Contemplare il kamma

LETIZIA BAGLIONI

Kammassakomhi kammadayado kammayoni kammabandhu kammapatisarano

yam kammam karissami kalyanam va papakam va tassa dayado bhavissami

Sono responsabile delle mie intenzioni-motivazioni, erede delle mie intenzioni-motivazioni, frutto delle mie intenzioni-motivazioni, legato alle mie intenzioni-motivazioni, radicato nelle mie intenzioni-motivazioni. Nel bene e nel male, sarò erede delle intenzioni e motivazioni che metterò in atto

Il concetto di kamma (o karma) si presta a una serie di interpretazioni non utili per il nostro cammino, per la nostra liberazione, e a volte ha risonanze esotiche per noi occidentali. Il motivo per cui infatti ho scelto di rendere kamma con intenzione-motivazione piuttosto che con azione, che è la traduzione più frequente, è per significare che l’area che ci proponiamo di investigare è non tanto e non solo la condotta esteriore, ma quell’aspetto attivo, volizionale e motivazionale della mente-cuore (cetana) che tende a esprimersi in parole, in linguaggio corporeo, in pensieri. Quindi uno dei modi non corretti di interpretare la nozione di kamma è come destino o fato. Quando diciamo: "sono erede del mio kamma, erede delle mie intenzioni e motivazioni", oppure "legato alle mie intenzioni e motivazioni", ciò non implica una sorta di determinismo per cui quello che mi capita o il mio modo di agire e di pensare è in qualche modo inevitabile.

Nella tradizione indiana e tibetana il tema del kamma è strettamente legato a quello della rinascita. Stando alle scritture pali, spesso il Buddha veniva interpellato circa il destino dopo la morte di determinate persone, spesso praticanti: date le azioni di questa persona, dato il modo in cui ha vissuto la sua vita, più o meno saggio, più o meno negativo, in che stato rinascerà? E secondo la cosmologia e la mitologia indiane che il Buddha ha ereditato vediamo che c’è un’ampia serie di possibilità – dai mondi piacevoli e gioiosi dei deva a una nuova esistenza umana o infernale e via dicendo. E naturalmente l’idea è che tanto più il kamma è improntato a motivazioni salutari tanto migliore sarà la condizione futura, e viceversa, se le intenzioni e azioni sono di tipo egocentrico, aggressivo, acquisitivo o semplicemente molto ignorante, tendenti alla ripetizione di schemi abituali, la qualità dell’esistenza sarà di tipo inferiore.

Personalmente ho trovato utile riflettere sul kamma indipendentemente dalla questione di cosa accada dopo la morte; in realtà, mi pare che il modo in cui il tema è formulato nei sutta nel contesto dei cinque abhinhapaccavekkhama1 e, posteriormente, della coltivazione di upekkha brahmavihara, non lo richieda espressamente. Ciò che si vuole mettere in luce è che esiste una dimensione volizionale di citta, la mente-cuore. Che questa motivazione-intenzione è qualcosa di dinamico, e che a seconda di come viene espressa e della sua qualità produce invariabilmente certi frutti.

Non è difficile da capire. Consideriamo un’azione, come può essere dare un’elemosina a un mendicante che incontro per strada. Azione in sé e per sé lodevole: non sto facendo del male a me né a nessun altro, al contrario sono generosa. Ma se guardo un po’ più a fondo: cosa succede al mio cuore? Io so che posso donare spinta dall’ansia (mi sentirei in colpa se non lo facessi), posso farlo frettolosamente o avendo un secondo fine, posso donare a cuore aperto, per paura, o perché donare è la risposta naturale.

E qual è il frutto? Perché si dice "sono erede delle mie intenzioni e motivazioni"? Perché se io mi ascolto, so che l’energia che metto in ogni azione che compio – con la mente, con la parola, col corpo – ha sempre un impatto, immediato o differito, sulla mia sensibilità. Quindi quel gesto compiuto in serena generosità mi fa star bene. Magari non immediatamente, ma forse a metà giornata, riportando alla memoria quel gesto, provo un senso di gioia, di contentezza. Sono a mio agio con me stessa. Viceversa se la motivazione era meno serena i risultati potranno essere dubbio, agitazione o un senso di contrazione. In entrambi i casi i sentimenti potranno essere evidenti o così sottili da passare inosservati alla mente non esercitata.

