Le motivazione inconsce alla pratica meditativa

JACK ENGLER

Con questo articolo di Jack Engler vorremmo riprendere il tema del rapporto tra psicologia e meditazione. Si tratta di un argomento che certamente merita la massima attenzione da parte dei praticanti e su cui cercheremo di tornare in futuro sollecitando anche nuovi contributi.

Jack Engler ha studiato psicologia buddhista e meditazione vipassana con Mahasi Sayadaw. È direttore del servizio psichiatrico presso il Cambridge Hospital e supervisore in psicologia clinica alla Harvard Medical School. In italiano ricordiamo il libro Le trasformazioni della coscienza scritto insieme a K. Wilber e D. Brown, Ubaldini Editore.

Questo breve articolo è stato ripreso dal sito internet dell’IMS

http://www.dharma.org/insight.htm

che abbiamo trovato ricco di ottimo materiale.

 

Credo che nella prima generazione di praticanti di vipassana in America ci fosse la tendenza a guardare la meditazione nello stesso modo in cui un cattolico tradizionale guarda i sacramenti. Nella teologia dei sacramenti c’è un principio - ex opere operato - in base al quale i sacramenti hanno efficacia in sé e per sé, indipendentemente dalla persona che li amministra o da chi li riceve.

All’Insight Meditation Society nei primi tempi tendevamo ad adottare lo stesso atteggiamento nei confronti della pratica: "Ecco, queste sono le istruzioni: le capite, le applicate e funzionerà". La mia esperienza nel corso degli anni si è rivelata ben più complicata. Ho compreso che la pratica meditativa, come qualsiasi altro tipo di comportamento, può essere usata a fin di bene o a fin di male. Può andare in direzione della liberazione, ma possiamo anche impiegarla al servizio delle nostre nevrosi.

Buddhaghosa definì la pratica ‘un sentiero di purificazione’. È come allontanare le impurità dall’oro finché non rimane il metallo puro. La pratica, come un vero e proprio processo di raffinamento, spesso procede per tentativi ed errori. Attraverso gli errori ci accorgiamo ogni volta di come abbiamo smarrito il nostro equilibrio. Piano piano impariamo a distinguere il retto sforzo dalla spinta compulsiva, quando stiamo compiendo uno sforzo e quando invece vogliamo solo evitare qualcosa.

Gran parte della pratica consiste proprio in quel processo che ci porta a scoprire che cosa non è il sentiero. Da una certa prospettiva certamente tutto fa parte del sentiero e proprio questo processo è il sentiero.

Ma ponendo sulla pratica spirituale le stesse domande che un terapeuta, ad esempio, potrebbe rivolgere a proposito di qualsiasi altra esperienza, si scoprirebbero una dozzina di motivazioni inconsce dietro la pratica. Vale la pena di guardarle per un momento perché la pratica meditativa - come qualsiasi altro comportamento - è determinata da molteplici fattori. Potrebbero esservi molti significati diversi e noi potremmo essere spinti da un gran numero di motivazioni diverse. È proprio ciò che dice l’insegnamento buddhista sulla realtà condizionata e cioè che non esiste una semplice causa ed effetto, ma molti modi in base ai quali anche una singola seduta è condizionata da molti fattori.

Ad esempio, durante certe fasi del ciclo della vita il compito dello sviluppo è arrivare alla formazione dell’identità, ossia a scoprire chi sono come persona e su quali valori indirizzerò la mia vita, chi sarò insomma. Se si incontreranno delle difficoltà o sorgerà un atteggiamento ambivalente o conflittuale, si potrà adottare la prospettiva della mancanza di un sé e di un io in modo da non affrontare realmente questo compito.

Oppure la pratica potrà assumere la forma di un desiderio narcisistico: grazie alla pratica diventerò autosufficiente e invulnerabile, non soffrirò più, non sentirò più alcun dolore o contrarietà. Credo che un desiderio di questo genere si annidi da qualche parte nella psiche della maggior parte di noi, anche se spesso in modo molto sottile. Potrebbe esserci un tipo di ideale narcisistico che ci portiamo dietro da tempo intorno alla nozione di perfezione. La pratica può essere alimentata da un pensiero nascosto del tipo: "Sarò libero da tutte gli aspetti sgradevoli di me stesso che non mi piacciono". È importante essere consapevoli di questo impulso che può essere più o meno presente.

Non è difficile vedere come tutto ciò possa distorcere perfino il modo in cui si fa attenzione e ciò a cui si fa attenzione. L’attenzione stessa a sua volta è molto condizionata.

