
già osservato, allora, il nous non
si presenterebbe come una “causa esterna”
del divenire e dell’essere, ma come
una “causa interna”, immanente alle omeomerìe e ai corpi che da esse
derivano. Se ciò è plausibile noi ci troviamo
di fronte ad un materialismo
pluralistico ancora mal definito e non privo
di incoerenze, ma dal quale
Leucippo avrebbe potuto trarre spunto per
formulare il suo atomismo
materialistico.
Che Anassagora
possa essere stato allievo di Anassimene
(come aveva sostenuto per primo
Strabone) è evidentemente impossibile per
ragion cronologiche, ma possiamo
ragionevolmente ritenere che l’ultimo della
triade dei proto-fisici milesii
(morto intorno al 528-525) abbia lasciato
dietro di sé un’eredità che,
associata a quella di Talete e Anassimandro,
doveva permettere alla filosofia
“ionica” di proseguire quella tradizione
naturalistica che per strade assai
differenti da quella astratto-mistica “italica
(pitagorica ed eleatica), doveva
condurre all’avvento della scienza ellenica.
Una scienza già abbastanza
avanzata [71] che doveva
trovare espressione compiuta nella straordinaria
esperienza, in epoca
ellenistica, della comunità del Museo di
Alessandria. Si deve pertanto dedurre
che Clazomene, come la non lontana Mileto
e altri centri culturali della costa
orientale egea, dovesse continuare ad esser
luogo di cultura naturalistica, con
relative ricerche e riflessioni sul mondo
fisico e su quello biologico. In tale
contesto un pensatore come Anassagora, se
pure si fosse trasferito molto
giovane ad Atene (come sostiene Diogene Laerzio),
avrebbe certamente portato
con sé il patrimonio di un back-ground naturalistico che avrebbe,
comunque, fortemente indirizzato il suo pensiero.
Ed un’importante base di partenza
del pensiero anassagoreo, per quanto ci risulti
dalle testimonianze, sta
proprio nella filosofia di Anassimene, poiché
alcune tesi di questo
(concernenti l’aria, il sole, le nuvole,
ecc.) si ritrovano puntualmente anche
nel Nostro.
La grande novità
risiede tuttavia nel fatto che mentre Anassimene
rimane un monista alla ricerca
di un’arché (pur nella tematizzazione della varietà dei
fenomeni)
Anassagora (se si tralascia per un momento
quella tesi del nous che
appare un poco “appiccicata”) è certamente un iniziatore del pluralismo
ontologico, sia pure in una forma piuttosto
approssimativa e per alcuni versi
contraddittoria [72]. Il suo
pluralismo infatti non assume ancora un chiaro
carattere ontologico (come sarà
quello di Leucippo) ma si mantiene entro
una dinamica dell’essere di tipo
puramente fenomenico, dove ad assumere carattere
ontologico è semmai proprio il
nous come “ordinatore” del cosmo, il quale, però
(come abbiamo visto
anche nella critica platonica e aristotelica)
è concetto filosofico piuttosto
debole. Ciò che allora emerge (ed è una novità
nel panorama della filosofia del
tempo) è proprio questo porre non già un
astratto infinito ma
un’”infinità” di semi reali, che vanno a determinare la realtà-base del mondo fisico. Una
realtà che per un verso risulta assolutamente
dinamica (attraverso aggregazione
e separazione) ma che per altro verso teorizza
gli elementi-base di essa come
eterni ed immutabili.
In un altro
luogo dell’opera aristotelica (De cielo, III, Г, 3, 302 a 28 – b
4) si dice:
Anassagora, per ciò che riguarda gli elementi,
sostiene una
dottrina contraria a quella di Empedocle.
Quest’ultimo dice che elementi
costitutivi dei corpi sono il fuoco e la
terra e gli altri elementi del medesimo
gruppo, e che tutti i corpi sono formati
di questi. Anassagora invece afferma
il contrario: dice infatti che elementi sono
gli omeomeri (dico ad esempio la
carne, l’osso, ed ogni altro corpo dl genere),
mentre l’aria e il fuoco sono
mescolanze di questi e di tutti gli altri
‘semi’: ciascuno di essi è infatti
un’aggregazione di tutti gli invisibili omeomeri.
Perciò tutto si genera da
questi – ed egli dà i nomi di ‘fuoco’ e di
‘etere’ alla stessa sostanza. [73]
Se l’interpretazione aristotelica del pensiero
anassagoreo
è corretta si pone il problema del “perché”
aspetti della realtà concernenti la
materia biologica dovrebbero esser espressione
di una “primarietà” rispetto ai
quattro tradizionali elementi che parrebbero
assume una “secondarietà”. L’unica
spiegazione possibile sembrerebbe quella
di attribuire ad Anassagora una
visione ilozoistica, in base alla quale egli
possa ritenere che quella sfera
del reale, la materia vivente, in cui il
divenire del mondo raggiunge la
massima perfezione possa essere considerata
“esemplare” sede primaria delle omeomerìe
e che funga quindi da modello anche per il
mondo inorganico.
Ma Aristotele
poco dopo rende una considerazione ulteriore,
che misura il suo distacco dal
Nostro anche sul concetto di “infinità” degli
elementi e nel contempo mette in
evidenza la debolezza della tesi anassagorea
(De cielo, III, Г, 4,
302 b 10-19):
Se poi gli elementi siano finiti o infiniti,
e se sono
infiniti, in che numero siano, è da ricercare
ora facendo seguito a quanto
esposto. In primo luogo, vediamo come non
siano infiniti, secondo che ritengono
alcuni, e innanzi tutto trattiamo di coloro
che di tutti gli omeomeri fanno
degli elementi, come lo stesso Anassagora.
Nessuno di quelli che sostengono
questa teoria ha dell’elemento un concetto
esatto: noi vediamo infatti che
anche molti corpi composti si lasciano dividere
in omeomeri, ad esempio la
carne, l’osso, il legno, la pietra. Cosicché,
se è vero che il composto non ha
natura d’elemento, non tutti gli omeomeri
saranno elementi, ma sostanzialmente
quelli che non si lasciano dividere in parti
diverse quanto alla specie, come
s’è detto prima. [74]
Non si può dar
torto ad Aristotele, la tesi di Anassagora
è quella per cui il reale non viene
visto da un punto di vista “strutturale”
(per cui il più semplice è base
ontologica del più complesso) ma “categoriale”.
Data una certa categoria di
cose reali esistenti i loro costituenti elementari
debbono appartenere per
Anassagora alla stessa categoria; quindi
a base dell’osso dev’esserci un “seme”
già di per se stesso osseo, a base della
carne già un seme carnoso, a base
della pietra già un seme petroso. Ma siccome
le omeomerìe son infinite e
distribuite in tutti i corpi reali, a determinare
in questi la loro realtà di
corpi determinati non è la presenza di semi
diversi (che sono in “tutti” i
corpi ma in quantità differente) ma la “prevalenza”
di una certa categoria di
essi. Così è carnoso il corpo in cui prevalgono
gli omeomeri della carne ed è
pietra quello in cui prevalgono quelli petrosi.
Ne nasce un’ontologia un po’ grossolana,
ma di carattere realistico-pragmatico, dove
le basi elementari di un corpo sono
già portatrici delle caratteristiche funzionali
del corpo stesso.
Non è meno
critico Lucrezio, che ci offre della tesi
anassagorea una sintesi efficace e chiara nel primo libro di De rerum
natura (830 e ssg.):
Ora scrutiamo l’omeomerìa di Anassagora,
come la chiamano i
Greci, la povertà del patrio linguaggio non
ci consente di assegnarle un nome
che sia parola latina, ma è facile spiegare
il concetto con un breve discorso.
