Indice

Cap. 1 * Cap. 2* Cap. 3* Cap. 4* Cap. 5* Cap. 6* Cap. 7* Cap. 8* Cap. 9* Cap. 10*

Cap. 11* Cap. 12* Cap. 13* Cap. 14* Cap. 15* Cap. 16* Cap. 17* Cap. 18* Cap. 19*

 

Cap. 1

Luglio era e luglio faceva. Sulle colline vagava una goccia di vento che sciroccava uomini e cose: sciroccato pareva il treno accelerato Catania – Caltanissetta, che andava a passo d’uomo e con il fiato come distrutto dall’asma.

Il pomeriggio era soffocante. Manco una goccia di frescura entrava dai finestrini aperti di un vecchio vagone di terza classe, ma folate di aria calda, come si alimentasse, a riscaldare, un forno all’antica.

E tutti dormivano, anche il controllore, che si era lasciato sul predellino difronte la ritirata, come un bue abbattuto, con una copia del Giornale di Sicilia sulla faccia, a ripararsi dalle mosche; un bambino, scordato, dormiva sul pavimento, la faccia macchiata di polvere e sudore; Nino, il cappello calato sugli occhi, fingeva dormire.

" Uno potrebbe scendere a pisciare e risalire. " pensò, guardando un mulo che tardava a sparire oltre la curva. Nino non faceva conto di tornare in paese: credeva di essere ancora in Venazzonia. In Venazzonia, faceva conto di essere a casa: confondeva. Guardava la Sicilia e vedeva il Venazzonia: la stessa campagna soffocata dal sole; gli stessi volti induriti dal travaglio e neri, come scavati nel carbone; la stessa amarezza che faceva ferire le labbra; la stessa forza che si arrendeva alle mosche; la stessa ribellione latente negli sguardi pieni di rancore e paura; la stessa incertezza di esistere; la stessa coscienza di essere scordati. In Sicilia, come in Venazzonia, ritrovava gli stessi volti, la stessa monotonia, gli stessi muri.

E ora, guardando la campagna arsa, dopo aver lasciato i verdi aranceti della piana, restava abbagliato. E quegli ulivi, attaccati alla terra quasi sperassero acqua, gli mostravano lo stesso squallore, la stessa fierezza e la tenacia dei nostri contadini che, ostinati e furenti, combattono terra alle lave e alle gessaie lucenti che curano, con amore, terre che apportano fame e stanchezza.

Ad ogni fermata, si ripeteva la stessa scena: occhi spenti che si aprivano; richiami sguaiati che stordivano; domande; uomini, abbattuti dal viaggio, che scendevano; donne che si buttavano, ansando, sui sedili, asciugandosi i visi, grondanti di sudore, come pulissero vetri.

Molti scendevano; pochi salivano.

Ad Enna, il treno fu riempito di piccoli e neri mietitori, carichi di stanchezza e puzzolenti di sudore e vino; il loro bagaglio era costituito da falci, paracosce, manicotti imbottiti di crine e vecchie coperte consunte.

Da noi la mietitura incomincia alla fine di maggio, nelle zone di mare, e si spinge fino a luglio, nei monti.

E i mietitori seguono l’oro del grano, dal mare ai monti, vendendosi, le sere, nelle piazze; a fine stagione, ritornano a casa con qualche soldo in tasca, gli occhi arsi e il corpo dolorante di stanchezza.

Quando si vedono, sciolgono i loro corpi sotto le falci e il sole; a notte, sui marciapiedi consumano un sonno dolorante.

E le piazze sanno di pane caldo e sudore; e le sere ritornano a parlare, rompendo lunghi silenzi.

Lamenti continui paiono cantilene, la notte.

I mietitori dormono con un occhio chiuso e l’altro aperto, temendo di essere derubati del sangue del loro sudore.

Nino ricordò di quel mietitore che aveva perduto i soldi: così dicevano i compagni, per prudenza. Cercava in ogni angolo del paese, nella speranza di averli smarriti, e, a notte, tornò nella campagna, dove aveva sciolto il suo sudore; gridava per le strade del paese:

" Che dirò a mia moglie e ai miei figli che aspettano me, per mangiare? ".

L’indomani, non aggiornò in paese. I compagni lo cercarono per due giorni; poi, andarono a lavorare ché anche loro avevano famiglia. Lo trovò un campière, dopo otto giorni, in una nàca del fiume, con la pancia gonfia e con un masso al collo.

E di quel tale che aveva perduto la mano, per non perdere una giornata. Era un mietitore che, accecato dal sole e dal travaglio, un giorno, mietendo il grano, stava per mietersi la mano; la medicò col vino e il sale, per parare il sangue, e ritornò al travaglio. Il sovrastante gli disse:

" Figliolo, fallo vedere a un medico, ché, quello, è un malo taglio.".

Ma il medico voleva tre giornate. Lui si disse:

" I miei hanno fame e tre giornate fanno. ". Si medicò, col vino, la ferita e ritornò al lavoro, col suo pezzo di sole sulle spalle. Cambiò paese, cambiò campagna; la mano gli toglieva la vita, dal dolore. Si decise, un giorno, ad andare dal dottore: aveva la mano nera e dolorante. Il medico gli disse:

" Cancrena, colpa della polvere e sudore, dev’essere tagliata; se no, attacca il braccio. ".

Ritornò la prossima estate, con una mano sola: sul monco aveva un gancio. Non tutti lo prendevano. D’inverno, chiedeva carità.

Scendendo verso Caltanissetta, il treno aumentò l’andatura. Fuori, la campagna correva e non pareva più la stessa.

Sulle colline appariva qualche aia coi contadini che paravano vento.

 

 

 

Cap. 2

L’avvicinarsi a Caltanissetta, indusse Nino a pensare: come spiegare che, dopo sei anni di Venazzonia, non aveva guadagnato manco una lira? Come dire a sua madre che non poteva comprare quel fondo, ai piedi del paese, che, nei giorni di noia, aveva tanto sognato fosse suo? Come affrontare le risate del paese? Ed egli stesso si domandava:

" Ma che ho fatto in sei anni di Venazzonia? ". E cercava di trovare una risposta a queste domande: una risposta pel paese.

Da Puerto Inventado ad Enna, non si era posto di queste domande; la vista dei piccoli mietitori doloranti lo ricondusse al suo ambiente. E ricordò i lunghi giorni di sole a mietere il grano, la testa dolorante e le membra strappate, e gli oscuri giorni di pioggia a rattoppare scarpe: grosse scarpe di villani, unte di sego per non indurire e marcire. Mai una scarpina nuova da fare; sempre, scarpe da rattoppare: scarpe strette da adattare a piedi grandi, tagliandone la punta ed il calcagno, scarpe grandi, per piccoli piedi, da restringere con solette di cartone.

Ed il puzzo del cuoio ad ammorbidire nell’acqua. E si rivide piccolo, appresso alle vacche e ad incerare spago per il mastro.

Poi il Venazzonia.

Dapprima, suo cugino gli aveva scritto: " Vieni, ché, con l’arte che hai, potrai arricchirti in due anni. " E Nino fermo. Suo cugino gli scriveva: " E che aspetti? Vieni, ch’è un momento da sfruttare. Raggiungimi sùbito. Se non hai i soldi, venditi il loco. ". Nino vendette la terra, si fece il passaporto, prenotò il viaggio; di poi, suo cugino gli scrisse: " Se vuoi venire, vieni, ma non credere che basta scavare per trovare i soldi: anche qui si lavora, anche qui il pane si suda. " Ma, ormai, partire doveva: se no, era meglio comprarsi un tabùto.

In Venazzonia, lavoro per calzolai non ce n’era: i signori portavano scarpe americane; gli altri andavano scalzi.

Suo cugino gli trovò un lavoro di piccone e pala e gli disse di aspettare. Un anno aspettò; poi, si mise a fare lo scarparo ambulante e cominciò a girare il Venazzonia con un piede e a segnare la fame con il dito. Sei anni di Venazzonia, e manco una lira.

Ma quello che preoccupava Nino non era la miseria, in cui era rimasto, ché, ormai, i denti forti aveva nella lotta giornaliera con la fame, ma le risate del paese: sì, le risa che il paese avrebbe fatto, vedendolo tornare senza un soldo. In paese avrebbero detto:

" Sempre lo stesso. Nino: manco il Venazzonia l’ha arricchito; chi non ha voglia di lavorare può trovarla? ".

E Nino si ribellava, in se stesso; non alla miseria, ma al paese.

Questa era la preoccupazione di Nino, un incubo bruciante nel cervello. Una lunga domanda dolorante:

" Che dire al paese: come parare le sue bocche? ": che ne sapeva la gente che, anche in Venazzonia, la miseria tracciava fiumi di pianto e di sudore; che, anche lì, la gente si arrendeva alle mosche, cuocendosi al sole fino a morte?; la gente non vuole sapere: non vuole capire che tutto il mondo è mondo. La gente lo vedeva senza un soldo e su di lui scaricava il suo rancore.

E, ora, si torturava il cervello a cercare una risposta alle domande del paese, a cercare un pararisa: qualcosa che lo giustificasse.

Quello fu il percorso più lungo.

Nino guardava; non vedeva la campagna che correva; vedeva i suoi paesani ridere di lui, aprendo finestre alla bocca: si vedeva oggetto dello schermo dei suoi paesani, le sere, nelle bettole interrotte, dove si annegano, in bestemmie e vino, stanchezza e rancori, e sentiva i discorsi delle donne sparlare di lui, le sere, nei cortile coperti di luna. E riprovava la stessa paura che, carùso, lo spingeva a scappare davanti ai compagni di scuola che gli gridavano dietro:

" ‘ualé… ‘ualé… vergogna … vergogna… ".

Sobbalzò di spavento, quando un mietitore che gli sedeva difronte, vedendolo perduto nel suo largo vestito americano, gli chiese se veniva dall’America.

" No, dal Venazzonia. " rispose, distrattamente, Nino, immerso, ancora, nella sua paura.

" Sempre Americana è! ".

" Già, sempre Americana è! ".

" E’ vero " riprese il mietitore " che in Venazzonia c’è la rivoluzione? ".

" Ch’è?… la rivoluzione? ".

" Sì, la rivoluzione. Tutti i giornali ne parlano. Ma vossìa ne sa meno di mìa. ".

Nino riprese i suoi pensieri; si arrese il mietitore al proprio sonno. L’idea gli venne, quando, scendendo dal treno alla stazione di Caltanissetta, sentì, alta, la voce dello strillone:

" Riuscito il colpo di stato in Venazzonia!… si teme per gli italiani!… molti italiani si apprestano a lasciare il Paese sudamericano!… ".

Sentire lo strillone, assimilare le parole del mietitore e sviluppare l’idea fu tutt’uno per Nino, che si precipitò, come un lampo, sullo strillone che continuava a gridare. In un attimo, si trovò acculato su di una panca di legno della saletta di terza classe, con una copia del giornale tra le mani. L’articolo chiaro parlava: diceva come il generale Lovo Robante Y Listo aveva rovesciato il governo del presidente Laron Carnero, mentre questi si trovava in Svizzera per un controllo medico e… del suo conto in banca. L’ex Presidente aveva chiesto asilo politico negli U.S.A.. Tutto questo diceva l’articolo; del pericolo per gli italiani nemmeno un’acca.

Possibile? Rilesse l’articolo, velocemente: macché… niente di niente. Ma se lo strillone aveva gridato chiaro? Tese l’orecchio in ascolto e risentì, distinta, la voce dello strillone:

" Si teme per gli italiani!… molti italiani si apprestano a lasciare il Paese… Giornale, signore? ".

Stava per rileggere l’articolo, quando scoppiò in una risata: che càcchio gliene importava del pericolo degli italiani?: ormai, aveva trovato l’idea e, con quel giornale, l’aveva ampliata; ormai, salvo era! La rivoluzione era scoppiata lo stesso giorno della sua partenza per l’Italia: ecco perché non ne sapeva niente! Bene, anche questo quadrava: poteva sostenere che era partito la stessa sera della rivoluzione, dopo aver capito che stava per scoppiare il quarantotto; poteva affermare che il nuovo governo lo aveva spogliato dei suoi soldi: pure il giornale annunciava che le fabbriche e le banche erano circondate dall’esercito e che, forse, il nuovo governo aveva intenzione di confiscare i capitali stranieri. Sì, ormai, ricco era, ricchissimo! E rideva: rideva dei suoi paesani che, finalmente, avrebbe preso in giro; rideva dello strillone che continuava a gridare " Si teme per gli italiani!… ", per vendere più copie: ché, da quel figlio di pu… che era, sapeva che molta gente aveva parenti in Venazzonia.

Così, tutte le preoccupazioni si risolsero, immediatamente, per Nino che, senza più timore, stringendo il giornale-salvatore sul cuore, uscì dalla stazione.

 

 

 

 

 

Cap. 3

Rivedere Caltanissetta, che, fino a sei anni prima, era stata la più grande città che avesse, mai, visto e che aveva segnato il limite estremo dei suoi brevi viaggi, riportò Nino indietro nel tempo: quando, ogni sabato, saliva in città in cerca di donne o, come diceva lui, per cambiare acqua al cardellino. E ripensò alla palermitana, che prendeva poco e faceva bei lavoretti. Ripensò a Rita, così si chiamava la palermitana, come pensasse a sua moglie: con affetto, quasi. Di andarla a trovare pensò. La palermitana abitava nel quartiere della " Provvidenza ", a due passi dalla stazione: bastava che salisse per la scala difronte e vi sarebbe giunto.

Questo quartiere, che porta il nome della " Provvidenza ", per la chiesa omonima che vi si trova nel centro, famoso a tutti i minatori ed ai giovinastri della provincia per le prostitute che vi abitano, ogni sabato sera è animato da minatori, carichi di stanchezza e puzzolenti di sudore e zolfo, che annegano amarezza nello sfogo dei sensi e nei fumi del vino. Tutte le sue bettole sono aperte e piene di voci e di bestemmie; le strade rumorose fino a giorno; le finestre della brava gente chiuse: nessun quartiere contrastava così pienamente col suo nome.

Giunto alla " Provvidenza ", Nino ritrovò lo stesso squallore e la stessa miseria bruciante di sempre: carùsi pieni di lordura; strade sporche e strette, senza, mai, una goccia di sole; vecchie prostitute, secche e maleodoranti, che pregavano le giovani colleghe di far lavare loro i pavimenti o rassettare i letti in cambio di pane; giovani imberbi, i baffetti sudati e gli occhi assetati di mucciàti piaceri.

Arrivò nella strada abitata da Rita; in fondo alla strada, un uomo, forse un protettore, picchiava una donna, che gridava sonoramente, richiamando la folla che guardava divertita le parti della donna che, nella colluttazione, si scoprivano. Un bambino orinava appoggiato ad un muro; ciò gli ricordò il suo paese dove i bambini fanno fuori i loro bisogni.

Bussò alla porta della palermitana. Aprì una giovane donna bionda, in vestaglia, il viso distrutto dal vizio; non era Rita. Nino restò, vergognoso: arrossì.

" Mi scusi; " riuscì a dire, tartagliante la voce, " ho sbagliato porta. ".

La donna strizzò gli occhi; le occhiaie, infossate e cascanti, aprirono ferite profonde.

" Ma no… " disse, un sorriso di malizia sulle labbra, " no, caro, non hai sbagliato; entra. ".

Così dicendo, aprì, lentamente, la vestaglia al petto, scoprendo due seni che, contrariamente al volto, erano lisci e pieni.

Entrò, gli occhi abbruciànti e i sensi assetati. Nino ebbe modo di guardare l’ambiente, mentre si lavava. Nella camera, come fuori, nulla era cambiato in sei anni: la stessa bacinella, ammaccata in più punti; la stessa branda, sfasciata dall’uso, sotto l’alcova; le stesse macchie di cimici, sulle pareti dell’alcova e sul letto; la stessa coperta, strappata in più punti, che, stesa sopra una corda lercia, separava l’alcova dal resto della casa, mucciàndo il letto.

Si avvicinò al letto, saziandosi del corpo nudo e giovane di lei.

Mentre si spogliava, domandò:

" Perché la tua faccia ha quarant’anni e il tuo corpo è giovane? ".

E lei muovendo il suo corpo in morbidi richiami, rispose:

" Siete voi, voi uomini, che ci distruggete. ". Poi, rise, quasi in canto la voce, aggiunse: " Dai, vieni a distruggermi. ".

E il resto fu, solo, un continuo ansare e vorticare di sensazioni.

Mentre si vestivano, le chiese:

" E la palermitana, non sta più in questa casa? ".

"La palermitana? ".

" Sì, Rita: quella bassina. ".

" Di’, è da molto che manchi? ".

" Sì: sei anni, sei anni passati. ".

" Ah, ora mi spiego! No, Rita non lavora più da quattro anni; non l’hai vista? Quella con la testa rapata è. Sta sempre al sole, a farsi divorare dalle mosche. È diventata scema, da quando le è morto il figlio: scema dal dolore. Me lo ricordo ancora Nicuzzo, così si chiamava il bambino; nemmanco quattro anni aveva, quando è morto. Rita lo vestiva sempre bene: un figlio di dottore pareva. Da piccolo non lo lasciava mai: giorno e notte con sé lo teneva, anche quando lavorava. Vedi questi chiodi sulle pareti dell’alcova? Lei li ha piantati: per montarci la culla, di quelle di corda come le altalene. E lei rompeva l’amore dei clienti per cullare il figlio o allattarlo, se piangeva. Io so di queste cose, perché me lo hanno detto più uomini che venivano a lamentarsi da me. Poi, quando il bambino incominciò a capire, lo lasciava da una vicina per ricevere i clienti. Voleva farlo studiare. Farlo diventare ingegnere, voleva, o dottore, non ricordo, no. Spesso la minchionavo: "Più grosso lo farai diventare e più si vergognerà di te. Ti lascerà gridandoti puttana sulla faccia. ". Rita rispondeva seria seria: " Non lo farò studiare per me, ma per lui. E se non l’avessi mai avuto? non sarei rimasta, sola lo stesso? Ma lui saprà buscarsi il pane onestamente, da uomo: senza prostituirsi. ". Più degli occhi suoi lo guardava. Poi gli venne il crup e non bastarono tutti i soldi di Rita. Morì. Dicendo: " Famuzza ho. ". E Rita, che voleva dargli la vita, lo guardava morire, gli occhi abbattuti dal dolore. ", e si asciugò una lacrima " E’ diventata scema dal dolore. Quando il sangue del suo sangue si fermò, lei stette a guardarlo, allucinata, per due giorni. Dipoi, un grido che stonò il quartiere: era diventata scema dal dolore. Ora, seduta fuori, tutto il santo giorno, si fa mangiare dalle mosche e mormora: " Nicuzzo ". Di carità campa. Poveretta, tanta pena mi fa. Le porto la minestra, quando posso. ". La donna aveva gli occhi di pianto. " Ah, quando costa un figlio! " lamentò.

Nino aveva la testa a terra, come quando si va ai tre giorni di lutto dei morti.

La donna si asciugò le lacrime e tentò un sorriso.

" Ma, ora, pensiamo a noi, " disse, in riso e pianto la voce, "torna a trovarmi, eh? Non andare nei bordelli. Se non mi troverai qui, mi avranno sfrattato; comunque, chiedi di Marisa la biondi, l’ennese: mi conoscono tutti. ".

Nino accennò una promessa, pagò ed uscì con un senso di pena nel cuore: pensava a Rita; pensava a Marisa che sarebbe finita come Rita.

" Povere donne! " lamentò. ".

Fuori era buio. E Nino pensò che doveva affrettarsi, se voleva prendere l’ultima corriera.

Sulle porte aperte, donnine si esponevano al mercato dei corpi..

Trovò Rita nella piazzola in fondo alla strada: stava seduta su di una sedia di corda, a farsi divorare dalle mosche; la lingua fuori dalla bocca e i capelli tagliati a melone; sul mento bavoso si accanivano mosche. Era in continua lotta con le mosche e i carùsi che la molestavano; gli occhi, inebetiti, guardavano lontano. Nino le mise cento lire nella mano.

Stava per svoltare l’angolo quando sentì una voce gridare con toni infantili:

" No, mia, No, mia. ".

Si volse: era Rita che lottava con un carùso che voleva prenderle la banconota Nino tornò indietro, il sangue alla testa, e tentò di acchiappare li monello: soleva picchiarlo di santa ragione. Poi, entrò in una delle tante taverne del quartiere, comprò una pagnotta e tornò indietro per offrirla a Rita. Le mise la pagnotta nel grembo, che tante volte aveva divorato, preso dalla frenesia dell’amore a pagamento. Rita non lo degnò di uno sguardo; continuando a guardare davanti a se, prese a parlare. Si esprimeva in monosillabi, quasi un bambino:

" No, Nicuzzo, no farne: ora pane. Tuo pane, no, Nicuzzo, no farne. ". Parlava come in sogno: guardando davanti. " No, Nicuzzo, no fame: ora pane. ".

Nino restò intisichìto nel sentire scoppiare l’amore in quel senno spostato; fece finta di acchiappare il carùso che lo guardava da lontano, come un can bastonato. Passandosi la mano sulla fronte sudata, pregò:

" Mai Maria! Mai! ".

Nino voleva andarsene, ma restò fiso a guardarla, come fosse scimunito anche lui. La guardava; e non vedeva la Rita distrutta, ma la giovane Rita di pochi anni prima, tutta pepe e moine, felice di vivere, felice di essere madre.

Riuscì a pensare che doveva partire: si avvicinò a Rita, le carezzò i capelli, pungenti sulla testa, e mormorò:

" Muori presto, Rita: non soffrire! ".

Ma, ora, correre doveva, se voleva prendere la corriera.

Dal corso giungeva il frastuono del traffico.

Fuori del quartiere, la città bruciante di luci.

 

 

 

Cap. 4

Lo spiazzale di fronte la posta era quasi vuoto di macchine. Solo tre corriere dai lunghi musi e dai tetti carichi di bagagli, davano ombra al selciato della piazza, aspettando l’ora della partenza.

Nino fu lesto a trovare la sua corriera. La vettura era piena di passeggeri, ché era giorno di fiera e di ricevimento all’ospedale; molti, così, facevano un viaggio e due servizi. Sulla corriera, volti neri e rugosi, giovani donne già vecchie, qualche studente.

Nino non trovò posto.

Nessuno lo riconobbe, mucciàto com’era dal largo vestito americano, dalle falde mosce del cappello e dalle lenti da vista, che portava più per darsi un contegno che per bisogno; e poi, sei anni di lontananza, sempre sei anni erano. Nino era molto cambiato in sei anni: non aveva più la faccia di nespolo giappone, tonda e senza colore; ora, la sua faccia era scarna e cotta di sole, e il suo corpo secco sembrava più alto.

Il posto dell’autista era vacante, Nino vi si sedette e guardò verso i passeggeri. Vide molti suoi compaesani e contadini, insaccati nei loro scuri vestiti di velluto, che scendevano prima di arrivare in paese. Nino riconobbe tutti i suoi paesani; li guardò tutti, ad uno ad uno, cercando di dare ad ogni volto un nome ed una storia.

Seduto ai primi posti, proprio davanti a lui, c’era - inconfondibile fra tutti - lo zi’ Caluzzo " testone " coi quattro sampaoloni dei suoi figli. Non c’era fiera che non vi fosse lui. In paese si sosteneva che salisse in città per le altre cose, oltre che per la fiera; male lingue erano: sessant’anni passati aveva.

Lo zi’ Caluzzo, oltre che averla grossa, l’aveva calda la testa.

Nel quindici si era dato pazzo per non fare il soldato; poi, i medici capirono che aveva il senno a posto, ché, ogni giorno, cambiava mania e ché, quando voleva, sapeva ragionare, e lo mandarono al fronte.

Il fronte era un macello. E lui, un giorno, franca gli venne, si dette prigioniero ai tedeschi.

Caluzzo si arrese con gioia al nemico: per lui era finita.

Rideva del suo capitano sardo che si era sparato alla testa per non farsi prendere.

" La guerra, prima o poi, finire dovrà " pensava, durante la tradotta " e io ritornerò a casa, vivo! E quel minchione si è sparato alla testa, per non darsi ai tedeschi! Il disgraziato voleva che anch’io mi sparassi! Ma che era, matto era?: si è sparato così, come sparasse un cane! E dire che aveva moglie e figli!: guardò le loro foto, prima di spararsi. E che concluse? Che vinse, la guerra? L’Italia, fra due mesi al massimo, arrendersi dovrà: è alla fine, ormai. E io ritornerò a casa, vivo! ".

Ma la prigionia era un inferno. Lui lo capì sùbito e si mise a fare il minchione, per non pagare dogana, contava: e dogana non ne pagò.

I due mesi passarono, duri nel vento dell’inverno, e la guerra continuava.

Caluzzo non riusciva a capacitarsi.

" Come mai, " si chiedeva " l’Italia non ha chiesto, ancora, l’armistizio? ".

Non poteva darsi pace.

Poi, durante un’adunata, si venne a sapere che quei figli di... buona donna degli americani si erano immischiati nella guerra.

" Ma chi glielo ha fatto fare a mettersi in una guerra non loro? " si chiedeva. " Che gliene lotte? " imprecava. " Almeno si fossero schierati dalla parte giusta: dalla parte che vincerà la guerra! " si diceva.

Passava giorni inquieti. La notte si sognava di fare becco Wilson, il presidente americano, gli stava bene.

Tutti gli espedienti per non lavorare li sapeva lui: fingeva lo scolo, riempiendosi il sesso di sapone.

Rispetto agli altri, si trovava bene e non soffriva la prigionia: solo la farne di donna sentiva.

A volte, pensava a Santìna, la sua ragazza, che lo aspettava in paese.

La rivedeva seduta sotto la scala esterna, dove lo aspettava ogni notte; ne risentiva la voce: " No, no, ci possono vedere. ", il corpo caldo e duro e, ancora, la voce affannosa: " Ancora, ancora! tocca qui: così. ".

Caluzzo diceva che la sua ragazza era come i trattori Breda: duri a partire, ma, una volta avviati, duri da arrestare.

Solo la fame di donna sentiva.

Ma Caluzzo calmo stava. E stette calmo anche quando suo compare gli scrisse che la sua ragazza lo faceva " re " con un benestante del paese vicino. Ma la calma di Caluzzo era solo apparente, ché, dentro, una forgia accesa aveva: ogni volta che pensava alla lettera, che suo compare gli aveva fatto scrivere da un maestro del paese, soffriva come per un calcio nei genitali. Sentiva, ancora, la voce del sergente milanese scandire le parole della lettera: " Caro compare, il vino, che mi avete lasciato in custodia, non è più per voi, ché. si è guastato per colpa di don Saro Crifò, che ha aperto la botte. Il vino ha incominciato ad inacidirsi quando vi hanno preso: quando di voi non si sapeva né pelle né pelo e vostra madre vi piangeva per morto. Ho sentito dire che don Saro ha intenzione di comprare il vino fra tre mesi. ".

Caluzzo aveva gridato a quelle parole e aveva fatto segnare quel punto della lettera, che le riportava, dal sergente, ancora impaurito dal suo grido assurdo e incapace di capire tanta disperazione per del vino andato a male. Ora, Caluzzo sputava su quelle parole. E rancore gridava nel suo petto.

Fu così che decise di scappare.

Scappò una sera di primavera. Il campo era immerso nella nebbia, una nebbia fitta come tessuta, l’ultimo sguardo dell’inverno. Scappò, e corse per i campi devastati dalla guerra; tra i morti senza volto, lerci di fango e sangue, che, con bocche aperte al cielo, gridavano di essere nascosti.

Si fermò dopo giorni di corsa per i campi martoriati, campi senza neve, di fango: la guerra. Si fermò ai piedi di un colle.

Lontane, le montagne ridevano di sole. Tutto era pace: lontano, il fetore dei morti e l’urlo dei cannoni.

Si fermò, ansante. Il suo sguardo, confuso, colse una mucca a gustare la dolcezza dell’erba.

Sulle colline, una casa scoppiava di bianco.

Caluzzo si abbandonò a terra, gli occhi di pianto: sbigottito. Ficcò le unghie nella carne della terra, quasi volesse martoriarla E, in un singhiozzo, gustò il suo primo sospiro di pace.

" E la guerra? " si chiese, quasi impaurito dal silenzio, mentre provava la tenerezza dell’erba, strappandola a piene mani, " dov’è finita, la guerra? ".

Guardò, con aria inebetita, la mucca che muggiva sazia.

Una voce suonò dalla collina: chiamava dalla casa. Caluzzo lasciò l’erba per la voce. Alzò, lentamente, la testa verso la voce e vide. Vide una donna che gli faceva segno. Ne distinse le parole.

" Vegna, vegna, vegna su. "

Aoh, chiamava proprio lui! E che voleva?

Si alzò, malvolentieri, dall’erba che lo riempiva di vita. A passi pesanti, risalì la collina, facendo attenzione a non pestare l’erba.

La donna gli venne incontro. Era. ancora, giovane nel corpo e nella voce, che suonava alta, e bella negli occhi e nei capelli biondi.

La donna gli sorrise e riprese a parlare. Ma lui non la capiva: a bocca aperta stava, uno scemo. Lei gli parlò con la voce alta; poi, vedendo che parlava col vento, lo prese, energicamente, per un braccio e lo condusse verso casa.

Lo fece entrare in cucina: un ampio locale, annerito da un fumo secolare. Partiva, tra i salumi, i prosciutti e le trecce di aglio, appese sul cammino, un filo di fumo ad annerire le travi del tetto.

Ad un segno della donna, Caluzzo si sedette a tavola, rumorosamente.

La donna fu lesta a rimboccarsi le maniche e ad apparecchiare la tavola.

Lui si buttò sul cibo come un pazzo. Dapprima, sembrava volesse mangiare pure i piatti; poi, man mano che si saziava, prese a mangiare più lentamente, quasi di malo gusto: non più spingendo il cucchiaio fino in gola e sorbendo rumorosamente, ma lentamente, a uso ragionasse ogni boccone. Si distraeva facilmente, ora: misurava, con gli occhi, la stanza; si grattava dalla barba, lunga da giorni, le scolature essiccate del cibo; si puliva più spesso il muso, facendo scivolare, lentamente. il braccio sulla bocca. Ogni tanto, ammiccava alla donna, che, sorreggendosi il corpo, le mani posate sull’altro capo del tavolo, lo guardava soddisfatta. Ormai, sazio era, ma lui continuò a mangiare, lo stesso, con lentezza e tenacia: il passo cadenzato dei soldati. Si fermava. soltanto, per ruttare e battersi, soddisfatto, il ventre con la mano, a uso risaccasse il cibo come un sacco vacante: quando mai avrebbe potuto mangiare, ancora?

E la donna parlava. Forse gli raccontava la sua storia. Parlava in un dialetto incomprensibile. Caluzzo abbassava la resta, ogni tanto: a dar da vedere che capiva quell’intruglio di suoni, che gli veniva somministrato ad una velocità vertiginosa; ad andarsene pensava. Pensava alla strada che lo attendeva: due giorni di treno e una notte di mare. Ad arrivare al più presto in paese pensava.

D’un tratto, incominciò ad avvertire una nuova cadenza nella voce di lei. La guardò, attento. Lei era rossa in volto, e la voce ansante, e le mani tremavano. Gli bastò guardarla e, sùbito, capì: conosceva bene le donne.

" Ha fame di uomo. " pensò; e volte fare una prova: si alzò, le si mise davanti e si passò, lenta, la mano sul sesso. Lei lo guardò, gli sorrise e abbassò gli occhi, ingoiando saliva. Caluzzo si sentì col fiato grosso e la prese alle spalle. E lei si sciolse in un debole lamento.

Poi, si sentì più libero e più leggero, a uso avesse sgravato il ventre da un enorme peso che, scendendo sull’inguine, minacciava di troncargli il sesso. Finalmente, si sentì liberato da quella mano meccanica che gli stringeva, dolorosamente, i genitali, da molti mesi, ormai.

E si sentì più libero, quando la donna, leggendo i suoi gesti, gli portò i panni borghesi del marito, da due anni sul fronte coi tedeschi.

Lui scelse quelli che gli parvero più nuovi e più adatti al suo corpo. Indossato un vestito, gridò alto, quasi un colpo di sole, e, vincendo le proteste della donna, buttò la divisa nel camino, impazzito di fuoco.

Sùbito, la cucina si riempì di fumo denso ed acre. che gli fece lacrimare gli occhi.

Lui guardò, eccitato, la fine della sua divisa; poi, prese la donna e se la godé sul pavimento, mentre lei, il petto acceso dal fumo, tossiva, rumorosamente.

Per i giorni che seguirono, Caluzzo continuò a prenderla improvvisamente, senza preavviso; d’un tratto, quando questa meno se lo aspettava, la stringeva alla vita, la sollevava in alto, poi, la stendeva a terra, le alzava le gonne e se la godeva; sùbito dopo, andava a cercare una mucca e succhiava latte, come un vitello: dando colpi di testa alla mammella. La prendeva ovunque sì trovasse: nei prati, tra le vacche, a pascolare; nella stalla, sui mucchi di letame; nel fienile, tra le paglie secche; in cucina: ovunque. La prendeva con irruenza, quasi a violentare quella pace che, altrove, non esisteva. A notte, invece, la prendeva con calma, a seguire un metodo, ed era tenero e dolce con lei.

Venti giorni stette con la donna: venti giorni di riposo e di amore, e di ricordi. E più amava e più non poteva scordare quello che aveva perduto. Sarebbe voluto restare di più con lei: un anno, forse. Ma c’era qualcosa che lo chiamava dal paese: qualcosa che gli faceva bruciare il petto come un pezzo di zolfo fuso.

E non resistette.

Quando parti, lei pianse e gli dette del pane e dei soldi, per il viaggio; anche lui aveva gli occhi di pianto.

Quando la salutò, le chiese un coltello.

" In caso di mali incontri. " si giustificò.

Prima di partire, volle possederla ancora: la prese all’improvviso, per l’ultima volta. E risero, d’amore, tra le vacche, le guance bagnate.

Piansero insieme il dolore del distacco.

Quando lui si alzò, per andare, capì un gran dolore nella sua carne più viva, come se qualcosa si staccasse dal suo corpo, per restare sempre con lei.

E non sarebbe voluto partire.

Veramente, aveva tempo: era a metà aprile e, dopo aprile, veniva maggio. E a maggio né mogli né scope nuove si iniziano, ché: " Sposa maggiolina non gode manco la vestina. ". Ma, ormai, si era messo in testa la pulce di partire.

E partì.

Un mese impiegò, per arrivare a casa. Un mese duro, durante il quale dovette arrangiarsi, tra gente che si arrangiava, per sopravvivere.

Ma, infine, arrivò.

 

 

 

 

Cap. 5

Arrivò che era maggio inoltrato.

Il maggio siciliano era nell’aria giovane, nelle mandorle verdi che indurivano il mallo, nel verde del grano che annegava i colli, nelle fave che imbrunivano di sole.

Superò l’ultima curva, che gli negava il paese, incurante della stanchezza che gli stroncava le gambe e del sudore che gli rivolava sulle guance.

Superata la curva, gli apparve, scoppio di sole bianco nel verdume, il paese, acculato, con le sue mura di gesso, sulla punta del colle.