Il giorno in cui ci si potrà sedere e rimanere consapevoli probabilmente sarà il giorno in cui non si avrà più bisogno di praticare. Come dice il vecchio principio della psicoanalisi: "Il giorno in cui, una volta entrati, sul lettino si faranno solo associazioni libere, sarà il giorno in cui non ci sarà più bisogno dell’analisi". In altre parole, la consapevolezza e le associazioni libere si devono imparare e ripulire da tutte le potenziali distorsioni. Ma è proprio questa la parte più straordinaria della pratica: scoprire tutto ciò, metterlo in ordine e raffinarlo.

Spesso un’altra motivazione inconscia è la paura dell’individuazione, la paura di diventare indipendenti e far valere i propri diritti. Si può manifestare con una certa passività che potrebbe aver radici nel voler evitare l’impegno e il senso di responsabilità. La mia esperienza con i praticanti occidentali è che siano troppo distaccati: abbiamo bisogno di imparare come diventare attaccati, in modo salutare. Quando le persone parlano di distacco e rinuncia, spesso significa che c’è qualcosa che si vuole evitare in modo fobico. Il vero distacco, o il vero non attaccamento, è un immergersi profondamente e ha a che fare con il cuore nella sua interezza. Significa darsi completamente a ciò che si sta facendo, alla persona o alla situazione che si hanno davanti, senza riserve; è fare qualsiasi cosa si stia facendo completamente e poi lasciare andare.

A volte la pratica può essere guidata dalla svalutazione della ragione e dell’intelletto, specialmente in coloro per cui pensare è doloroso o che non amano farlo. La situazione opposta di coloro che trovano i sentimenti dolorosi. Anche l’atto di guardare dentro al proprio mondo interiore può essere una fuga dal proprio mondo interiore. Posso dirmi: "Bene, tutto è solo sensazione o solo pensare o solo sentire". Non sono queste le classiche istruzioni che vengono date? Il classico modo di annotare, solo annotare, senza farsi coinvolgere dal contenuto? A volte, però, questa modalità può costituire una scappatoia: non voglio conoscere che cosa sto pensando, non voglio vedere in modo chiaro il mio pensiero o che cosa sto provando.

Ci possono essere altre motivazioni nascoste nella pratica come la paura dell’intimità o la paura dell’impegno sociale. La pratica a volte può anche essere un sostituto per il senso di lutto. Il Dharma pone la stessa domanda che farebbe un terapeuta: "Come lasciamo andare le cose che ci legano? Come lasciamo andare gli attaccamenti non salutari?".

C’è un periodo di lutto necessario, bisogna attraversare il lutto, non si può solo guardare e osservare o metterlo da una parte con quel tipo di annotazioni che usiamo nella pratica della presenza mentale. Non è possibile in nessun modo evitare il processo del lutto.

In terapia o in meditazione l’insight, la visione profonda, da solo non basta perché non conduce necessariamente a nessun cambiamento. Sappiamo tutti che ci può capitare di avere una comprensione concettuale molto buona di qualcosa o un insight di noi stessi eppure continuare a fare la solita dannata cosa che abbiamo sempre fatto. Bisogna occuparsi della resistenza interna prima che arrivi il cambiamento. Non c’è davvero modo di evitare il senso di lutto in questo mondo transitorio.

A volte usiamo la pratica per immunizzarci dal sentire e la pratica-del-dolore allora può essere usata per evitare di sentire. Ciò può essere fatto in un modo intellettuale attraverso l’osservazione ossessiva o scindendo affetto e sentimento dall’insight e dalla comprensione; in questo modo l’osservatore rimane molto freddo e distante. Questa freddezza distaccata è poco vitale. D’altro canto si può anche usare la pratica per crogiolarsi nel sentimento.

Inoltre ci sono motivazioni di passività e dipendenza. La pratica può diventare un’auto-punizione che nasce da un senso di colpa o da una cattiva opinione di sé. L’ostinato rifiuto a non muoversi fino al termine della seduta, ad esempio: "Sento un dolore molto forte, ma la campana non suona ancora e le istruzioni sono di non muoversi fino alla fine della seduta". Questo tipo di situazione può rappresentare un’opportunità per lavorare con il dolore ed essere un modo molto potente di praticare in quel dato momento, ma possono esserci anche altre radici. Ci può essere una qualità auto-punitiva nel rimanere con il dolore quando farlo non è veramente produttivo o quando lo facciamo in modo masochista.

L’arte della pratica è far venire fuori questa differenza e a poco a poco essere in grado di riconoscere le motivazioni salutari e positive da quelle dannose e negative. Ecco perché la pratica può essere tanto creativa: per tutto il tempo richiede che ci sia questa costante capacità di discriminare. Non si può agire in modo meccanico. C’è sempre nella pratica tanto da imparare e tante straordinarie scelte e questa è una di esse.

 

Traduzione dall’inglese di Roberto Mander