Anzitutto ciò che egli chiama omeomerìa delle
cose pensa sia questo: le ossa si
producono da piccoli ossi minuti, da piccoli
visceri minuti si crea un viscere,
il sangue trae origine da molte gocce di
sangue che si uniscono tra loro, e similmente
l’oro può trovar consistenza in virtù di
briciole d’oro, e la terra riesce ad
aggregarsi da piccole parti di terra, il
fuoco da fuochi, l’acqua da stille
d’acqua; in simile modo ritiene ed immagina
che si generi ogni altra sostanza.
Tuttavia non ammette l’esistenza del vuoto
in alcuna parte delle cose, né che
abbia un termine fisso il suddividersi dei
corpi. Perciò in ambedue i concetti
mi sembra che erri, al pari di coloro di
cui ho parlato prima [Empedocle].
Aggiungi che egli immagina i germi troppo
deboli, se germi possono dirsi questi
che sono forniti di natura simile alle sostanze
stesse, al pari di loro
periscono e muoiono, e nulla li preserva
dalla distruzione. Infatti quale di
essi resisterà a una stretta violenta, così
da sfuggire alla morte fra i denti
stessi della morte? [75]
Il poeta pone anche un problema non da poco,
che potrebbe
essere espresso dalla domanda: «ma che ne
è delle omeomerìe quando il
corpo che esse costituiscono va completamente
distrutto?» se, evidentemente,
quel corpo non diviene un “nulla”, che cosa
ne rimane? A tale domanda
Anassagora non sappiamo se avrebbe risposto,
quello che sappiamo è che ad essa
si può dare una risposta semplicistica, al
limite del banale, ovvero che un
corpo, poiché è il frutto di un nous che presiede alla generazione e
alla corruzione, ciò che rimane dopo la morte
è proprio soltanto questo. Ma
nella sua banalità questa è una risposta
para-teologica che ci sembra
difficilmente attribuibile al “naturalista”
Anassagora. Ve n’è invece un altra di
tipo osservativo, che (mancando di conoscenze
scientifiche adeguate) avrebbe
potuto fare un uomo di quell’epoca, basandola
sul seguente ragionamento: se il
fuoco rende un residuo carbonioso “caotico”
di tutte le sostanze combuste (ma
ciò vale anche per la putrefazione, la dissoluzione
o la vaporizzione) ciò
significa che “prima” della loro morte le
costanze combustibili, ognuna per suo
conto, possedevano dei caratteri che dopo
si perdono. Oppure (ed è ciò che
verosimilmente pensava Anassagora) non se
ne perde nessuna ma “tutte” entrano
nel regno dell’indistinto, in attesa che
la generazione operi “di nuovo”
qualche distinzione. Ed allora tutto si estrinsecherebbe
in un gioco tra
“indistinzione” e “distinzione” del reale,
dove le forme della materia “elementare”
possono rimanere nell’indistinzione, che
è “in potenza” in tutti in corpi (e
alla quale essi di converso possono concorrere),
ma possono anche dare invece,
attraverso la generazione, luogo ai corpi
composti “in atto”. Ogni materia
indistinta allora (terra, acqua, aria, fuoco)
non è già un elemento-base, un
“da cui” (come pensano Empedole ed Aristotele),
bensì un “in cui” sono
contenute allo stato confuso e indeterminato
tutte le “sostanze” (le omeomerìe),
dalle quali, attraverso la generazione, possono
formarsi quegli stessi corpi
che si perdono nell’indistinto allorché si
distruggono
Quello che a
noi pare sia completamente sfuggito ad Aristotele
ed anche agli esegeti moderni
del pensiero di Anassagora (evidentemente
troppo impegnati a tematizzare un
concetto così inconsistente e “additivo”
come quello di nous) è
che l’aspetto più interessante di esso sta
nell’aver posto, per la prima volta
nella storia della filosofia, un concetto
aurorale di “sostanza”. E ciò proprio
nel senso fissato poi da Aristotele coll
suo “τό τί
ήν εϊναι”;
infatti che cos’è l’omeomerìa
se non l’essenza di “ciò che l’essere era“? Il problema è
che,
evidentemente, era troppo difficile sganciarsi
dal concetto di ousìa
com’era stato posto da Platone e ripreso
da Aristotele (Metafisica, V,
Δ, 8, 1017 b) quale primo predicabile
di sostanza (causa
immanente di un ente “come l’anima è la causa
dell’esistenza dell’animale”) ed
assumere invece il secondo predicabile, l’hypokéimenon (il ciò che “sta
sotto”), ovvero ciò che sussiste prima e
dopo l’esistenza dell’ente in quanto
tale. Il discrimine a noi pare che stia ancora
sempre tra un modo di pensare il
mondo di tipo “idealistico” ed un altro,
ad esso contrapposto, che è quello
“naturalistico”. E siccome non si può dire
(con tutta evidenza) che le l’omeomerie
siano delle idee, appena ci sbarazzassimo
della ”sostanza delle idee”, ovvero
dell’intelletto, avremmo forse la possibilità di intravvedere
nell’omeomerìe
anassagoree la prima teorizzazione dei caratteri
della sostanza “concreta”
(e non “ideale”) delle cose che costituiscono
la realtà del mondo.
Una
“sostanzialità” dell’omeomerìa che certo Anassagora ha posto in modo un
pò vago e, soprattutto, diminuendone il carattere
“fondativo” avendovi
sovrapposto un concetto come quello di intelletto (sia pur “materiale”)
quale “determinatore” del reale. Di questo
deus ex machina,
nell’interpretazione che stiamo tentando
di dare, non se ne comprende il
bisogno, poichè l’omeomerìa già di per se stessa “determina” l’essere
del corpo che va a costituire, laddove assuma
una “prevalenza maggioritaria”
rispetto a tutte le altre omeomerìe che in
quello stesso corpo sono soltanto
“latenti”. A problemi non banali bisognerebbe
cercare qualche volta di fornire
risposte non banali, ma l’ossessione di metafisicizzare
tutto il
metafisicizzabile rende evidentemente ciò
estremamente difficile!
Ci tocca ora
tematizzare meglio le interpretazioni post-aristoteliche
del nous per
renderci conto pienamente del loro danno
storiografico e teorico. Sarà Cicerone
a dare del nous anassagoreo una definizione che diventerà
canonica per
le interpretazioni successive e ciò avverrà
in almeno due luoghi della sua
opera. Una prima volta in Academica priora (II, 37, 118) con
l’affermazione:
Anassagora [disse] che la materia
è infinita, ma che da essa [derivano] particelle
simili tra loro, piccolissime:
queste dapprima erano confuse e poi furono
ridotte all’ordine da un intelletto
divino. [76]
La “divinizzazione” qui è compiuta; da naturalistico
ordinatore del mondo il nous ha assunto perfette connotazioni
teologiche. In una seconda (De natura deorum I, 11, 26), l’aggettivo
“divino” si tramuta in “infinito”, ma il
senso teologico non cambia, là dove si
dice:
[…] Quindi Anassagora, che
apprese la dottrina da Anassimene, primo
tra tutti volle che la disposizione e
l’ordinamenteo di tutte le cose fosse preparato
e compiuto dall’attività
intelligente d’un intelletto infinito. [77]
Sarà poi un
peripatetico eclettico del I secolo, Aezio,
a confermare questa lettura
dell’ontologia anassimandrea nei termini
che seguono (I, 7, 5, Dox. 299,
Vors. 59.A.48a):
Anassagora dice che dapprincipio
i corpi stavano immobili e l’intelletto di
dio li pose in ordine e produsse la
generazione di tutte le cose. [78]
E poco più tardi (I, 7, 5, Dox. 302, Vors.
59.A.48b) egli ribadisce in modo lapidario:
Anassagora [definisce] dio
l’intelletto. Facitore del cosmo. [79]
I successivi dossografi, sia pur da angolazioni
un po’
differenti (Plutarco nel II secolo, Diogene
Laerzio nel III, Simplicio nel VI)
non faranno che confermare questa interpretazione
del pensiero anassagoreo e
tale è rimasta sino ai giorni nostri.
