La sua storia Dal '94 al '99 un'altalena di incidenti e trionfi. Con la doppietta Giro-Tour che mancava dai tempi di Fausto Coppi. Marco Pantani era nato il 13 gennaio 1970 a Cesena, anche se con la famiglia risiedeva a Cesenatico. E' diventato professionista il 5 agosto 1992 con la Carrera Tassoni, squadra con cui ha corso fino al 1996. Nel 2001 correva per la Mercatone Uno-Stream. La breve vita agra di Marco Pantani detto il Pirata, cittadino di Romagna e ciclista dalle formidabili arrampicate, si è consumata come un assolo di sassofono, quando certe note sono così belle perché folgoranti e ti lasciano senza fiato. Così correva lui, a lampi, a strappi, a scatti che parevano scintille. Fin da subito, però, i suoi mirabolanti successi furono scanditi da altrettante sfortune. Il paragone del sax è suo, confidato in una notte di malinconia, a Cesenatico: "Ho sempre sognato la maglia gialla, mi farò una grande casa tutta dipinta di giallo. Ma mi sento più solo che mai, ora che sono diventato famoso, ora che ho vinto il Giro e il Tour nello stesso anno. E quando mi sento solo ho voglia di ascoltare il sax". Lo aveva atteso, al suo ritorno da Parigi, una folla in delirio. Poi, dopo lo scandalo del doping, dopo i processi, dopo i tentativi di ricucirsi un'immagine che non c'era più, quella folla si dissolse come neve al sole. Lo consolava, allora, sempre e solo la musica e purtroppo, con la musica, la droga. E' stato un campione grandissimo, anche se il sospetto del doping ha rovinato non solo lui ma il ricordo che di lui noi abbiamo. . Dominò Giro e Tour nel 1998, primo italiano dopo Fausto Coppi. Tra il Pirata e il Campionissimo ci riuscirono soltanto Anquetil, Merckx, Hinault, Roche, Indurain: ossia la storia del ciclismo, una galleria di grandissimi fuoriclasse. Forse Marco fu stordito da questo trionfo epocale. Qualcosa in lui cambiò. Se ne accorsero per primi i vecchi amici del garage Renault che avevano fondato il club del "mitico Pantani". Cominciò a frequentare "brutte compagnie", usciva la sera e rientrava all'alba. Sfasciava automobili di gran lusso per bravate da bullo di periferia. Mutò pelle e carattere: meno affabile, più immusonito, più superbo. Simpatico a rate. Che cosa lo stava tormentando? Aveva paura di rimanere sepolto dal meccanismo infernale del successo e del divismo? O più semplicemente, era rimasto invischiato in chissà quale losco intrigo?
Come ci parve lontanissimo un pomeriggio di appena quattro anni e mezzo prima, sotto una pioggerellina sottile e infida, mentre il plotone dei corridori sfilacciato dai colli dolomitici arrancava in ordine sparso cercando di limitare i danni. Era il 4 giugno del 1994, in fuga stava il meglio del ciclismo azzurro e in questo meglio dominava la figura esile e nervosa di un corridore che pedalava dando alla fatica smorfie antiche. Il grande popolo della bicicletta scoprì Pantani, questo minuto corridore dalle orecchie a sventola e dalla testa pelata che aggrediva le strade in salita e sembrava andar su tra le montagne con la leggerezza di un Bartali moderno, ancora più ispirato e drammatico. Il grande Gino spiegava che non si potevano fare paragoni con la storia, che il suo ciclismo non aveva nulla a che fare con quello dei nostri giorni, e forse questo suo puntualizzare avrebbe dovuto metterci in guardia. Tuttavia, quel giorno, Marco Pantani vinse a Merano una tappa memorabile del Giro d'Italia, davanti a Gianni Bugno e a Claudio Chiappucci, ossia i migliori ciclisti italiani del momento. L'Italia delle due ruote capì che era sbocciato un nuovo campione, devastante in salita, i tifosi cominciarono ad applaudire questo personaggio dello sport che parlava con la bonomia dei romagnoli e senza peli sulla lingua, che amava bardarsi la fronte con una bandana, che sfoggiava anelli e orecchini, come i suoi coetanei da discoteca. Piaceva alla gente perché quando spiegava la sua corsa, usava parole che tutti facevano proprie. Divenne come Tomba: un'icona popolare, un modo di essere. Un campione dal volto di gregario: un ciclista corsaro, critico verso il sistema di uno sport che non sapeva più uscire dal ghetto e dal provincialismo. Per questo divenne il Pirata. Uomo da imboscate ed imprese fulminee, al limite della legalità. Come poi si scoprì. Ma la gente - almeno all'inizio - gli perdonò questo suo sgarrare, in un Paese iceberg dove tutto succede sotto la linea di galleggiamento.