Appena vide il paese, si fermo di botto, quasi fosse meravigliato di trovarlo ancora lì e immune dalla tanta rovina della guerra; si sentì mozzare il fiato e, con gli occhi di pianto, cercò, quasi inconsciamente, qualcosa su cui posarsi, a impedirsi cadere. Si abbandonò su un retto, che recintava un campo, e perse il viso tra le mani.

Stordito com’era, non sentì, nemmeno, il campanellìo di un gregge di pecore, che risaliva la strada, né il calpestio dei mille zoccoli, né il latrare lungo dei cani, né il grido alto del pastore.

Furono, solo, la stretta di una mano possente sulla spalla e il suono di una voce, a lui familiare, che gli tolsero il viso dalle mani.

" Che avete? ".

Caluzzo alzò il volto inebetito verso la voce e la mano che lo scrollava.

" Calu’, tornasti; davvero vivo sei? " gridò, strozzata, la voce.

" Jaunu! " gridò Caluzzo, abbracciando il pastore, di cui

vedeva, solo, l’ombra, " Jaunu! ".

Caluzzo fu il primo a rimettersi dall’emozione e riuscì a parlare al suo amico, quasi con voce ferma.

" Jaunu, " disse " la nostra amicizia non deve contare: mi devi aiutare come aiuteresti un cristiano qualunque, che si trova in pericolo. Jaunu, in pericolo sono, ché se mi piglia la legge vengo fucilato, capisci? È che io sono... ".

Ma il pastore gli fermò la bocca con la mano.

" Sssth!... " fece " non voglio sapere; che fare? ".

" Hai da correre, lesto, da mia madre e dirle che sono ritornato e che mi può trovare alla roba del nostro campo sul fiume; a poco a poco devi dirglielo: ché non resti sorpresa e gridi. Dille che venga sola, a passo lento come venisse a cogliere fave verdi o a cercare lumache, e che badi che nessuno la segua, ché, sennò, mi perde. ". Jaunu non chiese altro; raccolse le sue pecore e sali al paese. Alti, il bastone e il fischio, a richiamare pecore sbandate.

Caluzzo restò, un attimo, a guardare; lanciò qualche pietra verso le pecore, che si attardavano a brucare sui cigli della strada, e scese verso il fiume, voltando le spalle al paese, bianco dell’ultimo sole.

Manco una mezz’ora passò, e vide venire, sul bianco della strada, un’ombra nera, che spaccava il sole sul tramonto; poi, le vide imboccare il viottolo che portava al fiume e la perse di vista.

Caluzzo, non sapendo chi fosse e a che venisse, per sì e per no, corse a mucciàrsi tra le canne, incurante dell’acqua che gli penetrava nelle scarpe consunte, e si dispose ad aspettare Ma non aspettò molto, ché, di botto, davanti se la trovò, come per magarìa. Non era più un’ombra; una figura di donna. La riconobbe sùbito: era sua madre. Ma si tenne mucciàto, per prudenza.

La donna cercò a destra e a manca, girando la testa velocemente, nervosa.

Lui la fece cercare un poco, quasi fosse ragazzo e giocasse a nascondino.

La donna andò verso il canneto e cercò di vedere tra le canne; che voleva vedere, che era quasi scuro? Allora, si piegò verso terra e, battendosi le mani sulle cosce, fece il richiamo delle galline, a farsi riconoscere la voce:

" Puripù... puripù... ".

Caluzzo fu sorpreso dal grido che gli sfuggì dalla gola:

" Ma’, ma’ qua sono, ma’!… ".

Sua madre sobbalzò dallo spavento, ma, appena lo vide, gli corse incontro, gridando, alte le mani:

" Calu’!...oh Caluzzo, figlio mio, sangue mio! Ch’è vero che sei vivo? ".

E non sapeva, la povera donna, se abbracciano, baciarlo o guardarlo, ché un sogno le pareva ritrovarsi davanti quello spilungone di suo figlio, così secco e capace, solo, di tirare il naso, a non piangere; si staccò da lui, lo guardò e disse:

" Secco sei: la guerra ti asciugò, ma ti ha lasciato. Ora, tu sei vivo e manco vero pare; vivo sei tornato e vivo resterai. Ora, ringraziamo la Madonna. ", si segnò e cominciò a pregare. Finito, gli volse le spalle e disse, lentamente, cercando le parole:

" Calu’, ‘na cosa devi sapere: Santìna si marita il mese che entra. ".

" Lo so. ".

" Ma tu fermo devi stare e aspettare, paziente, che finisca la guerra, ché, se ti prendono, ti fucilano, come il figlio di comare Sara. E quella puttana, quella puttana, non vale la tua vita. ".

Caluzzo stava tutto teso, con il capo a terra, fermo: un toro pronto a caricare.

" Ma’, non è per stare fermo che sono venuto: ché, sennò, restavo coi tedeschi e non affrontavo tanti rischi e tante pene. ". rispose, sordo.

Sua madre lo prese per le braccia.

" Lo so ch’è inutile convincerti, con la testa che porti; ma, se cosa devi fare, falla con ingegno: sappila fare e non portare danno a nessuno. Ti ho portato il mangiare per stasera, questa e la chiave della roba. Tieni. Riposati e mangia, ché ne. hai bisogno, dopo tanto viaggio. E... cerca di star fermo, ascoltami, se ti riesce. Domani, ti mando tuo compare e te la ragioni con lui, ch’è assennato e ti saprà consigliare; ora, calmo devi stare. ".

Ma Caluzzo quella stessa notte agì, dando inizio ad una serie di azioni, che doveva concludersi il giorno delle nozze di Santìna. Da allora, ogni notte, quando l’ultimo colpo della mezzanotte era lontano e per le strade buie del paese correva, solo, il vento, spentasi la luce dell’ultimo lampione, dal lato più oscuro del corso e vicino alla casa di Santìna. si alzava, quasi il canto del carrettiere, una voce affogata:

" Ah, ‘ni sta strada

ci sta ‘na quaglia,

tutti la lisciano

e un cornuto se la piglia. ".

Ormai, tutti sapevano che Caluzzo era in paese, ché aveva dichiarato guerra ai due promessi sposi: ora, il paese si aspettava una scenata con sciàrra per il giorno delle nozze. C’era chi si chiedeva se don Saro avrebbe avuto il coraggio di sposarsi. Ma Caluzzo deluse i suoi paesani e il matrimonio si fece senza incidenti: ché, lui, era caldo, non pazzo. Anche don Saro restò deluso e rise delle sue paure e delle preoccupazioni che aveva preso, invitando il brigadiere alle sue nozze.

Ma, se se la rise il giorno delle nozze, non se la rise, certo, la prima notte e i giorni che, immediatamente, la seguirono.

Infatti, Caluzzo, anche ‘stavolta, scelse la notte per agire.

Lo scalpore, che suscitò la sua azione ai danni dei due sposi, superò i limiti del paese e del tempo: tanto da entrare tra gli aneddoti del paese e da essere raccontata, ancor oggi. a trent’anni di distanza, sempre arricchita di nuovi particolari comici, creati dalla fantasia popolare.

Caluzzo, per agire, aspettò che la notte occupasse il paese e che gli invitati si congedassero dagli sposi - ciò, da noi, avviene, sempre, molto tardi -; poi, quando vide gli invitati assorbiti dal buio, che già tutti i lampioni erano spenti, uscì dal suo nascondiglio e, quando vide spengere la candela nella stanza al pian terreno degli sposi, mise, nella gattaiola della porta, una trombetta a palloncino, fatta col velo di un ventre di maiale e un fischietto di canna, che suonò nel momento culminante; quindi, con la massima calma, pose un robusto paio di corna di bue davanti alla porta e scappò con tutta la velocità che le sue gambe gli permisero: ché fuggire non è vergogna, se e salvamento di vita.

Ciò che successe, sùbito dopo, è difficile da descrivere, anche se facile da immaginare.

Lesto, la casa degli sposi si illuminò e ne uscì don Saro, con le mutande in disordine, il quale, brandendo un fucile, gridava come un ossesso:

" L’ammazzo... l’ammazzo! "

Ma, quando si va da un luogo illuminato in un luogo scuròso, bisogna, prima, abituare gli occhi, se non si vuole inciampare nel primo ostacolo. Don Saro, ahimè, non lo fece e, accecato, com’era, dal buio e dalla rabbia, inciampò nelle corna e cadde a terra, spaccandosi la fronte. Don Saro capì essere aggredito e incominciò a gridare e a sparare all’impazzata.

Frattanto, Santìna, che si era ripresa, non sapendo chi sparasse e chi fosse lo sparato, cominciò a gridare.

Cessata la sparatoria, fu un lesto aprirsi di finestre e di porte ed un accorrere di gente, che rise al racconto agitato dai fatti.

Tra gli accorsi, ci fu chi, malignando sulla strana coincidenza della fronte sanguinante di don Saro con le corna insanguinate alla corona, poste proprio davanti al suo uscio, favorito dal buio, disse, tra le risate generali:

" Guardate: don Saro, nella caduta, le corna s’è rotte! ".

Questa, ovviamente, fu la tesi più accettata dal paese. e fu talmente divulgata che se ne ride anche oggi.

Lo scalpore, che suscitò questa stona, fu tale che don Saro, per lo scorno - e qui, proprio di scorno si può parlare - dovette abbandonare il paese e, forse, la Sicilia.

E passò giugno, sole cocente e grano giallo. Falce in pugno, si dice. E il sudore, spremuto al mietitore calato, finse placare la sete della terra. E luglio si arricchì di sudore e di paglia, sparse sul cerchio delle aie. Le notti riaggiornavano nei canti, nel cigolìo dei carri, per strade e per trazzère, nei deboli lumi accesi sulle aie. Agosto trovò terra boccheggiante e frutta fatte.

Passò la stagione.

Caluzzo passò la stagione con sua madre che, prima con la scusa della mietitura e della battitura del grano e poi con quella della raccolta dei fichi e della bacchiatura delle mandorle, trovò il modo di passare l’estate intera con suo figlio nel suo loco sul fiume, senza correre il rischio di aprire gli, già aperti, occhi della gente. Ma la gente aveva altro da fare, altro da pensare e da guardare; altro da soffrire aveva.

Il paese si era fatto muto, silenzio continuo per le strade, anche il cavalier Rocò, acceso interventista, aveva finito di commentare, davanti al casino dei nobili, la gloriosa avanzata del fante italiano.

Caluzzo ebbe sentore che qualcosa era accaduto dalla strada vacante, senza un cristiano che la percorresse e dalle mandorle che, appese, aspettavano, invano, di essere bacchiate.

Una settimana aspettò; e nessuno che veniva in campagna: manco suo compare, che, pure, veniva ogni tre giorni, venne.

Così andando le cose, cominciò a pensare che l’Italia aveva perso la guerra - niente di strano per lui che se lo aspettava -: si disse:

" Sono arrivate le teste di chiodo. Lo dicevo io che era persa la guerra, che era meglio non farla. A quest’ora, tira mal aria in paese. I tedeschi son venuti a prendersi il dovuto e a fottersi le donne. ".

Passò un’altra settimana. Nelle campagne, solo il vento errava. A Caluzzo pareva d’impazzire, in tanta solitudine. Si disse:

" Mia madre è vecchia e le teste di chiodo non possono farle nulla, ché ci sono tante picciòtte, da prendere, in paese, sì niente le faranno. ".

E si decise a mandare sua madre in paese.

Sua madre ritornò dopo mezz’ora, gli occhi di pianto e la fronte di sudore.

E, così, seppe che, in paese, tutti erano malati di un male che portava la febbre, stringeva il petto e afferrava la gola, e che la gente moriva a manate, come al tempo del colera.

" Maria, quanti morti; Maria, quanta pena e quanto pianto! ".

Picciòtti e picciòtte, la meglio gioventù, entro tre giorni si consegna! Maria!… Che castigo di Dio! Chi lo poteva immaginare? E quante case vacanti che ci sono, ché sono tutti morti. " disse sua madre, e si mise a elencare i parenti e i conoscenti morti: " Pure tuo compare ‘Tano e Jaunu, tutti sono morti! E poi, che manco cura si conosce? che niente si può fare? Solo il vino può salvare.

E settembre passò, moria continua, continua sepoltura, continuo tocco di agonia.

E venne ottobre, che portò la pioggia e allontanò il malanno. Lenta fu la ripresa della vita.

E venne novembre, con la pace avanti e pieno di speranze.

La vita si riprese, anche in campagna, col ritorno, dal fronte, dei soldati, amorosi di fare e di scordare i danni e le pene della guerra.

Caluzzo, ritornò in paese, ma non ci si raccapezzava più: il paese, che, esteriormente, pareva integro dai mali della guerra, ne portava, ancora, vive piaghe, ché, dove non aveva potuto la guerra, aveva potuto la spagnola, che aveva scarnato il paese ad intere famiglie. Invano, per giorni e giorni, si affannò a cercare amici, parenti e conoscenti; nessuno trovò: in quelli che trovò lesse l’amarezza della morte e il suo triste passaggio sui loro volti senza luce. Chi era sopravvissuto, era apatico e stanco di affrontare la vita. Così, si decise a lasciare il paese: comprò quattro vacche e tornò nel suo campo sul fiume.

E lenti passarono i difficili anni del dopoguerra: disordine e furore, amarezza e miseria crescenti. La guerra aveva scarnato il paese. E il dolore scoppiava nelle bocche e scavava solchi profondi sui volti asciutti delle madri senza più figli e delle mogli senza più sposi.

Alla guerra erano seguite le malannàte, la miseria scoppiava in ogni casa e, sui volti dei bimbi, segnava, già, linee di sofferenze precoci.

L’amarezza abbruttiva gli nomini e li riempiva di un cieco furore che faceva gli occhi brucianti, come quelli dei lupi; e negli occhi di lupo, degli uomini, si leggeva un sordo rancore contro la terra che non dava più pane e li faceva soffrire della stessa dolorosa pena di chi deve odiare il suo sangue.

E giravano, gli uomini, il paese, gli occhi fissi nel vuoto: amanti traditi.

E quegli anni passarono lenti, quasi trattenuti dalla miseria, stagnante che divorava il paese.

E la miseria asciugava le case e i volti dei bimbi e scarnava il paese ad intere famiglie.

Ora, che la guerra era passata, si avvertivano le ferite della guerra: ferite, lente da passare, ogni giorno sempre più preoccupanti.

E la disoccupazione bruciava gli animi e annegava speranze.

E furore si leggeva negli sguardi.

Ma, in mezzo a tanto furore, Caluzzo calmo stava: ché, in tanta miseria, bene se la passava, coltivando il suo campo di sei tùmoli di terra, coi quattro piedi di vigna e le sue macchie di fichidindia. In quelli anni duri, ricchi di delusione e di miseria stagnante, lui bene se la passava e se ne fotteva, altamente, dei problemi che travagliavano il paese. In quelli anni, si era sposato e aveva avuto due figli.

Certo, era rimasto un po’ scosso dalla scissione socialista e, ogni tanto, gridava contro i comunisti; il suo era un gridare con se stesso, così per sfogarsi. per togliersi amarùme dalla bocca: in paese, manco un comunista c’era. Ma, nel ventidue, quando giunsero in Sicilia gli echi del movimento fascista, Caluzzo capi, assai lesto, da che parte menava il vento e si fece fascista.

E, una notte, alla testa di un pugno di uomini, dopo avere scassato la farmacia di don ‘Tano Parisi, fece bere l’olio di ricino a tutti i benestanti del paese.

" Credevo si trattasse di un movimento socialista. " si giustificò, poi.

Dipoi, i due anni che seguirono furono di fortuna per lui: fu fatto segretario del Partito ed ebbe altri due figli e, per ogni figlio che ebbe, acquistò dieci tùmoli di terra.

Ma, nel ventiquattro, alla morte di Matteotti, fece una minchionata che provocò scalpore in tutta la Sicilia, la più grossa che potesse fare: durante un pubblico comizio, si dichiarò socialista e disse che Mussolini era un pupo, traditore del sangue socialista, che, pure, uomo lo aveva fatto.

" Mussolini. " continuo’, gridando, alternata la voce, " facendo la rivoluzione a base di olio di ricino, ha creduto di toglierci, dalla pancia, tutte le idee di libertà: che, giustamente, gli italiani con la pancia ragionano e non con la testa: se non capiva ciò, Mussolini, una rivoluzione di sangue avrebbe tatto e non di merda. Ma, ora, i limiti ha passato, ché non si è accontentato di pulirci, solo, la pancia, ma anche la testa: ha voluto uccidere la libertà. Sì, paisàni miei, uccidendo Matteotti, ha voluto uccidere la libertà, ha voluto chiuderci la bocca con una manata di gesso. Ma, quanto è vero Dio, ch’esiste, Mussolini pagherà la morte di Matteotti, pagherà lo scotto, sì, la pagherà! ".

Ma lui la pagò, e conobbe l’olio di ricino.

La stessa notte se lo portarono.

Fu condannato a due anni di confino.

Dal confino, calmo tornò, che glielo lisciarono bene, il pelo.

Ma, con la giustizia, si sa: fatti la nomina e coricati.

E Caluzzo si era fatta la nomina, e, così, per ogni minchionata, che succedeva in paese, veniva fermato dalla legge, e quindici giorni in cella, per lui, sicuri erano.

Ma, quando Caluzzo capì che aveva il nome leggero con la giustizia e col fascio, pensò di scappare. Tra il pensare e l’agire, Caluzzo non metteva pupi in mezzo. E, così, dopo avere affidato la sua salma a dieci tùmoli di terra a mezzadria a suo compare, ché non mancasse niente a sua moglie e ai suoi figli, prese il peschereccio, che partiva da Licata, e partì clandestino per l’Africa.

Giunse a Tunisi e vi si stabilì.

E venne un’altra guerra più dura della prima: dolore e distruzione, fame e amarezza accecanti. E donne, e bimbi, e vecchi: tutto travolse l’odio. E l’uomo divenne bestia: insaziabile bestia, assetata del sangue che affogava il mondo. E il sangue si confuse e il mondo fu scarnato. E bombe e fuoco, e pianto e sangue, e bocche morte aperte. Insaziabile bestia, la guerra divorava il mondo. E non ci fu casa né grotta, né monte che non fu raso al suolo. E non ci fu albero che non fiorì da un morto, né terra che non bevve sangue. E il mondo fu scarnato. E, per fuggire morte, si nascose, l’uomo, nel cuore della terra, la casa delta morte. E la casa della morte diede vita, e la casa della vita, morte. E il mondo fu scarnato.

Caluzzo sentì strapparsi l’anima, quando seppe che in Sicilia era giunto il mostro della guerra. Ma l’orrore lesto passò. E lui poté tornare in Sicilia, dopo la liberazione, con qualche soldo in tasca e tanta fame di pace, amoroso di godersi, finalmente la famiglia.

E in Sicilia trovò la pace: incredibile cosa, dopo tanto sangue; inconsolabile cosa, dopo tanto pianto; assurda cosa, dopo tanta guerra.

In paese, non trovò casa senza un morto, senza tomba, senza

pianto, focolare non baciato da una bomba.

Invano cercò di raccapezzarsi in paese: il paese urlava, ancora, l’orrore della guerra, dilaniato dalle bombe, impazziva d’angoscia. Un urlo terribile e muto imbavagliava il paese: i morti erano morti; te case, scheletri senza voce; i vivi erano larve.

La pace era venuta, recando un’altra guerra: nel cuore di ogni uomo c’era un fronte.

Caluzzo non resistette ad interrogare quel silenzio immenso, quelle mura sofferenti, quei volti senza vita. Fuggì il paese: comprò quattro vacche e ritornò in campagna, per lavorare la sua terra sul fiume coi suoi quattro figli, che si erano fatti alti e grossi, come sanpaolòni.

Alla gente che lo sfotteva, dicendogli che bastava una sola testa di tùmolo in paese, senza il bisogno di quelle dei suoi figli, rispondeva:

" Figli miei, di sicuro, sono. ", risicando una lite ogni volta.

Ma in paese, raramente, saliva, e scansava occasioni. Ma le occasioni, sempre, si possono scansare?: come si possono scansare quando ti vengono a cercare, quando cercano di colpire la carne delta tua carne, il sangue del tuo sangue? Che stai fermo, fermo stai, quando l’occasione, il messo comunale, viene a cercarti, infìno in culo al diavolo, per dirti che l’Italia vuole tuoi figli per farne carne da macello? No, non stai fermo; quarantotto fai. E Caluzzo il quarantotto fece. Picchiò il messo comunale come un povero Cristo, lo bagnò nel fiume, lo legò con una corda e, seguito dai suoi figli, lo trascinò in paese, come fa il giudeo col Cristo, quando, in paese, fanno le stazioni della settimana santa.

Caluzzo entrò in paese gridando:

" I miei figli non partono, ché non sono italiani: siciliani sono. ".

E tutto il paese, dietro a lui, a gridare:

"Non si parte, non si parte! ", ché, in paese, avevano quasi tutti figli di leva.

Pareva carnevale.

Quel corteo, con Caluzzo, in testa, che trascinava il messo comunale, e tutto il paese, dietro, che gridava come uno solo:

" Non si parte, non si parte! ", fece ridere i soci del casino dei nobili che, attratti dal frastuono, erano usciti dal circolo e si erano adunati sul marciapiede più ampio della piazza. Ma non risero a lungo, ché il maresciallo volle fermare il corteo e, allora, l’acqua si allordò. Caluzzo s’infiammò e, gridando:

" Non si parte, non si parte! ", seguito dai suoi compaesani, caricò i carabinieri che, vedendo il malo vento, si rifugiarono in caserma.

Da quei momento, il corteo si scatenò e divenne un’orda selvaggia: e furono saccheggiati i granai dei ricchi e il dazio fu bruciato.

Se non ci furono morti, fu solo grazie a quel santo che protegge le teste calde, in momenti come questo.

A sera, tutto era pace; dei fatti del giorno restava, solo, il vento carico di fumo.

L’indomani, il paese pareva avesse scordato tutto. Ma chi non scordò fu il maresciallo, che, per niente, era stato nominato " Malacarne ": e malacarne si dimostrò, quando, otto giorni dopo, si recò al campo sul fiume, per arrestare Caluzzo.

Caluzzo fu condannato, e fece nove mesi di galera. Finita la galera, tornò pecora, come dopo il confino. Ma a qualcosa era servita la galera: nove mesi di mura e di parlare con se stesso e con le solite bocche dei suoi compagni di pena erano serviti a qualcosa: aveva capito i comunisti e si era fatto comunista.

Perciò, nel quarantotto, si accese di nuovo, e fece il diavolo a quattro per protestare contro l’attentato a Togliatti. Con la bandiera, listata a lutto, - che lo credeva morto -, seguito dai suoi concittadini, scorrazzò per il paese, gridando:

" Morte ai capitalisti, morte ai fascisti, morte ai democristiani e ai preti! ".

Ma la cosa finì li, ché i democristiani e i preti si tennero mucciàti a pulirsi le brache, cacate per il terrore, e lui se la cavò con tre giorni di fermo alla caserma e una multa, per manifestazione non autorizzata.

Questo fu l’ultimo colpo di testa di Caluzzo, che si mise a fare il sensale di bestiame.

Fu, solo, nel quarantanove che s’iscrisse al Partito Comunista e aprì, in paese, una sezione del partito che diresse in modo esemplare.

Ritornava a riscaldarsi e fare minchionate, solo, in tempo di elezioni: per raccogliere voti per i comunisti, girava per le case del paese con l’immagine del Cristo risorto sul petto, a dimostrare che coglieva voti per il vero partito di Cristo.

Durante i comizi elettorali, per smentire i democristiani e I preti, che accusavano i comunisti di essere gli assassini della Chiesa, sventolava la rossa bandiera del partito e diceva che, non a caso, il Redentore teneva la bandiera, rossa, nella sinistra: bandiera rossa che, guarda caso, era la bandiera dei lavoratori, amorosi di pace e di lavoro, e sinistra che era l’ala del parlamento riservata ai comunisti. Che volevano di più, se i segni di Cristo parlavano chiaro?

" Farisei, " gridava dal suo palchetto, rauca la voce, " che avete scordato le parole del Cristo: " In verità, vi dico che i ricchi non vedranno il cielo. "; " È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri in paradiso. ". E che dicono comunisti?: " In verità, vi dico che i beni dei ricchi saranno espropriati e dati alla povera gente. "; " E’ più facile che il mondo crolli, che i ricchi continuino a far sorprusi. ". " Tu, uomo, ti guadagnerai la vita col sudore della fronte. " dice Dio: noi, comunisti, sudiamo; e voi, preti, e voi, democristiani, come ve lo guadagnate il pane, ah? coi latrazzìni? ".

E, a chi accusava i comunisti di volere un governo dittatoriale, rispondeva che non era vero: ché Garibaldi e i suoi picciòtti, con la camicia rossa, non avevano, forse, liberato l’Italia?

" E, a proposito di dittature e di camicie, " gridava, preso dalla voga, non siete stati voi preti a volere la dittatura con le camice nere, dicendo che nero e nero non tinge? ".

Per questo, invitava i suoi compaesani a non credere nei preti e nei santi; ai santi del partito, i soli in cui lui credeva, dovevano credere: il Santo Redentore e San Giuseppe Garibaldi.

In tutte le occasioni, sempre di testa sua faceva, anche a fare il sensale: se stimava un prezzo, andava contro i suoi stessi clienti, per tenerlo.

I suoi paesani, conoscendo la storia di Caluzzo, malignavano sui suoi frequenti viaggi in città; ma male lingue erano, ché sessant’anni passati aveva.

Nino riuscì a mucciàre, a stento, con la mano, il sorriso che non poté evitarsi.

Zi’ Caluzzo forte parlava, come sempre, da dittatore. E le mille voci degli altri, i discorsi sugli affari conclusi al mercato e sui malati dell’ospedale, si perdevano in sussurri, anzi perdevano la loro stessa essenza di discorsi per divenire un sussurrio unico, afono, sopra il quale dominava la voce di Caluzzo.

 

 

 

Cap. 6

Nino alzò, ancora, gli occhi verso quelle bocche che si muovevano veloci, credendo di parlare, amorose di vantare i loro affari, di contare, per confronto, le loro pene: bocche sdentate, giovani, pungenti di barba, allegre, amare, sofferenti; mute. Fra quelle mille bocche, conobbe l’amarezza di due labbra mute, murate dal dolore. Oltre le labbra, un viso, ormai, sconfitto dalla vita e due occhi che erano la vita. Una mantellina nera copriva misericordiosamente, quel misero viso che, nelle mille rughe che lo distruggevano - ferite di anni e anni e, poi ancora, anni di sole e di dolore - gridava tutta l’amarezza di vivere.

Nino riconobbe sùbito quel viso, ma, a scanso di sbagliare, volle essere sicuro e si sforzò di vedere meglio quel volto di rassegnata amarezza, mucciàto dalla nera e spessa mantellina che, dalla testa, scendeva lungo il petto. Sì, proprio lei era: ‘gnura Maria. La vista gli portò gioia, una goccia di miele nelle vene: lei una sua seconda madre era.

‘Gnura Maria faceva la lavandaia per campare suo marito, che non aveva mai mangiato lavoro e che, da dieci anni, stava in un fondo di letto, malato. Epilessia, diceva lui; ma alcolizzato era: sempre tremava.

Dei quattro figli, che aveva avuto, solo ‘Tano era vivo; vivo per modo di dire, ché sempre malato era. I due figli più grandi erano morti in guerra o dispersi in Russia, come diceva il bollettino del governo, che, poi, era lo stesso; il mezzano era morto a Barbuscia, scacciato tra le balàte della miniera di zolfo, e non ne avevano colto manco le ossa; il più piccolo, ‘Tano, benedetta la morte che lo piglia, era sempre malato. ‘Tano era coetaneo di Nino: giocavano sempre, bambini, sulla piazza grande, carica di ortiche, o alla cava di rena, poco fuori paese: qualche volta, andavano, pure, sulla linea a scivolare sugli appoggi a scivolo del ponte della ferrovia, ma raramente vi andavano, ché ‘Tano lesto si stancava e non c’era manco piacere.

‘Tano sempre malato era stato: dal mastro stava male per il puzzo della suola, a macerare nell’acqua. Il mastro gli diceva:

" Tu non sei cosa di scarparo; figlio di nobili dovevi nascere: ti ci vuole la ciambelluzza, la curetta, l’aria sana. Ih... poche cose ci vogliono per curarti? Il feudo del barone La Lumìa ci vuole, e manco basta. ".

Eppure, ‘gnura Maria, poverella, col suo andare e venire dal fiume, che aveva le canne delle gambe gonfie come una sanguisuga abbuttàta, ne spardò soldi per il figlio. E quante bocconàte diede ai dottori, ai guaritori, ai fattucchieri. E dove non lo portò?: a San Cataldo da Teresa Vermi che, dice, faceva miracoli, a Palma, a Canicattì; pure, a Modica lo portò. Una volta, pure, a padre Gioacchino da Canicattì lo votò e, per promessa, gli fece portare la tonachetta marrone, a uso cappuccino, per due anni, che il carùso si vergognava ad uscire. Ch’è, soldi risparmiò? Ch’è, una madre soldi può risparmiare per un figlio malato? Ma si può spingere il braccio più in là di dove arriva?

Queste cose Nino le sapeva, ché `gnura Maria era comare e vicinella di sua madre. Le sere d’inverno, quando il vento urla minaccioso sui tetti bassi delle case e gli uomini, senza lavoro, satiando, vanno a scordare nelle bettole la giornata vacante e l’amarezza, `gnura Maria andava a casa di Nino, si sedeva sulla sedia di corda, che si portava da casa, e, dopo aver sistemato la latta di sarde, piena di brace, tra le gambe, contava storie ai carùsi, che, gli occhi appennicàti dal sonno, amorosi di " conti " e di calore, si raccoglievano attorno a lei. Era sempre sorridente e dolce, nel narrare di " Betta pelosa, che aveva il vestito di luna " o di " Pippino e il pesce fatato ": scordava l’amarena, nel narrare, svariava la mente.

" C’era una volta, " incominciava, aggiustandosi la latta tra le gambe e facendola sparire nell’ampio delle gonne, " un pescatore, che, poverello, era rimasto vedovo con tre carùsi casa casa "; già gli occhi dei bambini si arrendevano al sonno, ma lei continuava a narrare piano piano, il volto sereno e gli occhi persi nel " conto ".

Se, qualche volta, narrava cose amare, cose che portava il giornale, lei, lamentando conosciute amarezze, diceva:

" Guardate coma’, c’è gente che ha più guai di noi. ".

Non si abbatteva mai, mai si lamentava. Manco quando, a sera alta, il paese spariva nel pozzo della notte, livellando, nel sonno, nobili e villani, pecore e lupi, il marito rientrava a casa, ubriaco come una scimmia, e sbolliva il vino, raccolto nel giro delle bettole, picchiandola a sangue. Agli estranei non dava mai soddisfazione. Alle vicine, che, vedendole i lividi sul volto, le chiedevano curiose:

" Che fu, che siete tutta nera? ", lei rispondeva:

" Niente, niente fu, caddi, nella porta sbattei. ".

Solo, con la madre di Nino si confidava, per confronto, per vuotarsi la mente dalle pene.

Ma se la madre di Nino diceva male del marito di lei:

" Mi’..., quando gli uomini sono così, benedetta è la morte che li piglia. ", lei rispondeva:

" No, coma’, no, non dovete dirlo, ché mio marito è il padre dei miei figli. No, no. Mai sia, Dio! E, poi, un uomo buono è, sapete? E quando mi vuole bene, quando è sereno! Ma che è colpa sua è, se ha il malo vino? ".

Se qualcuno, poi, risicava a dir male del marito, lei a spada tratta, lo difendeva.

Il marito, nel suo vino, era geloso. E se, qualche sera, tornando a casa, trovava sua moglie a casa di Nino, diceva, semplicemente:

" ‘Gnura Mari’, dentro! " e, poi, la riempiva di legnate.

La madre di Nino, conoscendo il marito di sua comare, quando assisteva a queste scene, sentiva scuotersi tutta nella sua carne pii viva e, segnandosi, diceva a suo figlio:

" Preghiamo per comare Maria, ché, ora, i guai del lino vede.".

" ‘Tano all’ospedale è: " pensò Nino, guardando `gnura Maria, fisso, nel viso, cercando di leggerle nel volto, quasi fosse un sillabario aperto, il motivo del suo viaggio in città, " ché, se no, che ci fa qui? ".

Una voce, volutamente mielata, lo tolse ai suoi pensieri.

" Ora di partire è, ch’è permette che mi siedo a guidare? Si alza o guida lei? ".

Era lo chauffeur.

Nino capì essere minchionato e sentì salirsi il sangue al cervello, ma riuscì a calmarsi: che doveva fare una sciàrra, con una lite doveva cominciare?

Si alzò, santiando nel suo intimo.

Maccicàva bestemmie, quando una voce lo chiamò:

" Signor lei, lei con gli occhiali... ".

Nino si volse, istintivamente, verso la voce, e vide un uomo, sulla cinquantina, che gli faceva segno dal fondo della corriera.

" Sì, lei, lei con gli occhiali, " continuò l’uomo " venga qui, ché c’è posto. ".

 

 

 

 

 

Cap. 7

Fu mentre Nino si faceva strada, fra le mille imprecazioni della gente, ammassata tra i sedili, per raggiungere il posto, che la corriera partì. Dapprima, la corriera ebbe un sussulto, un ritorno improvviso di vita, poi si mosse, di botto, veloce, a fuggire la marmitta, rombazzante, che assordava la piazza. Riuscire a raggiungere il posto fu un castigo divino; ma, infine, vi riuscì. Ecco, il sedile stava lì con la sua fodera rossa, in finta pelle, consunta e strappata in più punti. Dagli strappi, affiorava la gommapiuma nera, creando curiosi ricami. Le larghe tracce di unto, intere vite disciolte, che correvano tutto il sedile, scolorando la fodera, e l’imbottitura arresa al peso dell’uomo, abbattuto dal viaggio, non invitavano, certo, a sedersi. L’uomo, che lo aveva chiamato, stava acculato verso il finestrino: il corpo, raccolto a lasciare spazio, sfuggiva alla camicia stretta e spariva in un largo paio di calzoni cachi, alla militare; il volto annegato in una barba da mesi, era tutto un grido; gli occhi, smarriti nel fondo delle occhiaie, guardavano fermi; i capelli d’acciaio, giocati dal vento, rizzavano artigli.

Nino non ebbe manco il tempo di ragionare sul modo di sedersi, ché un urto improvviso della corriera gli fece perdere l’equilibrio e lo sbatté sull’uomo. Restò sorpreso, Nino, e nauseato. Riuscì, appena a tartagliare, in un filo di voce:

" Oh, mi scusi! " e si ritirò al suo posto, come un lumacone, rosso in volto di vergogna.

L’uomo mosse una mano in un movimento stanco, come a cacciare una mosca.

" Macché! " disse, e annullò, con la mano, ogni altra scusa.

Nino si aggiustò meglio nel suo posto, si sistemò il nodo della cravatta e sospirò, dolce la voce:

" Grazie, grazie per il posto: viaggiare all’in piedi duro era. ".

" Non c’è motivo: " annullò, ancora l’uomo " dovere. ".