Completiamo il
presente paragrafo con alcune notizie al
contorno tra quelle che appaiono
abbastanza attendibili, in un quadro dossografico
generale che presenta non
pochi elementi di dubbia attendibilità. Per
quanto riguarda le prese di
posizione di Anassagora in termini di fisica
astronomica emerge tra tutte
l’opinione secondo la quale il sole è soltanto
una “pietra infuocata” e non già
una divinità. Quest’attacco all’astrolatria,
ufficialmente riconosciuta (e
difesa da Platone) gli costerà la condanna
per empietà del 432 a.C. Ne troviamo
traccia in un interessante scholium nel quale troviamo anche il
riferimento all’amicizia con Euripide, un
trageda classico che potremmo
definire in qualche misura una sorta di poeta
“illuminista” ante litteram.
Lo scholium (Schol.Pind. Ol. 1, 91, p.38, 6 Dr) recita:
Tantalo, datosi allo studio della natura,
avendo detto che
il sole è una massa infuocata, dovette pagare
il fio di questo, sicché gli è
tenuto sospeso in alto il sole dal quale
è atterrito e spaventato. Intorno al
sole i naturalisti sostengono che con sasso
si indica il sole e che Euripide,
diventato discepolo di Anassagora, chiamò
pietra il sole in questi versi:
«Perché il felice… Tantalo temendo la pietra
che gl’incombe sul capo, nell’aria
è librato e scontra e sconta questa pena.»
[80]
3.4
I Sofisti.
«Intorno agli dèi non ho alcuna possibilità
di sapere né che
sono né che non sono. Molti sono gli ostacoli
che impediscono di sapere, sia
l’oscurità dell’argomento sia la brevità
della vita umana.» [81]
Diogene Laerzio ripete questa celeberrima
frase (IX,
51-52) con l’aggiunta:
Per questo proemio dell’opera, fu bandito
dagli Ateniesi; e i
suoi libri furono bruciati nella piazza del
mercato dopo che per mezzo di un
araldo erano state requisite tutte le copie
a coloro che le possedevano, uno
per uno. [82]
Che il rogo dei libri di Protagora sia veramente
avvenuto
non sembra del tutto sicuro, ma non è improbabile,
poiché quella frase
(ricordata anche in numerosi luoghi dell’opera
platonica) doveva essere stata
indubbiamente pericolosa. E ciò senza giungere
alle estreme conseguenze che
riferisce Sesto Empirico (Adversus mathematicos, IX, 55-56) secondo il
quale:
S’accorda con costoro [gli atei Evemero, Diagora, Prodico,
Crizia] anche Teodoro l’ateo e secondo alcuni anche
Protagora di Abdera …
per aver scritto testualmente così:«Riguardo
agli dèi, non posso affermare né
che sono né di che natura sono; perché molte
sono le cose che me
l’impediscono». A cagione di ciò gli ateniesi
lo condannarono a morte; riuscito
a fuggire, fece naufragio e morì per mare.
[83]
A parte
l’attendibilità di questi elementi biografici,
appare straordinaria questa
esemplare affermazione di Protagora circa
l’impossibilità di decidere se la
divinità sia o non sia, vuoi per la natura
del problema e vuoi per le
difficoltà che ciò comporta [84].
Un’affermazione che potrebbe venir assunta
dagli agnostici contemporanei almeno
quanto la definizione canonica che dell’agnosticismo
diede Thomas H. Huxley
verso la metà dell’800. Protagora,
infatti, da un punto di vista formale si
presenta come un agnostico e non come
un ateo, in quanto è solamente uno che “razionalmente”
si rende conto
dell’impossibilità di decidere se gli dèi
esistano o no. Un atteggiamento di
non facile equilibrismo concettuale, ma tuttavia
(a parte le testimonianze
sopra riportate) che avrebbe anche potuto
“funzionare”, senza fargli correre
eccessivi rischi, e consentirgli nello stesso
tempo di difendere le sue
posizioni. Tant’è che Platone, il quale aveva
stigmatizzato in modo ben più
severo i “fisici”, nei confronti di questo
dialettico-erista mantiene un atteggiamento
tutto sommato abbastanza rispettoso. Nel
Cratilo egli mette in bocca a
Socrate quella che può essere considerata
la sintesi del pensiero protagoreo:
Ebbene, vediamo Ermogene, se ti sembra che
anche gli esseri
stiano così: la loro essenza è relativa a
ciascuno in particolare, come
affermava Protagora, sostenendo che l’uomo
è misura di tutte le cose [386 a],
ossia che le cose quali appaiono a me, tali
sono per me, quali appaiono a te,
tali sono per te? Oppure ti sembra che abbiano
una certa stabilità
nell’essenza? [85]
Posizione che verrà confutata nel Teeteto, dopo
l’immaginaria autodifesa di Protagora (166
d – 168 c), nei seguenti termini
(171 b ):
Da parte di tutti, dunque, a cominciare da
Protagora, ciò sarà
messo in discussione. Da lui, però, verrà
piuttosto un’ammissione: qualora
riconosca, a chi dice il contrario di lui,
che ha opinione vera, [c]
allora anche lo stesso Protagora riconoscerà
che né un cane né un uomo, quale
che sia, è misura, neppure di una sola delle
cose che non abbiamo appresa. Non
è così? […] Dunque, poiché è messa in discussione
da tutti, per nessuno la
«verità» di Protagora sarà vera, né per un
altro, né per lui stesso. [86]
Protagora
comunque, seppure confutato acutamente dal
discorso logico-dialettico di
Platone, appare, nelle lineee essenziali
delle sue tesi, un razionalista
assoluto che non si fa scrupoli di creare
sconcerto in una società legata a
convenzioni religiose istituzionalizzate,
forse poco sentite a livello
individuale, ma sicuramente cogenti a livello
pubblico. Inoltre, a prescindere
dai drammatici elementi biografici sopra
ricordati, si potrebbe persino
ipotizzare che egli avesse perfettamente
calcolato i rischi delle sue
affermazioni, ma che grazie al dominio della
parola e degli astuti assemblaggi
sintattici e grammaticali di essa (unitamente
ad una perfetta conoscenza della
linguistica greca) si fosse posto nelle condizioni
di poter fare qualsiasi
affermazione senza incorrere nei rigori della
legge. Da tali performance
gli sarebbe sicuramente derivato prestigio
di abile erista, e nel contempo,
probabilmente, anche la possibilità di render
più cospicue le tariffe per le
sue lezioni. D’altra parte, il successo e
la fama che arrisero a Protagora sono
testimoni di questa straordinaria padronanza
del discorso, che ne fece uno dei
prìncipi dell’argomentazione. Per il tema
del nostro saggio, tuttavia, il
Protagora noto e riconosciuto non è di grande
interesse, poiché lo spessore
teoretico dei suoi argomenti appare modesto.
Ma tra le
pieghe della dossografia qualcosa, ammesso
che sia autentico, sembra emergere a
rintuzzare il nostro interesse. E ciò ci
viene ancora da Sesto Empirico (Schizzi
pirroniani, I, 216-19) che dapprima ci sintetizza ciò
che già sappiamo:
(216) Anche Protagora vuole che di tutte le cose sia misura
l’uomo: di quelle che sono, a quel modo che
sono, di quelle che non sono, a
quel modo che non sono; chiamando «misura», il criterio e «cose»
i fatti;
come se dicesse che di tutti i fatti criterio
è l’uomo, di quelli che sono, al
modo che sono, di quelli che non sono sono,
a quel modo che non sono. Per tal
modo egli ammette solo ciò che appare a ciascuno
e così introduce la
relatività. [87]
Ma appena dopo aggiunge qualcosa che non
è dato trovare in
altrie testimonianze:
(217) Dice, dunque, quest’uomo,
che la materia è fluttuante, e, fluendo essa
ininterrottamente, si
verificano aggiunte al posto delle perdite,
e le sensazioni mutano e variano
secondo l’età e secondo le altre costituzioni
dei corpi. (218) E dice pure che
le ragioni di tutti i fenomeni sono contenute
nella materia, talché la materia,
quanto a se stessa, può essere tutto ciò
che appare a tutti. Gli uomini, poi,
ora percepiscono una cosa ora un’altra,
secondo le dfferenti disposizioni.[88]
Pare che Sesto ritenga oscura la relazione
tra la “materia
fluttuante” e il fatto che essa sia nel contempo
la “ragione” dei fenomeni
stessi, mentre (da empirista radicale) ritenga
chiaro che “ciò che appare è e
ciò che non appare non è”. A noi pare il
contrario, ma forse le due asserzioni si
possono connettere, nel senso che il fluire
della materia e (di converso) il
fluire delle sensazioni che da essa derivano
ai sensi umani, sono le due facce
della stessa medaglia: ovvero, ontologia,
fisiologia e psicologia si
corrispondono perfettamente. Se l’uomo ha
la sensazione che una cosa “sia” ciò
significa che essa realmente “è” , e ciò
in base al fatto che la materia non è
statica, bensì dinamica.