Fu un altro giorno di giugno, il 5, a chiudere la parabola del Pirata. E fu sempre al Giro d'Italia che la storia bella e tormentata di Pantani ebbe un improvviso stop. Era il 1999, avrebbe dovuto essere l'anno della definitiva consacrazione di Pantani: lui stesso si comportava in corsa e nel plotone come un piccolo despota del pedale. Non glielo perdonarono, gli invidiosi del gruppo, i rivali annichiliti dai suoi trionfi, coloro che non riuscivano più a sopportarne la prosopopea, magari frutto di timidezza ed eccesso di franchezza, magari figlia di situazioni problematiche: la famiglia, la fidanzata danese con la quale aveva una storia d'amore complessa e contradditoria. Il Giro arrivava a Madonna di Campiglio. Sole quasi estivo, quindici chilometri di salita costante sino ai 1560 di Madonna. Lui, già maglia rosa, a poche tappe dalla conclusione di una corsa ormai vinta. Macché. Invece di lasciare agli altri qualche briciola, Pantani va ad acchiappare chi stava in fuga, lo supera in tromba, lo umilia, vince stracciando la concorrenza. Nel plotone il mugugno è ormai ribellione. In agguato, ci stanno quelli dell'antidoping. C'è chi sa di queste visite a "sorpresa". Ma chi sa non lo dice a Pantani.
I test rivelano valori d'ematocrito oltre il massimo consentito. Pantani capisce che il suo Giro è finito ignominiosamente. Capisce che questa macchia oscurerà tutto il bello che ha fatto. La rabbia gli fa mollare un tremendo cazzotto ad un vetro della stanza in cui si trova. Lo scandalo travolge tutto e tutti. Pantani paga per tutti. Il 18 ottobre del 1995 durante il finale della Milano-Torino era finito contro una macchina che procedeva in senso opposto a quella della corsa. Rottura della tibia e del perone della gamba sinistra. Ma anche valori eccessivi di ematocrito. L'episodio era rimasto nel limbo, il blitz di Madonna di Campiglio apre il vaso di Pandora che ha carburato gli eploit di Pantani. Che il suo tributo alla jella l'aveva poi pagato anche nel Giro del 1977, ruzzolando malamente nella discesa del Chiunzi. Tribolazioni e sventure giudiziarie gli appannarono la voglia di riscatto: che pure fu forte e orgogliosa. Vinse in totale 8 tappe al Giro e otto al Tour: quella di Coyrchevel del 2000 fu l'ultima sua zampata di classe. Dopo, solo ricordi. E tristezze. Troppe, per uno come lui che si è sentito tradito da chi lo aveva innalzato a re di uno sport di popolo.