Poi, alzando la voce, a farsi sentire dagli altri, aggiunse:

" E’ da scimuniti precisi restare dritti per un’ora, se c’è un posto vacante, no? ".

E i suoi occhi giocarono lesti nel fondo delle occhiaie e assunsero il lucido malòso del riso; e i denti spuntarono saldi e allineati, fra i mille rigiri della barba, come le pietre dei muri di cinta che si facevano un tempo, e risero; e la bocca scattò, di botto, sorpresa, e la risata scoppiò improvvisa, alta, assordante, inumana, incontrollata, e zittì la caciara delle voci dei viaggiatori.

Nino restò sorpreso, offeso, colpito fin nella sua carne più viva e guardò nauseato quell’uomo che rideva, scompostamente, senza freno e senza più traccia di umanità.

Con tutto il suo corpo rideva: coi capelli, alzati dalla corsa del vento; con gli occhi, neri e lucidi; con le mani, senza posa; con la bocca, che s’indovinava a tratti nei giochi della barba; col corpo, che si alzava e piegava ad ogni colpo di risa.

Nino restò inchiodato al suo posto, non sapendo che pesci pigliare: ridere anche lui, a dar da vedere agli altri viaggiatori una battuta spiritosa, afferrare quell’uomo per la barba e scagliarlo fuori, menarlo di santa ragione, gridare a rimproverarlo o alzarsi sdegnato dal posto?

Decise di alzarsi.

Stava per alzarsi, quando una mano dell’uomo lo fermò, forte e duro, una tenaglia.

" No, no, prego, " disse l’uomo, gli occhi e la voce, ancora, persi nel riso, " non se ne vada, non se la prenda: non ridevo di lei. Perché avrei dovuto ridere di lei, ch’è la conosco?; come mi potevo permettere? Ma le pare! No, non ridevo di lei; di costoro: dei miei compaesani, che preferiscono viaggiare stando in piedi piuttosto che sedersi accanto a me. Vede, lei, nella disgrazia di non conoscermi, ha avuto la fortuna di viaggiare seduto; loro, i miei compaesani, che hanno la fortuna di conoscere a mia storia, hanno avuto la disgrazia di non sedersi: eh, sì, vede, loro preferiscono viaggiare scomodi e non se lo sognano manco di sedersi accanto a me. Sì, perché, vede, io sono pazzo o, meglio, passo per pazzo che è lo stesso. ".

La corriera si faceva strada fra le mille luci della città. Poi, il buio.

" Caltanissetta fini: " disse l’uomo, guardando dal finestrino, " siamo in aperta campagna. ". Poi, si rivolse verso Nino, che lo guardava inebetito. " Dove scende? " chiese " al secondo paese? Bene, anch’io: avrò modo di spiegarmi meglio. " e gli tese la mano. " Sarà bene che mi presento: " disse " ‘Tano Chiarò, un tempo, pupàro di prima, oggi pazzo. " e rise.

Nino guardò, sospettoso, quella mano d’un pezzo col braccio e si ritrasse nauseato.

L’uomo guardò la sua mano, che pareva scolpita nel braccio, la girò a controllarla e la riportò sulle ginocchia.

" Che fa, non mi dà la mano?; " chiese, il sorriso negli occhi e nella fronte, " la capisco. Non fa niente: vede, il piacere non sta nello stringere la mano di un altro, ma nel tendere la propria, nel vedere tendere la nostra mano obbediente al nostro ordine, nel sentirsi circolare il sangue nel proprio corpo, nel sentirsi vivi in ogni momento, anche per tendere la mano, sì. Ma lei non mi ascolta. Ah, capisco: lei si sta chiedendo com’è che uno, così, dall’oggi al domani, può cambiare: può accettare l’idea di essere un pazzo e rassegnarsi ad essere pazzo. Ecco, le dirò: prima, ero sereno ed ero un infelice; ora, sono un pazzo e campo felice. No?; me lo sa dire, lei, che responsabilità ho, io, come pazzo, difronte alla gente? nessuna. Vede, ho la barba lunga: una tortura in meno. Lo faccia lei. No, lei non può farlo: la gente lo deriderebbe e lo costringerebbe a tagliarsela al più presto. Ma io, io posso fare tutto quello che mi passa per la testa: cantare, uscire nudo, ridere, piangere, dannarmi l’anima e gridare di gioia, senza dar conto a nessuno: posso agire da pazzo, insomma. E le pare niente tutto questo, niente le pare? oh, le posso garantire che, se tutti capissero la felicità di un pazzo, tutti saremmo pazzi e non ci sarebbe più nessun savio in giro: nessun’infelice con il senno a posto, e tutti saremmo felici. Mi dica, non ne sente caldo lei?: non sente il desiderio di spogliarsi e di viaggiare nudo, così come lo ha fatto sua madre? Sì, sì, che lo sente; ma non può farlo. Io, invece, io, come pazzo, posso farlo: vuole vedere che mi spoglio? ".

Nino lo guardò allarmato, rosso di furore, e cercò di afferrargli le mani, a trattenerlo.

L’uomo scrollò il capo e sorrise, ancora, negli occhi e nella voce.

" No, non terna, non lo faccio: " riprese, e la sua mano fece un disegno nell’aria, " se lo facessi, si monterebbe un ballo delle vergini, succederebbe un casino e lei sarebbe disturbato. No, non tema, non lo faccio: per rispetto a lei. Ma lei, invece, lei è costretto a starsene lì, seduto, col suo vestito, con la camicia col colletto stretto e la cravatta come un cappio, e deve stringere i denti per non sentire la voglia che ha di strapparsi i vestiti di dosso e di buttare tutto all’aria. Lei deve sforzarsi a fare quello che non vuole e non fare quello che vorrebbe; vivere in un modo che non vuole; recitare una parte che non sente e che non ha scelto lei. E, così come lei, tutti, tutti siamo costretti a recitare una parte che non scegliamo noi: una parte che ci appioppa la vita, senza nemmeno interpellarci. E milioni di uomini, ogni giorno, ci alziamo con un solo pensiero nella mente: interpretare bene la nostra parte fino alla fine, anche se non la sentiamo. Dalla A alla Z dobbiamo interpretarla, così come c’impone la vita, la gente che ci guarda e che, alla nostra nascita, ci appioppa una parte, senza nemmanco domandarsi se la parte si adatta all’attore. E l’uomo deve vivere la sua parte, anche se non la sente, anche se è una dannazione continua; e, se non gli calza su misura, non può cambiarla con un’altra, ma deve adattarsi ad essa, adattare le parole, i gesti, le abitudini, i pensieri, tutto: pure il suo corpo deve adattare alla parte che gli è stata imposta e senza smaniare: perché, solo adattandosi ad essa, può vivere una vita. Perché, vede, l’uomo legno è: nessun uomo è superiore ad un altro, quando nasce. E, fino a quando la vita non gli assegnerà una parte, resterà una pecora qualunque: una cosa buona come il pane, sì, ma senza vita, senza una parte propria che lo distingue dagli altri. È un po’ come per il nome: un uomo senza nome é un uomo perso in mezzo agli altri uomini, un uomo che non conoscerà mai se stesso, un uomo che si cercherà sempre e che non riuscirà mai a trovarsi, che si chiederà sempre chi è e non avrà mai risposta. Così, un uomo senza parte non è un uomo, è un senza vita, e non sarà mai sicuro se esiste. E, allora, viene la vita, la gente ci appioppa una parte: e se uno è detto Rinaldo, Rinaldo dev’essere, anche se sente di essere saraceno; se è detto professore, professore dev’essere, anche s’è un cardòne; se uno è onorato dalla vita, appena nasce, avrà sempre la pancia gonfia di onore e sarà onorato da tutti; se è disprezzato, sarà sempre disprezzato da tutti e si disprezzerà egli stesso, anche senza un motivo; se uno è detto fiore, sarà flore; se è detto merda, merda sarà e si schiferà egli stesso e sentirà il suo puzzo ogni momento. E ognuno si carica la sua parte sulle spalle, in un fascio di pena, e la recita fino alla fine, la vive fino alla fine: deve viverla, per forza, anche se lo fa vomitare, anche se è contro la sua vocazione, e non può rifiutarla, come non si può rifiutare un malo nome: perché, se uno si ribella, se vuole cambiar parte, la vita lo distrugge. No? Bene, s’immagina lei, se Rinaldo, arbitrariamente, così, d’un salto, decide di non essere più Rinaldo e si schiera con i saraceni, per combattere i cristiani, se decide di cambiar parte senza il consenso del pupàro? no, non se l’immagina lei? Il pupàro lo piglia, lo strappa, lo fa a pezzi, lo squarta, lo guasta a colpi di accetta, lo brucia! Precisa è la vita: se uno si ribella alla sua parte, alla sua vita, se vuole cambiar ruolo, la vita lo distrugge. E l’uomo deve muoversi, deve agire come la vita gli impone, deve dire le parole e fare gli atti che la vita gli impone, deve dire le parole e fare gli atti che la vita gli assegna. Vede, quando ero pupàro, mi arrovellavo sempre il cervello a cercare parole nuove da mettere in bocca ai miei pupi, cercavo sempre nuove storie, nuovi gesti. E nello stesso modo di come io imboccavo le parole ai miei pupi, mia moglie, mio figlio, la situazione della famiglia, la gente, i casi della vita imboccavano a me le parole, le azioni, gesti. E mai che potevo agire secondo la mia testa, secondo come la mia vocazione di uomo mi suggeriva. Ma, anzi, prima di agire, di parlare, di muovermi provavo la mia parte; non una, mille e una volta la provavo: e prima di pensare, anche se il pensiero è una cosa nostra, che resta nascosto agli occhi degli altri, prima di pensare mi chiedevo se quel pensiero, che stava per spuntarmi nel cervello, era buono o malo agli occhi della gente e se si accordava alla mia parte: preciso facevo con i pupi, prima d’incominciare l’opera. Fu allora, mentre ero un pupo qualsiasi nelle mani cieche della vita, che decideva, così, per caso, il mio destino, e, nello stesso tempo, un pupàro, che decideva la parte dei suoi pupi, mentre ero vittima e prepotente, fu allora che mi saltò in mente la pulce di fare un confronto tra la farsa umana, ché è la vita, e l’opera dei puri; e questo confronto non lo trovavo. Avevo voglia di considerare, pensare, arrovellarmi, battere e ribattere, parlare con me stesso, niente trovavo, nessuna differenza trovavo tra la vita e l’opera dei pupi. E, finalmente, capii perché non riuscivo a distinguere me stesso da un pupo qualsiasi, ‘Tano il pupàro da Rinaldo, perché la vita e l’opera dei pupi sono la stessa cosa: la stessa cosa siamo io e il pupo. Eh, sì, amico mio, la vita è tutta un’opera di pupi; con una sola differenza: che mentre l’opera dei pupi è verità, la vita è falsità. No? Bene: Rinaldo che cos’è, non è, forse, un pezzo di legno di olivo? Il pupàro piglia un troncone di olivo, lo scolpisce, gli tinge la pelle di bianco, lo veste, lo fa parlare, lo fa agire da Rinaldo, gli fa ammazzare i saraceni; e che diventa quel troncone di olivo? Rinaldo, Rinaldo per davvero diventa? No! sempre legno resta, troncone di olivo era e troncone di olivo rimane. Troncone vestito da Rinaldo, sì, ma sempre legno resta. E manco i carùsi ci credono che quel pupo, che si spacca in quattro ad ammazzare saraceni, è davvero Rinaldo, nessuno ci crede. Ma se la vita prende un cardòne di uomo, nato e pasciuto cardòne, e decide di farlo diventare professore e gli fa recitare, a pennello, la parte di professore, lo veste, lo fa vivere, lo fa agire, lo fa parlare, lo fa sentenziare da professore, chi, chi potrà smascherarlo, chi potrà dirgli: " No tu non sei professore; cardòne sei. "? Nessuno potrà smascherarlo, nessuno avrà il coraggio di farlo: di contrariare la vita! E tutti lo saluteranno, e tutti si scappelleranno al suo passaggio. È così, amico mio, così! Bisogna capirlo e rassegnarsi all’idea che gli uomini siamo solo dei poveri pupi senza anima nelle mani cieche della vita e che, come un pupo, l’uomo non può rifiutare la parte che la vita, il destino, la gente, o come càcchio vogliamo chiamarla, gli assegna. Ma se uno non può rifiutare la sua parte, può cambiarla; sempre, rispettando la legge dell’opera dei pupi: quando potrà cambiare parte il pupo, quando Rinaldo potrà diventare un saraceno? quando avrà cambiato pupàro, e il nuovo pupàro, trovandosi un pupo già fatto nelle mani, vestito da saraceno, gli assegnerà la parte di saraceno e non sospetterà manco che quel pupo, vestito da saraceno, che si trova pronto tra le mani, un giorno è stato Rinaldo; quando potrà cambiare parte l’uomo? quando abbandonerà la vita che lo circonda, il paese, con la gente che gli ha assegnato una parte, e si presenterà a nuova gente, in un nuovo paese con un altro vestito e un’altra parte in mano: e, allora, la gente gli assegnerà la parte con la quale si presenta e non sospetterà manco che quell’uomo, prima, aveva un’altra parte, un’altra vita. No? Bene, io che sono? un quaraquaquà, un mortone di fame qualunque con la nomina di pazzo, per giunta. Bene, domani, vado in un altro paese, mi vesto bene, parlo italiano, dico che sono dottore, mi pago la nomina di dottore guaritore, e che divento? dottore, dottore a tutti gli effetti divento, e c’è poco da fottere".

Nino cercò di parlare, ma l’uomo lo prevenne:

" Sì capisco che vuol dire: ma per me, per me che resto? Un morto di fame, giusto? Non è questo che vuole dire? Sì, è vero, per me resto un quaraquaquà. Sì, ma a me che importa restare quaraquaquà, se gli altri mi credono dottore? Non è, forse, per gli occhi degli altri che viviamo? non è, forse, per gli altri che lei si tiene tutto stretto nel vestito col caldo che fa?, chi, chi vive per se stesso? Nessuno. E Poi, se io recito la parte di dottore come si deve, se prendo la parte sul serio, non finirà anch’io per credere di essere dottore? E, allora, quando anch’io riuscirò a convincermi di essere, realmente, un dottore, ah, che magnifica interpretazione: che magnifica finzione: che magnifica vita sortirà Sì, amico mio, tutto il segreto della vita sta qua: nel sapere interpretare la parte che s’impersona, nel sapere dire le parole giuste, secondo la parte, nel tono giusto e nel momento giusto, e con le mosse giuste: nel dare tutto se stesso al personaggio. E allora, se uno recita bene la nuova parte che si è scelta all’inizio, allora, una volta partiti bene, sarà la vita stessa, la gente che ci sta a guardare, il pubblico che ci applaude e che ci critica, a darci quella parte. Ma se uno tartaglia, se s’impappina, se sbaglia una battuta, un gesto, allora, ritorna, quaraquaquà, e se non vuole ritornare, quaraquaquà, allora pazzo diventa. No? Bene: le conto la mia vita, che da sola parla. Vede, io dapprima, facevo il pupàro. Prima, fare il pupàro era un’arte. Io lavoravo in un circo, un circo grande che le pare?: un circo che aveva tutto quello che un malato può desiderare, ogni sorta di animale c’era: cavalli, colombe, cani, scimmie, pure un orso ammaestrato c’era; c’erano le ballerine e i trapezisti, i domatori e i giocolieri, gli attori tragici e i buffoni, i cantanti e i musicisti. Io facevo il pupàro. Poi, venimmo in questo paese e ci capitò una malannata, come a tutti può capitare: piovve per un mese. E non si poteva travagliare: il tendone fu squarciato dalla pioggia. Gli animali dovevano mangiare, lasciamo perdere gli uomini che ragioniamo e ci lasciamo morire ragionevolmente; ma gli animali non vogliono né conto né ragione e mica si saziano con le parole, come gli uomini, niente: avevano fame e morivano di fame. Così, mettemmo debito su debito, e così fallimmo, e così stravendemmo, e così il circo si guastò. Insomma, per accorciare il discorso, ognuno prese i suoi ferri e andò per la sua strada, stringendo la cinghia e chiudendo la fame nella gabbia della ragione. Io che sapevo fare? Il pupàro. E, così feci il pupàro. In paese, non c’era un’opera dei pupi e io feci l’opera dei pupi. Dapprima, le cose andarono bene: la gente veniva e io potevo campare. Dipoi, venne il cinematografo e cominciarono i guai: la gente cominciò a non venire ed io a riabbassare i prezzi, fino a quando non venne più nessuno. Ma io continuai, lo stesso, a recitare, anche per le sole sedie, si. E ch’è, non capivo che non c’era niente da fare? Ma che potevo fare?: solo il mestiere del pupàro conoscevo e facevo il pupàro. Vede, l’uomo ha bisogno di sognare: deve vivere la sua vita, per non arrendersi, e deve viverla così, come la sente; anche se viverla a suo modo è morire, non deve mai arrendersi, l’uomo, mai tradirsi e non vivere la vita che gli altri vorrebbero imporgli. E, così, Rinaldo, ogni sera, continuò ad uccidere i saraceni senza gloria; solo, per le sedie che non hanno anima e non capiscono le imprese di un pupo. E la gente mi sfotteva, sì mi sfotteva, ché pagavo la casa di vacante pieno, rideva di me, mi faceva i conti in tasca, pure i carùsi mi sfottevano. Ma la gente, la gente può capire che uno ha bisogno di sognare per vivere anche una vita di morte? No! la gente non ne accetta di sogni e non vuole sentire né chiacchiere né tabacchiere di legno: vuole fatti, fatti, che si possono calpestare con i piedi, vuole; e non sogni. E allora, allora, dice che quell’uomo, che combatte la nebbia e il vento con i pugni, è pazzo. E c’è poco da fottere, quell’uomo è pazzo. ".

La strada passava, sotto gli scossoni della corriera, e quell’uomo parlava, parlava; Nino non l’ascoltava: aveva altro da fare, altro da pensare aveva. In mente aveva un lavorio mai avuto, univa le frasi del giornale alle frasi dell’uomo, e si sentiva i pensieri corrergli lesti e freschi e vivi nel cervello e nuove idee svilupparsi come conigli: tutti i suoi sensi erano tesi a montare la parte: la nuova parte che doveva presentare ai suoi compaesani e che doveva vivere, da allora. Si sentiva nauseato ed euforico insieme. E, man mano che elaborava la parte, vedeva nascersi una vita, la propria, tra le mani e, sempre più, si convinceva che quell’uomo misero, seduto al suo fianco, aveva ragione: che la vita era così, come gliel’aveva rivelata quell’uomo; stava tutto nel recitare una parte e, a recitarla bene, tanto da impressionare se stessi, si poteva trarre una magnifica vita, una vita costruita a proprio convincimento: secondo la propria vocazione.

Immerso, com’era, nei suoi pensieri, non si accorse che, frattanto, era giunto in paese. Fu il suo vicino di posto che lo strappò ai suoi pensieri e gli disse che erano giunti:

" Scusi, mi fa passare? Ho da scendere alla prima fermata: in punta del paese. ".

Nino si alzò.

L’uomo lo salutò, con la mano svolazzante.

" Se si ferma molto, ci vedremo; e se ci vedremo, faremo finta di non conoscerci: per non disturbarla. Tante cose. "concluse.

" Tante cose. " rispose Nino.

Nino restò in piedi, per vedere se qualcosa era cambiato in paese. Macché, niente di niente: il paese era lo stesso di sei anni prima: i medesimi volti, allineati sul marciapiede, a scrutare nella corriera; le stesse case e le solite botteghe, sulla strada diritta; la farmacia di don ‘Tano, con la solita insegna scolorita; la bettola di Cola manomonca; la cantonata, dove aveva inizio la via di casa sua, col caffè di Sasà Papìa, posto proprio sul cànto, e, ancora quattro passi, sulla Piazza Grande, la fermata della corriera.

Nino scese dalla corriera, aiutato dai suoi compaesani, che gli porsero la valigia.

 

 

 

Cap. 8

Appena scese dalla corriera, Nino ebbe l’impressione di essere salito su di un piedistallo più alto del campanile della Madrice: tanti erano gli sguardi diritti su di lui. Sentì gli occhi dei suoi compaesani posarsi sul suo corpo, pesanti, curiosi, indagatori. Ne ebbe sùbito coscienza, conobbe, lestamente, il peso di quegli sguardi e sentì curvarsi le spalle sotto il loro peso: un occhio puntato, una boccia di piombo, e mille erano gli occhi. Sulle prime, tentò di darsi un contegno indifferente, controllando il passo e i movimenti Poi, sentì il calore e le fitte del rossore montargli sul viso e le sue mani cominciarono ad annaspare, le braccia crearono gesti inconsueti, il passo prese il ritmo di corsa. Prese la strada dritta quasi correndo, inseguito dal cicalìo dei curiosi che gli correvano appresso. I carùsi lo lasciarono, appena imboccò la viuzza nera dove abitava.

Un fumo denso di paglia, che pigliava la gola e bagnava gli occhi, diceva che i villani erano a casa e che le loro mogli preparavano la cena.

Silenzio fermo davanti, sbocciava sussurri alle sue spalle.

Nino affrettò, ancora, il passo. E, in un attimo, che gli costò mille anni di ansia, fu davanti alla sua casa, dalle tegole basse sulla porta a spartiacque.

Entrò in casa, quasi spinto dagli occhi della gente che lo guardavano da dietro le porte. E, senza volerlo, si trovò nella stanza, sorpreso, indifeso, abbagliato dalla luce intensa che illuminava la casa.

Istintivamente, girò gli occhi attorno.

La sua casa era sempre la stessa: un ampio locale dal tetto basso di tavole con, in fondo, due alcove coi letti; la cucina, sempre, a lato della porta.

Poi, vide sua madre, nella sottana nera fino ai piedi, seduta sulla sponda del letto a farsi mille domande: le domande che la solitudine ci grida nelle orecchie, nel cuore, in tutti i sensi.

Sua madre, appena lo vide, strinse un poco le palpebre, spingendo gli occhi, come a vederci meglio; di poi, lo riconobbe col sangue, che le fece capire più degli occhi. Restò ferma, sua madre, sulla sponda del letto e gli sorrise, appena un cenno del capo.

Lei era giunta in quel momento in cui il soliloquio diventa colloquio. Perciò non fu meravigliata, quando si vide davanti il figlio che credeva lontano: quante volte aveva parlato con quel figlio lontano mille miglia; quante volte aveva visto quel corpo misero, confuso nel largo vestito americano, immersa nelle mille visioni che la lunga solitudine le aveva create nell’animo: quante volte, dopo lunga lontananza, ci capita di vedere, nel buio della nostra solitudine, le anime a noi care, di ragionare con loro, come se le avessimo con noi, sul nostro cuore, come se le voci, che ci grida la nostra solitudine, fossero, realmente, uscite dalle bocche care dei nostri cari.

Lei, in quell’attimo, persa nel vuoto della sua solitudine, stava parlando col figlio: perciò non si sorprese; il suo essere lo accettò come un fatto compiuto, accaduto mille anni prima, prima del tempo. Ma la sua carne ne fu scossa: il suo corpo sentì disintegrarsi in mille atomi dal desiderio di saggiare quella visione, di accertare che fosse vera, e la sua bocca scoppiò in un grido muto. Il grido le tornò in gola, scoppiandole nel petto, come se la voce, dopo tanto silenzio, avesse paura di nascere da quella bocca e di affrontare il mondo, e si fosse rifugiata, immatura, nel petto di lei. Sentì scoppiarsi il petto da quell’urlo non nato. E il suo corpo sentì, ancora, il bisogno di credere che ciò che vedeva era vero e non frutto della sua solitudine. E diede un altro grido, che le liberò petto: un grido che voleva essere il nome di suo figlio; che proruppe, prima, in un brontolio, e, poi, in un urlo agghiacciante, quasi la lingua, disabituata dal lungo silenzio cui era stata dannata, avesse dimenticato a formulare quel nome. Il grido si levò alto, sul silenzio delle case. E gridò, e gridò, ancora, sua madre, incapace di altro, urla angosciose, quasi fosse sgozzata ed urlasse per l’orrore del sangue che le usciva dalla gola, non avvertendo, ancora, il dolore. Poi, si zitti di botto e, come spinta da un dolore improvviso, corse verso il figlio.

Nino si sentì colpito da quella massa di affetto, un filo di grano in un mare di vento.

L’urlo della donna aveva chiamato i vicini: e la casa fu riempita di gente e di carùsi, che guardavano come mammalucchi.

Davanti a quegli occhi, perso nelle grandi braccia della madre, che lo scuotevano tutto, come un pupo, Nino si sentì offeso, quasi la madre gli avesse scoperto parte delta sua carne mucciàta. Si sentì nudo, in quel momento, e si sorprese a pensare come non sentisse niente tra le braccia della madre: tra le quali, bambino, era annegato in dolcezza.

No, non si aprono i propri sentimenti, le proprie intimità, davanti a tanta gente, sotto tanta luce.

Nino provò un gran senso di vergogna, quando capì di non nutrire niente per sua madre: e cercò di coprire quel vuoto con le mani, con gli occhi, con le labbra, a uso mucciàsse la sua ignudità, cercando, negli occhi, le lacrime che si era immaginato versare.

Ma la vergogna durò poco, ché i vicini capirono chi era e lo strapparono dalle braccia della madre per salutarlo, abbracciarlo, ammirarlo nel suo largo vestito americano. E mille braccia si tesero per abbracciarlo, mani per stringerlo, bocche per baciarlo e interrogano, mille occhi per studiarlo.

In paese la voce del suo arrivo corse lesta, e, sùbito, la sua casa fu piena di gente.

Nino non sapeva dove mandare prima gli occhi, le mani, le parole: un precipizio di gente se lo contendeva.

Ovunque girava gli occhi, trovava gente che aspettava una parola, un gesto: che il nuovo pupo presentasse la sua parte.

Nino capi, sùbito, che quella gente, stipata in ogni angolo della stanza, appollaiata sui letti e sulla cucina, non aspettava altro che lui narrasse la sua parte, e basta: che quelle bocche, che gli chiedevano: " Ni’, come stai? ", non aspettavano altro che lui rispondesse. Ricco sono: fortuna feci! " o " Niente, povero sono, quaraquaquà! ". Ma lui era stanco e stordito, e non aveva manco la forza di riconoscere i parenti e di salutarli, contabene di pensare, di studiare la parte e di esporla come se niente fosse. E fece finta di non sentire la voce allarmata che gli gridava nei sensi: " La parte, Ni’, la parte! ".

In mezzo a tanta gente, a tante voci che gridavano, a tanti strilli di carùsi, Nino si era confuso, si sentiva sconvolto e vuoto di pensare: perdette se stesso. Quando si ritrovò, si trovò seduto e senza giacca, con le braccia nere fuori della camicia e le gambe accavallate, col cervello, ancora errante, vacante, e incapace di capire il come e il perché, di cogliere le domande e di dare una risposta.

" Tiriamoci i conti, così con le dita: alla femmina " pensò Nino " da quanto tempo sono giunto, due ore, quattro ore, una giornata?; e chi raccoglie più il tempo? E ‘sta gente tra i piedi ad affollare la casa. Che ho detto, che ho contato? " si chiese. Ma, poi, vide i loro volti, ancora in attesa, e si chetò. " Niente, " si disse, in un sospiro, niente! ".

Sua madre gli si avvicinò con una tovaglia bianca nelle mani, per asciugargli i1 sudore, ché non era decenza col caldo che faceva.

" Mia madre la tovaglia di lino della dote usci. " pensò. Le sorrise.

" Fame hai fatto? " gli chiese la madre, asciugandogli il viso rivolante.

" No. " le rispose. " Pensa un po’ se, dopo n giorno che non mangio, posso far fame! " penso.

" Quando hai fame, me lo dici. " disse sua madre.

" Sì, " le rispose " ma arrivi e partenze riempiono le case e mai le pance. " e indicò, con gli occhi, la gente che affollava la casa.

 

 

 

 

 

Cap. 9

Una donna, una vicina di Nino, entrò di préscia nella stanza e bisbigliò un nome, un nome che fece zittire il cicalìo alto che stonava la casa:

" Don Michelino Urso! ", si fermò a riprendere fiato, " Don Michelino sta venendo a salutare Nino. ".

Don Michelino Urso era famoso in paese: era uno dei pochi paesani che aveva fatto fortuna in America, nell’America del Nord, dove era stato quarant’anni. Dopo quarant’anni di America, era ritornato in paese con un sacco di soldi, ad allevare invidia fra i suoi compaesani. In paese, si era fatta una grande casa quadrata tutta bianca, che era una bellezza a vederla brillare in faccia al sole, sulla piazza grande, con la balconata di marmo e con lo scritto, "Vietata l’affissione", così piccolo che si leggeva appena, sulle pareti esterne imbiancate ogni anno.

A Lògaro, poi, aveva comprato quaranta salme della meglio terra, ricca di acque e di trazzère, con una casina persa in una vigna che non si vedeva dove incominciava e dove finiva. A Caltanissetta, poi, aveva comprato cinque appartamenti sulla via Cavour, il centro, che affittava a professori e a dottori. E, dice, che aveva case pure a Palermo.

Don Michelino entrò, salutando tutti, alte le mani, arioso nel suo pantalone di lino bianco, nelle scarpe a punta di pelle lucida nera, nella camicia sgargiante aperta sul davanti. Al suo ingresso, tutti si alzarono a salutarlo: gli uomini si scoppolàrono e gridarono, solo un voce:

" ‘Sa benedica. ".

Don Michelino alzò, ancora, le mani, come a placare una folla plaudente.

" Comodi, " disse, lucidi il cranio e il viso di luce e di piacere, " comodi! ", e si diresse verso Nino, alte le braccia, ad abbracciarlo.

" Au ariù? " chiese a Nino, mentre lo abbracciava.

Nino restò allocchìto.

Rise alto don Michelino.

" Ah, ah!... non hai capito? " disse, sedendosi, " America del Sud, eh? Spagnolo, niente inglese. E che volevi capire, ché io inglese parlai? Ma, vediamo se mi capisci ora: como està usté? Ah, ah, mi capisci ora! Come stai? ".

Nino sorrise.

"Bien, mui bien. " disse, e si sedette accanto a don Michelino.

La madre di Nino si avvicinò a loro.

" Che gliene pare, non è magro? " chiese a don Michelino.

" Nino dice che sta bene, " rispose don Michelino " e se lo dice lui, dobbiamo credergli " e rise, scoprendo denti di oro. Poi, prese le mani di Nino, disse:

" A noi: che ci conti? ".

A queste parole, tutti trattennero il fiato, muti e fermi come statue: sapevano che, con don Michelino, Nino avrebbe parlato. Tutti anche i carùsi e le femmine, che, pure, cercavano la calunnia per parlare, si zittirono e tesero le orecchie in attesa: Nino doveva parlare, raccontare la sua storia, presentare la sua parte, e non poteva scappare davanti a don Michelino, ché, lui, pure le pietre faceva parlare.

La madre di Nino colse, lesta, una sedia e si sedette davanti a loro, le mani, mai ferme, perse nel grembo, voltando le spalle alla gente che si era radunata dietro.

Il momento era solenne. Si sentiva il volo delle mosche: i bambini, che piangevano, vennero buttati fuori, le madri diedero il petto ai lattanti, per chetarli. Tutti aspettavano la storia di Nino, aperte le bocche. Ma Nino li deluse tutti e, a guadagnare tempo, prese a lamentare le amarezze patite in Venazzonia; poi, improvvisamente, quando tutti aspettavano che concludesse, presentando la sua parte, di punto in bianco, cominciò a parlare del viaggio, del malo viaggio, stanchevole, che aveva fatto.

" E che credevi, che migrare era come andare alla miniera dei soldi e che bastava scavare e riempire il sacco? " lo interruppe don Michelino, stirando, in un sorriso, le rughe del suo volto rosso. Non ferite di sole, le sue rughe, non bestemmie di amaro lavorare, non solchi di lacrime salate; rughe appena tracciate, come pieghe di un bimbo.

Aveva fatto fortuna, il vecchio e, ora, parlava con l’accento strascicato del Bronx, masticando, assaporando le parole. Assaporava, sempre, le parole, parlando di se stesso. E gli occhi gli si chiudevano, gli si perdevano lontano, quasi rivedesse, in una specie di sogno, quello che aveva passato.

" Quando partii io; " continuava Michelino " e che fu ora? uh!.. tanto tempo fa: quarant’anni di America, quindici qua, cinquantacinque anni fa fu: " scrollò la testa, pietosamente, " la vita di un uomo! " sospirò " Quando partii io, dicevo, non esistevano ‘sti eroplen, che ti volti e ti svolti e, prima che ti chiedi che fu?, sei arrivato, e ‘sti transatlantici; solo vecchie barcàzze, come calderoni, c’erano, e ci volevano venti trenta giorni di mare per arrivare in America, se si arrivava. E, allora, l’America non era come oggi che l’hai tutta in mano, no; era un deserto senza legge. In tutte e due le Americhe ho bazzicato: del Sud e del Nord. Prima, andai in Argentina, bella terra, che era un’altra Italia: tanti italiani c’erano. Poi, andai ad Antichisiri, nell’America del Nord, ché c’era mio cognato, e restai là. Dapprima, feci il sarto, il mio mestiere; dipoi, mi misi in società con mio cognato e montammo una fabbrica che faceva cento paia di pantaloni al giorno: sì, cento paia di pantaloni al giorno faceva, manco a contarli. Io, quando partii, niente avevo, ché m’impegnai i capelli per partire: e i testimoni ancora freschi e pieni di vita sono e possono testimoniare. Ora, ringraziando Dio, sono quello che sono, sto bene: ho i figli sistemati buoni e la testa quieta per la vecchiaia. Me li feci i soldi, sì me li feci, e ora me li godo: che male c’è? ". E guardò, a sfida, le facce sudate dei presenti. " Me li feci i soldi; ma quarant’anni di America, senza manco una venuta, quarant’anni di travaglio a stoccafièle, pure io me li feci! ". Così conchiuse il vecchio e calò, di botto, la testa in un silenzio di pietra.

Qualcuno ruppe il silenzio, tossendo, e tutti ripresero a parlare. Ma il parlottìo durò poco, ché don Michelino alzò, di scatto, la testa e, rivolto verso Nino, ordinò:

" A te, ora. ".

Il silenzio tornò denso, nell’aria densa.