La portata di
tale conclusione teoretica farebbe sì che
la filosofia di Protagora assuma un
nuovo spessore, anche perché risulterebbe
anticipatrice di ciò che Epicuro
sosterrà quasi un secolo e mezzo più tardi.
Siccome però essa implica un
elemento, la “fluidità della materia”, che
fa riferimento alla fisica (materia
della quale non ci risulta che il Nostro
si sia mai occupato) la nostra ipotesi
ci fa porre la domanda: «Ma la “fluidità
della materia” è concetto originale
protagoreo o eccheggia un concetto di qualcun
altro?». Di primo acchito il nome
che viene in mente è quello di Eraclito,
ma riesce difficile pensare che un
pragmatico come Protagora si sentisse attratto
da un concetto che, aldilà della
mera enunciazione “tutto scorre”, è eminentemente
mistico, come è mistica tutta
la filosofia eraclitea. Viene allora da pensare
ad Anassagora, oppure a Leucippo,
o ad entrambi. Il primo sembrerebbe più probabile,
perché è ad Atene negli anni
in cui c’è anche Protagora ed entrambi fanno
parte del gruppo di intellettuali
che orbita intorno a Pericle. Ma per altro
verso la sua patria, Abdera, è il
luogo dove Leucippo (verosimilmente suo coetaneo
o quasi) mette a fuoco la
propria ontologia atomistica. Ci tocca però
lasciare la domanda senza una
risposta per l’assenza di altri elementi
al riguardo. Vale a dire,
“protagoramente”, poiché «molte sono le cose
che l’impediscono».
Gorgia è altro
importante sofista, di poco più giovane di
Protagora, che proviene da un altro
capo del mondo greco (la Sicilia), ma che
nel 427 sarà ad Atene per ragioni
politiche e finirà poi la sua vita in Tessaglia.
Secondo una certa tradizione
sarebbe stato allievo di Empedocle, ma è
difficile trovare tracce dirette ed
evidenti della filosofia di questo. Tuttavia,
in base ad alcune testimonianze
egli avrebbe avuto interessi naturalistici
ed astronomici che potrebbero ben
conciliarsi con la filosofia empedoclea.
In una dubbia testimonianza di
Sopatro, un retore ateniese del IV sec. (dove
il riferimento sarebbe piuttosto
ad Anassagora) si legge (in Hermogenem ed. Waltz, Rhetores greci VIII, 23, Vors.82.B.31):
Gorgia diceva che il sole è una
massa di ferro incandescente. [89]
A questa affermazione si accompagna solo
la testimonianza
di Plutarco (Vitae, X, Oratorum, 838 d) che riferisce una notizia
resa
dal periegeta Eliodoro, il quale, a proposito
della tomba di Isocrate, avrebbe
affermato:
C’era anche lì accanto una stele
funebre a bassorilievo, rappresentante delle
figure di poeti e di maestri di
lui, fra i quali anche Gorgia, in atto di
osservare una sfera celeste, e con lo
stesso Isocrate accanto. [90]
Ed è proprio Isocrate, suo probabile allievo
quando, gia
molto anziano, si era rifugiato in Tessaglia,
a darci una sintesi del suo
nichilismo in questi termini (Isocrate Orazioni ed. Blass 10, 3):
E come sarebbe mai possibile
superare Gorgia, colui che ha osato affermare
che nulla c’è di esistente, o
quel Zenone che ha cercato di dimostrare
che una stessa cosa è possibile e
impossibile! [91]
In questa testimonianza emergono tre elementi:
l’elogio
della bravura eristica di Gorgia, il suo
nichilismo paradossale e
l’accostamento a quell’ altro “principe del
paradosso” che è Zenone di
Elea.
Ne L’elogio
di Elena (Vors. 82.C.11) abbiamo un documento estremamente
interessante, poiché ci reca
un’esemplificazione del modo di argomentare
gorgiano. L’intento è quello di
dimostrare che l’avvenente causa della guerra
di Troia è stata incolpevole
vittima, e quindi non responsabile, dell’abbandono
del tetto coniugale e di ciò
che ne è seguito. Vediamone lo sviluppo per
sommi capi:
È decoro allo stato una balda
gioventù; al corpo, bellezza; all’animo,
sapienza; all’azione, virtù; alla
parola, verità. Il contrario di questo, disdoro.
[…] (4) Da tali generata, ebbe
bellezza di dea, e, avutala, non nascose
d’averla. […] (5) Ma chi fu e per qual
motivo, e in che modo, appagò l’amore colui
che conquistò Elena non lo dirò:
ché il dire, a chi sa, ciò che sa, aggiunge
fiducia, ma non porta diletto. E
però, varcato ora, col discorso, il tempo
d’allora, mi rifarò dal principio del
discorso propostomi, ed esporrò le cause
per le quali era naturale avenisse la
partena di Elena verso Troia. [92]
Dunque che Elena abbandonasse Menelao era
“naturale”, come
dire che la fuga con Paride era inevitabile.
Segue un interessante passaggio in
cui Gorgia elenca quattro possibili “cause”
della fuga di Elena, non prive di
qualche implicazione filosofica:
(6) Infatti, ella fece quel che
fece o per cieca volontà del Caso, e meditata
decisione degli Dèi, e decreto di
Necessità; oppure rapita per forza; o indotta
con parole, <o presa da
amore>. Se è per il primo motivo è giusto
che s’incolpi chi ha colpa; poiché
la provvidenza divina non si può con previdenza
umana impedire. Naturale è
infatti non che il più forte sia ostacolato
dal più debole, ma il più debole
sia dal più forte comandato e condotto; […]
[93]
La prima causa addotta da Gorgia è in realtà
un gruppo di
cause trascendenti l’umano. Il blocco Caso/Dèi/Necessità”
va a costituire un
accorpamento omogeneo di ciò che è ineluttabile
«poiché la provvidenza divina
non si può con previdenza umana impedire».