Hanno detto:
Gimondi: "Ha pagato tutto troppo a caro prezzo"
L'ex campione è stato direttore sportivo di Pantani nei momenti del successo. "Per quattro anni è stato nell'occhio del ciclone. Ha pagato tutto a troppo caro prezzo. Per quattro anni è stato sempre nell'occhio del ciclone dopo essere stato il numero uno". Non si sa ancora come sia morto Pantani, ma Felice Gimondi già sa e dice: "Sono traumatizzato, non me la sarei mai aspettata, così. Secca. Senza un segnale...". Eppure in estate era stato in clinica, di quelle per le depressioni e le tossicodipendenze. "Può succedere a tutti di avere periodi negativi - dice Gimondi - ma non pensavo potesse succedere questo. Non gli hanno fatto favori. Sembrava così forte, ma il personaggio era fragile e sensibile". E rivela: "Sembrava che dopo la clinica avesse di nuovo avuto certi problemi". E' rimasto troppo solo? "Si è isolato un po' lui, anche se lo volevano ancora tutti. E l'ultimo giro lo ha dimostrato, erano tutti per lui". Felice Gimondi è stato il team manager di Marco Pantani per due stagioni. Marco nel '98 riuscì ad eguagliare l'impresa che mancava all'Italia dal 1965 di Gimondi: Giro e Tour nello stesso anno. "Aveva lasciato un segno - dice Gimondi - per il ciclismo è stato tutto: con lui è tornato ad alto livello. Per le emozioni che sapeva regalare".
Cipollini: "Sono sconvolto è una tragedia enorme"
"Sono sconvolto è una tragedia di proporzioni enormi. Per tutto il mondo che conosce il ciclismo". Mario Cipollini è scosso, nella sua casa di Montecarlo. "Non ho parole". Ha subito troppa pressione, Marco Pantani. Sicuramente un motivo alle sue sue reazioni c'è stato. Lui, di sicuro lo ha vissuto male".
Ballerini: "Difficile trovarne un altro"
Il lancio del cappellino, gesto che annunciava l'inizio di una azione irresistibile, "anche questo mancherà di Marco Pantani". A dirlo è il commissario tecnico Franco Ballerini che, a fatica, riesce a parlare della morte del campione romagnolo. Secondo Ballerini "sarà difficile trovare un altro come Marco: lui vinceva ed era personaggio. Ha entusiasmato critica e folle, i suoi successi erano show. Dopo le vittorie al Giro e al Tour la sua popolarità era cresciuta tantissimo, era diventato un uomo che lasciava il segno ovunque". Il ct è addolorato: "La notizia della morte di Marco è così sconvolgente da sembrare non vera. Negli ultimi minuti ho parlato con tante persone dell'ambiente: è come se il nostro mondo cercasse un modo per rinfrancarsi. Sono telefonate in cui l'uno rincuora l'altro".
GIANNI MURA - Quando iniziò l'agonia "
MARCO Pantani ha cominciato a morire quella mattina del '99, a Madonna di Campiglio. Non ha accettato la positività, non ha accettato niente di quello che gli capitava. Tanti altri corridori, invischiati nelle faccende dell'ematocrito, del doping, si sono fermati e sono ripartiti. Lui no. Lui, il re delle salite, si è specializzato nelle discese. Agli inferi, ai paradisi artificiali, a tutto quello che lo nascondeva all'opinione pubblica, ai giornalisti, ai giudici. Si è sempre più isolato, la sua fuga ha avuto distacchi crescenti. Dare una scossa al cuore del pubblico. Pantani ci riusciva benissimo, era la sua grande specialità. Pantani sulle salite era l'equivalente dell'acrobata senza rete. Un rituale, con cadenze quasi mistiche. La spoliazione, per esempio: via il berrettino, via la bandana, a un certo punto via anche gli orecchini. Era come un samurai. Ed erano gli altri a saltare per aria. Erano gli altri a non reggere il suo passo, che all'inizio sembrava quello sghembo, di un arrotino, lo zigzagare incerto di un aratro, ma più la salita assumeva pendenza più diventava una condanna, una specie di campana a morto per chi doveva inseguire e non ce la faceva assolutamente a tenere quel ritmo. Un giorno, al Tour, gli avevo chiesto: "Perché vai così forte in salita?". E lui ci aveva pensato un attimo e aveva risposto, questo non riesco a dimenticarlo: "Per abbreviare la mia agonia".