Non c’era via di scampo per Nino: era chiuso e, ora, doveva parlare, per il buono o per il reo. E Nino, le mani congiunte sul grembo, prese a parlare a bassa voce:

" Quello che ho fatto io, non é niente al vostro confronto: io fui aiutato dalla fortuna, che, in un minuto, ripaga mille anni di mala sorte. E niente avrei fatto, se non avessi avuto un inizio difficile, ché, quando uno è abituato a patire per tutta la vita, se un giorno non patisce festa gli pare. Ma dobbiamo andare al giorno del mio arrivo in Venazzonia, perché fu in quel giorno che cominciò la mia fortuna. In Venazzonia, arrivai in ritardo, ché la nave aveva perduto due giorni per il malo tempo. E così, quando Dio volle che sbarcassi, non trovai mio cugino com’era stabilito. Io, non conoscendo né la terra né la lingua, restai vicino alla dogana, più confuso che persuaso e sarei ritornato con la stessa nave, se avessi avuto i soldi. E, così, mi fermai vicino alla dogana, ché mi dicevo: " Prima o poi, mio cugino venire dovrà e mi troverà. ". E non mi mossi di lì per nulla al mondo: manco per andare a comprare un po’ di spesa o per andare a fare i miei bisogni mi alzavo, ché pensavo: " Se mio cugino viene, proprio quando sono via, e non mi trova, perduto sono ". Due giorni restai vicino alla dogana, seduto sopra la valigia; la notte, dormivo per terra, come i mietitori, le braccia, senza forza, per cuscino. Il terzo giorno, non ne potevo più, per il caldo e la fame che mi scippava la vista. Quel giorno, il sole bruciava, che era una maledizione divina, e la roba più leggera pareva un forno infame sulla carne; così, mi levai la giacca e la misi sulla valigia. Dovevo sembrare un morto di fame, come quello che si abbandona all’acqua del fiume, con la barba lunga, i panni in disordine e il volto inseccàto da due giorni di digiuno. Straccato dalla calura senza pietà, mi ero addormentato. Fu un rumore di passi che mi svegliò; appena sveglio, vidi tanta gente, tutta in fila, che entrava nell’ufficio della dogana. Ma, lo ricordo come fosse ora, un uomo, sulla sessantina, vestito che ci volevano dieci occhi per guardarlo, si staccò dalla fila e si diresse verso me. Io, appena lo vidi, intontito com’ero dal sole e dalla fame, che male c’è?, lo scambiai per mio cugino e feci per alzarmi, ma, dipoi, capii e stetti fermo. Quest’uomo, appena mi arrivò vicino, mi guardò, malamente, come a dirmi: " Perché non lavori alla tua età? "; poi, si mise una mano in tasca e mi buttò una moneta nel berretto, con la faccia di uno che butta uno sputo in una sputacchiera. Appena vidi questo, bedda Madre!, il sangue alla testa mi sentii: mi alzai, di botto, presi la moneta dal berretto e rincorsi l’uomo. Poco mi ci volle a raggiungerlo, che era vecchio e camminava piano, e così, lo afferrai per un braccio e gli misi la moneta nella mano. Lui si voltò di scatto e mi guardò fermo, ma io lo guardai più fermo di lui e gli dissi: " No, Nino Bunàca non ne vuole di carità: mai ne ha chiesta; solo lavoro vuole: si riprenda la moneta. ". Lui, appena mi sentì parlare, mi guardò sorpreso, poi, mi sorrise e disse: " Italiano, siciliano come me sei? ". Credetemi, per poco non Io abbracciai: finalmente, avevo trovato uno che parlava cristiano. Non potete capire come si è amorosi di carne nostrana, quando si è lontani, in una terra scordata da Dio. E così gli aprii il cuore e gli raccontai la mia storia: che aspettavo mio cugino che non veniva più e tutto. Lui mi chiese l’indirizzo di mio cugino. Io gli diedi una lettera dove c’era scritto a stampatello, bello chiaro. Lui lo lesse, mi guardò e disse: " Qua ti posso aiutare, sì. Aspetta un momento. " e si allontanò. Aspettai. Poco dopo, lo vidi tornare con una macchina e mi disse: " Sali, l’autista sa dove portarti: gli ho dato l’indirizzo di tuo cugino e, fra poco, potrai abbracciarlo. lo non vengo con te, ché devo partire per l’Italia. Tante cose. ". Io gli baciai le mani e non sapevo come ringraziarlo, ché, se non era per lui, avevo voglia di aspettare. Lui si schernì e mi disse: " Niente, niente, non ci pensare: se non ci aiutiamo tra di noi, dove corre il mondo? E che siamo cani? Piuttosto, se avrai bisogno, io, fra tre mesi, sono di ritorno, e se non avrai trovato travaglio, vieni da me o mi telefoni, o mi scrivi, e non avrai preoccupazioni. Tieni il mio indirizzo: non si sa mai. ". E mi diede un cartoncino con il suo indirizzo, che io misi nel portafoglio, in mezzo al passaporto. Io gli promisi di andarlo a trovare, e ci salutammo. Mezz’ora dopo, ero faccia a faccia con mio cugino. Lui mi fece festa, ma, sotto sotto, capii che era preoccupato, che aveva la faccia di un’oliva appassita. E così, dopo che mi fece lavare e mangiare e che ci contammo le passate, mi disse che non sapeva come fare per trovare un lavoro adatto per me, ché c’era stata la crisi e tante altre cose. Insomma, mi fece capire che lavoro per scarpai non ce n’era e che mi dovevo accontentare del primo lavoro che trovavo. " Se cerchi un travaglio per te, non arrivi alla strada che spunta. " mi disse " hai voglia di aspettare e, mentre aspetti, muori di fame. Se, invece, ti accontenti di qualsiasi lavoro, puoi lavorare sùbito. Capisco che potrà essere duro, ma potrai campare fino a quando non troverai un lavoro adatto per te. ". L’indomani, mio cugino mi trovò un lavoro duro, così come mi aveva promesso: un lavoro di piccone e pala. Volente o nolente, non c’era altro, tre giorni dopo, mi misi a travagliare e tra la rabbia che avevo in testa e la stanchezza continua, che m’impediva di pensare, mi scordai di quell’uomo e di andarlo a trovare. Un anno faticai, un anno che non voleva passare. Ma, poi, mi stancai, ché un lavoro duro é scavare strade sotto il sole che spacca le pietre, e mi dissi: " Meglio morire di fame che continuare così. ", e mi licenziai. Così, mi misi a fare lo scarparo ambulante; era un lavoro duro girare per i paesi a riparare scarpe, ma era il mio mestiere. E continuai così per, quasi, un altro anno, guadagnando, appena. di che campare. Tutto il Venazzonia girai, e tante pene passai. Ma il ricordo di quell’uomo, che mi aveva aiutato i primi giorni del mio arrivo, manco per la testa mi passava: si dice che quando uno è in fondo ad un pozzo solo l’acqua vede, e io solo l’acqua vedevo. Fu per caso che mi ricordai di lui, così come per caso avvengono le cose più importanti della vita di un uomo: la nascita e la morte. Questo mio modo di campare, notti intere passate all’addiaccio, giorni e giorni senza mangiare, prima o poi, doveva costarmi caro. E caro mi costò: un dì, aggiornai che non avevo manco la forza di fiatare: avevo preso la malaria. Mi portarono all’ospedale quelli dell’albergo dove dormivo. All’ospedale mi chiesero il certificato di identità ed io tirai fuori il passaporto. Ora, fu mentre sbrogliavo il passaporto che ritrovai il cartoncino con l’indirizzo di quell’uomo. E fu così che mi ricordai di lui e mi giurai di andarlo a trovare, appena uscito dall’ospedale. Sennonché, in ospedale incontrai una monaca italiana ed io la pregai di scrivergli una lettera. La monaca. poveretta, vi mise tutta l’anima e scrisse una lettera che avrebbe fatto piangere pure le pietre: contava tutta la mia passata, dal mio arrivo in Venazzonia, e la condizione in cui mi trovavo. ".

Nino alzò la testa per chiedere da bere a sua madre, che aveva gli occhi di pianto e lo guardava pietosa.

Nella stanza, il silenzio era sospeso.

Bevve, Nino, e riprese a parlare:

" Sapete che cosa successe? Mai al mondo potreste saperlo Dieci giorni dopo che spedii la lettera, vidi spuntare nella mia camerata il direttore dell’ospedale, che, con una faccia che chiedeva pietà, mi disse: " Ma perché non me lo ha detto prima di essere parente di don Ignacio Fontana? ", don Ignacio Fontana era l’uomo che mi aveva aiutato e a cui avevo fatto scrivere, " Avrei provveduto a sistemarla meglio ", e diede ordine di sistemarmi in una cameretta, a solo, con un’infermiera di guardia giorno e notte. Io guardavo stordito e non capivo, ancora, com’era stato possibile un simile cangiaménto. Fu l’infermiera che, dipoi, mi disse che don Ignacio Fontana aveva una fabbrica di scarpe, la più famosa del Venazzonia ed una catena di negozi in tutto il Paese. " In Venazzonia " mi disse " tutti le scarpe ‘Fontana’ portiamo. ". Io non riuscivo, ancora, a capire se sognavo o se era vero. Ero ancora confuso, quando, due giorni dopo, vidi spuntare, nella mia stanza, Don Ignacio. Sulle prime, non lo riconobbi, ché era molto cangiato: è proprio vero che mutiamo ogni giorno, gli uomini. Molto magro era, e più invecchiato dalla prima ed ultima volta che l’avevo visto. Lui, appena mi vide, mi guardò fisso, ché neanche lui mi riconobbe, ché anch’io avevo avuto la mia botta ed ero molto cangiato più secco, più scuro. E, così ci guardammo un po’ fissi, sforzandoci di ricordare. Io ero confuso e non sapevo che fare, e, penso che, sarei scappato se lui non mi fosse venuto incontro, ad abbracciarmi. Mi abbracciò e mi baciò, come fossi stato suo figlio. Abbracciati, ci contammo le passate. Lui mi contò le sue sventure che erano più dure delle mie: sua moglie e suo figlio, che aveva la mia età, erano morti in un incidente e, così, era rimasto solo e senza parenti al mondo. " E perché non sei venuto prima? " mi chiese, dopo che gli contai le mie passate. " Ti ho aspettato per tanto tempo; anzi, ti ho cercato, dopo la disgrazia di mio figlio, ché tu gli assomigli, ma di te conoscevo solo il nome e così, non ti ho potuto trovare. Ma ora che ti trovai, non ti lascio andare, manco se mi scappi. ". Ma io non avevo intenzione di scappare, e glielo dissi. Ridemmo insieme. Nove giorni dopo, lasciai l’ospedale e fui caricato sopra una macchina, più larga e più lunga di una corriera, che mi portò in una casa che faceva venire il desiderio: una casa che, senza offesa per nessuno, " sollevò la testa, a guardare don Michelino, a sfida, negli occhi " di pari qui non ce ne sono. Una casa grande quanto un intero quartiere, tutta bianca come una sposa, quadrata. Quaranta stanze aveva, tutte fresche come una chiesa, messe attorno ad un giardino, pure, quadrato, con ogni sorta di fiori ed una vasca con l’acqua continua al centro: una casa di salute era. Appena arrivammo, don Ignacio mi disse: " Qui starai come a casa tua. Ti riposerai per due mesi, ché sei malato ed hai bisogno di riposo. Poi, dipende da come starai, verrai a trabahàr con mi, che ti devi buscare il pane che ti mangi e, poi, perché c’è un posto vacante che ti aspetta da due anni. " e sorrise. Trascorsi i due mesi, mi ero fatto grosso e forte che manco mi conoscevo più. Don Ignacio mi disse: " Bene, ora sei guarito: ti sei fatto che è una bellezza a guardarti. Domani, al lavoro. ". E, l’indomani mattina, scendemmo al travaglio. Il primo giorno di lavoro fu tutto un girare per la fabbrica. Dove ti voltavi, vedevi macchine e operai. Più di cento operai c’erano, che facevano diversi lavori: chi faceva le tomaie, chi le suole, chi badava alle scatole ed a sistemare le scarpe paio a paio: ognuno aveva la sua occupazione, insomma. Finito di girare la fabbrica, don Ignacio mi fece entrare in una stanza grande, con tante signorine, erano le segretarie, e mi disse: " Qui lavoro io e da qui comando tutto. Ti piace? ". Io non risposi. Lui sorrise e mi disse: " Ora, vediamo di trovare un posto per te.". Mi guardò curioso e continuò: " Sai fare solo lo scarparo, vero? ". Io mi vergognavo ad ammetterlo. Ma, siccome lui insisteva, calai la testa e dissi pian piano: " Sì, lo scarparo, solo lo scarparo so fare. ". Lui mi sorrise e mi batté, forte la mano sulla spalla. " E ch’è, ti vergogni di essere scarparo? Io non mi vergogno: anch’io sono uno scarparo. ". Mi guardò serio, poi rise ancora. " A farlo apposta, " disse " a farlo apposta, non riusciva, né ora, né mai al mondo, né per tutta la santissima eternità. Se lo facevamo apposta, non ci riusciva: uno scarparo, che ha bisogno di uno scarparo, incontra uno scarparo. Ah, la vita! ". E rise. Poi, mi chiese: " Ma lo sai fare bene il tuo mestiere?". Io calai ancora la testa. " Possiamo provare. " dissi. " Bene, proviamo: " disse lui " domani, mi farai vedere che sai fare. Devi disegnare, se ci riesci, un nuovo modello di scarpa: una bella scarpa da donna. ". Ma io non aspettai l’indomani. ché, appena rientrai a casa, mi misi a lavorare di lena. E così, prima che venisse il giorno, avevo schizzato una scarpina da donna. Glielo feci vedere a giorno fatto. Lui, appena lo vide, disse: " Bene; chi lo avrebbe detto?: non pari dalla faccia. E dire che io pago disegnatori patentati. Razza di testoni, come fossero dottori li pago. Poi, vieni tu, con quella faccia di chi non ha colpa, e mi guasti i birilli e mi confondi tutto: in una notte, così per dimostrarmi che ci sai fare, mi tiri fuori un modello che viene l’anima a vederlo: un modello che tutti i miei progettisti, messi insieme, non mi sanno fare manco in dieci anni di lavoro continuo.". Rise, poi aggiunse: " Bene, ci sai fare. Ora so quale lavoro ti farò fare. Ti va di fare il capo dell’ufficio progettazione? ". Io non riuscivo a crederci e mi aspettavo che, di botto, mi dicesse: " Bah, abbiamo scherzato; ora vattene. ". Ma lui mi sorrise, poi, mi prese per un braccio e mi disse: " Vieni che ti faccio vedere il tuo ufficio e conoscere i progettisti.". E mi portò in un salone veramente grande, con tanti tavolini e tanti uomini, tutti con il camice bianco, che disegnavano. In quel salone non si vedevano muri; solo finestre con grandi vetrate, che, per la luce che c’era, pareva di essere fuori, sotto il sole. Giunti nel salone, don Ignacio batté le mani, per attirare l’attenzione dei disegnatori, e mi presentò: " Signori," disse " Questo è il signor Nino Bunàca, creatore di questo bellissimo modello che si chiamerà ‘Niña’. Da oggi in poi, il signor Bunàca sarà il vostro direttore. ". Poi, rivolto a me, disse: " Questo è il tuo posto. Ti piace? Bene, cerca di farli lavorare ‘sti quattro gatti vestiti di bianco. Ma, ora, vieni con me, ché ti debbo far conoscere tanta gente e dobbiamo festeggiare `Nina’. A proposito, non ti dispiace che ho chiamato la tua scarpa ‘Niña’, vero? Ma, vedi, ho chiamato questo modello ‘Niña’, ché significa bella in spagnolo, ché vero bella è, in italiano, ricorda il tuo nome. Ti piace ‘Niña’, Nino? ", e rise. E fu così che cominciai a lavorare come direttore dell’ufficio progettazione. Ma poco vi lavorai, sette otto mesi, ché Ignacio, una sera, mentre ritornavamo a casa, io stavo ancora con lui, mi disse: " Figliolo, ci sai fare. Sono proprio contento di te, Ninì. Io sono vecchio, non negarlo, e, fra poco, dovrò ritirarmi: non me la sento più di tirare avanti con tante responsabilità. La disgrazia di mio figlio nel profondo del cuore mi colpì e mi lasciò senza forze e senza speranza, a uso fossi morto pure io. E morto ero, anche se continuavo ad alzarmi ogni mattina, a mangiare, ad ordinare, a mettere paura: non vivevo, ché non avevo la gioia nell’anima. Potevo vivere, io, se il mio cuore era come una pietra, se la mia anima era diventata una cosa muta e senza speranza: se la carne della mia carne era morta, potevo vivere, io? Vedi, quando muore un figlio, muore pure il padre, perché è nel figlio che continua a vivere il padre, quando muore: se il padre perde il figlio è un morto senza speranza, perché perde la speranza che la sua carne continui a vivere in quella del figlio. Niente è peggio di vivere una vita senza la speranza della vita e col terrore vivo della morte sempre addosso. Io ero così: povera carne, crudelmente, viva con la speranza morta. Era terribile vivere, senza vivere. Poi, sei venuto tu, a ricrearmi l’anima: a darmi, giorno a giorno, la speranza. E man mano che tu mi vivevi intorno, io ricominciavo ad attaccarmi ed a credere nella vita. E, ogni giorno, io mi attaccavo a te e speravo in te, quasi fossi mio figlio ché tu gli assomigli troppo e agisci stampato come lui: tu hai preso il suo posto nel mio cuore. Ninì, quello che ti voglio dire è questo: voglio che tu, come mio figlio, prenda il mio posto. Che lo prenda sùbito, voglio, domani stesso, ché voglio riposarmi prima di morire. Non devi prenderlo come un regalo, ché è un mare di pensieri, un precipizio di guai quello che ti lascio. Da domani, sarai tu, solo tu. a trascinare questa barca, e vedrai com’è pesante da tirare avanti, vedrai com’è duro pensare per gli altri, prima che per se stessi. Tutto tu dovrai fare, a tutto dovrai pensare, senza scordarti di niente e di nessuno. E quando dovrai risolvere un problema, ti troverai solo e nessuno, nessuno vorrà aiutarti e consigliarti, ché tutti vorranno la tua rovina, anche quelli che sfami; e tutti rideranno, se sbaglierai. Più delle tue possibilità devi fare, ma devi stare attento a non strafare, ché, quando uno strafà, strasbàglia. Devi incominciare a pensare prima degli altri e finire dopo. Tutto devi prevedere, ma non devi sognare. E tutto questo dovrai farlo tu: tutte queste responsabilità tue saranno, solo tue. E quando ti sentirai schiacciare dalle preoccupazioni, non ci sarà nessuno ad aiutarti, nemmeno io; ché, da domani, io non verrò più qui e non vorrò più sapere niente della fabbrica. Oggi sei contento; domani, domani lo sarai?; no, non lo sarai: vedrai quante responsabilità ti cadranno sulle spalle e ti sembrerà di essere solo in un mare di gente, solo contro tutti. No, non sarai contento: non mi ringraziare. L’atto di cessione è stato già fatto: solo la tua firma manca. A casa, troveremo il notaio; tu firmerai e tutto sarà tuo: ricchezze e preoccupazioni, barca e mare, zucchero e fiele.". Quella stessa sera firmai e divenni il padrone di tutto, anche della casa. ".

 

 

 

 

 

Cap. 10

Nino alzò la testa. Si sentiva stanco, annegato in un mare di sudore. Fece un cenno a sua madre, che corse lesta e si piegò ad asciugarlo.

In un attimo, il silenzio s’imbastardì in mille esclamazioni di gioia, in mille alti commenti: le femmine ne approfittarono per bagnare la lingua e badare ai loro bimbi che si erano fatti irrequieti; gli uomini per farsi una tirata di ‘Forte’. E tutta, tutta la casa prese a girare attorno a Nino, si mosse in un’aria festosa, quasi in danza paesana: ripresero le strette di mano, gli auguri e i baci per Nino.

Nino capì di essere il santo di quella festa, di quel ritorno di vita e si sorrise compiaciuto. Sì, aveva vinto: aveva presentato una parte che non faceva nemmanco una piega, manco una battuta aveva sbagliato, ché, quella parte, lui, se l’era sempre sognata, da quando era entrato a lavorare come fattorino in una fabbrica di scarpe. E, così, gli era uscita dal cervello, limpida e pulita. E non si era affaticato ad inventare, ma solo a ricordare ciò che aveva visto e udito. Inventare quella parte era stato facile: facile, come raccontare un sogno che si ripete sempre.

E tutti ridevano euforici, scherzavano e giocavano, come bimbi felici.

Nino rise.

" Ecco, il pubblico applaude. " pensò. E fu tentato di alzarsi, a fare un inchino; fu fermato dal corpo di sua madre, piegato su di lui, ad asciugarlo.

Don Michelino batté una mano sulla spalla di Nino.

" Bravo, bravo, Ninì: ti sei fatto onore. " disse.

" Grazie, grazie; " rispose Nino, mucciàndo vive risate, Solo fortuna fu. ".

" La fortuna c’è stata, sì, ma tu l’hai saputa prendere e forzare. ".

" Forse, vero è; ma la fortuna come viene se ne va, e hai voglia di tenerla ferma: e, infine, ti ritrovi con un pugno di mosche nella mano. ".

" Che ne farai dei soldi? " gli chiese don Michelino.

Nino si fece attento.

" Quali soldi? " chiese, come se non gliene importasse.

Sua madre lasciò cadere l’asciugamano, livida in faccia; don Michelino fece gli occhi piccoli, tesi a capire; le bocche e i gesti degli altri si fermarono, attenti.

Il silenzio tornò, corna d’incanto.

" Come, quali soldi?; i soldi della fabbrica! Non ne hai portati soldi, non ne hai? chiese don Michelino, rosso il volto. ".

" Ah, quelli! Sì, sì, ce li ho i soldi. Ma sono così lontani che mi pare difficile averli. ".

" Come difficile. Che vuoi dire? Spiegati! ".

E Nino incominciò a spiegare:

" A volte, nella vita capitano cose che uno si domanda, che fu?, e non riesce a dare una risposta. Quando diventai il padrone della fabbrica, mi pareva di essere il padrone del mondo. Ma non fu così, ché, da quel giorno, io non ebbi più un attimo di respiro, ché pesante era la barca da portare: dovevo pensare alla fabbrica, agli operai, a don Ignacio che cercava la morte per riposo, a tutto. E gli anni che vennero furono più duri di quando morivo di fame per la strada. Ero privo di riposo e mai sazio di pane: manco il tempo di respirare avevo. Solo ero, come un cane con la rabbia, e la paura viva sempre addosso: temevo chi mi temeva. Privo di vedere il sole di domani, mi dovete credere: non potete capire come ml pentivo di avere accettato la fabbrica da don Ignacio, ché, ogni giorno, la scontavo con preoccupazioni sempre più grandi; ma con l’acqua alla gola ero, e, volente o nolente, dovevo nuotare per salvarmi. per salvare la faccia. Ah, la vita così è, continuo combattere senza speranza e motivo, e morire nella paura, senza fine, di campare, senza vedere chiara la faccia della vita; e se la vedi, capisci che non c’è manco il motivo dell’affanno. Quando, due anni dopo don Ignacio morì, benedetto tra i morti dove si trova, mi sentii perduto e solo contro il mondo, ché mi venne a mancare quel minimo conforto che mi dava lui con i suoi consigli, le sue parole, la sua sola presenza, e non potevo sfogarmi con nessuno, con nessuno potevo comunicare: mi parve, allora, di toccare il fondo, di averlo sotto i piedi. Ma il fondo era lontano: il peggio doveva venire. Il peggio lo sapete, tutti lo dovete sapere: tutti i giornali ne parlano; pure la radio ne parla. ".

E s’interruppe Nino, fingendo un nodo di pianto nella gola, a nutrire silenzio nel silenzio.

Un silenzio inumano divorava il respiro nelle bocche.

Nino si sorrise: aveva presentato bene la parte, era riuscito a renderla credibile. Alzò lenta la testa, fingendo una smorfia di sforzo, quasi gli costasse immergerla in quel silenzio tessuto; guardò l’effetto delle sue parole: il volto di don Michelino, due occhi di terrore; degli altri, mille occhi in attesa. Sì, sì, aveva presentato bene la parte. Si sorrise Nino, e prese tempo a parlare, compiacendosi del senso di attesa che aveva acceso e che bruciava gli occhi e i polmoni degli altri.

" Sì, il peggio lo sapete.. " riprese Nino " la rivoluzione, la rivoluzione. ".

La stanza fu tutto un sospiro disperato, le mani di sua madre tremarono di terrore, don Michelino scattò le spalle in un brivido freddo. Una magica parola e il pubblico atterriva.

Nino si compiacque, ancora: aveva fissato bene la parte. Poteva continuare: e continuò.

" La rivoluzione, " disse, la voce tremante, come provasse ancora paura, " sì la rivoluzione che venne a prendermi tutto il lavoro di quattro anni di pene e di speranze. Tutti i sogni mi tolse, tutte le preoccupazioni future, tutto. E devo ringraziare Dio, se non mi tolse, pure, la vita. ".

E si ammutò Nino, a montare un penoso sospiro.

Gli uomini, intorno, calarono la testa, le donne sospirarono amare; Nino si sorrise felice.

" Se ho convinto le donne? " si disse " ho convinto il paese, comprese le mule. " E, calata la testa, riprese a parlare.

Tutto cominciò con gli scioperi: gli operai non venivano al lavoro e facevano casino piazza piazza con gli studenti. Ma nessuno pensava alla rivoluzione, manco loro, ché, dapprima, niente pareva, una ragazzata. Ma non fu una ragazzata, non fu! La gente impazzita pareva, notte e giorno, a gridare in cortei senza fine. Dipoi, vennero ad occupare le fabbriche e le scuole, e, per conchiudere l’opera, incominciarono a prendersela con la polizia: dapprima, scagliando sassi e, dipoi, sparando. E fecero casino e spararono. Che giornate dure che vennero! Ovunque ti voltavi voltavi, vedevi soldati e carri armati, carri armati e soldati, e morti e feriti e arrestati! Che giornate! Non volevano passare mai quei giorni, a uso il tempo si fosse fermato, per sempre, a guardare quella carneficina, quel macello. ".

E si ammutò Nino, a mucciàrsi il viso nelle mani, quasi a mucciàre lacrime; solo il sorriso spontaneo, che gli fiori sulle labbra nel vedere quei volti addolorati, mucciò.

Nel silenzio si aprirono frasi di pena e sospiri di donne.

Nino restò, un pezzo calato, il viso mucciàto nelle mani. Ma don Michelino non glielo permise: gli fece volare le proprie mani sul viso e, fingendo dolcezza, i sollevò la testa.

" Oh, oh, dico, che intenzioni hai, piangi? e che uomo sei? Dai... finiscila!... ch’è, manco ti vergogni? " disse, paterna e melata la voce, " Ninì... non ci pensare; parla, parla..., la rivoluzione: alla rivoluzione eravamo giunti. ".

Nino si guardò in giro, come a dire " oh, dico?... ", ma negli occhi degli altri non trovò l’approvazione; un’ansia, tesa fino allo spasimo, trovò, un desiderio di sapere: tutti gli sguardi erano attenti, bimbi ai racconti sulle gesta dei paladini di Francia.

" Va be’, " si disse " si vede proprio che avete fretta di essere presi in giro. ".

E, respirando profondo, si mise a parlare della rivoluzione, così come l’aveva appresa dal giornale: come l’esercito aveva approfittato della sommossa per accusare il Governo di incapacità e per montare un regime militare nel Paese.

" E così " continuò " in meno di due giorni, ci trovammo con un Governo militare. I morti non si potevano contare. Ora, a me, francamente, non importava chi comandasse o no: tasse pagavo da una banda e tasse dovevo pagare dall’altra: sempre fottuto ci andavo. E non ero come i liberalisti e i filo-governatori che, bedda Madre, si facevano scannare strada strada come agnelli. No, non ero come loro: ch’è, pazzo ero?; chiuso a casa stavo, al riparo dalle pallottole, aspettando che quel quarantotto finisse. " Prima o poi," mi dicevo " finire dovrà: ché si possono scannare tutti fra di loro?: non é cosa! ". E, quando, finalmente, finì, io mi dissi: " Bah, per ‘stavolta, ce la siamo cavata: possiamo contare anche questa. ". Ma troppo lesto fui a parlare, ché, se era finita per gli altri, per me era appena cominciata: quando gli altri si scaricarono la croce, fu l’ora del mio calvario. Il mio calvario, tre giorni dopo che il quarantotto era finito, incominciò: quando tutto faceva pensare che l’orrore era passato, che si poteva respirare e campare ancora, tranquilli. Il quattro del mese di luglio, giorno segnato che non posso scordare, di prima mattina, sentii bussare forte alla porta; era un ufficiale che mi diede un mandato di requisizione e mi disse che la mia casa, per ragioni di primaria importanza, causate dai fatti del momento, veniva requisita dall’esercito, per essere trasformata in caserma, e che avevo tre giorni per preparare la mia roba e lasciare la casa a loro disposizione. Non sapevo che fare, telefonai all’ambasciata e là mi dissero che nemmanco loro sapevano che fare. Ma i miei guai non finirono li, ché, in serata, mentre stavo preparando la mia roba, mi giunse una lettera del nuovo Governo, che m’informava che il mio passaporto era scaduto e che dovevo lasciare il Venazzonia al più presto. La lettera m’invitava a recarmi, nel mio interesse, presso l’Ambasciata italiana, perché il Governo non poteva assumersi, per il momento, nessuna responsabilità, sulla mia vita. La lettera chiaro parlava: parabola significa, o ti mangi sta minestra o ti butti dalla finestra, o te ne vai con il buono o te ne vai con il reo. C’era poco da fottere: dovevo partire per forza, o nolente o volente, dovevo partire. E così, quella stessa sera, mi recai all’Ambasciata. Lì, altri poveri disgraziati, come me, trovai: gente vestita alla meglio, carùsi che piangevano, valigie, ogni tipo di involto, donne dagli occhi scavati dalle lacrime. E tutti che aspettavano, disperatamente, una parola di speranza. Ovunque ti voltavi voltavi, solo domande stampate sulle facce vedevi; domande che conoscevano la risposta e che la temevano. Ma, in tanta disperazione, si continuava a sperare, ché, anche quando l’uomo è già morto, non è ancora morta la speranza di campare. Aspettavamo. Stretti in una sola pena che si faceva più dura e più pungente, tanto quanto più lunga era l’attesa, aspettavamo. Non c’era uomo che non fosse carùso, non carùso con volto duro di uomo. Fino alle due di notte aspettammo, ammucchiati come povere pecore senza padrone; seduti per terra, sulle valigie, non riuscendo a star fermi; resi calmi dalla smania e ragionanti nella pazzia tramutata in lucida ragione dall’abbattimento senza réquie e senza speranza; bestemmiando preghiere, gridando silenzio, aspettavamo, disperati, speranza: più il tempo passava, più la speranza diminuiva: lungo consiglio, lunga condanna. Quando Dio volle, finalmente, l’ambasciatore entrò nella sala, ci fu un attimo di sollievo e di speranza. Ma le speranze morirono, lestamente: appena vedemmo il suo viso distrutto e sentimmo la sua voce. L’ambasciatore chiaro parlò, senza mettere pupi in mezzo; ci fece un discorso chiaro e di poche parole, che ci fece perdere le poche speranze che avevamo: dovevamo partire per forza; di tutte le nostre proprietà ci restava solo una rendita, ‘na specie di censo, pagata in percentuale ogni cinque anni; con noi potevamo portare solo il cinque per cento dei soldi che avevamo in banca, e dovevamo partire sùbito. Io, sbrigate le faccende, sono partito ieri con l’apparecchio ed eccomi qui. ".

Si ammutò Nino, in un silenzio pietrificato e abbassò il capo, di botto, quasi non sopportasse il peso del silenzio e degli occhi puntati su di lui. Il silenzio brevi attimi durò, ma così intenso che si poteva toccare: una persona dalle mani di piombo sulle bocche di tutti. E, in quei pochi attimi, che parevano mille anni, il silenzio cambiò l’ansia e l’attesa degli uomini in amara delusione e sordo rancore, a sciogliersi in penosi sospiri e pesanti imprecazioni.

La voce di don Michelino fece tremare il silenzio e lo spinse in un cànto lontano della casa.

" Come, " chiese, in grido la voce, " ti hanno buttato

fuori? così, senza un motivo? ".

Nino assenti col capo.

" Sì, " rispose, la voce senza vita, " come un cane, come un cane con la rogna addosso. ".

Don Michelino lo afferrò per lo sparato della camicia, a costringerlo a parlare, a chiarire: a costringerlo a sentire la condanna che pronunziava per lui.

" E così, " gridò, alta la voce, " ti hanno liquidato: ti hanno rimandato senza un soldo, così come eri partito, ah? E che ci hai tenuto a fare qui per due ore, ah? non, non potevi dirlo sùbito che sei un mortone di fame qualunque, un povero fallito, e che sei anni di Venazzonia e la fortuna che ti afferrò per i capelli non ti sono serviti a niente? Che ci hai tenuti a fare qui, ah? ".

Nino alzò gli occhi verso il volto rosso di furore di quell’uomo, poi, muto, girò gli occhi per la casa: negli occhi degli altri lesse sordo rancore. Rancore e delusione sul volto di sua madre.

" Bene, " si disse " ricco mi vogliono?, e straricco mi avranno. ".

E sorrise. Poi, allontanò, lentamente, le mani di don Michelino dalla sua camicia.

" Calma, " disse, riso negli occhi e nella voce, " calma. ".

Gli occhi di don Michelino fuggirono le orbite, la sua voce si perse nella rabbia.

" Ma come, " gridò, strozzata la voce, " come, ti hanno tolto tutto, per poco non ti hanno scippato, pure, le vergogne, e tu, tu dici " calma ", come niente fosse? e che uomo sei? dove li hai lasciati i co...? " E fermò la voce, strozzando l’ultima parola, ché c’erano donne e non stava bene, ma non poté fermare le mani che erano corse all’inguine, a significare.

Nino lo guardò, freddamente; fermo il sorriso sulle labbra.

" Voi, voi che uomo siete, chi siete per permettervi di fare tutto `sto casino a casa mia? " disse, ferma e dura la voce, " Io sono tanto uomo che non vi butto fuori, per rispetto all’età, rispetto che non meritate, e, anche, perché è giusto che sentiate la storia fino alla fine: dovete sentirla, anche se non lo volete; avete pagato il biglietto e avete il diritto al finale. ".

Nella stanza, fu tutto un agitarsi inquieto, un lesto bisbigliare, un aprirsi di commenti: nessuno aveva mai trattato don Michelino in quel modo; chi era, cos’era diventato Nino per permettersi tanto?

Nino riprese a parlare, spezzando i commenti.

" E che dovrei fare? " chiese, irata la voce, "che dovrei fare, ah? castrarmi? ". Guardò a sfida, i volti sbigottiti, sorrise, di nuovo, e " Perché vi agitate, ah? " continuò, col sorriso sicuro e la voce pacata di chi ha vinto, " Calma, calma: la calma è la virtù dei forti. Io sto calmo. E se sto calmo io, che bisogno c’è che vi agitate voi, ah?: che ho perso i vostri soldi? È con la calma che si sbrogliano e si vincono le cause, non lo sapete, don Micheli’?; dovreste saperlo, ché la vita, a saperla guardare, insegna tante cose. ". E sorrise, conciliante, a don Michelino che non si era, ancora, riavuto e lo guardava sbigottito.

" Si don Micheli’, si è con la calma che si sbrogliano le matasse della vita. E io ne ho sbrogliate faccende. Uh, se ne ho sbrogliate!; non vi preoccupate per me: io so che le vostre preoccupazioni sono per me; non vi preoccupate: so dove mi dorme la lepre.

Di botto, le imprecazioni finirono, il rancore si sciolse, a poco a poco, sui volti duri degli uomini che si aprirono ad un sorriso benigno, gli occhi si strinsero attenti, amorosi di capire.

Don Michelino lo guardò, con uno sguardo da ebete sul volto

sudato.