Ma Gorgia ci dice anche che ciò va
accettato non in virtù del fatto che ciò
che è divino è migliore, ma
semplicemente poichè è giusto che il più
forte prevalga. Sembra qui che Gorgia
intenda dire che non è l’eccellenza divina
ma unicamente la “forza” di cui
dispone a fondare una sorta di “diritto naturale”
a prevalere. E questa
affermazione non è priva di blasfemità poiché
né Omero né Esiodo (né nessuno
dopo di loro) si sarebbe azzardato a fare
della divinità una pura questione di
forza. Ma Gorgia ci lascia capire che questo
non sarebbe il suo pensiero quando
subito dopo passa al rapimento “con forza”:
(7) E se per forza fu rapita
[..] è chiaro che del rapitore è la colpa,
in quanto l’oltraggiò, […] Merita
dunque, colui che intraprese da barbaro una
barbara impresa. D’esser colpito e
verbalmente, e legalmene, e praticamente[…]
[94]
Poi viene presa in considerazione una causa
che il sofista
conosce molto bene: la parola:
(8) Se poi fu la parola a
persuaderla e a illuderle l’animo, neppure
questo è difficile a scusarsi e a
giustificarrsi così: la parola è un gran
dominatore, che con piccolissimo corpo
e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere;
[…] [95]
Sarebbe allora il caso, per inciso, di chiedersi
: «Ma
se Gorgia pensa che la parola “che divinissime
cose sa compiere” opera il raggiro,
allora anche il raggiro è in qualche modo
divino?» Poco dopo però viene
ritirato in ballo il concetto di “forza”
proprio in riferimento alla parola:
(12) […] Così si constaterebbe
l’imperio della persuasione, la quale, pur
non avendo l’apparenza dell’ineluttabilità,
ne ha tuttavia la potenza. [96]
Avremmo qui (ma il testo originale greco
risulta qui
corrotto) una specie di divinizzazione della
parola, in quanto dotata di tale
potenza persuasiva da assumere carattere
di ineluttabilità. Si passa quindi alla
quarta causa possibile: l’amore:
(19) […] il quale amore, se, in
quanto dio, ha degli dèi la divina potenza,
come un essere inferiore potrebbe
respingerlo, o resistergli? [97]
L’orgogliosa conclusione è la seguente:
(21) Ho distrutto con la parola
l’infamia di una donna, ho tenuto fede al
principio propostomi all’inizio del
discorso, ho tentato di annientare l’ingiustizia
di un’onta e l’infondatezza di
un opinione; ho voluto scrivere questo discorso,
che fosse a Elena di encomio,
a me di gioco dialettico. [98]
Se ci siamo
soffermati su questa orazione retorica è
perché volevamo evidenziare tre
concetti gorgiani che ne emergono [99].
Partendo dal fondo: a) la dialettica come
“gioco”, basata b) sulla “forza”
della parola, a sua volta facente parte del
più ampio concetto di “forza
naturale”, come valore legittimante ciò che
deve prevalere in base a quella che
appare come una non negativa “legge del più
forte”. Ma se l’unico valore è la
forza il nichilismo ontologico allora diventa
evidente ed inevitabile.
Dal punto di
vista filosofico il nichilismo rappresenta
indubbiamente l’aspetto più
interessante dell’atteggiamento di Gorgia,
anche se non si può fare a meno di
osservare che il modo con cui egli espone
il suo pensiero nichilistico rivela
qualcosa di artificioso, in quanto la veste
retorica del discorso finisce per
mettere un po’ in secondo piano il contenuto
teoretico (che indubbiamente c’è)
rispetto all’intento eristico. Della famosa
argomentazione esposta nel trattato
Del non essere o Della natura, possediamo due versioni complete, quella
pseudo-aritotelica esposta in De Melisso Xenophane Gorgia e quella
riportata da Sesto Empirico nell’Adversus mathematicos, che sul piano
contenutistico praticamente si corrispondono.
Citeremo alcuni passaggi di
quest’ultima perché sembra riferirsi un poco
di più ad un discorso originale,
mentre la seconda ci pare più interpretativa.
Riferisce Sesto (VII,
65-87):
Gorgia da Leontini fu anche lui
dl gruppo di coloro che escludono una norma
assoluta di giudizio; non però con
le stesse obbiezioni che muoveva Protagora
e la sua scuola. Infatti nel suo
libro intitolato Del non essere o Della natura egli pone tre capisaldi,
l’uno conseguente all’altro: 1) nulla esiste;
2) se anche alcunché esiste, non
è comprensibile all’uomo; 3) se pure è comprensibile,
è per certo
incomunicabile e inspiegaile agli altri .
[100]
Già da questi tre “capisaldi” anticipati
da Sesto si
comprende l’arbitrarietà delle premesse gorgiane
e l’argomentazion che segue è
un inanellamento di affermazioni che posseggono
sì una certa loro logica
interna, ma sempre sul filo del rasoio del
paradosso:
(66) Che nulla esiste, lo
argomenta in questo modo: ammesso che qualcosa
esista, esiste soltanto o ciò
che è o ciò che non è, ovvero esistono insieme
ciò che è e ciò che non è.
Come ben si comprende argomento assurdo e
privo di senso,
a cui fa seguito:
Ma né esiste ciò che è, come
dimostrerà, né ciò che non è, come ci confermerà;
né infine, come anche ci
spiegherà, l’essere e il non essere insieme.
Dunque, nulla esiste (67)
Conclusione del tutto arbitraria, seguita
da un
argomentazione piuttosto inconsistente:
E invero, il non esser non è;
perché supposto che il non essere sia, esso
inisem sarà e non sarà; ché in
quanto è concepito come non essere, non sarà,
ma in qunto esoiste conme non
esistene asua volta esisterà; ora è assolutamnente
assurdo che una cosa insieme
sia e no sia; e dunque il non esser non è.
La labirintica girandola verbale, dopo aver
bordeggiato il
non-senso approda a una proposizione sensata,
ma per riprendere subito il largo
con un procedimento parallelo (e così di
seguito). Alla fine Sesto conclude
(87):
Di fronte a tali quesiti
insolubili, sollevati da Gorgia, sparisce,
per quanto li concerne, il criterio
della verità; perché dell’inesistente, dell’inconoscibile,
dell’inesprimibile
non c’è possibilità di giudizio. [101]
Chiudiamo
questo paragrafo sui sofisti con Crizia,
un personaggio complesso, che in
qualche modo alla sofistica si richiama pur
essendo la sua opera di carattere
letterario piuttosto che filosofico.
Importante personaggio politico assai discusso,
esponente del partito
aristocratico che abbattè il governo democratico
di Atene con l’appoggio degli
Spartani, encomiato da alcuni e biasimato
ferocemente da altri (per esempio da
Senofonte) è ritenuto tradizionalmente allievo
di Protagora, Socrate e Gorgia.
A capo dei cosiddetti Trenta Tiranni venne
variamente accusato di essersi
comportato in modo feroce e di essersi macchiato
di operazioni corruttelari.
Scrisse opere in prosa e in versi e in questo
campo gli vengono attribuite
opere ritenute in antico di Euripide, col
quale vi è un intreccio
attribuzionale mai veramente chiarito. Infatti
sarebbero di Crizia alcune
tragedie (Tennes, Radamente, Piritoo) già ritenute di Euripide, come
pure un dramma satiresco, intitolato Sisifo, che Aezio attribuisce ad
Euripide (I, 7, 2, Dox. 298) e da cui è tratto un brano che sottintende
che la divinità è stata inventata quale “spauracchio”
contro la malvagità.
Scrive Aezio:
Euripide, il tragediografo, non volle manifestare
direttamente
le sue idee, per timore dell’Areopago, ma
le fece capire nel modo seguente:
mise in scena Sisifo rappresentante di questa
opinione e gli fece dire: «Tempo
ci fu, quando disordinata era la vita degli
uomini, e ferina, e strumento di
violenza, quando premio alcuno non c’era
pei buoni, né alcun castigo ai
malvagi. In seguito, parmi che gli uomini
leggi punitive sancissero, sì che
fosse Giustizia assoluta signora <egualmente
di tutti> e avesse ad ancella
la Forza; ed era punito chiunque peccasse.