Quindi non stiamo parlando solo di moralità o immoralità in senso convenzionale; credo sia ovvio a tutti noi che pratichiamo il Dhamma che uccidere e danneggiare esseri viventi, appropriarci indebitamente di qualcosa, intossicare la mente e il corpo e via dicendo sono azioni che non ci danno gioia, che non ci danno pace, quindi è facile capire il limite. Ma in un’area più sottile, come quella della parola: se parlo con un intento di amorevolezza, nel riportare alla memoria quella conversazione, come mi sento? Viceversa, se parlo sull’onda dell’impazienza, del pregiudizio, per ottenere qualcosa dalla persona o perché non so fare a meno di parlare – quando poi ci ripenso, o anche lì per lì, come mi sento?

Quindi un modo per riflettere sul kamma può essere semplicemente accorgermi dell’energia che metto nelle cose che faccio, dico e penso nel corso della giornata, e notare che effetto ha sulla mia mente-cuore e sul mio corpo. Familiarizzarmi con la dinamica di un processo del tutto naturale, che non implica alcuna idea di giudizio, premio o punizione.

Al contrario di quello che si potrebbe pensare, riflettere sul kamma e la responsabilità personale è un invito a onorare e celebrare l’incredibile libertà che ci è data di plasmare il mondo della nostra esperienza. Soprattutto quando abbiamo lo strumento di sati, o satipañña, la capacità di essere nel presente, di svegliarci e riflettere: cosa sto facendo? cosa sta succedendo? Se siamo svegli, abbiamo la possibilità di infondere al momento presente una certa qualità, e osservare che il momento presente è figlio del momento passato, e il momento futuro sarà figlio del momento presente.

Un concetto che aiuta a muoversi nell’esplorazione di quest’area è la distinzione fra vipaka (ossia frutto, risultato di kamma) e kamma propriamente detto. Un esempio può essere il modo in cui facciamo attenzione ai nostri stati d’animo. Di qualunque cosa si tratti – serenità, ansia, tristezza e via dicendo – nel momento in cui ne prendo coscienza posso contemplarlo in quanto vipaka: uno stato mentale che sorge spontaneamente come risultato di condizioni precedenti.

Mettiamo che nel parcheggiare la macchina qualcuno cerchi di ‘rubarmi’ il posto; ne nasce una piccola discussione. In seguito, proseguendo a piedi, se ascolto i miei sentimenti e le sensazioni fisiche noterò una certa agitazione, un certo nervosismo. Questo è vipaka, l’eco di un’interazione, il frutto di attività psicologiche, verbali e fisiche che si sono espresse in un momento precedente.

È a questo punto che entra in gioco il nuovo kamma, ossia l’atteggiamento con cui mi relaziono allo stato d’animo che sta emergendo. Già il fatto di sapere cosa sto provando, e se c’è sati, voglia di stare in contatto consapevole con quello che accade, questo è kamma fra i più salutari che possano esistere. Perché diversamente c’è uno stato di ignoranza, per cui il mio kamma consisterà semplicemente nella messa in atto di risposte abituali. Quali ad esempio: reprimere o ignorare l’agitazione, sovrapporre alla sensazione spiacevole altri stimoli (tipici la sigaretta, o la tazzina di caffè), indugiare sull’episodio giudicandomi male o giudicando male l’altro, nutrendo quindi una motivazione di tipo aggressivo e separativo. Tutte attività che generano ulteriore sofferenza, ulteriore contrazione.

Viceversa la mia intenzione in quel momento potrebbe essere quella di accogliere con paziente benevolenza vipaka (ossia la sensazione fastidiosa legata al fatto appena successo), lasciar andare i pensieri disturbanti, coltivare pensieri di equanimità verso i protagonisti del battibecco (me e l’altro automobilista con cui condivido lo stress della vita in città). Questo è il nuovo kamma che sto compiendo, che avrà il doppio effetto di lenire o dissolvere il vecchio vipaka e rafforzare la tendenza ad attività mentali salutari nel futuro. E in più potrò godere del nuovo vipaka, piacevole stavolta, che sorge come ‘effetto collaterale’ dell’applicazione di intenzioni abili: rilassamento, benessere, fiducia.

È un’arte, quella di saper discernere e assaporare i frutti del kamma salutare – anche se minimi, differiti nel tempo o inframmezzati ad altri stati mentali meno felici – che ha grande importanza nello stabilizzare e rendere organico il processo della pratica.