" Che..., che vuoi dire? " chiese, tremante la voce, " Che vuoi dire?: che vuoi dire che sai dove ti dorme la lepre? Parla, parla, " insistette " spiegati, per l’amor di Dio! ".

Nino sorrise benevolo, poi prese le mani di don Michelino con un gesto paterno.

" Voglio dire.. " gustò l’attesa " che no: " disse, " non è come pensate voi, no. "

La madre ebbe un lampo di felicità negli occhi: aveva capito.

" Che vuoi dire, " chiese, supplichevole la voce, " che, che...?" S’interruppe, tradita dall’emozione. Respirò, deglutì e riprese a parlare. " vuoi dire che... che sei, ancora, ricco? ".

" Esatto, ma’, esatto, non come prima…, ma povero non sono. ".

" Ma..., ma perché non lo hai detto prima? " chiese don Michelino, in tono dimesso.

" Ma... perché non mi avete lasciato finire! ".

" Parla, Parla, Ninì. spiegati meglio, benedetto figliolo! ".

" Bene: " si disse Nino " sono daccapo a cavallo. ". Si sorrise e riprese a parlare.

" Quando l’ambasciatore finì di dire che dovevamo partire e che non c’era modo che reggeva, nella sala ci fu la stessa confusione che c’è stata qui, ora ora: chi piangeva a dritta, chi si disperava a manca, chi non aveva manco la forza di fiatare, chi guardava senza vedere, come un cardo. E piangemmo come carùsi e ci disperammo come femmine al lutto, fino a quando l’ambasciatore non diede un pugno sul tavolo e gridò, come un folle: " Mi volete far finire? ". Noi tutti, scossi da quel tono incazzato in bocca ad una persona per bene, ci zittimmo sùbito. Appena ci zittimmo, lui ci disse, che non era tutto perduto, ché lui non aveva accettato le decisioni del nuovo Governo e che la cosa si era risolta con un accordo di compromesso. Secondo questo accordo, il nuovo Governo ci toglieva la proprietà, qua non c’era punto che teneva, ma s’impegnava a pagarcela entro dieci anni per, almeno, il cinquanta per cento. Poi, l’ambasciatore ci mostrò una specie di atto che firmammo tutti: meglio poco che un pugno negli occhi e basta. Come vedete, i soldi ci sono; ma sono lontani: lontani di posto e di tempo. ".

 

 

 

 

 

Cap. 11

Nella casa sbocciò, miracolosamente e dolce, come i fiori dell’agave, una cert’aria briosa di festa, di fiera. E il silenzio fu, per sempre, fiaccato dalle chiare e alte espressioni di gioia che fiorirono dalle bocche di tutti e dalle, finalmente aperte, aperte risate di Nino. E si riprese a parlare: gli uomini si fecero una tirata di ‘Forte’ e le femmine incominciarono a lamentarsi coi loro mariti per il fumo che le soffocava; le madri si ricordavano dei loro bimbi e badarono a quelli che alzavano vive voci di pianto, ché era tardi e avevano sonno. E ripresero i baci, gli abbracci, le strette di mano, i consigli e gli auguri; e fiorirono, fuggenti, le prime occhiate d’invidia.

La madre fece fare il giro al fiasco di vino tra gli nomini, persi, ancora, in commenti; e dovette mandare un carùso nella bettola di Cola manomonca a comprarne ancora, ché il vino era finito e non bastava per tutti.

"Ah... " disse al ragazzo, ch’era partito come una folgore, "aspe’: tieni i soldi. Fattelo dare fresco, mi raccomando. Ah..., prendi, pure, un litro di zibibbo, fresco e dolce. Tieni i soldi, va’. ".

Corse lesto il carùso, lesto ritornò, col fiato sospeso dalla corsa. Finito il giro del vino, don Michelino, il bicchiere di zibibbo, ancora, nelle mani, chiese a Nino:

" E soldi, soldi liquidi, ne hai portati? ".

Nino sorrise, comprensivo.

" E che vuoi dire? " rispose " certo che li ho portati. ".

‘Stavolta, fu la madre di Nino a porre la domanda:

" E quanti, Ninì, quanti ne hai portati? ".

" Pochi, solo il cinque per cento che dovevo portare. ".

" E… quanti, quanti sono? ".

" Mezzo milione; ne ho ritirati un milione, quasi mezzo

milione di spese di viaggio e mezzo milione e qualcosa di

resto. ".

Don Michelino fece un piccolo calcolo mentale.

" Un milione, " fece " un milione è il cinque per cento. Quanto avevi? Vediamo: un milione per cento, fa cento milioni diviso cinque, fa venti milioni. Venti milioni in banca? Caspita, ne avevi di soldi! ".

" Si. Pure, altre proprietà avevo: terreni, case, la fabbrica; e ora? Mah... è la vita! ".

" Ma non te ne daranno la metà: il cinquanta per cento? ".

" Certo, certo: tanto di atto c’è, con tanto di bollo e di firme. Certo, che me li daranno; ma col loro comodo: e ch’è si sganciano, così, come niente fosse, novanta milioni? ".

" No-van-ta-mi-lio-ni! A ‘sta mi’! " scandì forte don Michelino, e restò a bocca aperta, un cretino, a uso quei soldi gli fossero, realmente, usciti dalla bocca e aspettasse, così, che gli ritornassero dentro.

Nino sorrise sicuro: la vittoria era certa, in mano l’aveva.

Ormai, poteva stare tranquillo, un Cristo in una chiesa.

" Si..., " disse " coccio più coccio meno, novanta milioni e rotti; e che sono novanta milioni? Fabbrica, case, terreno, sommandoli, pochi sono: novanta milioni manco la sola casa ci valeva, ma la stima loro l’hanno fatta: e chi è più forte… ".

Il silenzio tornò vivo nella casa e ammutò i mille commenti, a prepararne altri; le bocche si spalancarono attente, sorprese, incuranti di nudàre denti e sentimenti.

Bevve don Michelino, ancora, un sorso di zibibbo, a riprendere fiato.

" Certo, " disse " che ne passerà, di tempo: ma te li daranno i tuoi soldi: se c’è l’atto, hanno poco da fottere, ah... ",

" Càcchio, se c’è, e con tanto di bollo. Sicuro, me li daranno, i soldi: mi toccano. Bisogna aspettare, allungare il collo; ma che possiamo fare?: sono loro che comandano. Mah, di aspettare non ho paura: ancora giovane sono. ".

" Uh..., non ti preoccupare, alle volte non si può dire: capace che ti arrivano domani. ".

" Sogna so’...! " rise Nino " sogna so’, dieci anni di tempo hanno; speriamo che si decidano presto. ".

" E ce l’hai qui, l’atto? ".

" No..., all’ambasciata é: e che si portano addosso certe cose? Don Micheli’, e se si perde? E, poi, all’ambasciatore serve, per farmi dare il mio. ".

" E se si perde? " chiese sua madre, emozionata la voce, " se lo rubano? ".

" Dove, all’ambasciata? Li, è meglio che stare qui: " disse Nino con tono sicuro, che non lasciava dubbi, e accalorato dallo zibibbo che gli era entrato vivo nelle vene, " L’ambasciata terra intoccabile è, terreno italiano è; spiegateglielo voi, don Micheli’. ".

Ma il discorso fu interrotto da due uomini che gli si pararono davanti, tendendogli le loro grosse, nere mani di villani nel saluto.

" Bah, " dissero, le fessure secche delle loro bocche impacciate, " dobbiamo andare: tardi è, e domani, alle quattro, dritti dobbiamo essere, prima che viene il sole, ché dobbiamo infasciare il grano. ". E i loro occhi bruciarono invidia e rassegnata amarezza: "Bentornato. " finsero.

" Bentrovati. ".

E i ‘buonanotte’ suonarono in molti nella casa. E, sùbito, la stanza si svuotò degli uomini, delle donne e del puzzo, nauseante, del loro sudore.

Solo, don Michelino restò: ma per poco: guardò l’orologio e si alzò.

" Le undici! " disse, tendendo a Nino la mano grassoccia e umida di sudore, " A volte, parlando parlando, non si vede il tempo che passa. Bah, è meglio che vada anch’io. E che ti devo dire, Ninì? bentornato, e... mi compiaccio. Veramente! Ma, ora, debbo andare, proprio, ché la mia età non mi permette abusi. E..., poi, tu stanco sei e devi riposare: è giusto. Buonanotte, se non si guasta. " e rise.

Pure Nino rise.

" Buonanotte; " disse " e..., scusate, e Lillo, vostro figlio Lillo, Lillo si chiama?, ha finito gli studi? ".

Don Michelino si fermò nel centro del locale, lo sguardo amaro.

" Quello la mia vergogna è! " disse, amara la voce, " Macché, macché, non ne vuole sapere: né erba né lavore è rimasto; un debosciato è: un perdigiorno. Non gli è, ancora, venuto il senso: figurati, che a trentatré anni, gli annuzzi di Cristo, si comporta peggio di un carùso: appresso ad un pupàro va, un pazzo forestiero che tu non conosci, per ascoltare le sue minchiàte. E le ascoltasse soltanto; no, no, lo difende, dice ch’è un filosofo, un grand’uomo, e si fa minchionare da tutti: nelle risate di tutti é, pure dei cacanidi. Le femmine invece, no: sono state sagge figlie, hanno studiato, senza mal alzare gli occhi e, oggi, sono mogli e madri onorate. Me ne resta solo una, Mariuccia, ma ancora giovane è, venticinqu’anni ha, l’ultima è, maestra, e bella per davvero. Solo, Lillo, lui solo, è uscito fuori pariglia va appresso ad un pazzo; più pazzo del pazzo è! Inutile, meglio non pensarci, ché mi guasto lo stomaco e non posso dormire. Buonanotte, buona. ".

Si avviò per uscire; cambiò idea e si fermò sulla porta.

" Ah, Ninì, vieni a trovarmi, quando ti senti. Porta, pure, la santa donna di tua madre; all’ora di pranzo. Mi farebbe piacere, veramente. E..., poi, pratica Lillo: vediamo se possiamo raddrizzarlo, ah? Buonanotte. " disse, uscendo.

Nino si affacciò fuori, ad accompagnarlo con lo sguardo.

" Grazie don Micheli’, " gridò, alta la voce nel buio, " grazie per l’invito: ne terrò conto, ne approfitterò, sarà un vero piacere. Buonanotte. ".

" Piacere mio, figurati. Buonanotte. E... ritirati. non c’è bisogno. ".

Il suo corpo si perse nel buio, nel silenzio si perse la voce.

" Bah... " chiese Nino " anche questa e fatta. ".

" Ch’è? " chiese sua madre.

" Niente, niente, ma’: parlo solo come i pazzi. ".

" Capita: a tutti capita, quando siamo soli. Ti passerà: non sei più solo, ormai. ".

" Sì, ma l’abitudine lunga è. ".

 

 

 

Cap. 12

Nino guardò nella strada. Per strada nessuno c’era; solo, scuro e silenzio, e vinte macchie di luce, piovute da lampade poste sui cànti. Non vita sulla strada e nelle case: nessuna porta era aperta, nessuna finestra illuminata; dalla via dritta, giungevano i discorsi notturni e senza senso dei giovani.

" Carùsi: gente che non ha niente da fare. " pensò Nino.

Tornò gli occhi nella stanza, infastidito dal buio senza vita che occupava il quartiere. Vide sua madre affaccendata attorno alla cucina.

" Che fai? " domandò.

" Due uova: " rispose la donna " ch’è, vuoi andare a letto a stomaco vacante? ".

Lui guardò, ancora, fuori, perdendosi tutto nel buio.

" Guarda, " disse " orbo e muto pare il paese; e sente e vede, e parla più di me: pare che dormono tutti, come angeluzzi; come parlottiamo, a quest’ora, solo loro lo sanno, ed io. Mah, la gente, la gente; c’è peggio cosa della gente? ". "

Quella notte, nessuno dormi; da casa a casa, i discorsi, vivi e lesti, filarono, come l’olio nuovo nelle giare, l’argomento fu accresciuto e sminuito più volte: a seconda della simpatia che la gente aveva per Nino. Queste cose lui le sapeva e sorrise, nel buio.

Tornò dentro e si sedette a mangiare; sua madre gli preparò il letto.

" Manco vero mi pare. " disse sua madre, le mani a risaccàre il materasso.

" Che, ma’? ".

" Che tu sia qui, per sempre. ".

" Già: manco a me pare vero. ".

" E, poi, con tutti quei soldi. ".

" Già. ".

Nino si alzò, ché aveva finito di mangiare, ad affacciarsi alla porta.

Fuori, ormai, solo silenzio era. Un buio fitto, che si poteva spaccare con le unghie, avvolgeva le case e creava un silenzio pauroso di morte viva; il fetore, nel piscio dei muli e nel sudore dell’uomo senza rèquie.

" Il letto pronto é; " chiamò sua madre dall’alcova, le mani raccolte sopra i fianchi, " vai a letto, ché ne hai bisogno. ".

" Già; un momento ma’, che chiudo la porta. ".

" Chiudi, pure, gli sportelloni: i malintenzionati non mancano. ".

Chiuse la porta Nino, gli sportelloni chiuse.

Nella stanza morì il silenzio della notte: e fiorirono, vivi, due respiri, solo, due respiri; non silenzio, non fetore di morte.

" Me li faresti vedere? " chiese lei, dolce e timida la voce.

" Che... che, ma’? ".

" I soldi! ".

" Si, si: un momento. ". Cerco qualcosa. " Ma’ dove la mettesti la giacca, ma’? " chiese.

" Appesa alla spalliera della sedia, proprio dietro dite. ".

" Sì, sì l’ho vista. ".

Prese la giacca, ne trasse il portafogli, tirò fuori un cartoncino grigiastro, pieno di buchi e " Ecco " le disse, tendendoglielo, " eccoli: i soldi sono questi. ", il sorriso negli occhi.

Sua madre guardò il cartoncino; lo guardò fisso negli occhi, sua madre.

" Mi buffoneggi? " chiese. " Vuoi giocarmi; non può essere, non ci riesci: tua madre sono e... più lunga di te, più lunga dite la so. ".

Disse, e sorrise negli occhi, maliziosa.

Nino la guardò, serio nel volto, e asserì coi capo.

Lei studiò meglio il cartoncino, delusa nel volto, incredula e senza festa.

" Soldi? " chiese, sconcertata la voce, questi soldi sono? ".

" Sì, sì, ma’, soldi sono. ".

" E che soldi sono? "

" Soldi, sodi buoni; li vedrai domani, quando li cambierai alla posta. ".

" Non è cosa: non può essere. Non me ne daranno di soldi; sulla faccia mi rideranno, e basta. ".

" No ma’; non lo vuoi capire?, soldi daranno, soldi, soldi. ".

Lei lo guardò con faccia di bimba, che sente parlare di vita.

" Soldi? Si...; pochi saranno: che vuoi che mi diano con `sto coso? ".

Nino rise.

"Ah... non vuoi crederlo, eh? " scosse la testa. " Sempre cocciuta sei stata, ma’, manco un mulo. Soldi sono, convinciti, molti soldi: mezzo mi-lio-ne. Ti basta mezzo milione per ‘sto coso, come Io chiami tu? ".

Sua madre guardò, scetticàta, il cartoncino: lo voltò e lo svoltò tra le mani, increduli gli occhi.

" Mezzo milione? " interrogò, lesta la voce; accettò. Allarmata ne fu. E lasciò, lesta, il cartoncino, quasi bruciasse, volando le mani.

Nino asserì col capo. sorridendo negli occhi.

" Non strapparlo, ma’: mezzo milione vale. " rispose calmo calmo, superiore.

" Mezzo milione! " ripeté sua madre, inebetita, " Mezzo milione, e io l’ho tenuto in mano, come niente fosse! Mezzo milione quel coso? Mah! manco vero pare! ", tremante la voce. E guardò sbigottita, quasi negli occhi la paura, il cartoncino caduto sul bianco del lenzuolo.

Sorrise sicuro Nino, sorrise.

" Già, non puoi crederlo; lo vedrai domani: i biglietti da diecimila il letto t’empiranno, il letto grande. ".

Raccolse il cartoncino Nino, lo mise alla giacca.

" Qua, " le disse a sua madre, la mano nella tasca della giacca, " qua, lo vedi ma’? In questa tasca lo metto: così non mi sveglierai per andare alla posta a cambiarlo. ".

Si ritirarono nell’alcova, a sanare le ossa, a quietare il pensiero.

" Buonanotte Ninì. ".

" Buonanotte. "

E ritrovò, Nino, mollezza di lenzuola e dolce fresco d’alcova, dopo tanto tempo.

" Mah, " si disse, gli occhi penetranti nello scuro, " per oggi ho concluso la parte: dormi Ninì, ché domani giorno duro sarà; comunque, il più fatto è, puoi dormire e star tranquillo: devi ridere, solo, domani e tutti i giorni che verranno. ".

Il sonno lo colse all’improvviso: si addormentò senza un lamento Nino.

L’indomani, aggiornò lesto per sua madre: prima del sole si alzò.

Nino la sentì trafficare, intorno, per un po’; poi sentì fermare l’uscio e si addormentò.

Fu svegliato, più tardi, dai fermòni della chiave nella toppa; il sole entrò, irruente come un carùso, a ferire l’ombra della casa; lesta, venne la voce di sua madre, a svegliarlo del tutto.

" Nì’, Ni’ svegliati, per le alme sante! ".

Apri gli occhi Nino, nauseato e infastidito: sua madre, travagliata la faccia, lo guardava.

" Te lo dissi, " scattò la madre, collera e offesa nella tremante voce, " te io dissi: " Niente mi daranno; sulla faccia mi rideranno!" Ma tu, " No " mi dicevi, " Meno milione ti daranno e i soldi ti riempiranno il letto grande. ". Io ti ho creduto: può una madre non credere al figlio? E, stamattina, ancora ti credevo, anche se, stanotte, uova, uova passate, che sono botte di amarùme. sognai "Amarezze" mi dissi " amarezze, giusto giusto ora ch’è venuto mio figlio? solo, gioie avrò "; e, invece, amarezze ho avuto: sono stata alla posta, speranzosa di avere i soldi; e, invece, niente, niente, solo pagnotte di amarùme mi hanno dato. ". Prese il cartoncino e lo mise davanti agli occhi di Nino. " Tieni, " disse " niente, niente vale: don Mimino, il postino, mi ha detto che non può cambiario. Ma, vacci tu, ti vuole, capace che te lo cambia per la tua bella faccia, vacci; vedrai come ti riderà sul viso. Io non l’ho fatto parlare: sono fuggita per la vergogna che mi tagliava la faccia! ". Nino la guardò, duro e serio nel viso.

" Davvero ma’ , davvero dici? davvero non te l’hanno voluto cambiare? Andiamo, " disse, la voce vibrante di furore, mentre scendeva dal letto, " vedremo se non ci daranno i soldi: se mi alzo, il viaggio non lo perdo. ".

Lesto, si alzò; lesto, fu sulla strada; lesto, giunse alla posta.

Alla posta trovò don Mimino attorniato da un paese di donne, nere nei veli e nelle mantelline.

" Capite? " contava don Mimino, alta la voce, " mezzo milione, così, avvolto in un fazzoletto da naso, come il libretto della pensione. Certo che, come prima messa, non c’è male. E io che non volevo credere che Nino avesse tutti quei soldi: " Tutte balle sono: " mi dissi ieri sera, quando me lo raccontarono, " quello non sa manco cosa sono mille lire "; e, stamattina, mi manda sua madre a cambiare mezzo milione. Sapete che vi dico? i soldi più di quanto dice lui sono, la testa mi ci gioco, almeno il doppio sono: quando i baccelli camminano, le fave sono piene. ".

Si fermò a riprendere fiato don Mimino, il volto acceso dalle sue stesse parole; le donne annuirono leste, calando le loro teste, nere come cucchi; pure Nino approva: " Ragione ha il pupàro: " si disse compiaciuto, " una volta partiti bene, sarà la stessa gente che ci sta a guardare a darci quella parte. ".

" E..., " riprese don Mimino, nuova la voce, fresca, " e se il primo baccello è il mezzo milione e rotti... ".

Non finì la frase, ché:

" Sst...! " si sentì bisbigliare tra il nero delle donne " sst: qua è! ".

Don Minimo lo vide; cangiò di colore don Mimino.

" Oh, don Ninì " esclamò, conciliante la voce, giusto giusto di voi parlavamo! Ch’è, siete venuto a cambiare?... ".

" Sì, il baccello. " lo interruppe Nino, fredda la voce e dura.

Ricangiò di colore don Mimino; sùbito si riebbe: sorrise.

" Dovete scusarmi; un modo di dire è stato: non volevo offendervi! ".

" E io non mi sono offeso; " disse Nino, secca e tesa la voce, si può sapere perché non lo avete voluto cambiare a mia madre? non è buono? falso è? ".

" No, " disse, umiliata la voce. " no, buonissimo è, per carità; dovete capire, don Ninì, non potevo cambiarlo: la vostra firma occorre. Ma non occorreva che vi disturbaste a venire: solo la vostra firma bastava. Io glielo dissi a vostra madre, ma lei non mi capì. ".

Nino lo fulminò con gli occhi.

" Scusate, " corresse don Mimino, la coda tra le gambe, " non mi spiegai bene io. Ma ora tutto è diverso, un momento e ve lo cambio in un fiat; solamente... che, ora, non posso darvi tutti quei soldi: non ne abbiamo qui, tanti, e dovete attendere qualche giorno; per ora, solo assegni posso darvi e qualche centomila lire. ".

Nino fece gli occhi di furore.

Don Mimino si fece bianco come un cencio: come un bambino che ha visto il lupo mannaro.

Si sorrise Nino, nel vedere quel volto spaventato.

" Bene, " si disse " pure paura metto: più paura metto, più importante sono. ".

E si rise nel cuore e nei sensi. Ma i suoi occhi restarono duri e la sua voce, fredda, tuonò.

" Come! " gridò, montato furore nella voce, e che posta del sorbo é, manco mezzo milione e cocci avete da cambiare? ".

" E ottantatrémila. " corresse don Mimino, timorosa la voce.

" E ottantatrémila! " accettò Nino, calda, ancora, la voce di furore " Ch’è mezzo milione e ottantatreesima lire, la fine del mondo? "

Nella saletta, solo silenzio era: le donne trattenevano il respiro.

" Per voi, don Ninì " rispose il postino, lamentosa la voce, "per voi niente sono. Ma qui, " e indicò con gli occhi rotanti le donne e i vecchi, raccolti in un canto, " qui, per molti, un anno di lavoro e di bestemmie, senza un minuto di requie, manco basta per accocchiàrlo tutto, e manco la metà; un terzo se l’annata è buona: a volte, manco un’intera vita, spardàta sopra i campi, può bastare. ".

" Lo so, lo so, che sono dell’altro mondo? " disse Nino, pensierosa la voce, " Ragione avete: non è con questa gente che me la piglio e nemmeno con voi; con la posta me la piglio, col governo che non è capace di fornire la posta con i soldi. ".

" Don Ninì, meglio di me lo sapete, " Stendi piede quando

lenzuolo tiene ", si campa come si può, ci si veste come vuole il tempo e si mandano tanti soldi quanti se ne versano. Tutto è condizionato, che volete? il Governo così è: più lavori più ti pago; più mi dai, più ti do. qui, nessuno ha mai versato mezzo milione, in una volta, e il Governo non ha mai mandato mezzo milione in una volta. Il maggiore dei libretti arriva, massimo massimo, a qualche centomila lire, messe insieme a via di sudore, depositate a fine Luglio, dopo che hanno pagato le botteghe, e ritirate a spezzoni di tre o quattromila lire, a volta, nelle feste comandate. Che volete? poco diamo e poco ci danno: il Governo niente regala, niente perde di tasca sua; solo quando non può negare manda, Qualche po’ di pensione manda? quanto basta a ‘sti vecchi che si sono rotti il culo una vita a non morire di fame e morire di vergogna. ".

Nino queste cose le sapeva: non ribatté Nino, lesto firmò il cartoncino.

" Va be’, disse, calmata la voce, " datemi quanto mi potete dare, il resto lo mettete in un libretto a nome mio.

E gli porse il cartoncino.

Don Mimino sorrise, e cominciò a contare i soldi.

" Centoventicinque, centotrenta, e tremila, centotrentatrémila." conchiuse don Mimino e guardò Nino in faccia. Solo, tanto posso darvi; e le quattrocentocinquantamila di resto li mettiamo a libretto. Va bene? ".

" Va be’, " disse " ma, parola mia, le cose cambieranno: " si rivolse verso le donne, che lo guardavano con l’anima negli occhi, gridò quasi, " parola di Nino Bunàca, ci sarà tanto di quel lavoro che mezzo milione non sarà più la fine del mondo! ".

Con un gesto di stizza conchiuse Nino, non più parole nella bocca. E uscì di corsa, i soldi e il libretto stretti nelle mani.

Lesto, giunse a casa.

A casa trovò gente ad aspettarlo. La stanza era piena di parenti, amici, vicini, conoscenti, non conoscenti, venuti, apposta. per salutarlo, applaudirlo, chiedere informazioni sui loro parenti emigrati, come Nino, in Venazzonia. Tutti raccolti attorno a sua madre, che raccontava la storia di Nino, erano, le bocche aperte e attente. Nino si fermò sulla porta. Sua madre, appena lo vide, si alzò dalla sedia, a corrergli incontro.

" Qua è! " esclamò, alta la voce.

Nino le mostrò i soldi, nell’aprire le mani nel saluto.

E tutti si alzarono, a salutarlo. E la stanza esplose nel saluto.

E riprese la danza degli abbracci, e dei baci sulle guance, delle strette di mano. E si trovò seduto Nino, a raccontare, ancora, la sua storia: doveva accontentare quelle facce ferme che lo guardavano, come mammalucchi.

Sua madre lo interruppe, levando la voce, a far sentire a tutti quello che diceva.

" Ninì, don Mimino te li diede i soldi? " chiese, affannate le mani a pelare i pomodori per il sugo.

" Certo, certo ma’, " rispose sicuro " E eccoli. " e mostrò i soldi a sua madre.

Sua madre si avvicinò, le mani lordate dal rosso della buccia e dai segni dei pomodori. Puntò gli occhi sui soldi, stretti nelle mani del figlio.

" Davvero te li diedero? E io che non ci volevo credere! Ah, la vita: un pezzo di cartone, manco buono e tutto pieno di buchi e ti danno tanti soldi! ".

" E non sono tutti, manco un terzo di quelli che mi toccano sono, solo centotrentatrémila lire sono. ".

" E che fu? " chiese sua madre, l’allarme nella voce, " non erano buoni?

" No, no: solo che alla posta non li avevano: manco mezzo milione hanno! ".

" E ci volle tanto tempo? " chiese sua madre, le mani asciuganti sul grembiule.

" Ci fu una questione con don Mimino. ".

" Vi litigaste? ".

" No, no: una piccola questione fu, come dire?, politica, perché mancavano soldi alla posta. Acqua passata: ci siamo messi d’accordo lesto. Ho perso tempo per il libretto: il resto quattrocentocinquantamila lire, sul libretto li feci mettere. " disse Nino e mostrò il libretto a sua madre e a tutte le facce attente che si tesero a guardare.

" Bello, bello! " esclamò alta sua madre. E si alzarono mille commenti, approvazioni e benedizioni per Nino.

" Figlio benedetto è: " conchiuse sua madre, gli occhi levati al solaio di tavole.

La casa si svuotò solo a mezzogiorno. Ma si riempi nel dopo pranzo. E così fu per tutti i giorni che seguirono: in ogni ora del giorno, veniva gente a salutarlo; a guardarlo semplicemente, a uso fosse miracolo vivente, a sentirne la storia per, poi, giocarla al lotto; pure persone, che lui non conosceva, entravano a casa sua, gli tiravano il vestito, a raccoglierne l’attenzione, e gli chiedevano, venti, mille volte, se aveva visto i loro parenti, se sapeva qualcosa di loro. Nino, a volte, si pentiva di avere parlato tanto della rivoluzione, ché aveva rovistato in tante teste e aperte tante angosce; si confortava a ragione: tutto quello che aveva detto e fatto era necessario alla sua parte.

Per i due giorni che vennero, Nino manco un momento di riposo ebbe: la sua casa fu sempre così piena di gente, che pareva la casa del sindaco.

Nino non se la prendeva di avere la casa sempre piena di persone, ché sapeva: nascite, morti, matrimoni, arrivi e partenze riempiono sempre la casa di gente; per i primi tre giorni, poi la gente dimentica e finisce tutto, assurdamente, così come era cominciato.

" È come per il lutto: " si diceva, a conforto, vi sono tre giorni di visite, i giorni di lutto stretti, in cui la casa è così piena di gente, venuta a confortarti, che non si può manco fiatare; passati tre giorni, resti solo con la più nera pena addosso, e non vengono più manco i parenti stretti, a vedere se campi o se muori. ".

La sera dei terzo giorno, la casa fu piena di suoi compaesani: manco la sera del suo arrivo. E Nino ripeté, ancora, la sua storia per quelle facce ferme e quelle teste attente a confrontare le tante versioni della storia, a cercare divergenze, per impalarlo, se s’impappinava o confondeva battute: per, poi, riportarlo al suo grado di quaraquaquà cui era sfuggito. Queste cose Nino le sapeva; attento stava nel contare, a non commettere errori: quando era solo, si ripeteva la parte nel cervello, ad imparare a contarla meglio. Quella sera, fu, particolarmente, allegro, parlò con sicurezza: chiara e perfetta presentò la parte.

" Questa, l’ultima sera di visite é stata: " si disse Nino, tremanti le mani di euforia, quando restò solo nella casa vacante, "L’ultima presentazione della parte è stata. C’era più gente ‘stasera: ed è giusto che sia così: ‘stasera, il gran finale c’era, la prova generale, ed io ho vinto la prova. Da domani, le cose cambieranno, da così a così: " fece ruotare la mano, attorno al polso, " viverla potrò, la mia parte, ho la nomina di ricco, ormai, e non dovrò presentarla più; solo, viverla dovrò. Da domani, non ci saranno più visite, e potrò riposarmi la mente e prepararmi a vivere la parte. Ah!".

 

 

 

Cap. 13

Ma si sbagliò Nino, ché l’indomani, ebbe una visita tanto importante da assommarle tutte e dovette presentare la sua parte davanti ad un pubblico più esigente e più preparato a trovare divergenze.

Erano le dieci.

Già il sole si scioglieva in un cielo pesante di mosche.

Stava lottando con l’afa Nino, quando sentì bussare alla porta, chiusa barriera al sole e alle mosche.

" Chi è? " chiese sua madre, che ventilava l’aria buia, cacciando le mosche con un panno.

Rispose una voce dolce, cantilenante.

" Il cavaliere Burgiàzza..., Fofò Burgiàzza sono. Vorrei conferire con don Nino. Ch’è, disturbo? Ancora presto è? Forse dorme ancora: è stanco e deve riposare: chi sa quanti problemi ha per la testa, a quante cose deve pensare! ".

Non fu sorpreso Nino, ché si aspettava una simile visita, anche se non per quel giorno. Si sorrise compiaciuto, viva, la certezza di avere vinto: la parte era riuscita e il pubblico migliore, quello più esigente, veniva ad ossequiarlo.

" Ce n’è voluto di tempo: " si disse, il sorriso vivo sulle labbra, " tre giorni, ma è venuto. ".

Si compiacque a non rispondere sùbito.

" Io, tre giorni ho aspettato; " si disse, sistemandosi meglio sulla poltroncina scricchiolosa, " tocca a lui aspettare, ora: che male c’è se aspetta un poco pure lui? ".

Chi fu sorpresa, invece, fu sua madre.

" Don Nino? " si chiese, la mano manca alzata nel segno della croce, " Dio mio, il cavaliere Burgiàzza qui! Madre Santa, don Nino lo chiama! E che vuole da Nino? ".

Rivolse uno sguardo allarmato verso il figlio; Nino le sorrise sicuro, indicandole la porta con lo sguardo.

" Se disturbo, " continuò il cavaliere, smancerosa la voce, "torno più tardi, ché amico di don Nino sono. E gli amici, pure, in queste cose si conoscono: nel sapere aspettare, nell’avere pazienza.".

" Un momento. " gridò la donna, mettendo in ordine in gran préscia, ancora stordita dal " don Nino " del cavaliere Burgiàzza.

Si rifece la croce con la manca.

" Se don Nino non é pronto, " riprese il cavaliere, quasi a ricordare la sua presenza sotto il sole, che spaccava le pietre, " torno più tardi, manco a disturbarlo. ".

" Don Nino! " si ripeté la donna, nello sforzo di credere, il cavaliere Burgiàzza ha chiamato mio figlio " don Nino! " Uh, Nino il " don " s’è guadagnato!

Si rifece la croce con la manca.

Dipoi, si ricordò del cavaliere che attendeva.

" Eccomi, eccomi, cavalie’, un attimo: " rispose lesta la donna, alta la voce, " Ni... "; corresse " don Nino pronto è. ".

E corse lesta ad aprire la porta.

" Entrate. " disse, mucciàndo il panno in un cànto della porta.

Il sole entrò con mille spade di luce che le ferirono gli occhi.

Il cavaliere, invece, stette, un attimo, fermo sulla porta, ad abituarsi al cambiamento di luce e di colore.

" Permesso? " cantò, perso nella penombra della stanza.

Nino, appena vide la figura bianca del cavaliere Burgiàzza fiorire sulla fetta di sole sulla soglia, ebbe un sorriso, poi, adattato il corpo alla poltrona, disse:

" Entrate, entrate, cavalie’, padrone. ".

" Ah...! fece entrando, qui, c’è un fresco che ricrea l’anima: il paradiso pare, dal fresco che c’è; fuori, fuori l’inferno pare: lo scirocco il fiato toglie. " e si tolse il panama, a cogliere più fresco sulla fronte. E restò nel centro della stanza a scappellarsi a destra e manca, senza distinguere uno stipo da Nino, non, ancora, abituati gli occhi alla fresca penombra della casa.

Nino, appena lo vide, fu tentato di aprirsi alla risata; riuscì a non farlo.

" Quale onore la vostra visita, " disse, tesa la mano nel saluto, e che piacere vedervi, che piacere inatteso! ".

" Piacere tutto mio! " si affrettò a correggere il cavaliere.

E si scappellò verso la voce.

Nino si alzò, il sorriso soddisfatto sulle labbra.

" Meglio che mi alzo, a prenderlo: " si disse, il piede in cammino, ad andargli incontro, " con questo il giorno squaglia, prima che si muova di un passo. ". Lo raggiunse e lo prese per l’ascella, a condurlo al suo posto e farlo accomodare. Poi, si scelse una sedia e gli si sedette davanti, pronto a discorrere.

Fu Nino a parlare per primo, sorpresi gli occhi e la voce nella finta.

" Cavaliere! " esclamò, finto stupore nella voce, " Quale onore avervi a casa mia; perché vi siete disturbato? "

Il cavaliere fu compiaciuto del tono servile di Nino: si sorrise; finse desiderio di schernirsi.