Ma poi, giacché le leggi
distoglievano bensì gli uomini dal compiere
aperte violenze, ma di nascosto le
compivano, allora, suppongo, <dapprima>
un qualche uomo ingegnoso e
saggio di mente inventò per gli uomini il
timore <degli dèi> sicchè uno
spauracchio ci fosse ai malvagi […] ». [102]
e che invece Sesto Empirico dà a Crizia affermando
(Adversus
mathematicos, IX, 54):
Anche Crizia, uno dei tiranni di Atene, sembra
appartenere
al gruppo degli atei, per avere detto che
gli antichi legislatori finsero dio
come una specie di ispettore delle azioni
umane, sia buone che cattive, con lo
scopo che nessuno recasse ingiuria a tradimento
al suo prossimo per paura d’un
castigo degli dèi. Dice testualmente così
« Tempo ci fu,… ». [103]
La sofistica fu
un movimento intellettuale anticonvenzionale
e sovvertitore di un etica che, in
generale, riteneva “reale” qualcosa come
la “verità assoluta” (ovvero “divina”)
avendo introdotto, contro di essa, il tarlo
di un relativismo altrettanto
assoluto. Certamente nei comportamenti dei
sofisti vi sono state luci ed ombre
(queste specialmente in relazione alla trasmissione
del sapere “a pagamento”)
ma non si può ignorare il loro apporto in
termini di evoluzione
dell’atteggiamento culturale, nel senso dell’abbandono
di atteggiamenti
retorici ed ipocriti. Ad esso non poteva
ovviamente che opporsi aspramente sia
l’idealismo di Platone sia il post-idealismo
di Aristotele. Chiudiamo il
paragrafo riportando il finale del Sofista, che è interessante per ciò
che rivela dell’atteggiamento idealistico
quanto per ciò che nasconde
dell’atteggiamento sofistico (Sofista, 267-268d):
Ebbene, essa sarà l’imitare l’arte che produce
contraddizioni,
parte simulatrice dell’arte di produrre opinioni,
del genere che produe
apparenze sulla base della [d] capacità di produrre immagini, sezione
non divina ma umana dell’attività produttiva.
Cioè quella parte che fa
meraviglie nei discorsi: chi dirà che «di
questa stirpe e di questo sangue» è
il vero sofista, dirà, come sembra la cosa
più vera. [104]
la sezione “divina” dell’attività produttiva
essendo,
naturalmente, la fabbricazione della “verità
platonica”, che trova la più
compiuta espressione ne le Leggi, dove il sommo Platone, dopo aver tratto
l’uomo (nel VII libro del Repubblica, VII) dall’ignoranza della
mitica “caverna” gli impone la sua divina
e salvifica etica sapienziale da
“caserma”.
[1]
Theodor Gomperz (Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, vol. I, p.48)
del politeismo greco dà la seguente interpretazione:
«L’antropomorfizzzione
della natura non ha soltanto offerto una
materia pressoché inesauribile al
gioco costruttivo della fantasia, che a poco
a poco si andava elevando a senso
artistico, ma ha dato altresì la prima soddisfazione
alle tendenze
scientifiche, al bisogno di un diradamento
delle tenebre profonde in mezzo alle
quali l’uomo è posto a vivere. In verità
il presupposto non di carattere
riflesso ma scaturiente da una libera
attività dell’associazione delle idee, secondo
il quale gli avvenimenti del
mondo esterno hanno la loro origine in un’azione
di esseri dotati di volontà, è
di per sé già una risposta alla domanda,
per l’uomo inevitabile della, causa e
del fine delle cose: una sorta di filosofia
della natura che, in quanto
l’osservazione sia rivolta ad un numero sempre
maggior di fenomeni, ed in
quanto sempre più determinatamente si precisino
gli aspetti delle potenze
naturali raffigurate come degli esseri viventi,
è capace di uno sviluppo
illimitato. L’uomo primitivo non è soltanto
un poeta che crede alla verità
delle sue creazioni, ma è, alla sua maniera,
anche un investigatore; ed il
complesso delle risposte che egli dà circa
i problemi che senza tregua lo
incalzano, finisce col formare un tessuto
che tutto avvolge; i fili di questo
tessuto, presi singolarmente, sono quelle
costruzioni alle quali diamo il nome
di miti.».
[2] La nostra posizione non è però condivisa da molti storici delle religioni, che vedono una certa continuità tra mitologia e filosofia. Jean Pierre Vernant fa proprie le tesi del Comford (From religion to philosophy 1912) sostenendo che: «Le cosmologie dei filosofi [ionici] riprendono e prolungano i miti cosmogonici; dànno una risposta allo stesso tipo di domanda: come un mondo ordinato ha potuto emergere dal caos? Utilizzano un materiale concettuale analogo: dietro gli “elementi” degli Ioni, si profila la figura di antiche divinità della mitologia. Diventando “natura” gli elementi si sono spogliati dell’aspetto di dèi individualizzati; ma restano delle potenze attive, animate ed imperiture, ancora sentite come divine.» (J.P.Vernant Mito e pensiero presso i Greci – Einaudi 1978, p.385).
[3] Occorre aggiungere che la filosofia idealistica non ha soltanto prevalso nel mondo antico, fornendo un apporto importante all’evoluzione dl Cristianesimo, ma permea tuttora e profondamente tutta la cultura occidentale. Whitehead ha affermato che tutta la filosofia dell’Occidente, in fondo, non è altro che una lunga parafrasi del pensiero di Platone.
[4] Notava il Gomperz, relativamente al contesto in cui Talete si trovò ad operare, quanto segue (Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p.69): «Fu dunque, per il progresso spirituale del popolo greco, un caso straordinariamente benefico quello per cui, mentre i popoli che lo precedettero nell’incivilimento ebbero un ceto sacerdotale, esso, da parte sua, ne fu invece sempre mancante. Così il futuro promotore dell’avanzamento scientifico dell’umanità godé insieme di tutti i vantaggi e fu sottratto a tutti gli svantaggi che derivano dall’esistenza di un dotto ceto sacerdotale. »
[5] Georges Minois Storia dell’ateismo – Editori Riuniti 2000 – pp.37-38.
[6] Come è noto, secondo l’aneddoto, Talete sarebbe stato il tipico filosofo alle prese con le speculazioni e con scarsa attenzione alla realtà. Avrebbe infatti, un giorno, suscitato l’ilarità e l’irrisione di una servetta e di altri astanti poiché, passeggiando con la testa rivolta al cielo, sarebbe caduto in un pozzo.
[7] Secondo il Farrington (La scienza nell’antichità – Longanesi 1978, p.22) Talete avrebbe tratto spunto per la sua tesi da una tradizione egiziana, che considerava l’universo come un’enorme massa d’acqua all’interno della quale il nostro mondo era una bolla. Un po’ diversa e più precisa è la versione del mito che ci rende il Gomperz (Th. Gomperz Pensatori greci, vol. I, La Nuova Italia 1950, pp. 1144-145) dove la bollasi prsenta come l’uovo primordiale (presente anche in altre culture): «In principio non c’era né il cielo né la terra; circondata da spesse tenebre, riempiva il tutto un’acqua primordiale illimitata (che gli egiziani chiamavano Nun), la quale racchiudeva nel suo seno i germi maschili e femminili, ovvero i principi del mondo futuro. Lo spirito divino primordiale, inseparabile dalla materia dell’acqua originaria, sentì il desiderio dell’attività creatrice, e la sua parola chiamò il mondo alla vita…Il primo atto creativo s’iniziò con la formazione di un uovo che fu ricavato dall’acqua primordiale, e dal quale uscì la Luce del Giorno (Râ), causa immediata della vita nell’ambito del mondo terrestre.».
[8] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – vol. I, Laterza 1983, p.10.
[9] Ivi p.11.
[10]
I Presocratici (cura A.Pasquinelli), Einaudi 1980, p.15.
[11]
Aristotele Opere – Metafisica –
Laterza 1973, p. 12-13.
[12] Pone il Gomperz la domanda retorica (Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p.82-83): «Ma quale era questa materia originaria estendentesi all’infinito? Non era nessuna delle sostanze da noi conosciute. Poiché queste sostanze, che incessantemente trapassano l’una nell’altra e si originano l’una dall’altra, appariscono ad Anassimandro elementi, in certa guisa, tutti dello stesso valore e dello stesso grado, almeno dal punto di vista del non sembrare nessuna di esse materia tale da poter pretendere al titolo di progenitrice di tutte le altre.».