Non sempre, come in questo esempio elementare, è possibile ricondurre i nostri stati d’animo, sensazioni e percezioni ad attività precise o a un determinato momento nel tempo. La complessità della trama del kamma, personale e collettivo, è una di quelle aree che il Buddha riteneva insondabili nei dettagli e contenuti: il nostro compito non è tentare di spiegare vipaka, ma comprenderne la dinamica e rispondere di conseguenza.

KUSALA KAMMA E PRATICA FORMALE

Contemplare i meccanismi di causa ed effetto nel contesto di quell’attività particolare che è la meditazione richiede una certa dose di disincanto rispetto agli stati mutevoli che incontriamo nel corso della seduta (o camminata o altra forma prescelta) o di un determinato periodo della nostra pratica. L’esperienza, si sa, potrà essere a volte piacevole, a volte orribile, a volte passabile, secondo il metro di giudizio cui siamo più affezionati. Allora, invece di oscillare fra soddisfazione e scoraggiamento, dando importanza a fattori che dicono poco o nulla circa la correttezza della nostra pratica nel momento presente, possiamo scegliere di mettere a fuoco l’area delle intenzioni-motivazioni.

In primo luogo, possiamo considerare e riflettere sulle motivazioni salutari (kusala kamma) che stiamo esprimendo per il fatto stesso di scegliere, fra le innumerevoli attività possibili, una seduta di meditazione (oppure un intensivo, un ritiro). In quel momento, i fattori del sentiero che informano la vita quotidiana di relazione (dana e sila – generosità e integrità) convergono nella coltivazione mentale (samadhi bhavana) e nutrono la saggezza (pañña).

Sedersi su un cuscino in silenzio senza far nulla di utile o creativo in termini convenzionali, dedicarsi a un oggetto semplice come il respiro e continuare a contentarsi di quello: mi accorgo di stare tagliando via una consistente massa di kamma negativo? Non sempre ci rendiamo conto che il non-fare, la rinuncia, il semplificare esteriore e interiore è un’attività salutare molto potente. Potente perché, silenziosamente, dice che siamo ricchi dentro, che non abbiamo bisogno di andare in giro a raccattare stimoli per sentirci vivi. Quello che ho, almeno per i prossimi quarantacinque minuti, mi basta. Dunque ho scelto la non-avidità, la prima delle tre fondamentali motivazioni salutari insegnate dal Buddha. Inoltre ho scelto la non-aggressività, perché non sto mettendo in atto nulla di distruttivo nei miei confronti e nei confronti del resto del mondo. Sono qui per non ferire, per non essere indifferente, per non respingere. Che poi nel corso della seduta io possa constatare il sorgere di avidità e rabbia, questo va bene, è il risultato dell’essere vivi come esseri umani e avere un certo tipo di condizionamento. Ma la motivazione che porta a non seguirle e non reprimerle è salutare. È radicata nella non-illusione, la consapevolezza di quello che c’è nel momento presente.

C’è un passo di un sutta 2 in cui il Buddha ricorda che ciò a cui si pensa spesso, su cui frequentemente si porta l’attenzione, diviene il naturale centro di gravità della mente. In un certo senso, tendiamo a divenire quanto occupa e preoccupa il nostro cuore. Perciò: ricordiamo la nostra aspirazione, ricordiamola spesso; e aiutiamoci l’un l’altro a notare e gioire del bene che stiamo facendo, che abbiamo fatto e che faremo con la nostra pratica, indipendentemente dai risultati che ci sembra di aver conseguito o dalle difficoltà che possiamo incontrare. C’è una bella parola a questo riguardo: dhammachanda, o kusalachanda – desiderio di Dhamma, desiderio di bene. Il desiderio che porta alla fine del desiderio.

Ci sono momenti in cui la sofferenza che proviamo, la distruttività degli stati mentali che emergono, può farci pensare "ma allora io non ho mai praticato, non ho idea di cosa sia la pratica, se ci fosse anche un minimo di consapevolezza, di non-attaccamento e via dicendo, come potrei ridurmi in questo stato!". Sembra buon senso e invece è ignoranza, che si tradisce nel tono stesso di pensieri del genere: ansiosi, giudicanti, sfiduciati, drastici e rabbiosi. Semplicemente, guardiamo dalla parte sbagliata. Cerchiamo la pratica dove non vi è che kammavipaka, movimento del passato che si perpetua nel presente.