" Disturbato, io? " disse, scandalo nella voce, " ma che dite, don Ninì? Voi, semmai, siete il disturbato; e io il disturbatore, ché, per godere il piacere di venire a salutarvi per primo, non ho tenuto conto del disturbo che vi portavo, interrompendo il vostro meritato riposo, dopo tante stanchezze, dopo tanti affanni. Per il disturbo che vi ho arrecato una sola scusante ho: il mio desiderio di adempiere al primo dovere dell’ospitalità. ".

" Ma, cavaliere, il dovere mio era: io dovevo venire a casa vostra, a me toccava venirvi a salutare, il dovere mio era. ".

Il cavaliere lo interruppe, alte le mani e la voce.

" Ma che dite, quale dovere? " scattò, fraterno rimprovero nel tono dolce della voce, " Questo solo ci mancava: che voi, con la stanchezza di un viaggio tanto lungo, venivate a casa mia; dove, quando si è sentito mai? ma vi pare! E, poi, quale dovere? dovere tra di noi, con la lunga amicizia che ci lega. ".

Nino appena sentì dirgli " con la lunga amicizia che ci lega ", provò il desiderio di scattargli in faccia una risata, prenderlo per il collo e gridargli nelle orecchie, fino a stordirlo: " Ma quale amicizia? Eravamo amici, da carùsi, sì; poi, voi siete diventato il cavaliere Fofò e io mastro Nino, voi signore ed io scalcagnato, voi avete alzato il naso e io calate le spalle! Quale amicizia, dunque?"; ma si tenne e gli chiese:

" Vi ricordate, cavaliere’, quante battaglie facemmo da carùsi, quante volte siamo andati sul fiume, a prendere il bagno nello stagno di Finè, dove annegò Mariano ti-ra-la-coscia? ".

" Già, " rispose il cavaliere, preso dai ricordi, da carùsi, si fanno cose che, da grandi, non faremmo mai: si fanno cose che, come dire, a pensarci dopo, calcolando il rischio, si resta presi dalla paura. Ma, carùsi, non ci si pensa e, magari, si risica la vita, così per gioco, per cose senza senso, senza motivo o ragione; fino a quando non succede qualcosa, qualcosa di terribile e mostruoso, anche per noi carùsi, che ci fa scandaliàre per sempre. Così noi, come tutti i carùsi senza senso, andavamo allo stagno di Finè; fino a quando non vi annegò Mariano vi andammo; poi, mai più, ché ci scandaliàmmo. Mariano di questi tempi morì: un giorno come oggi, caldo che toglieva l’anima e il respiro. In paese, faceva un caldo che squagliava le pietre, non si poteva stare: e tutti i carùsi della banda, io, voi, Matte’ pelo rosso, Liberto re d’aremi, Ignazio pedone, Mariano e tutti gli altri, partimmo per il fiume, per andare a rinfrescarci; bella. rinfrescata ci prendemmo. Di préscia andavamo, ché avevamo préscia di bagnarci; e Mariano più préscia di tutti aveva; che era la morte che lo chiamava?: primo di tutti era, tirandosi dietro la coscia malata che era una dannazione a vederlo. Appena giunti al fiume, ci spogliammo nel canneto. Smaniosi di bagnarci e, nudi come pesci, ci preparammo ad entrare in acqua. Ma Mariano ci trattenne e ci disse che doveva entrare prima lui: se vi ricordate, il capo era lui, e comandava lui. " Indietro tutti: " ci disse " prima debbo provare l’acqua, che, oggi, non mi convince, tanto è lorda. " Che era la morte che gli parlava? Noi tutti mormorammo disaccordo. Ma lui " Chi sono io? " ci chiese. E noi " Il nostro capo" rispondemmo. " Come mi chiamo? " ci chiese, mentre montava su una roccia per tuffarsi. " Asso di bastone. " rispondemmo: " Si avvicinò a Nino, a bisbigliargli nelle orecchie, " se vi ricordate, si faceva chiamare " Asso di bastone ", ché aveva le vergogne più grosse di tutti. " sorrise, malizia di maschio nei suoi occhi, e riprese a contare a voce alta " " E, allora, " ordinò " gridate ": ‘Viva asso di bastone’, mentre mi tuffo, e continuate a gridare, fino a quando resto sott’acqua. " Il nostro grido si alzò come un grido di dolore per i piedi nudi scottati dalle pietre brucianti di sole. Mariano sorrise e si fece la croce. Al levarsi del secondo grido si tuffò, elegante e goffo, con la gamba malata, minuta, volante nell’aria, fazzoletto in saluto. Tagliò l’acqua con tocco di mano, Mariano. Al suo tocco, l’acqua si apri; sul suo corpo, si chiuse. " Viva asso di bastone " gridammo al velo chiuso dell’acqua. E gridammo, e gridammo, e gridammo: dovevamo gridare a quell’acqua, finché non si apriva a ridarci Mariano. E gridammo; avevamo voglia di gridare: non tornò più a galla Mariano. Mai più lo trovarono: la piena. che venne l’indomani, lo portò a Licata, alla marina. Mah! " concluse " quante cose storte si fanno da carùsi! ".

" Già: " disse Nino " la vita dei carùsi, la più storta e la più vicina alla morte é: più vicino di quella dei vecchi; più saggia e più vera. Ma, ora, cambiamo discorso: parliamo di cose più allegre: quanto costa un tabùto? ".

Il cavaliere scattò in una risata, senza freno, che stonò la casa. Pure, Nino rise. E continuò a ridere, il cavaliere, congestionato il volto, aperti, senza misura, gli occhi e la bocca: la stanza esplose nella sua risata, aperta e risucchiata.

" Ah! Ahah! " fece il cavaliere, battendosi le mani alle ginocchia, " lh! sempre allegro sei stato: da quando eri carùso, sempre allegro sei stato. "; frenò la risata, cambiò di colore: si fece serio, e pentito, a farsi perdonare. " Oh, scusate, " corresse, tono serio e dimesso nella voce, scusate, don Ninì; mi ero lasciato andare! ".

" Macché! " fece Nino, paterna e perdonante la voce. " macché don Ninì del cavolo!; che amici siamo!: meglio il `tu’: e, poi, quel `don’, su di me, stonava, come una lumaca col cavallo. ".

" Stonare? No, stonare, no! ".

" Ma nemmeno intona. " disse Nino, riso affiorante negli occhi e nella voce.

L’altro prese la posizione di petto.

" Ch’è?... " fece, scandalo vivo nella voce, " stonare?; se una vita giusta, un passato onorevole, anche se sfortunato, i meriti di una persona, l’onore che questa persona porta alla sua famiglia e al suo paese, non stonano: come, come può stonare un piccolo riconoscimento pubblico, un piccolo titolo? ".

Si sorrise Nino, il gioco correva alla sua mano. Mostrò sorpresa, negli occhi, e mucciàta compiacenza.

" Giusto, " disse convinta la sua voce " va be’; con gli estranei va bene, ma tra amici stona, tra amici è meglio usare il `tu’: il `don’, ehm... allontana l’amicizia. Giusto, cavalie’? ".

" Cavalie’?... " fece l’altro, scandalo e paterno rimprovero negli occhi e nella voce, " Fofò, Fofò, vuoi dire? ".

" Fofò! " accettò Nino, sorridendo in se stesso: era riuscito a trarlo dai suo cànto; e ce n’era voluto di tempo.

Si strinsero le mani; manco il tempo di stringersi le mani ebbero, ché una voce, proveniente dall’esterno, li distrasse.

Chiese di entrare, la voce. Entrò: entrò un ragazzo, in candida camicia, in mano un vassoio con sei bicchieri, tre granite e tre bicchieri, appannati, colmi d’acqua fresca: era il ragazzo del bar, il figlio di Sasà Papìa.

Nino, appena lo vide, restò stranito, gli occhi e la bocca aperti nella sorpresa.

" E ch’è? " chiese al ragazzo.

Questi indicò Fofò con lo sguardo.

Sorrise bonario Fofò.

" Niente, " disse " niente, un piccolo presente un pensiero: prima di venire qui, mi sono permesso di passare da Sasà e gli ho ordinato qualcosa; poca cosa, un piccolo rinfresco. ".

Nino ne fu quasi offeso, ma non diede a vederlo.

" Ma... ".

" Niente ma. " ingiunse Fofò " Capisco che ho agito con leggerezza, ma... " e restò a mezza bocca, non più parole.

" Ma... " riprese Nino; poi, vide il cavaliere angustiato e cambiò idea: " Mah, comunque... " fece, in un sorriso perdonante, " grazie, Fofò! Mi hai preso in curva: sei stato più veloce. Ma, la prossima volta, tocca a me. ".

" La prossima volta, tocca a te; " disse Fofò " se... se arrivi prima di me. ".

Rise.

Risero.

" Stamattina, appena sei entrato tu, " disse Nino, sorbendo la granita, " ho sentito, sùbito, come dire?, una gran serenità, un gran fresco nel petto; ora capisco cos’era: la granita, in arrivo, era. ".

Risero.

" É inutile, " disse l’altro. frenando il riso che gli forzava la bocca, " quando si nasce cuori allegri, non si può essere tristi, manco in mezzo ai guai: tu sempre allegro sei stato; e guai ne hai visti, specie ultimamente. ".

" Acqua passata: " rispose Nino, volando la mano come a cacciare una mosca fastidiosa, " poi, ti racconterò. ".

" Già, acqua passata; ora, finita è: il passato non ritorna: acqua passata non macina farina. Ne passasti guai; ora basta, finì, per sempre finì, vedrai: ora, sei qui?. in mezzo alle mura familiari, coi tuoi parenti e in mezzo ad amici fidati che non permetteranno a nessuno di farti del male e che ti conforteranno delle pene passate. Il passato non ritorna: solo nei ricordi torna; e i ricordi si possono scordare, allontanare per sempre, se si vuole. E i ricordi di un passato travagliato e amaro si devono allontanare, se si vuole vivere una vita tranquilla e felice: basta un solo ricordo amaro ad amareggiare una vita, a travagliarla e dannarla per sempre, senza gustare la dolcezza di un minuto di requie. Ma tu non devi pensare al passato, non devi addolorarti la vita; devi cercare di scordare, vivere una nuova vita. E per dimenticare, devi distrarti. frequentare nuovi amici che t’impediranno pensare; e non restare solo, chiuso in casa a pensare e ripensare al passato, a pestarlo e ripestarlo nel cervello. Fidati di me, la miglior cura, contro i ricordi, è impedirsi pensare, non permettere ai ricordi di tornare ad afferrarci la mente: vivere la vita alla giornata, così come viene, e svariarsi, a divertirsi, capito? Tu devi divertirti: solo divertirti e basta; e non restare solo, a pensare, a torturarti la mente, ad avvelenarti la vita per niente. Va be’, capisco, ti viene difficile dimenticare quello che eri e quanto eri ricco; ma, dopotutto, dopotutto, non si può dire che sia povero, eh?: novanta milioni non sono una miseria, magari ognuno... Ma ora, basta. Il punto principale è dimenticare, svariarti; e, in quanto a svariarti, non ti preoccupare, fidati di me, é pensiero mio. Punto primo, non devi restare chiuso in casa; devi cambiare abitudini e non pensare: solo divertirti devi. Oggi stesso devi cominciare: basterà che da ora, da questo stesso momento, tu cominci a imparare a vedere il mondo da un altro punto di vista, con altri occhi, e vedrai come cambieranno pure le cose, come cambierà la vita, dalla ‘A’ alla ‘Zeta’ cambieranno, vedrai. Per cominciare, oggi pomeriggio, verrò a prenderti per fare quattro passi e, poi, magari, avvicinare al Casino dei nobili, eh? ".

Nino rise.

" Ma no... " disse, riso vivo nel tono della voce, " che casino dei nobili e nobili! Ragiona, Fofò: che sono cosa di casino dei nobili, io? ch’è, nobile sono? " e rise " No, " aggiunse " non lo devi manco pensare! ".

" Ma non é questione di casato; questione di merito è. Sì, proprio, di merito è. E, in quanto a merito, lasciamelo dire, con te nessuno pareggia. E, poi, in tempo di democrazia siamo, e, in democrazia, non c’è casato che tenga. tutti siamo uguali. Bella, proprio bella la democrazia. ".

" Ma che merito e merito: quando mai s’è guardato il merito della gente in questo mondo, dove?; tutti alziamo piedi, a calpestarlo. No, non sono cosa di casino dei nobili, io. "

Fofò senza parole restò, strambìto. E il silenzio aleggiò freddo e pesante nella stanza; poco durò: Fofò, lesto, si riprese.

" E che vuoi fare? " chiese in grido, finto furore sciolto nella voce, restare chiuso in casa, a pensare e pensare al passato? E che concludi, restando qui? Zappi l’acqua e semini il vento: niente. Ti danni l’anima per niente; e, invece, devi distrarti, svariare la mente, se non vuoi impazzire, ché... la peggio cosa dell’uomo e la mente che ragiona: il senno che pensa troppo porta sempre alla pazzia.".

" Vedi, " riprese Nino, tono lento e convinto nella voce, "non è che voglia restare solo e chiuso in casa: accetto la tua amicizia, la tua compagnia, quella degli altri amici, ma non parlarmi del casino dei nobili: non e cosa. Sì, va be’, devo distrarmi ma... ". Non lo lasciò finire Fofò.

" E come vuoi distrarti, " gridò, quasi la voce in abbaio, restando sempre in casa? accontentandoti di qualche passeggiata sulla via grande con gli amici? Ah, come vuoi distrarti, me lo vuoi dire? No, non è cosa, Ni’, come fartelo capire! Qui non siamo in America; in un piccolo paese della Sicilia, povera terra, morta di fame e scordata da tutti, siamo. E la vita di paese troppo noiosa è, senza qualche piccola distrazione, un piccolo passatempo. Te lo scordasti, scordasti come si campa in paese? ".

Ma no, no, non se l’era scordato Nino, il modo di vivere in paese: lesto fu a ricordare la vita lenta, a passare, lo scorrere lento dei giorni, senza svago e novità: in paese, nei giorni d’estate, ci si annega di sole e si erra, costeggiando le case, assetati di ombra e di un fresco bicchiere di vino. La strada è sazia di sole e desidera l’ombra dell’uomo, che resta nascosto dal sole o é a rompersi il culo in campagna. E il paese ti parla soltanto di richiami di madri o di strilli di bimbi. La sera, si parla, nei cortili, dei fatti del giorno: della morte del Tizio o della fuga del Caio. Nei giorni d’inverno, non c’è un’anima, o l’ombra di un cane, che divora la strada. Le sere d’inverno si passano a casa, a contare le gesta d’Orlando, oppure si va nei saloni, a sentire, al suono del bànjo, cantare stonate canzoni. Non se l’era scordato Nino, no: e come poteva scordarlo?: si può scordare tutta una vita vissuta, tutta una vita da vivere?; fermo doveva tenersi; fino ad un certo punto, fino a che la parte lo chiedeva, a farsi pregare, quasi farsi forzare a cambiare vita: il suo ruolo lo esigeva, ché, un improvviso cedimento, poteva far cadere la sua parte, come una maschera di carta, e nudare il vero volto, la vera vita di Nino. No, non poteva cedere di botto proprio ora che guidava il gioco: alla fine di una partita, il perdente si fa più attento; più duro doveva tenersi e più sicuro, e non cambiar gioco, ora, all’ultima passata, ché poteva scoprirsi e far vedere che aveva false carte alla mano.

" Hai capito, " continuava Fofò, facendosi ragione nel tono alto della voce, hai capito che per svariarti veramente devi venire al casino dei nobili?: qui, non c’è altro luogo di svago, niente c’è; solo il casino dei nobili c’è. ".

Nino capì che doveva calare qualche carta.

" Sì, " fece, quasi convinzione nella voce, " tu hai ragione, Ma... ".

" Ma... che cosa? " lo interruppe Fofò, quasi in grido la voce.

" Ma neanch’io ho torto: io, al circolo, non ci vengo. ".

" Ma perché? ".

" Ma per tanti, tanti motivi; tu non puoi capire. E, poi, a venirvi, a volervi venire, ché mi accetteranno; non mi rideranno sulla faccia, appena mi vedranno? Ah! Ah! no, non è cosa! ".

" Come?... che?... riderti sulla faccia? e chi, chi, ti riderà sulla faccia? Chi non ti accetterà, ah?... E chi è che ti parla?... Nessuno? ‘Cecco va cercalo’, ti parla?... Io, io ti parlo, Fofò Burgiàzza: il vice presidente del casino dei nobili ti parla. Di’, fa’ che qualcuno rida di te, la dentro: e vedrai in quanti e brutti lacci si troverà. No, Ninì, puoi star tranquillo: quando, oggi pomeriggio, verrai con me al circolo, tu, il primo sarai, il primo fra tutti i soci, e il più degno. E già che ci siamo, già che è per questo, per convincerti meglio, vedrai, dopopranzo, con che compagnia ti vengo a prendere; e non ti strambìre se vengo a prenderti col sindaco in persona, col dottore La Chiara e... " abbassò la voce, quasi un sussulto, " don Micùccio Marella: " portò la mano, le dita tutte riunite a cono, alle labbra, scoccò un bacio sulle punta delle dita e le apri, nell’allontanarle dalla bocca, quasi fiore sbocciante, " il fiore del paese! " disse calmo calmo " ché tutti, tutti devono sapere quanto vali!, " concluse accaldato.

Nino si schermì; sorrise.

" Bontà tua. ". disse.

" Merito tuo. " rispose l’amico accontentante.

" Già, merito mio: " pensò Nino, ridendosi nel senno, " solo merito mio è, se, per tutti, sono più di quello che sono, se, con tutti, faccio più di quello che potrei fare. ".

E rise, e si rise nel cervello, fino a sentirselo scoppiare in mille giochi di luce, lucciole e luna e brillio di rugiada, buone luci dei campi nello scuro di luglio. E, ubriacato di gioia, si sentì sicuro: ormai, aveva vinto su chi era venuto per vincere.

Temette tradirsi: che le sue risate mucciàte gli uscissero fuori, nella faccia, negli occhi, nella voce, temette e cercò di controllarsi, di frenare la corsa delle risa nel cervello. Ma non vi riuscì: non poteva pensare a Fofò, che, nobile senza un soldo, aveva montato tutta quella carnevalata, di parole e di fatti, per guadagnarsi il primo posto tra i suoi amici più intimi, tra coloro che, per primi, avrebbero goduto i suoi favori, che sarebbero vissuti alle sue spalle; non poteva pensare a tutto questo senza sentire il bisogno impazzante di ridere, di ridersi dentro, almeno.

E la sua mente rideva e pensava:

" Ah... la vita, che cosa falsa è la vita: s’imbroglia e sbroglia nelle parole, e mai che si vede giusta ché, ogni momento, si cambia e si ricambia al cambiare del sole, al cambiare di poche parole: pare confusa; e basta una parola, fuggita al caso, basta un tono a risolverla. E mai potrai capire se ciò che vedi é vero o falso cangiante. Lo specchio degli atteggiamenti umani, delle parole, è la vita, e mai dei fatti: se si specchia falso, falsa è la vita, ma per chi guarda è vera. Fofò era venuto per fregarmi, e si è fregato: così è la vita, basta un gioco di parole a cambiarla tutta. Fofò quasi pena mi fa; e mi fa ridere, se ci penso: parte per cacciare e ritorna cacciato, viene per scroccarmi, per servirsi della mia amicizia per scroccare gli altri e trova chi lo scrocca e si serve di lui. Questa è la vita: travaglio continuo per cose senza senso: la faccia, un applauso; uccidere e morire per cose false: l’onore, l’invidia degli altri, e mai per cose vere. E l’uomo, per l’onore, ammazza e si ammazza, disonorando se stesso; la propria natura. Ah... l’uomo ragionante, che cosa nauseante e vomitòsa! Meglio gli uomini primitivi che vanno con le vergogne di fora, che vivono e uccidono nella legge che é la loro vita, senza tener conto delle bocche della gente, e che vivono nella loro natura, liberi dalle parole e dai gesti; meglio i carùsi che vivono, così, scagliati alla giornata, che prendono e lasciano secondo il loro senso, che piangono e ridono e mangiano quando ne hanno voglia, senza tener conto dei casi e dell’ora, senza seguire un motivo ragionante e senza sentire il bisogno di render conto a qualcuno, ma solo a loro, dei loro fatti e dei loro pensieri, che parlano e agiscono e credono come il loro senso dice e che vivono una vita vera, e propria, liberi dai ragionamenti, senza peccati e pentimenti; meglio gli animali che non si guardano attorno in cerca di consensi e di parole incoraggianti, che uccidono per vivere e non per salvare la faccia, che, quando muoiono, ingrassano la terra che li ha nutriti. Meglio tutti questi che amano e odiano, e che uccidono e muoiono nella loro natura. Meglio tutto questo, che questa vita ragionata e falsa, fatta di parole e non di fatti: meglio bocca di pistola, che bocca d’uomo. ".

" Che hai? " gli chiese Fofò, strappandolo a se stesso, " Ch’è, ti senti male? ".

" Niente, " rispose Nino " il caldo. ".

E si sorprese tremante e sudato, impaurito dai suoi stessi pensieri e stanco di seguirli nella loro corsa nel cervello.

" Fofò si preoccupa per me: " si disse " fa di tutto per mostrarmi il suo affetto. Era venuto per incatenarmi al gioco delle sue parole e se ne va incatenato; il bello è che è convinto e contento di esservi riuscito. Basta un gioco di parole per cambiare le carte della vita: voleva prendere me ed ha preso se stesso; meglio così: morte che vien per me, prenda l’amico. "

E riprese a ridersi dentro; e si smarrì ridendosi, ché il cervello gli riesplose in un bruciare di luci e di risate mucciàte. Si ritrovò nella voce di Fofò che suonava alta, a richiamarlo alle cose di tutti i giorni.

" Bah, " sentì dirsi " mi pare che ci siamo messi d’accordo. Me ne vado, ché ora di pranzo è, e tu mi sembri stanco. Ci vediamo dopopranzo, alle cinque, dopo che sarà passata la calura del sole, ci vediamo al rinfrescare. Stammi pronto per le cinque, ché a quell’ora, coccio più coccio meno, verrò a prenderti con chi sai. Arrivederci. " concluse Fofò e gli prese la mano nel saluto.

" Stammi buono " disse Nino, lasciandolo solo nella barriera di sole che bruciava, a piombo, sulla porta.

Senti sua madre parlare; si volse.

" Quello ti vuole mangiare i soldi: " diceva sua madre " s’è mangiata la sua roba, e, ora, cerca quella degli altri. Troppo ti liscia: quando il diavolo accarezza, vuole l’anima. "

" A chi lo dici!... " rispose " e ch’è non lo conosco? lo so, ma, con me, il conto, che s’è tirato, non gli torna. "

" Ascoltami, Ni’, " riprese lei " quello un malo amico è. Non mi piace, lascialo friggere nel suo stesso olio; vuole ridurti senza n soldo come lui: t’insegnerà tanti vizi, vuole rovinarti. ".

" Lo so, " riprese Nino, calma la voce, a uso parlasse a se stesso, " ma mi serve per certe cose mie, per certe cose che ho per la testa. Ma non ti preoccupare: non m’incaglia con la sua parlantina, ché so quel che faccio. Ma, ora, apri la porta, ché cambi l’aria, che non si può manco fiatare: Fofò ha infestato la casa con la sua falsità ed ha lasciato un’aria bassa come i piedi del comò. ".

Sua madre apri la porta.

Nino tirò una boccata d’aria che lo pulì nell’anima; non gli bastò.

" Bah, esco un momento. " disse, il piede sulla porta.

" Dove vai? ".

" Qui, nel cortile a lato: spunto da ‘gnura Maria e torno. "-.

" Ma il pranzo è quasi pronto. ".

" Oh, ma’.... " fece Nino, infastidito, " Qua sono, il tempo di prendere una boccata di aria buona: qui, l’aria, ancora, mala è. Quando è pronto, mi chiami. ".

Due passi nella vampa del sole, e si trovò nel cortile abbruciante di luce, solo nido di vita, groviglio continuo di famiglie, di modi di essere e fare che non cambia col mutare dei tempi, di popoli e razze, che, per tutti e per sempre, presenta una sola faccia: vasi di basilico, sui balconi e sui tetti, ridono verdi al sole; mentre a terra, nel basso cortile, la comare, il capo coperto, ti muove l’estratto, là, sulla tenda di tela, posata su trespi di letto. E l’estratto si asciuga al sole che batte alla testa. Allora, si coglie, l’estratto, e si serba in fondi di anfore rotte. E ride la comare, aprendo finestre alla bocca, e rimprovera il figlio, che tasta col dito l’estratto. E dice, il marito è in Germania e vuole l’estratto, e lei glielo manda, ché per questo l’ha fatto, se no, è più comodo comprarlo in boàtte. E pulisce il bambino; poi, rimuove l’estratto e si asciuga il sudore. E il bimbo, cocciuto, col dito t’assaggia l’estratto.

Così vive il cortile. una vita di povera gente, ma sazia di sole: una vita continua, ma che, d’inverno, si chiude ad aspettare mariti lontani; una vita vera e presente, donatrice di vita e di intimi affetti alle anime sole.

Restò fermo Nino, piantato nel centro del cortile, a riscaldarsi di sole e di vita, a pulirsi l’animo dall’amarùme che Fofò gli aveva piantato in un punto nascosto del petto.

" Ah! " fece, il viso inchiodato nella luce, " resterei così mille anni, a ricrearmi tutto. ". E restò fisso, il volto in alto, la bocca aperta a bere vita nella vampa del sole, ricreandosi dei raggi brucianti che gli piovevano addosso, come sangue caldo di uomo che leva lordure, come mani leggere di donna che leviano pene. E si sentì rinato Nino, e piccolo nel grande mondo, ma con mani così grandi da abbracciarlo tutto. E il sudore, che gli rivolava il viso e il corpo, gli bruciò le nari di vivo puzzo d’uomo. Nino lo aspirò tutto, quel puzzo, fino a sentirselo in ogni mucciàta sua carne. E in quel puzzo si vide animale, e bambino, e uomo di giungla. Fermo restò, e solo, a passare alla terra i raggi del sole, che lo correvano tutto; e qualcosa di più grande, di più arcano, lo attraversò e, per lui, entrò nella terra. Solo quando sua madre lo chiamò, si mosse.

 

 

 

 

 

Cap. 14

Il tempo lesto volò, come bacio di vento sopra i colli: un cambiare di luce, e furono le cinque.

Alle cinque in punto, bussarono alla porta.

Nino guardò l’orologio, le sfere spaccavano l’ora.

" Arrivarono. " disse, e guardò verso sua madre, domanda negli occhi; lei rispose, calando la testa: il caffè fumava nelle tazze.

Sorrise Nino.

" Entrate " disse.

Primo, entrò Fofò, cantando un saluto, abbraccio nella voce; gli altri lo seguirono docili e lesti, e corsero a mucciàrsi nello scuro della stanza.

Nino strinse le mani.

Non parole. Muti e lesti, bevvero il caffè, come vino di messa. In silenzio uscirono. Ritti e muti si fecero strada, il passo in corsa, giganti crescenti negli occhi della gente. Nino in mezzo ai quattro stava, due uomini a lato, come gente di riguardo o delinquenti, ritto e serio in volto, ma nel cervello moriva dalle risa: la sua ombra ingigantiva, nel sole del tramonto; lui, nel brillìo vivo d’invidia, nelle occhiate sfuggenti della gente.

Arrivarono al circolo stanchi e pieni d’orgoglio, soldati in parata.

Sulla porta trovarono Cosimo, il casiniere. Si scappellò Cosimo.

" Baciamo le mani. " salutò. " Il presidente, nel salone, vi aspetta. " disse.

Un vocìo, alto e confuso, indicò a Nino la porta del salone: in fondo al corridoio.

" Spicciamoci. " disse Fofò.

Si spicciarono. Cosimo passò davanti a loro, li sorpassò, il piede in corsa: ad aprire la porta del salone corse. Il mormorìo mori: nacque il silenzio.

Calò la testa Cosimo, gli occhi puntati nel salone.

" Vennero. " disse. Calò, ancora, la testa. " Sì " aggiunse, quasi rispondesse ad un fantasma, " tutti, tutti, sì, pure lui c’è, si don Nino. ". E si scansò.

La figura curva di un vecchio spuntò, traballante, sulla porta del salone e prese il posto di Cosimo, che si era scansato a farlo passare. I suoi occhi, punte d’incerto, cercarono Nino, lo trovarono, bruciarono orgoglio in lampo di gioia.

Fofò, appena lo vide, diede un colpo di gomito a Nino.

" Don Ferdinando Roccella, " gli disse, un sospiro la voce, "il presidente del casino. ".

Nino guardò il vecchio, e gli sorprese un sorriso sulla faccia.

Pure lui sorrise.

Don Ferdinando gli tese la nano.

" Ben tornato. " salutò, in festa la voce, " Benvenuto, benvenuto tra noi, al nostro..., come si dice? " si chiese, in un giro di occhi, " Ah..., si: " trovò, " club! Benvenuto al nostro club. " disse lesto, a scànso di sbagliare, alta la voce, quasi un grido. Gli strinse la mano nel saluto, e lo guidò nel salone. Gli altri li seguirono. Un silenzio, ordinato, li accolse.

" Signori, " disse don Ferdinando, in comizio la voce, " vi presento il signor Bunàca don Nino, che ci ha fatto l’onore di visitare il nostro circolo e che, vi prego, di accettare tra noi soci fondatori, ché, prevedo che, nel nostro circolo, una grande e subita carriera farà. ".

Nino sentì salirsi per la gola il botto di una risata; per miracolo si tenne: ché non lo riconoscevano?; c’era bisogno di quella presentazione?: di quella carnevalata?

" Mah..., " si disse " forse, così si usa; e, in effetti, nessuno mi ha mai conosciuto come ‘Don’. ".

E si ricacciò nel profondo del cervello, la risata che, già gli affiorava sulle labbra, riconoscendo il valore del rito.

" L’ammissione, " continuava, intanto, il vecchio, comiziante la voce, " dato il caso particolare, sarà concessa per applauso: chi accetta don Nino come nuovo socio deve battere le mani; gli altri, niente, fermi. ".

" Bene " pensò Nino, i sensi erranti in un nuovo vortice di risa, " siamo già agli applausi: la farsa completa è. ".

Senti scivolarsi nel nuovo vortice sempre più fortemente, e le sue labbra si arricciarono, a ridere da sole. Temette non riuscire a fermare la nuova ondata di risa che gli forzava la gola. Ma un applauso pieno lo distrasse ai suoi pensieri e lo aiutò: era il consenso dei soci alla sua ammissione ed il loro saluto.

" Bene, " fece don Ferdinando, soddisfatta la voce, " ammesso col massimo consenso. Mi compiaccio con voi: " disse, rivolto a Nino, " vedete quanto siete apprezzato, don Ninì?: giusto valore, giusto apprezzamento. ", e gli strinse la mano. " Mi compiaccio, mi compiaccio; io non avevo dubbi. E, ora, una piccola firma e regoliamo la situazione: il verbale è già pronto, basta la sola firma ed è tutto a posto. Cosimo " gridò " il registro, il registro dei soci fondatori, lesto. "

Cosimo corse a prendere il registro. Lesto tornò. Nino si piegò a firmare: in piedi firmò, i gomiti poggiati sul registro.

Gli altri gli si misero attorno, a guardare ed aspettare il turno per la firma. Ultimo, il presidente firmò. Firmato, don Ferdinando fece segno di sedersi. Si sedettero in un graffiare di sedie.

Il vecchio prese un foglio dalle tasche, lo stese tra le mani tremanti.

" É con vero piacere " cominciò a leggere " che... "; si zitti, rabbia viva negli occhi. Cercò di riprendere a leggere, forzando le mani a star ferme; non vi riuscì.

" Cosimo, " gridò, interrompendosi, " Cosimo, vieni qua. " ordinò, tremante la voce di anni e di furore.

Cosimo lesto accorse.

" Che c’è, " chiese pronto "che c’è? ".

" Bah, " fece don Ferdinando, infastidito, " vieni qua, di lato, non togliermi la luce; e tienimi ‘sto foglio, ché, con le mani che mi tremano, non ci leggo niente e gli occhi mi fanno pupi pupi ".

Nel salone scivolò una risata. La sentì don Ferdinando, ne intese il senso: il suo volto si fece di pietra, le sue rughe, spacche di pena, le sue mani, radici di dolore divennero. Stette, un attimo, fermo a sfidare se stesso, il suo stesso dolore; non resistette: parlò; di parole lente e strascicòse parlò, la sua voce, grosso grumo di pianto.

" No, " disse, rivolto a Nino, con un’amarezza quasi figlia di grido, " no, non lo leggo; forse, è meglio così. Don Ninì, credetemi, io l’ho scritto col cuore questo discorso, a fare ‘na cosa pulita, ‘na cosa... " e si fermò, non più parole, distrutto, " Niente, niente, " fece, volando le mani, gli occhi persi, quasi guardasse la morte. Si riprese. " ‘Na cosa pulita volevo fare, adatta alla vostra persona, " continuò, muovendo, la testa, quasi tremasse, " come usava una volta, ma le cose pulite non si fanno più, non si usano più. Epoca barbara! Non lo leggo, no; vorrei che ve lo leggeste voi, con calma, quando sarete solo, e che non badaste alle parole, che poi, poi sono sempre le stesse, ma ai sentimenti, credetemi. ".

" Grazie, " disse Nino, colpito, " grazie, lo leggerò, con attenzione, lo conserverò. ".

" Grazie a voi, " rispose il vecchio, in un sorriso stanco di pensieri, " a voi che mi avete fatto concludere bene. Non mi crederete, ma sono contento, tanto: contento di aver fatto il mio ultimo lavoro, come presidente, scrivendo un galantuomo come voi, e vi sono grato, grato. ".

Nel salone, sorsero domande preoccupate.

" Sì, " rispose don Ferdinando, ferma e dolorosa la voce, " sì, vorrei dimettermi. ".

Si fermò un attimo a riprendere fiato, a cercare parole.

" Signori, " riprese, più alta e più sicura la voce, " vi prego di accettare le mie dimissioni, ". Il silenzio strappava gli occhi, nel salone. " per... per ragioni di salute. ". concluse, e indicò, con gli occhi, le sue mani tremanti.

Nel salone, si alzò il disappunto, quasi lamento.

Don Ferdinando alzò le mani, a calmare le proteste.

" No, no, " disse, stanca e vinta la voce, " lasciatemi andare, sono troppo vecchio per continuare, senza più forza e coraggio, fuori del tempo; non temete, vi lascio in buone mani: le mani di don Nino. E ora, andate, siete liberi; e ricordatevi il mio consiglio, quando eleggete il nuovo presidente, spero mi ascolterete: don Nino. ".

Le ultime parole di don Ferdinando caddero in un silenzio di pena. Muti, i soci fecero per uscire.

" Un momento, " disse Fofò, prendendo la parola, " un momento, vorrei dire qualcosa. Come vice presidente, accetto con dolore la richiesta di don Ferdinando e non penso nemmeno a rifiutarle, visto che lui lo vuole. Per oggi, il consiglio è sciolto, ma domani mattina si riunisce, per eleggere il nuovo presidente, ché, dato il momento difficile che attraversiamo, è bene eleggerlo sùbito. Gli assenti saranno multati, come è d’uso. Ho finito. ".