[13] Ricordiamo che, in realtà, in base alle più recenti acquisizioni della fisica teorica, se si dovesse stabilire una nuova arché del cosmo conosciuto, occorrerebbe precisare che essa non è per nulla unitaria, bensì plurale, per l’esatetzza esadecimale, in quanto costituita da sedici componenti-base. I “mattoncini” elementari dell’universo sono infatti dodici (sei quark, tre neutrini, il muone, il tauone e l’elettrone) ed i “cementi” che li assemblano e li tengono assieme (le forze) sono quattro (elettromagnetica, gravitazionale, nucleare debole e nucleare forte). Parlare di materia in senso unitario è una convenzione linguistica discorsivamente utile, ma concettualmente impropria (cfr. Necessità e libertà - pp.18-24).
[14] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – vol. I, Laterza 1983, p.48.
[15] Aezio è un dossografo peripatetico-eclettico del I sec. i cui testi sono di fondamentale importanza quali documenti, a volte unici, sul pensiero dei filosofi antichi e specialmente presocratici.
[16] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo primo, Laterza 2004, p.105.
[17] Ivi, p.106.
[18] Ivi, p.99.
[19] I Presocratici (cura A.Pasquinelli), Einaudi 1980, p.44.
[20] Ivi, Nota 19, p.320-323.
[21] Martin Heidegger Sentieri interrotti - La Nuova Italia 1986 – pp.345-346.
[22] Ivi– p. 29-30.
[23] Aristotele Opere – Metafisica, XII, (Λ), 1069 b 20 – Laterza 1973 – p.343.
[24] I presocratici. Frammenti e testimonianze - vol.I (a cura di Angelo Pasquinelli) – Einaudi 1958 – p.27.
[25] Ivi p28.
[26] Nota Theodor Gomperz a proposito della scelta dell’aria come arché: «E poiché la materia, secondo la dottrina che tutti e tre questi pensatori – i cosiddetti fisici jonici – hanno in comune, porta in se stessa la ragione del proprio movimento, che cosa di più naturale dell’atribuire la parte preminente alla parte più nobile di essa, e proprio a quella che, in rapporto agli esseri organici, era considerata come l’elemento vitale stesso, come (si consideri che “Psiche” non significa che “respiro”) l’elemento dell’anima? Il nostro filosofo, infatti, ha paragonato quel soffio vitale che si supponeva essere il principio di esistenza e di coordinazione funzionale nei corpi degli animali e degli uomini a quell’aria che, circondando il mondo, lo compone in un tutto unico.» (Th. Gomperz Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p.89)
[27] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – vol. I, Laterza 1983, p.49.
[28] Ivi – p.46.
[29] Ibidem.
[30] I Presocratici, tomo primo, Laterza 2004, p.435-436.
[31] Ivi, p. 436.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem.
[34] Ecateo di Mileto è il più importante storico e geografo greco del VI secolo a.C. Come cartografo egli si muove sulle orme di Anassimandro e come storico assume un atteggiamento critico nei confronti del mito che ha fatto pensare ad un suo atteggiamento tendenzialmente ateo.
[35] Si noti ancora che verso la fine del V sec.a.C. l’alfabeto del dialetto ionico diventa comune a tutta la lingua greca.
[36] Così si esprime lo storico della scienza Benjamin Farrrington sull’argomento: «Fu proprio nell’epoca dei grandi poeti lirici (Talete era contemporaneo di Saffo) che ebbe inizio la scienza greca, nella quale si trova la stessa audacia di concezione e indipendenza di pensiero. La scienza è la creazione di un particolare tipo d’uomo e di un particolare tipo di società: non zampilla nel vuoto. La scienza greca sembrerà meno miracolosa se si considerano il tempo e il luogo della sua origine. Sorse nella città di Mileto, sulla striscia costiera greca dell’Asia minore. Questa città era in diretto contatto con le più antiche civiltà dell’Oriente; rientrava linguisticamente in quella cultura che vantava già una brillante letteratura poetica, epica e lirica; ed era al centro d’una larga attività mercantile e colonizzatrice. Quindi la scienza greca fu il prodotto di un ricco umanesimo, di una cultura cosmopolita e di un intraprendente movimento d’affari.» (B.Farrington La scienza nell’antichità – Longanesi 1978 – pp.21-22).
[37]
Platone Tutti gli scritti – Leggi - Bompiani, 2004, p.1676
[38] Platone Opere complete – 7 – Leggi – Laterza 1992 - p.327-328.
[39] È Sant’Ippolito, un apologeta cristiano del III sec. d.C., a rilasciarci la più chiara definizione di che cosa siano gli “dei” per E.: «Dice Empedocle che sono sei in tutto gli elementi, di cui il cosmo è composto: due sono materiali, terra e acqua, e due organici, fuoco e aria, con cui la materia si ordina e si modifica, e due agenti, astio e concordia, che lavorano con quei mezzi organici la materia e costruiscono; dice così: Zeus è il fuoco, l’alma Hera la Terra….Aidoneo è l’aria, perché per lui vediamo tutto, ma lui soltanto non vediamo; Nestis è l’acqua…[…]» (da Testimonianze in Empedocle Poema fisico e lustrale (a cura di Carlo Gallavotti) – Mondadori 1993 – p.131.
[40] Empedocle Poema fisico e lustrale (a cura di Carlo Gallavotti) – Mondadori 1993 – p.7
[41] I nomi divini degli elementi sono dati a coppie: una celeste, Zeus (il fuoco) ed Hera (l’aria) e una terrestre, Aidoneo (la terra) e Nesti (l’acqua). Il Gallavotti (op.cit. pp.173-174) pone il problema dell’identificazione della seconda coppia di teonimi, anche basandosi sulle testimonianze dossografiche e letterarie, ma senza pervenire a una chiarificazione della loro origine.
[42] Ivi pp.19-21.
[43] Ivi p.23.
[44] A questo proposito lo Zeller osserva: «Ma anche se un medesimo spirito anima le teorie religiose e fisiche di Empedocle, tuttavia il filosofo non s’è curato di stabilire tra esse un rapporto di tipo scientifico, né di dimostrarne la conciliabilità. Infatti se la vita spirituale è solo una conseguenza dell’unione di sostanze materiali, è condizionata, come vita individuale, da questa determinata combinazione di sostanze , per cui l’anima non può né esistere prima della formazione né sopravvivere alla sua distruzione […[ Bisogna dunque ammettere che E. abbia derivato la dottrina della metempsicosi e le connesse teorie dalla tradizione orfico-pitagorica, senza però stabilire un nesso scientifico tra questi articoli di fede e le convinzioni filosofiche da lui in altro luogo e in altro contesto espresse.» (E. Zeller – R. Mondolfo La filosofia dei greci – vol.V – La Nuova Italia – Firenze 1969 – pp.87-88 ).
[45] Carlo Gallavotti ritiene che non vi sia contraddizione tra la teoria fisica e la dottrina etica: «È questo, nel poema lustrale, l’altro aspetto da rilevare per lo sviluppo storico del pensiero greco. È uno scritto di etica: sta alle origini di questa nuova disciplina filosofica, e sorge nell’ambito sociologico, in armonia (e non in opposizione) con un sistema di filosofia naturalistica già costituito, e precedentemente elaborato. È il primo segno, per noi, di quella svolta che segnerà il pensiero filosofico attraverso i sofisti e Socrate, spostando il proprio interesse dall’indagine fisica a quella morale. […] Quindi la dottrina etica di E., e la stessa teoria della palingenesi, derivano direttamente dalla sua teoria fisica, e concordano in maniera perfetta.» (Empedocle Poema fisico e lustrale (a cura di C. Gallavotti) – Mondadori 1993 – pp. XIV e XV).