Ecco, pensando a questa frase ho fatto i calcoli: la sua agonia è durata qualcosa meno di cinque anni. Però è stata un'agonia. Pantani è stato troppo grande in bicicletta per accettare di essere piccolo, peggio di essere rimpicciolito per legge, di essere uno come tanti. Non era questa la vocazione, non era questo il suo destino. La sua vocazione era quella di svegliare le montagne. Pantani era uno spettacolo, e chi l'ha visto, in quegli anni, soprattutto nel magico '98, l'accoppiata Giro-Tour, non se lo può dimenticare. Era un corridore diverso dagli altri, come uno che vuole essere diverso. Anche questo soprannome di Pirata, che s'era scelto, quel cranio rasato a zero anche quando il sole dei Pirenei avrebbe raccomandato prudenza. Lo scalatore di Cesenatico, si usava dire. Ma i nonni venivano da Sarsina, un paese dell'Appennino romagnolo dove ancora ci sono le processioni per salvare gli indemoniati, e al loro collo si mette il collare di San Vicinio. Il paese di Plauto, anche, ma Pantani non aveva maschere. Aveva solo la sua faccia, normale, gli occhi profondi, un po' liquidi, le orecchie larghe, a sventola. Ha avuto tanti incidenti, in carriera: si è spaccato le gambe, si è rotto dappertutto, si è sempre rimesso in piedi. A Madonna di Campiglio è stato come tagliato in due, non si è più rimesso in piedi. Ha accusato il mondo di accanimento nei suoi confronti, e forse un po' aveva ragione. Ma lui era qualcuno di molto grosso, nell'acquario del ciclismo, e il pesce grosso fa più notizia. Questa, stanotte, è l'ultima volta che fa notizia, ed è una brutta notizia per quelli che nonostante tutto hanno continuato a volergli bene, quelli che, come me, si erano abbonati a una formula di comodo (lo considero disperso) per non ammettere fino in fondo l'inquietudine, il dispiacere. Da anni si sapeva delle cosidette cattive compagnie, delle droghe non solo ciclistiche, dei privé delle discoteche, i carissimi amici che forse non erano tanto amici, ma chi si può assumere il diritto di andare a consigliare un disperato? Perché, sostanzialmente, questo era Pantani.
Adesso si può dire, ma è tardi (è tardi per moltissime cose, è troppo tardi) che a Marco Pantani è venuto a mancare Pezzi, la sua stella polare e anche morale, l'unico che era riuscito a spronarlo, a fargli fare la vita del corridore, ad avere un'influenza su di lui anche da morto, tanto è vero che il Tour del '98 Pantani lo aveva dedicato alla memoria di Pezzi. E tutti continuavano ogni tanto a dire Marco torna, ma non poteva tornare. Ormai si era isolato in un mondo suo, con delle regole sue. Giravano leggende metropolitane, anzi romagnole: è sempre in palestra, sta pensando al body building. Io continuavo a darlo per disperso, sapevo che non sarebbe più tornato, e sapevo, anche se è facile dirlo adesso, che sarebbe finito male. Non così presto però, in questo modo no, non lo aspettavo. Se ne riparlerà, è inevitabile, si sta parlando di una morte che addolora tutti, che non si sa ancora a cosa attribuire, se a un gesto volontario, a un errore. Resta emblematico il nome dell'ultima scena, che non era una salita: le Rose. Sono fiori romantici. Altri osserveranno che è triste morire da soli la notte di San Valentino. Morire da soli è triste, comunque, in qualunque notte. E Pantani, negli ultimi anni, era un uomo molto solo, anche se attorno poteva avere tanta gente. Era la solitudine di chi non riesce più ad accettarsi così com'è, e nemmeno la vita che questo comporta. Gli sia lieve la terra, al fondo di questa lunga discesa. Diventerà un mito, probabilmente. Come quelli che muoiono troppo presto, come quelli che non si sa perché muoiono. Avrei preferito vederlo invecchiare, e bere un bicchiere di Sangiovese con lui, da qualche parte sulle sue colline.
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