Uscirono tutti in silenzio, a salire nella sala da gioco, al primo piano.

Nino si trovava al circolo da più ore, ormai; stava fermo ad osservare il cambio delle carte nelle mani dei soci, quando il cameriere venne a dirgli che il suo mezzadro lo aspettava giù, all’ingresso, per parlargli. Nino scese. Poco dopo, risalì.

" Signori, " disse, spaccando le parole per il fiatone che gli era venuto nel salire di préscia le scale, " mi dispiace; domani non posso essere in mezzo a voi per l’elezione, come aveva detto Fofò, ché debbo andare in campagna per la battitura del grano. Capirete che non mi posso assentare. Sono disposto, come convenuto, a pagare la multa: se mi dite quant’è, provvedo sùbito.".

Fofò gli si fece incontro, aperte le braccia, in sorriso le labbra.

" Ma quale multa?... per te, giusto giusto per te, la multa? Ma non ci pensare, tu sei giustificato, parti tranquillo, è possibile, che, quando torni, trovi ‘na sorpresa, ‘na bella sorpresa. Vai tranquillo, comprendiamo: i doveri della proprietà. ".

 

 

 

Cap. 15

L’indomani mattina, Nino dovette alzarsi presto, ché doveva andare in campagna per a trebbiatura del grano.

Sua madre lo svegliò che non era più notte. Solo un leggero chiarore, ai bordi delle nubi basse all’orizzonte, diceva che giorno era vicino. Lo destò con la voce che gli anni le avevano corrosa, come il corpo.

" Nino, " gridò, battendo col tacco della scarpa sul tramezzo che spartiva la sua alcova da quella del figlio, " Nino, svegliati ché sono le quattro e mezza e, alle cinque, arrivano i mezzadri. ".

Le rispose una voce di sonno che, a stento, riconobbe del figlio.

" Sì, sì, vengo. ".

Sua madre scosse la testa, gravemente, e si abbottonò il corpetto. Pensava che il figlio doveva stare, per almeno due giorni, in campagna, e quella, pur breve, separazione l’addolorava: due giorni rubati alla sua vita erano, alla sua vita che, ogni giorno, sempre più si scioglieva.

" Ah!... " lamentò, aggiustandosi il fazzoletto sui capelli, quasi gli occhi di pianto.

Si alzò, pesantemente e si avviò, calcolando ogni passo, con la camminatùra dolorante, propria dell’età e della natura, verso la porta che dava sulla strada, per aprire i portelloni alla luce che, ancor debole, penetrava in casa, forzando le fessure della porta. Poi rimboccandosi le maniche, si avviò verso la cucina e accese il fuoco di paglia, sotto il pentolino del caffè a metà pieno d’acqua. Sùbito, un fuoco alto invase la cappa annerita e avvolse il pentolino. Lei si fregò le mani sul fuoco, quasi a provarne la fiamma, aggiunse un po’ di legna e prese a macinare un pugno d’orzo abbrustolito.

Non udendo alcun rumore provenire dall’alcova di Nino, temette il figlio addormentato. Chiamò, alta la voce, forzando la gola:

" Nino, sei sveglio? ".

Ma Nino sveglio era. Stava immobile, assaporando il tepore delle lenzuola tra le gambe nel fresco del mattino, e guardava, con gli occhi semichiusi, la conquista della luce, sul tetto dell’alcova, e i giochi di ombre che si creavano, gustando l’odore dell’orzo, macinato di fresco, nelle nari. Contemplava il corpo immobile, sforzandosi di ricordare il sogno che, poco prima, aveva interrotto. Doveva essere n bel sogno: era di buon umore. Si compiacque a non rispondere sùbito al richiamo della madre. Ma tese le orecchie alla sua voce e ai mille rumori, della casa e della strada, che sapevano di cose lontane. Contemplò, ancora un po’, il suo corpo immobile; e si sforzò, ancora, di ricordare il sogno, cercando di abbandonarsi alla mollezza del sonno. Ma il sonno era lontano: solo il suo sapore umido aleggiava, ancora, nell’alcova.

La voce di sua madre suonò, ancora, alta, insistente.

Nino rispose sùbito, infastidito:

" Sì, sì, vengo: sono sveglio non temere. ".

Si alzò, lentamente: a malincuore.

Trovò sua madre che gli voltava le spalle, abbassata, com’era, per aprire lo sportellino della gabbia di legno, dove teneva le galline.

Lei, udendo i passi del figlio, si sollevò, dolorosamente, facendo leva con le mani sulle ginocchia.

" Lesto, lavati, " ingiunse " ché il caffè bolle. ".

Nino annusò l’odore del caffè che riempiva la casa, poi sollevò l’anfora e riempi un bacinella di acqua fresca. Si lavò, sbuffando sull’acqua, rumorosamente. Poi, gli occhi chiusi brucianti di sapone, si volse a sua madre, avanzando, le mani tese in avanti, quasi tastasse l’aria.

" Ma’. ".

Sua madre gli rispose dalla cucina, dove stava filtrando il caffè:

" Ah ".

" La tovaglia, ma’. Mai che riesco a trovarla. Si può sapere dove la impertùgi? ".

" Dove la impertùgio, dove la impertùgio; e che vuoi trovare con gli occhi chiusi?; così manco i muri vedi. Aspetta, che ne piglio una dal canterano. ".

Stava mangiando la zuppa di caffè, quando udì avvicinarsi il cigolio di un carro.

Alto era il canto del carrettiere, acuto il suono delle cianciane.

Poi:

" Ah... buono... e ritornò il silenzio. ".

Un colpo secco alla porta lo fece trasalire.

E venne, alto, un richiamo, che, entrando dai portelloni aperti, stonò tutta la casa:

" Donna Cunce’. ".

" Arrivarono. " disse la donna, avvicinandosi verso la porta. Nino si alzò, lesto, per mucciàre la tazza con la zuppa, vergognoso di farsi vedere a mangiare.

" Chissà perché ci vergogniamo di commettere le cose più naturali della terra, come mangiare, amare, andare nudi? " si chiese, ricordandosi di come aveva preferito andare a mangiare nella ritirata piuttosto che mangiare nello scompartimento affollato, in mezzo a tanti cristiani.

" Forse perché ci ricordano le bestie. " si rispose.

Sua madre aveva aperto la porta.

La luce già frugava tra le ombre.

Un saluto lo rubò ai suoi pensieri:

" Buon giorno, don Ninì. ".

" Buon giorno " rispose all’ombra, che si stagliava sulla porta, violentando la luce.

Sua madre parlava con la moglie del mezzadro.

Prima di partire, gli si avvicinò sua madre e gli diede una sporta.

" Tieni " gli disse " qui c’è pane e companatico per due giorni. Se, stasera, torna il mezzadro, mandami il pane che ti resta, ché te lo mando fresco per domani. Quando mangi, appartati, ché, con tutti i figli del mezzadro che ci sono, il companatico per la via se ne va. Nella borsa ci sono una frittata e due scatolette; la frittata la mangi oggi, ché si può guastare, col caldo che fa; le scatolette le mangi domani, ché possono stare. Ah, scordavo il fumare. ". E corse a prendere due pacchetti di Luckj Strike dal baule di Nino.

Partirono che il sole era incerto sul nascere.

Ora, seduto l davanti del carro, a destra del mezzadro, Nino si sentiva libero dalle cure della madre e rideva felice alle storie che gli raccontava il mezzadro.

Dietro, acculati tra i sacchi ed i panieri, i figli del mezzadro, che, ad ogni passo, attaccavano sciàrra.

La donna del mezzadro, seduta a sinistra del marito, richiamava i figlioli, rideva alle storie del suo uomo, recitava il rosario sottovoce.

Finite le storie, il mezzadro prese a cantare una nenia, accordandola col cigolio del carro e il suono acuto delle cianciàne.

E la campagna era uno scorrere lento, di giallo e di nero, allo sciogliersi lieve della nenia.

" Corri, muletto mio,. " scioglieva il canto, il carrettiere " corri e cammina, "; alzava la testa mulo, a dar colpi di cianciàne, "ché la strada è lunga e la casa è lontana. "; forzava il fischio Nino, a seguire il canto.

Oltrepassato il fiume, Nino si volse indietro a guardare la strada percorsa, ché dovevano imboccare una carraia. e vide il sole, sorto, già allineato sulla strada.

Il mulo si sfiancava sulla carraia, accidentata e in salita; il carrettiere scese, a sgravare il mulo; il carro impazziva, sbattendo le ruote sulle pietre.

Lasciarono la carraia, per fiaccare un campo: stavano per arrivare.

Non più rumori dal carro, che andava sciolto e senza cigolii: solo il suono cadenzato delle cianciàne; non più sballottii sul carro: pareva si andasse sui cuscini; le ruote segnavano la terra.

Arrivarono che il sole, già alto sulla punta di un colle, minacciava calura per tutto il santo giorno.

Il campo di Nino, un stretta striscia di terra che, dal piano, risaliva al colle per fermarsi ai piedi del carrubo.

Dal carrubo, Nino guardò la campagna circostante. La campagna scendeva dal colle, lentamente, fino a trovarsi nel piano senza ombra, per risalire i colli tutti intorno a ritrovare il verde dei mandorli, dei fichi e dei carrubi, e il rosso intenso dei fichi d’India fatti. In pianura, la campagna era aperta dalle ferite del sole, dove riparano serpi, per tutto il santo giorno, per uscire, a sera, a succhiare sangue alle giumente. Era tutta gialla la campagna, di ristoppia e di fasci di grano, messi ad asciugare, e rattoppata da grandi macchie nere, là, dove i campi erano a fave. In pianura non trovavi un albero, manco a sputarlo o a pagarlo a peso d’oro.

L’aria, pesante come un macigno, impazziva di sole e di cicale.

La calura soffocava le piante e sfiancava uomini e muli, che si ammazzavano nel pesante lavoro.

Nino stava a saziarsi di ombra sotto il carrubo, sopra un giaciglio che, appena giunto, si era fatto con le foglie verdi della pianta e i sacchi vuoti che il mezzadro, assieme alle bardature del mulo, le anfore dell’acqua, i fiaschi del vino le bisacce, col pane e il companatico, aveva lasciato in quell’unica e vasta zona d’ombra.

Il mezzadro, aiutato dalla moglie e dai figli, si era messo a preparare l’aia per la battitura del grano: aveva fatto girare il mulo attorno ad una corda, a descrivere un cerchio; aveva tappezzato nel cerchio, a strappare ristoppia e chiudere le spacche; aveva bagnato la terra zappettata; e, dopo aver buttato su di essa un sacco di pagliuzza minuta, l’aveva battuta con i piedi, a livellarla tutta.

Essiccata l’aia, l’aveva riempita di grossi fasci di grano e aveva iniziato la battitura.

Il mulo, incitato dal canto e dai colpi di frusta del mezzadro, girava nell’aia, pestando i fasci di grano.

Il nuovo rumore fece zittire, per un attimo, le cicale:

" Batti, batti, mula bedda... " il canto del mezzadro; " Ciaf, ciaf... " rispondeva il passo del mulo sopra i fasci.

E, e nel canto del mezzadro e nel continuo girare del mulo sopra i fasci, venne mezzogiorno: accecante sole e calura soffocante.

Nino si svegliò di botto, quando si sentì chiamare alle spalle dalla voce alta del mezzadro:

" Don Ninì, venite a favorire, ché la pasta é pronta. ".

Si alzò, ancora intontito dal sonno che lo aveva sorpreso, e restò meravigliato, vedendo la famiglia del mezzadro, già, riunita attorno a dei piatti fumanti di minestra.

" Sbrigatevi, " lo apostrofò, ancora, il mezzadro, " ché aspettiamo voi, per mangiare. ".

Nino apri la sporta e ne tirò fuori la frittata, avvolta in un foglio di carta oleata, e una forma di pane.

" Se vuoi che favorisca, " disse " devi accettare la mia roba. Ho, pure, due scatolette nella borsa, se vuoi, le apro, ma forse è meglio serbarle per stasera. ".

Finito di mangiare, Nino offri una sigaretta al mezzadro, che si schermì:

" Quelle sono cose fini, fatte per i signori. Io mi adatto meglio col trinciato `Forte’: offrire una di quelle sigarette a me è come offrire un biscotto all’asino: non saprei apprezzarla. ".

Ma, infine, accettò.

Nell’aria rovente, correva il lungo grido delle cicale, il canto degli uccelli era lontano, come un ricordo; sui rami alti del carrubo, un leggero e rado batter d’ali diceva che il cuculo dormiva e sognava assurdi canti per la notte.

Il mezzadro accompagnò Nino a fare un giro per il campo e per vedere se il prugno, dietro la casa, aveva prugne fatte da accompagnare al pasto.

Là, dove c’era il casolare, ora, c’erano, solo, quattro mura diroccate, a metà invase dalle macchie di fichi d’India. Così conciato, il rustico era buono, solo, non temendo le spine, per andarvi a fare i propri bisogni, mucciàti agli occhi della gente.

Stavano raccogliendo le prugne, quando il mezzadro, appollaiato su di un ramo, attirò l’attenzione di Nino.

" Guardate là: sul piano " disse, bassa la voce, quasi temesse di essere sentito da altri, oltre che Nino.

Venivano, da dietro il colle, nel campo di grano, nere figure, curve a cercare spighe, che Nino riconobbe donne, dietro di loro, carri, sonanti di cianciàne. E nella campagna, che gridava di cicale, si udivano le nenie dei carrettieri e gli strilli dei bambini. I cani camminavano sotto i carri, a ripararsi dal sole.

" Andiamo: bisogna fermarli, prima ch’entrino nel campo, " disse il mezzadro, secca e dura la voce, " ché vorrei vi andassero i miei figli a raccogliere spighe: ché, così, se le fanno i miei figli le scarpe, piuttosto che questi modicani. ".

Ciò detto, corse verso il piano. A Nino non restò che seguirlo.

Quando giunse, trovò il mezzadro, già in discussione con un vecchio seduto su di un carro.

Nino si acculò su di un masso, a riposarsi; e guardò il vecchio.

Anni di lavoro, segnavano le sue spalle e profonde rughe marcavano gli anni sul suo viso, come nodi sul tronco; le sue mani nodose, come un ceppo di vigna, ora buone solo alla mazza per le spighe, denunciavano lunga fatica.

Il vecchio parlò lentamente, tenendo gli occhi chiusi.

" Non temete: " asserì " nessuno toccherà le vostre spighe, se non lo volete. Voi ci calcolate male: ci credete pigri. E che credete, che non coltiveremmo la terra, se la vostra terra desse pane? Ma noi solo sassi abbiamo: sassi che travagliamo tutto il santo giorno; sassi che non danno pane. ".

Un bimbo, dal viso imbrattato di terra e muco, si alzò dal fondo del carro, per sedersi sulle gambe del vecchio.

Il vecchio apri, un attimo, gli occhi, per guardare il bambino, e scopri due gocce di cielo.

" Mio nipote " disse.

Poi, riprese il discorso interrotto.

" Mangeremmo la terra se potessimo, per andarla a lasciare sui nostri sassi. ".

Dal gruppo delle donne, che spigolavano, si staccò una bimba e si avvicinò al carro, cercando l’anfora per bere. Aveva volto pieno di foruncoli.

Il vecchio scese l’anfora dal carretto e guardò la bimba, che beveva; poi, in un sospiro, aggiunse:

" Avrebbe bisogno di cure e di mangiare buono. Era bionda, prima: bionda di pelle e di capelli. Tutti bianchi eravamo, ma il sole ci ha bruciati, come legna che al fuoco diventa carbone; ora, che siamo scuri, lavoriamo di più, come il carbone che sa dare più calore della legna, anche s’è legna già bruciata. ".

Il bimbo lamentò fame. Il vecchio aprì, un attimo, gli occhi, e fu lampo di azzurro.

" Hai fame? E chi non ha fame tra di noi? Forse, i muli che mangiano ristoppia. "

E prese un pezzo di pane per il bimbi.

Un cane passò, lesto come un lampo, inseguendo qualcosa, forse un coniglio.

Nino si levò dal sasso, su cui stava acculato, e incitò il cane.

" Dai, piglialo. " gridò.

Ma il vecchio alzò la mano, a calmare l’entusiasmo di Nino.

" Anche lui insegue i suoi sogni, " scoraggiò, lenta e rassegnata a voce, richiudendo gli occhi, " come noi che ci illudiamo di trovare grano tra le ristoppie e, invece, troviamo solo paglia a forma di spighe. Crede di inseguire un coniglio, ma, fra poco, si accorgerà di inseguire solo l’ombra della fame. Sì, pure il cane è spinto dalla fame a credere la propria ombra conigli, come noi, la paglia grano. Fra poco, si accorgerà di inseguire solo a sua ombra e ritornerà con la coda tra le gambe, come noi ritorneremo a casa, quando capiremo che raccogliamo solo paglia. Sì, siamo gli stessi, noi e i cani. E più siamo affamati e più siamo simili, e più ci comprendiamo. ".

Il mezzadro alzò il naso verso il sole e annusò il vento.

" Bah, è meglio che torni sull’aia, ché si sta alzando il vento ed ho da spagliare forte. Vediamo se possiamo dare ‘sti quattro colpi di tridente e sbrigarci per stasera. Ah... scordavo... Se volete cogliere le spighe sul mio campo, se don Nino è d’accordo, fate pure, che i miei carùsi possono aspettare con le scarpe. ".

Nino fece di sì con la testa, poi aggiunse:

" Se mandate qualcuno all’aia, potrei darvi qualche quarto del mio.

Il vecchio si prese le ginocchia tra le mani, stirò la bocca in un sorriso e lampeggiò l’azzurro nei suoi occhi.

" No: sarebbe carità " disse, calma e forte la voce, " e noi solo lavoro chiediamo. Accettiamo le spighe, se volete, ché a cercarle e a nettarle sono già lavoro. Pure l’aia accetteremo, se ce la prestate, quando avrete finito, per pestare queste quattro spighe. ".

Ciò detto, il vecchio tacque. E alzò la mano in segno di saluto.

Nino e il suo mezzadro risalirono il colle, lentamente.

Dietro di loro, ristagnò, per un attimo, il silenzio e poterono udire i loro passi sulla ristoppia. Poi, lo schiocco, di una frusta e il cigolio di un carro. Nell’aria si accesero nenie, lente e lontane: rancori, amori, canti per carùsi nella notte.

" Hai fatto bene. " disse Nino, ansante la voce nella fatica del salire.

" E voi avete fatto male, ché l’avete offeso. " gli rispose il mezzadro, certa e forte la voce, in sorriso gli occhi.

Giunsero in collina quasi sudati.

Le cime alte del carrubo impazzivano di vento.

Il mezzadro gridò qualcosa alla moglie, e corse sull’aia.

Inforcato il tridente, prese a spagliare contro vento.

Il vento, cozzando contro la paglia, sembrava fermarsi; imbrigliata la paglia, riprendeva la corsa. E la paglia, girando nel vento, si alzava leggera, quasi l’anima del grano, a ricadere lontano; la pagliuzza minuta volava per le strade del vento, a perdersi lontano, nei campi; il grano pesante ricadeva sull’aia, sudata grandine d’oro.

Soffiò, due ore, il vento. Poi, calò di botto, quasi fosse fermato da una rete di vetro. E ritornò calura. I grilli ripresero i canti.

Il grano, già, affiorava sulla paglia.

Il mezzadro ebbe un gesto spazientito.

" Guarda, " disse, rabbia viva negli occhi e nella voce, i piedi seppelliti nel grano già affiorante, buttando il tridente sulla paglia, ammucchiata a mezza luna sul bordo dell’ala. in direzione del vento, " ancora un’ora di vento, e ci saremmo sbrigati per stasera.".

 

 

 

Cap. 16

E venne la sera, senza che un alito di vento ricreasse l’aria soffocata dall’afa.

Il sole sparì, in un lago di rosso, dietro un colle, alimentando ombre.

Mangiarono acculati sui sacchi, sfruttando gli ultimi sguardi di luce. Nino gustò molto lo stufato di patate e cipolle, cui mescolarono la carne lessa delle scatolette.

Finita la cena, Nino e il mezzadro si allontanarono dall’aia per andare a fare acqua, prima di andare a riposare. Lasciarono la donna che preparava i giacigli per la notte, stendendo dei sacchi vuoti sulla paglia dell’aia.

Scesero fino al piano, dove i modicani si erano accampati per la notte.

I modicani dormivano sopra i sacchi pieni di spighe, sistemati sotto il carro, per ripararsi dalla rugiada notturna. Dormendo sui sacchi, i modicani facevano un viaggio servizi: riposavano le ossa e guardavano le spighe dai mali intenzionati.

I cani latrarono, rabbiosi, impedendo loro di avvicinarsi al campo.

Il buio livellava la campagna, cancellandone i contorni: sui colli circostanti, nei pressi delle case e delle aie, tremolavano lumi; in lontananza, i cani, accecati dal buio, si richiamavano abbaiando; i cuculi scioglievano già il canto.

" ‘Na ‘rappa. " esordì il mezzadro, quasi in riso la voce, salendo verso l’aia. Sorrise a Nino, anche se il buio gli vietava vederlo: si indovinavano appena dalle cicche accese, che ferivano il buio.

" Un carrettiere grottese, " parlò alto il mezzadro " era tempo di vendemmia, parti, di notte, per portare un carico di uva al mercato di Girgenti. Era una notte scura come questa, e non si vedeva manco a santiàre. Allora, i briganti correvano le strade e il carrettiere, parlando con rispetto, aveva le brache sporche dalla paura di incontrarli. Fatto fu, che, tra la paura e la fame, che non gli dava pace, decise di partire. Il viaggio si svolgeva normalmente, e il carrettiere cantava a tutta voce, felice di vedere le luci di Girgenti. Fu, appunto, mentre stava per arrivare a Girgenti che sentì il cuculo alle spalle. " ‘Na ‘rappa ", disse il carrettiere, a mezza voce, temendo fossero i briganti. Ma il cuculo insisteva e il carrettiere, sudando freddo, aumentò l’offerta " Du’ ‘rappi. ". E poi: " Tri ‘rappi, quattru ‘rappi; un paniere; un canestro; tutta l’uva; il carretto; il mulo. ". Finché, forse temendo di dover dire " la vita ", inseguito dal "Cu " del cuculo, scese dal carretto, lasciando, strada strada, carro e uva. ".

Risero, allegramente, del cuculo che cantava sul carrubo.

Si accorsero di essere giunti nei pressi dell’aia dal leggero bagliore della paglia.

I bambini, già, erravano in un sonno profondo.

La donna chiamò il marito per nome.

" Carme’, tu sei? " chiese, nella notte.

" Sì, sì. " rispose l mezzadro, stendendosi al suo fianco.

Nino, a bocca aperta in un lungo sbadiglio, si diresse lontano dalla copia; nel buio, inciampò; si stese a lato dei figli del mezzadro.

Un bimbo si mosse nel sonno.

Il mezzadro, il volto verso il cielo, si mise a narrare una storia, piana e calma la voce.

" Don Ni’ " incominciò questa é ‘na storia spassosa che mi è capitata trent’anni e rotti fa. Ero, ancora, carùso, e mi affittavo a giornata. Ora, siccome era tempo di bacchiare le mandorle, un giorno, mi capitò di andare a raccogliere mandorle da don ‘Tano il piazzese. Don ‘Tano il piazzese, se vi ricordate bene, era un tipo grasso, con una pancia gonfia che pareva al nono mese. Pure pidocchioso era, ché un soldo in quattro lo spaccava, buon’anima. E così, ci faceva sudare come muli per quattro soldi. Allora non era come ora che, ora qua ora là, la giornata si raccoglie; la farne ci acchiappava per la gola e, volenti o nolenti, ci dovevamo calare le brache. Quel giorno avevamo incominciato a raccogliere mandorle di prima mattina e avevamo finito che era scuro pieno. Insaccate le mandorle e caricatele sui carri ci mettemmo in cammino per il paese. Le donne salirono sui carri coi bacchiatori, che con lo scuro avevano le mani lunghe; a noi carùsi, come se non ci bastasse una giornata di travaglio per stancarci, ci toccò camminare a piedi. All’ultimo, accavalcato sull’asina, con tanto di lingua di fuori, ci seguiva don ‘Tano, per guardarci, ché non gli rubassimo le mandorle. E chi voleva rubargliele, e chi poteva?: ché, con la stanchezza di una giornata di travaglio, manco la forza di camminare avevamo. Ora, avvenne che don ‘Tano, temendo che i bacchiatori, approfittando dello scuro, scambiassero le loro pertiche con le sue, che erano nuove, prese con sé le pertiche, sull’asina, e incominciò a seguirci. Ma, siccome le pertiche, lunghe e pesanti com’erano, non si potevano tenere con una mano sola, ché scivolavano sempre, lui pensò di appoggiarle di traverso sulle cosce, per tenerle con tutte e due le mani. Sua moglie, appena lo vide così malamente conciato, gli gridò dal carro: " Don ‘Ta’, oh don ‘Tano, che fate? Che cercate la morte per riposo? Mettete le pertiche di lato e lasciate sfregare per terra, ché, così come le tenete, mai sia Dio, se si incrociano con due alberi, a terra andate a finire. " Don ‘Tano, toccato nel punto debole, ché aveva capito che sua moglie aveva ragione, per non finire sotto, si mise ad urlare, " Femmina di mala sorte, ch’è sempre disgrazie vedi? ch’è sempre la mia morte ti sogni? Pensa solo a sbrogliare il rosario, ché alle mie pertiche ci penso io. Guarda che vuole, che lasci strisciare le mie pertiche a terra, ché, così, si spàrdano le punte e l’altr’anno mi abbisognano le pertiche nuove! Buono te lo tiri il conto! Ma lo sai quanto costa una pertica? niente, due lire, due lire, tonde tonde, costa. E che male c’è se, io, l’altr’anno, ripeto lo spesato per le pertiche? Più di otto lire ho speso! E che sono otto lire, ah? Niente, niente sono. Che fa fare che hai la spesa assicurata! Ah femmina senza ‘ngegno, ad ascoltarti, sarei con una mano davanti e l’altra dietro. ". E così, don ‘Tano, per non calarsi alla moglie, davanti a tanti cristiani, non calo manco le pertiche. L’asina, schiacciata dal peso di don ‘Tano, avanzava con tanto di lingua di fuori, che faceva pena a vederla, santiando ad ogni passo ed aspettando una discesa come la liberazione del cielo. Don ‘Tano un equilibrista pareva con le pertiche in croce coi suo corpo e andava teso, tutto contento di avere ragione. Ma ebbe ragione fino a che tutto andò bene. E tutto, andò bene fino a che non venne una discesa. Perché, appena l’asina annusò la discesa, si mise a correre a redini stese, non curandosi delle grida e degli sforzi di don ‘Tano per trattenerla. E fu così che, mentre l’asina superava un carro, le pertiche s’impigliarono tra il dietro del carro e il muricciolo di pietra che recintava la carraia e. scavalcarono don ‘Tano, che finì disteso a terra come un palo. Noi carùsi, appena vedemmo don ‘Tano a terra, ci mettemmo a gridare. Ma più che per la paura, gridavamo per nascondere le risate, che non potevamo trattenere. Donna Rachele, la moglie di don ‘Tano, sentendoci gridare e vedendo suo marito a terra che non pareva. come si dice, né morto né vivo, si mise a gridare che pareva `na pazza: "Maria, e che fu scomunica? Maria, Maria! ". I carrettieri fermarono i carri. Le donne e gli uomini corsero verso don "Tano, chi col vino chi con l’acqua che, quando si batte la testa, ci vogliono per far ripigliare i sensi. Qualcuno, dipoi, corse a pigliare l’asina, che, felice di essersi sgravata dal peso di don ‘Tano, continuava la corsa, leggera come una nuvola. Donna Rachele, poveretta, vedendo il marito stordito, era più confusa che persuasa e non sapeva che fare prima per rianimarlo: lo spruzzava con l’acqua, lo scrollava, gli dava manatèlle sulla faccia. Gridava, pure: " Don ‘Ta’, don ‘Ta’, mi sentite? Ch’è manco mi conoscete? Vostra moglie sono. Dio, che disgrazia mi capitò! Maria, aiutatemi voi! ". E gli versava il vino sulle labbra. Tutti i carùsi ci mettemmo attorno ad osservare; aveva voglia un carrettiere che ci allontanava: " Via, via, ché abbisogna di aria "; e noi sempre a guardare. Tutte le donne alzavano grida e recitavano rosario e giaculatorie. Ce n’era una che, madre santa, ne sapeva un sacco, e come le sbrogliava! Donna Rachele scrollava il marito e gli bagnava la fronte con un panno umido, e gli versava il vino sulle labbra. Ma don ‘Tano, né beveva né si ripigliava. E lei a disperarsi e gridare: " Aceto, aceto ci vuole. Maria! Chi va alla roba a prenderlo che c’è. ". E si univa a recitare giaculatorie: "Madre pia, Madre santa, accogli questa anima santa ". Le donne avevano, già, detto cinque misteri del rosario; e don ‘Tano non si era, ancora, ripreso. La donna, che sapeva le giaculatorie, attaccò con la litania, e tutti a ripetere appresso " Ora pro nobis ", che si sentiva solo un " is ", a uso cacciassero gatti, quando don ‘Tano apri gli occhi. Tutti ci zittimmo, appena donna Rachele gridò: " Ah, Miracolo, miracolo: si ripigliò! " e chiese al marito: " Don ‘Ta’, come vi sentite? ". E sentimmo la voce di don ‘Tano come un quarantasette, morto-vivo, che parla: " Ah, morto sono! ". Donna Rachele tutta premura era, tartagliava pure. " Don ‘Ta’, che vi siete fatto? dove vi fa male, qui? ". E gli toccava la testa." E qui. vi fa male? ". E gli toccava la schiena. Ma don ‘Tano non le badava. Ripeteva solo: " Madre mia, morto sono! ". E donna Rachele, " Come vi sentite, come state? Madre Santa, come fu? ". Don Tane si tirò a sedere e girò, attorno, gli occhi, poi, allontanò la moglie, in malo modo, con la mano e disse: " Donna di malo augurio... ti dispiace, vero, eh, che non sono morto? Che ti pare che non ti ho sentita, ah? Le giaculatorie dei moribondi dicevi, ah? e la litania, pure? Femmina di malo augurio! Chi t’ha insegnato a farmi la fattura, ah? i preti? Ma ‘sta volta, il conto che ti tirasti non ti riuscì: niente mi sono fatto, niente, è inutile che mi domandi. ". Poi si alzò, teso come una candela, e, girando gli occhi attorno, a uso fosse sorpreso di essere ancora vivo, chiese: " E le pertiche? ". Qualcuno gli rispose che si erano rotte. E lui: " Ah, morto sono! belle pertiche! Otto lire! " E si buttò a terra senza un fiato, a uso fosse morto. Noi ci sbracammo dalle risate. E chi poteva non ridere, se non don ‘Tano che si rifiutò di rispondere ai richiami della moglie, fino a che non arrivammo in paese, dove lo portammo in secula-seculorum, come fosse morto? Ne volete di più, per ridere? ".

La risata del mezzadro svegliò Nino dal sonno in cui, da poco, era piombato. Alzò, un poco, le palpebre, e, prima di ricadere nel sonno, vide sorgere la luna, che già puliva la campagna.

Fu svegliato qualche ora dopo, dalla voce alta del mezzadro, che chiamava la moglie dal carrubo.

Dapprima, non si ricordò di trovarsi in campagna. Apri gli occhi di mala voglia e vide la luna, già alta sul carrubo, precipitarsi sul suo viso. Restò, un attimo, sbigottito, quasi impaurito di trovarsi indifeso allo sguardo della luna. Poi risenti il richiamo del mezzadro, alto e insistente.

" Sari’, oh Sarina..., corri, lesta! ".

E il cervello gli suggerii ricordi del giorno passato.

Lui stette fermo, sforzandosi di riprendere sonno.

" Sono fatti loro " si disse, a giustificarsi, " È meglio che non m’immischi. ".

Ma, poi, sentì la voce della donna, singhiozzante, allarmata.

" Oh Dio, che successe? ".

E, ancora, il richiamo del mezzadro e i piedi dei bambini, impauriti, calpestargli il corpo.

Si decise al alzarsi, santiando, e, quasi attratto dalle grida che provenivano dal carrubo, corse verso le voci.

Arrivato al carrubo, si fermò di botto.

La luna proiettava una scena disperata; il mulo, steso a terra, era lucido di sudore e percorso da brividi che lo scuotevano tutto, gli occhi gli si perdevano lontano, la sua bocca, aperta a chiedere respiro, rantolava già morte; il mezzadro disfatto, gli occhi accesi di arreso furore, girava attorno al mulo; la donna e bambini, gli occhi sbigottiti, guardavano piangendo.

Nino sùbito capì.

" Il mulo ha mangiato le carrube verdi e sta soffocando. " si disse, e corse verso il mezzadro.

Il mezzadro gridò alla moglie, furore e dolore nella voce:

" Lesta, piglia ‘na coperta "; si acculò sui talloni e mise la mano nella bocca del mulo, per tirargli le carrube verdi dalla gola.

Nino incominciò a pressare con tutta la forza sul ventre sudato del mulo.

Il mezzadro, continuando ad estrarre pezzi di carrube, parlava disperato, la voce tremante di furore:

" Ecco il guadagno di un anno di sudore: il mulo mi muore

soffocato. ".

Poi, il mulo chiuse gli occhi.

Il mezzadro lavorava con furore.

" O è morto, o si é salvato. " pensò Nino, asciugandosi il sudore.

Il mulo emise un ruglio; ebbe un fremito; sollevò la testa, l’abbandonò sul suolo, riprese a respirare, lamentando come un cristiano.

Il mezzadro si alzò di botto.

" Salvo è " gridò, forte e sicura la voce. E corse verso la moglie che si era fatta di pietra.

" Lesta, la coperta: sennò, di polmonite muore " la esortò, strappando la coperta dalle mani della donna, che restava ferma, ancora vinta dalla disperazione; e corse a coprire il mulo.

E rideva il mezzadro, strofinando la coperta sul dorso del mulo, gli occhi allucinati, quasi di follia: la follia che la gioia può dare, quando si sostituisce alla più nera disperazione.

Il mulo si alzò e si guardò in giro, quasi sorpreso di assaporare la vita.

Il mezzadro non riusciva a star fermo e rideva euforico, e lisciava il collo del mulo e parlava esaltato, e faceva volare il suo bimbo più piccolo sulla sua testa, chiamandolo gioia.

Scoppiava il suo petto di orgoglio, l’orgoglio di chi ha vinto la morte e a mala sorte. Poi, alzò la testa e sorprese il vento, che muoveva le cime del carrubo.

" Andiamo a spagliare, " disse, in pianto e riso la voce, " ché il vento è tornato e sta aggiornando. ".

E corse verso l’aia, tenendo il suo bimbo in groppa, sulle spalle.

Si mise a spagliare contro vento, cantando, felice, una canzone di sua fattura.

" O mala sorte, ormai, ti ho conosciuta: " gridava, a sfida, nel vento " ti ho guardata nel viso"; la paglia si perdeva nella notte " e ti ho battuta. "; ricadeva il grano sul suo "corpo.

" La pala" ordinò, quasi un’ora dopo, rivolgendosi alla moglie " lesta, la pala, che la paglia finì e bisogna palliare. ".