[46] Ciò riceve anche conferma dal frammento dell’ Aristotelis Physica (331, 10) di Simplicio (I Presocratici – tomo primo - Laterza 2004, p.405) in cui si afferma (103, [312 K., 125 St.]): «E ancora molti casi si potrebbero trovare nell’opera di Empedocle Sulla natura che offrono esempi di tal genere, come anche questo: “E per tale volere della Sorte [del Caso] tutte le cose son assennate.». Abbiamo inserito [del Caso] perché non condividiamo il termine “Sorte” con cui Gabriele Giannantoni traduce il termine greco τύχή. A noi pare infatti che se da un punto di vista antropologico “sorte” e “caso” possano essere equivalenti, ma che non altrettanto lo siano sul piano ontologico (relativamente, qui, a “tutte le cose”), per cui, in questo caso, riteniamo più corretto e significativo il secondo termine.
[47] Il Mondolfo rileva questo rimprovero in De generatione et corrupt. II,6, in Phis. II,4 e in Phis. VIII, 1.
[48] Abbiamo esposto la nostra interpretazione del fenomeno “caso” nel § 4 (Le leggi e il caso) del capitolo III di Necessità e Libertà (Editrice Clinamen 2004) alle pp.77-79.
[49] Aristotele Opere,
Metafisica – Laterza 1973, p.18.
[50] Ibidem.
[51] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo primo, Laterza 2004, p.347.
[52] Ibidem.
[53] Ibidem.
[54] Ibidem.
[55] Lo pensano il russo Andrei Linde e l’inglese Dennis Sciama. Ma la molteplicità dgli universi è anche implicato dalla Teoria delle Superstringhe.
[56] Registriamo qui il parere dello Zeller su una presunta relazione tra le teoresi degli ontologi pluralisti e il monismo eleatico. Relazione secondo noi inesistente, trattandosi di un luogo comune che ha attraversato i secoli sulla base di elementi storiografici inconsistenti (cfr. successivi § 4.1, 4.2, 4.3) e di analisi surrettizie. Relazione che purtroppo ha finito però per radicalizzarsi, diventando, da mera leggenda storico-ermeneutica qual’è, quasi un dato acquisito e riconosciuto (per quanto combattuto decisamente già dal Gomperz). Sostiene lo Zeller: «Che da queste proposizioni [quelle parmenidee] essi [Anassagora, Empedocle e Leucippo] prendano le mosse, continuo a crederlo, nonostante le argomentazioni contrarie del Gomperz (Zu Heraklits Lehre, 1037). I precedenti filosofi avevano sì riconosciuto come ovvio che le sostanze originarie fossero eterne e indistruttibili, ma non avevano affermato ciò nella forma di un principio universale, né si erano curati di dimostrarlo, né avevano distinto tra fra nascita in senso assoluto e in senso relativo; Parmenide fu il primo ad affermare in forma di principio e a dimostrare con precisi argomenti l’impossibilità del nascere e del perire; […]» (E.Zeller - R.Mondolfo La filosofia die greci nel suo sviluppo storico – La Nuova Italia 1969, p.361 testo e nota 15).
[57] Platone Tutti gli scritti (a cura di Giovanni Reale) - Bompiani 2000, p.1674.
[58] Ivi, p.1674.
[59] Ivi, p.32.
[60] Ivi, p.104 – 105.
[61] Ivi, p.105–106.
[62] Ivi, p.106.
[63] Ibidem.
[64] Platone sembra aver scorto in Anassagora ciò che Theodor Gomperz esprimerà in questi termini: «I processi chimici sono ricondotti da lui al movimento; gli stessi fatti fisiologici sono spogliati di ogni specie di misticismo e guardati dal punto di vista della meccanica. Poiché sono delle associazion e delle separazioni, in una parola dei cambiamenti di posizione, che egli invoca a spiegare tutte le più misteriose trasformazioni della realtà. La dottrina della materia del pensatore di Clazomene è un tentativo, invero rozzo e prematuro, di concepire ogni realtà materiale come un resultato del movimento.» (Th. Gomperz Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p.321).
[65] Platone Tutti gli scritti (a cura di Giovanni Reale) - Bompiani 2000, p.106-107.
[66] Un chiaro esempio di queste disastrose derive ermeneutiche di ispirazione idealistica ce lo offre lo Zeller, che in termini lapidari afferma: «Ma perché da queste sostanze [le omeomerìe] nasca un mondo, occorre l’intervento di una forza ordinatrice e motrice, che è “una”, perché il mondo da esse prodotto costituisce un sistema unitario; questa forza per il nostro filosofo può risiedere soltanto nell’essere pensante, nello Spirito.» (E.Zeller - R.Mondolfo La filosofia die greci nel suo sviluppo storico – La Nuova Italia 1969, p.375).
[67] Aristotele Metafisica, Laterza 1973, p.16.
[68] Ivi, p.18.
[69] È l’espressione usata da Renato Laurenti nella traduzione del passo aristotelico citato (I Presocratici, Laterza 2004, p.576).
[70] Aristotele Metafisica, Laterza 1973, p.14.
[71] Un’importante ricerca su questo argomento è costituita dall’ottimo saggio di Lucio Russo La rivoluzione dimenticata (Il pensiero scientifico greco e la scienza modena) Feltrinelli 1996.
[72] Sull’ontologia cosmogonica anassagorea nota Theodor Gomperz: «La cosmogonia di Anassagora si muove, fino a un certo punto, sulla via aperta da Anassimandro, e che i suoi successori non si può dire che avessero abbandonata. Anche lui ammette come realtà originaria una specie di caos. Senonché al posto dell’unica materia primordiale infinitamente estesa, troviamo un numero indeterminato di materie originarie il cui insieme si estende, del pari, aldilà di ogni limite.» (Th. Gomperz Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p.323-324)
[73] Aristotele Opere, vol.III, Del cielo, Laterza 1983, p.331.
[74] Aristotele Opere, vol.III, Del cielo, Laterza 1983, p.332.
[75] Lucrezio La natura delle cose - Rizzoli 1994, p.135-137.
[76] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.577.
[77] Ibidem.
[78] Ivi, p.576.
[79] Ibidem.
[80] Ivi, p.563.
[81] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – vol. II, Laterza 1983, p.374.
[82] Ibidem.
[83] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.881.
[84]
In un recente studio di Stelio Zeppi, dal
titolo L’ateismo ateistico di
Protagora (in Il pensiero religioso dei Presocratici, Studium 2003,
pp.221-229) questo autore ipotizza una posizione
filo-senofanea di Protagora;
tesi che ci sembra francamente piuttosto
inconsistente. Scrive Zeppi (p.26): «Alludo
al contenuto, od oggetto, all’agnosticismo
in questione. Esso riguarda non già
la conoscenza del Divino, di Dio, bensì soltanto
quella degli dèi [si notino le
iniziali maiuscole e minuscole!]. Protagora
cioè prende le distanze dal
politeismo della religione popolare, volgarmente
intesa, e ciò facendo riprende
la battaglia contro le credenze religiose
in quanto stoltamente dogmatiche e
risibili che era stata intrapresa da Senofane
[…]».
[85] Platone Tutti gli scritti – Bompiani 2000, pp.136-137.
[86] Ibidem.
[87]
Sesto Empirico Schizzi pirroniani
– Laterza 1926, p. 61-62.
[88] Ivi, p. 62.
[89] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.947.
[90] Ivi, p.911.
[91] Ivi, p.916
[92] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.927-929 passim.
[93] Ivi, p.929.
[94] Ibidem.
[95] Ibidem.
[96] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.930.
[97] Ivi, p.933.
[98] Ibidem.
[99] Un importante studio dell’Elogio di Elena è quello condotto da Mario Untersteiner nel suo I Sofisti (Einaudi 1949, p.129 e ss.) che lo porta ad individuare i tre elementi-guida seguenti: I) La previdenza umana non può impedire il volere di un dio, II) La violenza è espressione dl divino, III) La parola è persuasione ed inganno,
[100] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.916-917.
[101] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p. 920.
[102] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.1026.
[103] Ibidem.
[104] Platone Tutti gli scritti (cura Giovanni Reale), Il sofista, p.310.