Mi sento ferita, la rabbia sembra dilagare dentro di me – e non noto che io non alzo la mano, e nemmeno la voce, contro chi mi offende, e cerco il respiro, fra i pensieri di infantile vendetta, con l’istinto di chi non vuole annegare. Non noto che stavolta la TV resta spenta, che in quei dieci minuti agitati sul cuscino qualcosa in me continuava a voler tener dritta la schiena, aperto il petto; che anche stasera mi inchino al Buddha prima di andare a dormire; che per tre interi secondi ho sorriso al sorriso affettuoso fra due amici, per strada. L’intervento del kalyanamitta, di un amico spirituale 3, può essere determinante nell’orientare il nostro sguardo verso le cose che contano, quelle che già facciamo e già siamo in termini di Dhamma. Questo perché chi ha più esperienza ha fiducia nella dinamica del kamma e sa che, sostenendo rettamente l’aspirazione, i frutti non potranno mancare.

Un secondo approccio, fra i vari possibili, ha a che vedere con l’osservare l’energia che guida e colora la nostra attenzione, che informa il modo in cui, ad esempio, il respiro o le sensazioni corporee vengono ricevute nel corso della seduta. Questa forma di investigazione può essere molto efficace nello sciogliere difficoltà ricorrenti e monitorare la qualità della pratica formale, in particolare dei fattori che contribuiscono a generare e sostenere samadhi. In altri termini: se guidando notiamo strani rumori, fumo e puzza di bruciato provenire dal cofano della nostra auto, ci fermiamo e andiamo a dare un’occhiata al motore; non è che tiriamo avanti lamentandoci del cattivo odore! È possibile che cetana, l’intenzione, abbia bisogno di una regolata. Spesso veniamo invitati dagli insegnanti a esercitare uno sforzo gentile, o a non aggrapparci al respiro – tutti modi di orientare la nostra attenzione verso il motore della pratica. Ma in genere ci vuol tempo e un paziente tirocinio di raccoglimento e silenzio interiore perché la sensibilità maturi al punto da cogliere con immediatezza cosa è per noi personalmente duro o gentile, avido o timoroso o spassionato o generoso.

Il modo che trovo più semplice e diretto per esplorare quest’area è riferirsi al corpo come prodotto di attività mentali. Notiamo ad esempio che il tentativo di controllare il respiro ha certi effetti sul respiro, così come la mancanza di interesse o la ricerca di sensazioni piacevoli. L’accento qui è sul notare, non sul manipolare l’intenzione. Mettiamo che nel corso della seduta sperimenti disagio, dolore o tensione nel corpo. Non è detto che il mio obiettivo debba essere ottenere uno stato di rilassamento se non ci sono le condizioni per poterlo generare; però io posso domandarmi: quali atteggiamenti aiutano, e quali complicano? Quali generano benessere come risultato e quali tensione? Se focalizzo l’attenzione su una parte del corpo dolorante con l’intenzione di mandare via il dolore (avversione) è facile che lo vedrò intensificarsi o magari spostarsi o trasformarsi in evento mentale doloroso più complesso. Semplicemente, noto il risultato di quella intenzione; avendolo notato, forse qualcosa in me si ammorbidisce, cerca un altro modo: che succede se invece apro la mano, non stringo intorno a quella sensazione dolorosa? O magari invio un messaggio affettuoso, come se volessi accarezzare la sensazione? E vedere qual è la risposta in questo caso.

Di nuovo: notare deliberatamente il kusala kamma in atto ha effetti rinfrancanti e irrobustisce la pratica. Quindi ad esempio ciò su cui fermo l’attenzione nel corso della seduta non è tanto lo stato d’animo del momento – poniamo, la tristezza – ma è piuttosto la presenza di intenzioni abili quali quelle di accettare la tristezza, guardarla, lasciar andare i pensieri che complicano la tristezza, lasciar andare i giudizi. Queste sono attività che generano risultati, e possiamo notarle e contemplarle come tali. Non c’è bisogno di pensarle in termini personali, come qualcosa che io faccio o non sono capace di fare: è un processo in qualche modo misterioso che viene stimolato dal rendersi conto della loro presenza e dall’ascolto ripetuto degli effetti che producono.

 

NOTE

1. Il testo completo e una presentazione complessiva dei Cinque temi su cui riflettere spesso (Anguttara Nikaya V, VI, 57) saranno oggetto di un prossimo articolo.

2. Dvedhavitakkasutta, Majjhima Nikaya 19

3. È interessante che il termine racchiuda il doppio senso di ‘buon amico’, in quanto vuole il nostro vero bene, e ‘amico di ciò che è buono’, nel senso di qualcuno che ha familiarità col bene.

 

DISCORSO TENUTO A ROMA L’8 MAGGIO 1999