E si mise a paliàre.

Stava passando il grano con il crivo, quando giunse giorno.

Il sole nacque in un preludio di rosso nell’azzurro.

" E giunto in tempo per spartire " disse il mezzadro, guardando verso il sole.

Nel sole, che cresceva a vista d’occhio, spartirono. Due parti e una parte spartirono. E il grano scivolò nei sacchi. Caricarono il carro, che il sole era cresciuto.

" Col caldo arriveremo, " disse il mezzadro, lenta la voce, misurando il sole con gli occhi e con la mano " ché il sole è forte, il carro é pesante e d’andare lenti abbiamo. ".

Prese le redini e il canto, gli occhi sul viuòlo.

Giunsero, in paese, in un bruciare di sole sulla strada. Il sole picchiava sulle case, che ardevano bianco. Non un cane, non un ombra sulla strada, libera, al sole aperto a mezzogiorno; la madre di Nino era fuori. Stava a coprire con un panno bianco la gabbia delle galline, ché non stordissero nella vampa del sole.

" Vennero a cercarti " disse, il volto, lucido di sudore, alzato verso il figlio.

" Chi? " chiese Nino, scendendo dal carro.

Il cavaliere Burgiàzza e tutti quelli del Circolo. ".

" Quando? "

" Ieri, allo scuràre. Dice, che dovevano dirti qualcosa d’importante, ma non ricordo: ho scordato. " concluse la donna. E " Quanto ha fatto? " chiese.

" Tre salme. " rispose il mezzadro, che già scioglieva i sacchi.

" Buono. " fece la donna, soddisfatta la voce, " Meglio degli altri anni: abbiamo quanto basta per la mancia e per la semenza. ". Scaricarono il grano. In un cànto oscuro della casa lo ammucchiarono.

" Ah, " fece sua madre, raccogliendo il frumento sparso con la scopa, " ci pensai: dice che ti hanno fatto presidente, presidente del casino. ".

" Buono. " disse Nino, non sorpresa la voce: lo sapeva, nel didentro. " Ma’, non sei contenta? " chiese.

" No. " rispose, asciutta, la vecchia. " Lo hanno fatto apposta: i soldi ti mangeranno!. "

Rise Nino, e scivolò la mano sul frumento.

" Manco io, " ammise " manco io sono contento; ma doveva capitare. "

La stessa sera, ebbe le consegne, e battute, e strette di mano.

 

 

 

 

 

Cap. 17

I giorni passarono lenti; senza che la calura calasse, passarono, o che il vento portasse frescura, la sera; e si montarono l’uno appresso all’altro, nel gioco incapìto del tempo.

Mattinate luciòse, nel bar del Papìa a sorbire granite; pomeriggi abbruciànti, a cercare frescura sui letti, sudati, nello scuro parante di alcova; le sere al casino a giocare, a sparlare, uso femmine, gente; le notti, in discorsi sul corso, assetati di fresco.

E passarono i giorni.

E passò luglio, forzando calura.

Agosto portò vento.

Agosto moriva nelle mandorle fatte e nell’uva rossa delle vigne. Negli ultimi colpi di calura, frescura la sera. E già, i cuculi, sbigottiti ai primi venti notturni, arrendevano i canti; le cicale lanciavano grida alla morte. La campagna gialla si macchiava di campi arati freschi e di fratte bruciate. A notte, sulle cine scoppiavano fuochi.

In paese, erano, già, scesi i venditori di pertiche. A sera, nella piccola piazza, un crocevia sul corso, i contadini sceglievano le pertiche per l’imminente bocciatura delle mandorle; le botti, ancora, no, ché mancava tempo alla vendemmia. Il paese si ritirava presto, ora: non più comari pronte al rosario e allo sparlottìo, nei cortili a raggio di luna; già, alle dieci di sera, il paese parlava solo nei discorsi nebbiosi degli ubriachi, nei canti notturni dei giovani, nelle stanche nenie dei carrettieri, nel continuo latrare dei cani; sulle poche porte aperte, donne attendevano il ritorno dei minatori del primo turno; altre alzavano braccia e raccomandazioni al saluto dei loro mariti, che si recavano al secondo turno nella vicina miniera di Gallé.

I minatori sorridevano alle mogli e, a cancellare preoccupazioni dicevano:

" Gallé non cala, ché non è Barbuscia. È dura Gallé: e sicura. E poi, i proprietari, coi pantaloni cacati che tengono, dopo la tragedia di Barbuscia, hanno fatto rinforzare le travature e chiudere le gallerie pericolose. Non c’è pericolo: Gallé è sicura. ".

E la moglie:

" Anche mio fratello diceva: " Barbuscia non cala "; e, invece é calata. E lui c’è rimasto sotto, e ha lasciato tre figli e la moglie in mezzo alla strada. ".

E il marito, fingendo ira:

" Si muore pure di pancia vacante, lo sai? Ma tu vuoi botte piena e moglie ubriaca. E poi, Gallé non cala: è sicura, Va’, vai a dormire. ".

I minatori inforcavano le biciclette, e si voltavano in un ultimo saluto:

" Buonanotte. ". E raccomandavano alle mogli: " Va’ a dormire tranquilla, ché non cala, va’. ", pur sapendo che le mogli non avrebbero chiuso un occhio, tutta la notte, e che avrebbero combattuto con angosciosi ricordi e paure, saltando dal letto, col cuore di uccello, al primo rumore di gatti sul tetto.

 

 

 

Cap. 18

Quella sera, Nino non s’era sentito di andare a letto presto, ché faceva caldo.

Passeggiava sul corso, in discorsi inutili con gli amici, assaporando la frescura notturna sulle ossa.

Notte di luna piena era. E la luce della luna puliva le strade dal buio, tagliando l’aria ferma che assediava il paese.

Mezzanotte era passata in un silenzio pesante. E, per il paese, correvano i discorsi inutili di Nino e dei suoi amici. Si era parlato di rimontare, a Natale, il tavolo del baccarà, al casino dei nobili, e di farlo aggiustare, e di parlare alla legge, a convincerla di chiudere un occhio, e Nino aveva calato la testa per tutta la sera, come un cucco. Parlava Nino, ora, ed erano i suoi amici a calare la testa. Parlava delle ricchezze del Venazzonia, ricchezze immense infinite; di quella terra ricca che aspettava di essere sfruttata e di arricchire chiunque avesse la testa al posto giusto. E, nella foga del discorso, si era scordato della miseria che affogava quella terra, pur tanto ricca, e che allarvìva i suoi poveri abitanti. E non vedeva più i milioni di piedi nudi che sollevavano la polvere sfruttata del Venazzonia e che lo avevano condotto per la via della fame di quella grande terra, fino a ributtarlo, più povero di prima, nella miseria stagnante della sua isola. Ma i ricchi vedeva; non i soli pochi ricchi, i veri ricchi che il Venazzonia aveva creato e nutriva a sue spese e che, con le loro lunghe macchine americane, impolveravano i milioni di larve e che si lasciano per le vie di Puerto Inventado: non vedeva più quei ricchi, grassi della povertà di quella terra, che dissanguavano il Venazzonia e contro i quali aveva gridato con rabbia. Oh, il Venazzonia che vedeva Nino quella sera!: una terra che tutti vorremmo vedere; un Paese di sogno, popolato da milioni di ricchi e sfilavano su quella terra, che al loro passaggio si apriva a dare ricchezze; un Venazzonia ricoperto da migliaia di ristoranti e locali notturni, pronti a darti qualsiasi divertimento e nei quali potevi chiedere solo caviale e aragoste e champagne. E s’era scordato che, purtroppo, erano pochi coloro che potevano permettersi il lusso di mangiare caviale e aragoste nei grandi ristoranti e che, invece, erano molti gli occhi invidiosi di un pezzo di pane e le bocche che aspettavano, secche, le fieste per assaporare le focacce di cimici. Ma Nino sognava, quella sera, e, nel sogno, finalmente, vedeva quella differenza, che non aveva mai saputo, potuto vedere, tra il Venazzonia ricco e la Sicilia misera.

Sognava Nino, e, con lui, pure i suoi amici sognavano.

I discorsi avevano scordato i passi. Così, senza volerlo, Nino e i suoi amici si trovarono fuori paese.

Il paese visto così, da lontano, pareva una cosa scordata nel buio della notte, confusa tra i carrubi sopra i colli, morta ancor prima del tempo: non vita giungeva dalle case, scolpite dai raggi di luna.

L’aria, murata tra le case, nell’aperta campagna, andava libera e sciolta, quasi sposa di vento, e, già, scioglieva il duro grido dei grilli. La luna, mucciàta tra le nubi, giocava con le ombre dei carrubi, anime sciolte nel buio lavato della luna.

Era, ancora, il Venazzonia nel discorso. E la voce elogiante di Nino vinceva l’assurdo canto del cuculo, già calante nei primi venti del vicino settembre.

" Eh si: é proprio una gran terra, il Venazzonia, " echeggiò, alta, una voce fuori del gruppo " un ricco Paese è; e non come ‘sta secca maledetta terra, scordata da tutti, anche da noi che vi pasciamo: come questa terra che aspetta, come una donna tradita e lasciata a se stessa, un nostro gesto, gesto che non faremo mai, ché siamo superiori e orgogliosi e tutti padroni. ".

Basta parole, la voce; una risata che stonò tutti, Nino e gli amici, e cuculi e grilli.

" Chi fu? " chiese, alto, Fofò, voce parlante per tutti, " chi è?" e puntò gli occhi nella voce mucciàta che rideva; e tutti puntarono gli occhi.

E la voce rideva, rideva. Non fruscio di vento, sui carrubi, si sentiva.

Nel campo di ristoppia bianca, quasi specchio di luna, un nero quadro di terra zappettata; nel nero della terra zappettata, una figura ballante di risate.

" C’è qualcuno, " disse Fofò " là, in quel pezzo di terra ripulita; chi é?: non si vede chiaro. "; aguzzò gli occhi, a vederci meglio; " Ah, chi è!... " fece, divertita la voce, " e chi poteva essere?... ‘Tano, ‘Tano Chiarò è, il pupàro, il pazzo. "; e rise. " Ci sarà da scialarsi ‘stasera: aspettate, attendete un momento, vedrete come ci scialeremo. "; e rise. "Ta’, oh, gridò forzando la voce, "ch’è, qua, sei? E che fai tutto solo, stravagante? ".

" Mi pulisco la terra, non lo vedi, cavalie’? " rispose ‘Tano, forte e chiara la voce.

" E come ti pulisci? " chiese Fofò, riso nella voce.

" Vieni, avvicinati, avvicinatevi tutti e mi vedrete meglio. ".

Si avvicinarono tutti, ridendo.

‘Tano, nudi le spalle e il petto, si rotolava nella terra aperta e di terra nera si cospargeva viso, e capelli, e braccia, e tutto.

" Ta’, ma che fai? che dici, ch'è, davvero pazzo sei? " fece Fofò, celiante la voce.

" Perché, tu, non lo sei pazzo? " rispose l’altro.

" Ah, questo, proprio, no! Ma, comunque, passiamoci sopra; spiegati, piuttosto, com’è che ti pulisci di terra. Mi pare, a quanto posso vedere, sarà lo scuro, che tu ti allòrdi di più. O non capisco bene?; sarà che non ragiono, sicuro, come te. Ah... ci sono... zitto, vediamo se indovino... Sì sarà che tu sei più lordo della terra e tu la usi per coprire la tua lordura, per imbiancarti, come i negri usano il carbone, a rendersi più bianchi. Ah, ‘Tano, povero ‘Tano! Lo vuoi un consiglio, Ta’?: prova a lavarti nell’acqua; magari, capita che ti sgràsci. ".

" E che ti lavi nell’acqua?...niente, niente: solo la lordura di fuori, quella che ti vedono tutti ti levi; e l’altra , quella che hai dentro, quella come te la strappi? ".

" Eh, ma che c’entra la lordura di dentro? ".

" Visto che non sai rispondere? Sì, sì, proprio, la lordura di dentro, quella che ti divora la carne dall’interno, quella che non ti vede nessuno e che tu mùcci alla gente, quella che tu solo conosci e che ti danna la vita, quella come te la levi? Vedi, anche tu ti laverai nella terra, e, nella terra, in liquido fetente, lascerai tutte le lordure che hai raccolto in tutta la vita. Sì, pure tu ti laverai nella terra e tutti, tutti, prima o poi, ci laveremo e non avremo più sozzure, nel dentro della nostra carne, non avremo più carne: quando moriremo. Ora, tu, tutti, non vi scialerete, quando sarete costretti a lavarvi nella terra, ché sarete morti e non capirete; io, mi lavo ora, senza aspettare la morte, col sangue che mi corre ancora nella carne e capisco la gioia della morte e mi scialo a sentirmi scolare fuori le lordure, sciogliere la carne e. uso fango, mischiarsi con la terra ed entrarvi a riempirsi di vita, a sentirmi pulire ogni momento, e mi ricreo e mi riempio di vita, nuova vita, pulita. ".

" Come, ch’è, la terra ti riempie di vita? e come fa, se ti lava di dentro ad uso fossi morto? Come puoi morire e riempirti di vita nella terra? ".

" Vedi, non puoi capire; " rispose ‘Tano, calma e bassa la voce, " è dalla terra che, ogni giorno, nasce il seme della vita, come da donna, uomo: come donna è la terra… ".

" Già, è proprio come donna la terra: " pensò Nino, guardando il nero della terra aperta rompere il bianco del campo di ristoppia, " così nuda e aperta, pare una donna pronta ad amare. ". E gli pareva tanto viva quella terra, che, così senza verde e senza vita, pareva morta; e avvertiva, in quella calura che soffocava tutto oltre ogni cosa, palpitare qualcosa di vitale: il respiro freddo della terra che si preparava alla vita. E capiva come tutto é sereno, in autunno, quasi la natura fosse stanca, ma la campagna è viva, è calda e forte, come una donna nella sua piena maturità, palpitante e pur serena, calda e forte. Così, la terra accetta il seme, nel suo ventre, e lo feconda, e il seme palpita in lei e ne succhia la vita. E la terra è felice e orgogliosa, quando nasce la debole pianta che affronta con forza la vita, e, allora, si veste di mille colori e canta con voce di uccelli e danza nel vento di maggio: la donna si apre all’amore e dona, felice, la vita. Questo Nino pensava, guardando la terra scura con gli occhi di pianto, e voleva abbracciare la terra e cercarvi nel ventre la vita, e sfiorare ogni zolla con dita tremanti, quasi sfiorasse mammelle, mammelle di donna matura, di donna che allatta. Sentì quasi un grido scaturire, come dal cuore della terra, un grido acuto e doloroso e vivo, di donna partoriente, un grido che lo avvolgeva tutto; Fofò e i suoi amici, scordati nel riso, erano.

La risata alta di Fofò ruppe la corsa dei suoi pensieri.

" Ah, ah... " rideva alto Fofò " questa sì ch’è bella!: la terra è come la femmina: roba da pazzi! Questa si ch’è buona! Allora, ‘Ta’, com’è la terra? Ah!... Allora, uno, secondo te, ah... non ne posso più!, uno, ad ascoltare te, uno che ha ‘na certa voglia si stende a terra e se la leva? Ah, ‘Ta’, questa si ch’è grossa! ah... ah!... ".

E tutti, e tutti a ridere, tenendosi la pancia e piegandosi, quasi a toccare terra, a uso sacchi vacanti, perduti nel convulso delle risa; non rise Nino.

" Già, proprio così, " esplose ‘Tano, quasi in un grido la voce, a superare il tono delle risa, " la terra é come la donna, e basta stendersi a terra per levarsi certe voglie: sì, puoi entrare nella terra come in carne di donna, se lo vuoi, e, se riesci a crederlo, puoi spargervi il tuo seme, come in donna, e trovarvi sfogo alla tua carne. Ma tu non puoi capire. Dovresti lasciare tante cose, per capire: la parte che hai di uomo ragionante, di cavaliere, di uomo di chiesa; i bisogni della tua carne che ti forzano a dire, a pensare, a fare sempre e ad agire e pensare in uno stesso modo, che ti legano, ti chiudono la mente in una cassa di ferro con una sola piccola finestra di vetro che guarda, sempre, in un senso; le tue necessità, e le necessità degli altri che dipendono da te; la tua maniera di vedere e capire le cose; le abitudini a cui non sai e non puoi, non vuoi rinunciare; il vestito di uomo rispettabile, che porti fin dalla nascita e di cui ti vanti, ogni giorno; la mentalità e l’onore, che ti attaccano alle bocche delle genti e ti fanno dipendere da loro; tutto: dovresti abbandonare te stesso, come un abito vecchio, e presentarti nuovo e pulito, come quando sei nato, e ragionare con mente di carùso balbettante in corpo di uomo a quarant’anni: gettare la saggezza e diventare pazzo. ".

La risata di Fofò scattò alta, assordante, improvvisa: il cuculo smarrì.

" Ah... ah... ‘Ta’, davvero dici?; chi è quel pazzo che, ah, ah..., che lascia tutto, a diventare pazzo? Ch’è, com’è, vuoi che io, io, Fofò Burgiàzza, sia disposto a seguirti?; davvero lo credi, nuovi adepti, nuovi discepoli cerchi? ‘Ta’, ascolta me, cercali in altra banda, ché qui, qui, tutti ragioniamo. ". E rise.

" No, no, non mi capisci, " si ostinava a ripetere ‘Tano, scuotendo la testa, gli occhi fissi nel levante di luna, " non puoi capire, è inutile, non puoi capire. Ma non è importante capire, non conta niente che tu capisca; volevi ridere, non capire: e hai riso. Ma ora basta, basta. " impose; e si alzò a sedere, nera figura in nera terra; " Piuttosto, " continuò, in lesta nuova calma voce, " chi é quel picciotto? " e indicò Nino, alzata la mano, " mi pare ‘na faccia nuova, ‘na faccia poco conosciuta. Chi é? ".

Fofò rideva ancora; frenò le risa, a farsi serio.

" Come! " fece, fingendo meraviglia nella voce, non vi ho ancora presentati? Oh, come sono distratto? Oh, come sono distratto! scusami ‘Ta’, ma sono stato confuso dalla tua… filosofia. " E fece un piccolo riso. " Ma ora, ora, lesto riparo: ‘Ta’, Li presento don Nino Bunàca, un mio caro amico che ha fatto fortuna in Venazzonia. Ni’, ti presento don ‘Tano Chiarò, pupàro di prima, pazzo e... sciàlo del paese. ".

E scattò in una risata, senza freno, che stonò la campagna.

‘Tano lo ignorò.

" Compiaciuto. " disse, impassibile.

" Mi compiaccio " rispose Nino.

La risposta di Nino fece ridere gli amici, ché sfottò pareva: e sfottò era.

Venne che la luna si mucciò e lo scuro riprese la campagna.

Le risate si persero nel buio.

Silenzio.

Il vento si pasceva sulle cime.

" Bah " disse Fofò " tardi si fece: meglio ritirarci. ".

" Ma sì, " concesse ‘Tano, superiore la voce, " ritiratevi, ché si fece tardi. "; e rise; " Buonanotte. " concluse.

" Buonanotte. " risposero voci assonnate.

Presero la strada del paese.

Ripresero i discorsi senza senso.

Lesto, si trovarono in paese.

Si spartirono in piazza.

" Buonanotte. " si salutarono.

E ognuno prese la sua strada.

 

 

 

Cap. 19

Nino si avviò verso la sua casa.

" Che voleva dire ‘Tano? " si chiese, nelle orecchie i passi allontananti degli amici, " che voleva dire? "; e non riusciva a capire. " Bah, è pazzo: " concluse " manco a pensarci. "; ci pensava e voleva sapere.

Il fiato gli saliva sulle labbra. Si fermò; si mucciò dietro un canto, nel buio; tese le orecchie al passo degli amici; niente: silenzio.

" Bene. " si disse; voltò torno e prese la strada per i campi: sì voleva sapere.

Nello scuro, non si accorse di essere arrivato.

Fu ‘Tano a chiamarlo.

Lo scuro beveva la campagna.

" Aoh... qua. " chiamò; e rise. " Sapevo che saresti venuto: "; aggiunse " ti spettavo. ".

" Come, ch’è, sapevi? " fece Nino, chiedente la voce.

" E che pazzo sono, sennò? "; rise "Sì: troppo lesto partisti, e troppo confuso. E, allora, che vuoi sapere? qua sono; che vuoi? ".

Nino, muto. Le domande gli correvano il cervello, voleva chiedere tante cose; e lui, muto: non sapeva.

" Niente? " richiese ‘Tano. " Meglio così, ma vieni, avvicinati: se non ci vedremo, ci sentiremo meglio. Ma la luna sta nascendo dalle nubi e, tra poco, ci vedremo chiaro, come giorno. ".

Nino si avvicinò. Sulla ristoppia, che scricchiolò forte, si acculò.

" Bene. " fece ‘Tano, sentendolo vicino. " E, allora, ch’è, niente mi domandi? " chiese " o non sai? ".

Aspettò. Silenzio.

" Non sai. " concluse; " come va la parte? " interrogò, di botto, " quadra? ".

" Cosa, che, la parte? ch’è? " chiese Nino, sbigottito.

" Ma sì, dai, non fare il minchione proprio con me. Sì, sì, buono hai capito, la parte, la parte che stai impersonando: la parte del ricco; ch’è, pure con me vuoi recitarla, pure me vuoi minchionare? ". E rise, ad uso avesse vinto una terribile sciàrra contro il tempo, contro se stesso. " Vedi, " riprese, serio serio; con una punta di riso nella voce, " tu gli altri puoi minchionare: quelli che hanno il senno a posto, quelli che ragionano la vita con gli occhi e con le orecchie; non me: un pazzo, uno che non ragiona la vita, uno che la calcola e la vive, così come la sente. E, poi, sappi: nei pazzi e nei carùsi abita il vero. ". E rise; e rise, e rise.

La luna scappò la nube: la luce aprì la campagna. E Nino muto.

" Buono, " fece ‘Tano, gli occhi nel biancore della luna, " ora ci vediamo chiaro. ". Rise. " Non parli? " chiese, ancora in riso la voce, " Ma non serve: lo so che ti va bene la parte: tutti, tutti credono ch’è vera: pure tu, pure tu lo credi. ". E rise.

Parlando, si girò a guardare Nino, che si era alzato, " Bravo, bra... "; ammutò: Nino si cambiava nel chiaro della luna: le mani, tremanti, gli salivano il corpo, incontrollate; la voce, un brontolio in crescendo.

" Basta! " esplose Nino. E le sue mani si tesero alte, a fuggire il corpo; " Ssts!... " pregò " muto! ", le mani e la voce calanti; cadde sulle ginocchia. Sul petto di ‘Tano si sciolse il suo misero corpo tremante. " Muto, muto, muto!... ", continuò a pregare, in un soffio di voce.

‘Tano non si mosse: lo raccolse sul petto, come una madre amorosa; guardò nel chiaro della luna; e chiuse gli occhi.

Silenzio.

Tempo passò?

Quando apri gli occhi, Nino non era sul suo petto: stava poco lontano da lui, acculato sopra un masso; fumava; fisso lo guardava.

‘Tano non parlò; si alzò per andare a fare il suo bisogno. Pisciò nell’ombra mucciànte del carrubo.

Nino lo aspettava, fermo e muto, fumando, di continuo, come una fumarola: quando aspirava, la brace s’inforzàva e gli arrossicàva, per un lampo, il volto.

Solo quando, tornato, si sedette, nel suo quadro di terra zappettata, Nino parlò.

" Sono stanco, stanco, " principiò, lenta e senza toni la voce, " e stufo: stufo di questa parte, di questo gioco di parole, che monta la mia vita. E impaurito sono: temo che capiscano che la mia vita nasce da un gioco confuso di fatti e di parole; che la mia storia, la mia vita, io, tutto il mio e falso e montato sulla fortuna di un caso che continua a campare, per forza, nella trovata di un pazzo e nella paura di uno che teme di restare solo. E, ora, sono stanco, stanco, di dire tutto falso, di campare nella falsità, di controllare il tono ed il valore delle parole che mi scappano da bocca: e vorrei aprirmi sul paese come un mattino di sole, e, finalmente, dire, gridare la verità, e far sapere a tutti che non sono ricco, ma uno scalcagnato, chiedere pena per la mia sfortuna... E.. soprattutto, finalmente, vivere nella verità. ".

‘Tano non lo lasciò finire: la sua risata infranse le parole nella bocca di Nino come cristalli in bocca di campana, nel suonare.

" Ah, vuoi vivere nella verità? Ma cos’è, dov’é la verità? Se esiste, è un nascituro già morente, qualcosa di debole e indeciso: è una neonata che viene sempre deflorata dall’enorme sesso della menzogna della vita. E tu vuoi gridare, gridare a tutti la verità? E che concluderesti? " fece, in un risucchio di riso, " niente, niente: non avrebbero pena della tua sfortuna; riderebbero di te e ti dannerebbero all’inferno perché li hai giocati. No? Prova a dire la verità, gridala ai quattro venti e ti troverai annegato in un mare di risate, di odio e di rancore, e tu, per fuggire le loro risate e il loro disprezzo, dovresti inventare una nuova storia, per giustificare la tua sfortuna, e resteresti nel falso e quaraquaquà, nelle risate, nell’odio, nella vergogna e nella pena che avresti di te stesso. Prova, prova a dire ad una donna che l’ami e vedrai come ti farà correre, gridare, impazzire e morire di desiderio insoddisfatto, anche se, un minuto avanti, ti sarebbe corsa dietro lei e ti si sarebbe stesa sotto. No, non puoi farlo, ché tutta la vita è falsa e, se tu vuoi campare, con decenza, devi adattarti ad essa. ".

" Ma, così, sarò falso pure io!: " gridò Nino, alta e incontrollata la voce, " tutto il mio campare, ogni mio atto sarà falso ".

" No, tu non sei falso: " rispose ‘Tano, in nuova calma la voce, " tu stai impersonando la tua parte, la tua vera parte, la parte che ti senti nella carne. E, se essa non è nella realtà, non vuoi dire che sia falsa; é vera, perché tu la senti vera. Vedi, la verità è quella che tu senti come verità; e non quella che ti presentano gli altri. Il dolore non è quello degli altri, quando lo senti tu, ma è tuo, perché tu lo senti, ed è vero: non è falso perché lo senti tu e non gli altri; non è falso perché è solo tuo. Che fai, non ne senti, tu, il dolore, se ti tagli un braccio e la gente che ti sta attorno ride? Si, sì, che lo senti, càcchio se lo senti! E così, come il dolore, è la verità, così è il bene e il male: il bene è bene quando per te é bene, quando nella tua carne capisci che è bene; tutto quello che non è bene, che, per te, è male, è vero male. Ora, tu devi pentirti, solo, quando nella tua carne capisci che fai male; e non quando gli altri gridano al male: devi seguire il tuo bene, e non quello degli altri, e non devi commettere il tuo male, perché quello che per te è bene per gli altri può essere male, nella legge che gli altri hanno fatto per te e che può non essere la tua legge. È in te che devi trovare la verità: in te stesso e non negli altri. ".

Teso e muto stava Nino.

Silenzio.

I grilli ripresero il canto.

‘Tano sorrise, quando Nino tirò un gran sospiro, profondo e forte, quasi venisse dal cuore della terra, e liberante.

Si sciolse, un attimo, Nino; e, poi, rinacque.

" Buono. " disse, forte e sicuro nella voce, " Hai ragione: non sono falso, la mia non è una parte, e io non sono pupo; vero sono, la mia vita é, un uomo sono. ".

" Già, " fece ‘Tano " così devi pensarla, se vuoi campare bene ed essere creduto, ché, tu, la tua parte, devi viverla e non recitarla: solo così, se ti convinci tu, potrai convincere gli altri, e non sarai costretto a montare e smontare, risicando di strafare; ti verrà spontanea, la parte, e viva e vera; e da tutti sarà creduta, se tu ci crederai. Come hai fatto, fino ad ora, devi continuare: convincendoti che, ormai, volente o nolente, è questa la tua vita: da Ninùzzo lo scarparo don Nino sei diventato: e lo sei per davvero don Nino: ormai, il `don’ per diritto ti tocca, sì. ".

La risata di Nino gli fermò le parole a mezza bocca.

" Che c’è ora? " Chiese ‘Tano, sorpreso negli occhi nella voce.

" E che me ne faccio del `don’, ah, ah, se non ho manco una lira?: avere il don’ senza un carlino è come avere i bicchieri e non il vino, come una festa senza i tamburini: ‘na cosa a metà, come me. ".

" Ah... tutta qui è la paura?: la mancanza di soldi?; verranno, verranno, non ti preoccupare: se c’è la festa, i tamburini, prima o poi, sempre vengono, anche se non sono domandati. Per te verranno dopo: e che vuoi dire? questione di pazienza, ma verranno. ".

" Basta che non vengano troppo tardi: a festa finita. ".

" No, non verranno dopo la festa, i tamburini: ché la tua festa non finirà, se tu lo vuoi. E, poi, tu di che ti lamenti?: qualche pezzo di carne l’hai avuto: sei diventato presidente del casino dei nobili, che non è poca cosa, e, se tu lo vorrai, pure sindaco del paese potrai diventare; e ricco, ricco. Solo, che non devi strafare, non devi gonfiar troppo; abbandonarti all’acqua della tua stessa vita: ché, se sacco vacante dritto non sta, troppo pieno a terra si stende. Così devi continuare e basta, senza fermarti a pensare se fai bene o fai male, ché, se tu menti alla gente, non menti, ma vivi, e campare, no, non è falso: se mentissi a te stesso, allora, sì saresti falso, faresti male, ma così campi, càcchio! E, per campare, tutti mentiamo: nessuno vive con verità, così come, ogni giorno, sente di vivere; montandoci la parte, prima, viviamo, secondo un nostro filo logico, e sforzandoci, ogni giorno di viverla così, come, prima, abbiamo stabilito, e non come la sentiamo. Sì, l’uomo non campa come sente, ma segue la linea sulla quale ha segnato la sua vita: una linea, magari, che non sente, ma che gli pare tanto ragionante. Magari, ora, capita che la linea di uno si scontra con quella di un altro e, così, i due uomini, per andare avanti, ognuno sulla propria linea, si vengono a scontrare: e, da qui, nascono le sciàrre, le guerre. Sì, così nascono le guerre, senza un motivo: ché tutto il mondo è falso. Sì tutti, tutto il mondo mente; pure io, sì, pure io seguo la mia parte, pure io mi falsifico la vita: che bisogno avrei di far credere che sono pazzo?; è per vivere a mio modo, libero e senza responsabilità, sciolto dai lacci della chiesa e della gente, per vivere, ogni giorno, come voglio che mi sono montato e vivo questa mia parte di pazzo. Sì, sì, tutti mentiamo, tutti: ognuno ha una doppia faccia e mùccia sempre quella vera, ché nessuno e contento e sicuro della propria vita e, allora, la cambia secondo il suo senso, secondo il suo modo d’intendere la vita: secondo la paura o la rabbia con cui campa. Il fatto è che siamo, solo, povere piccole cose, in mano ad una forza che ci schiaccia e con in mano una forza che non ci appartiene; una forza falsa, che ci siamo creati noi e che, ora, non possiamo più tenere, ché è più grande di noi e ci scappa sempre dalle mani, come un cavallo falso che abbiamo allevato noi e di cui perdiamo le redini: l’orgoglio, la forza di essere uomini. E noi tutti, con questo orgoglio in mano, ci illudiamo di poter vincere la forza che ci schiaccia e scordiamo la paura di vivere e morire, e di essere, solo, piccoli animali senza valore e, a nostro modo, ragionanti nelle mani incoscienti di un dio pazzo e sanguinano: la natura che ci stringe, ogni giorno, e che ci spinge nella vita, fino alla fine dei giorni. Il bello è, che è nella nostra pazza ragione che noi troviamo un nostro valore, davanti agli altri animali che vivono di terra; e ci riempiamo di un orgoglio tanto orbo da non vedere che é proprio in essa il motivo del nostro dolore, dolore che non conosciamo. E noi tutti viviamo, ogni giorno, piantati in questo dolore senza coscienza e non afferriamo il motivo della nostra vita: ché la coscienza del dolore è già motivo di vita. E noi mentiamo, quasi senza volere, per mucciàre, per scordare questa nostra vita che è dannazione continua, piena di paura, la paura di ogni nuovo giorno. Sì, sì, tutti mentiamo, tutti e, credimi, non c’è motivo che te la pigli tanto: per campare così come sentiamo, dovremmo svoltare questo vecchio mondo, cambiario e bruciarlo tutto; perciò, accontentati di campare come tutti: mentendo. Ascoltami, cerca di capirmi, continua così nella tua parte e, se ci saprai fare, tutto potrai avere, e il paese, che, ora, ti bacia le mani, padrone suo ti farà: sposa la figlia di don Michelino, la maestra, e verranno i soldi: quelli di don Michelino; presentati alle elezioni e diventerai sindaco e padrone del paese, e tutto filerà bene come la tua parte vuole, così, come il pupàro: la gente, che ha accettato la tua parte, vuole. ".

" Sì, sì, ragione hai. " fece Nino, lenta e tenera la voce, quasi di bimbo, " sai che faccio? " continuò, tornata sicura e forte la voce, "domani vado a pranzo da don Michelino, sì da lui, proprio: sfrutto l’invito che mi fece il giorno del mio arrivo, sì e gli parlo sùbito, sùbito, domani stesso: meglio fare lesto, ah Ta’? ".

" Buono: " fece ‘Tano, secco, quasi dicesse una sentenza, "se t’invitò, per sistemarsi la figlia lo fece: e che aspetti? la banda?; sì parla, parla sùbito, e chiaro. ".

" Certo, che quella del sindaco pure buona è; tu dici che riesce? " chiese Nino, quasi in riso la voce.

" Ma certo, sicuro... Solo da te dipende; come devo dirtelo?: il paese, come don Michelino, una tua mossa attende; lo vuoi capire che sei tu, ormai, il padrone del paese, che sei tu il pupàro che muove tutti i passi a questo gran pupo che è il paese? E vedrai com’è facile mentire e com'è facile vivere: come mentire. ".

" Mah!... " concluse Nino, e rise.

Pure ‘Tano rise; lesto si fermò.

" Bah, ora vattene, bah, ch’è ora d’aggiornare e i carrettieri, fra poco, prenderanno la strada; e non è buono per te, che ti vedano ragionare con un pazzo: é fuori della tua parte, capisci? Ah,... un momento, non te Io scordare: non ci conosciamo, per niente, eh? Buongiorno. ".

" Buongiorno. " chiuse Nino; e s’immerse nel chiaroscuro del nascente giorno che già veniva, imponendo azzurro.

‘Tano guardò la luna sul tramonto, la fascia azzurra dell’alba e rise. Poi, muto, tese le orecchie al silenzio in attesa e, in uno scoppio di voce,

" Natura, " gridò, a violentare il silenzio, " ti sfido: amo la terra che ha da scarnificarmi! ". E rise, e rise, i denti nella nuova luce, mordenti nera terra, quasi mìnne.

In lontano, un carrettiere intonò una nenia, lamentando stanchezza e paura.

E fu nuovo giorno

Sul carrubo, il cuculo dormiva.