Praticare per ingentilirsi
CORRADO PENSA
Il duro e il tenero
Qualche tempo fa mi è capitato di incontrare un gruppo di persone che non vedevo da circa trent’anni. Ciò che mi ha colpito di più è stato l’indurimento che si notava in loro rispetto a quando erano più giovani. Questo irrigidimento si manifestava in modi diversi per ciascun individuo. In un caso era soprattutto amarezza, in un altro prevaleva l’auto-compatimento, mentre una terza persona mostrava segni evidenti di quella che la psicologia definisce rabbia cronica. L’episodio mi ha portato a riflettere sul fatto che la pratica della meditazione va in direzione opposta, nella direzione di una progressiva apertura, elasticità e ingentilimento.
Non voglio dire che se uno non pratica, inevitabilmente finirà per indurirsi col passare degli anni. Posso pensare a individui che, senza alcuna pratica, col tempo si sono ammorbiditi. Tuttavia, mi pare che la tendenza a indurirsi sia piuttosto frequente. Forse è parte del samsara, ma se non ci prendiamo cura di noi stessi percorrendo una via spirituale, facendo qualche tipo di lavoro interiore, è molto probabile che nel corso degli anni dovremo fare i conti con questo indurimento.
Se pensiamo a tutti gli elementi che costituiscono la pratica, vediamo che essi sono fatti per renderci più morbidi, più gentili, più duttili. La metta, la gentilezza amorevole è una pratica di intenerimento; l’equanimità, la consapevolezza, la compassione e la saggezza possono aprirci e scioglierci fino all’impensabile. E tutto ciò è il contrario del processo di indurimento.
La relazione con lo spiacevole
Un’area cruciale ove convogliare la nostra energia di praticanti è la relazione con lo spiacevole. Tale relazione, attraverso la pratica, deve cambiare in modo radicale. La base più importante perché ciò accada è, ovviamente, sviluppare interesse a lavorare con i fatti spiacevoli delle nostre vite. Senza un simile interesse, senza un simile combustibile, non potremo lavorare con lo spiacevole. Al contrario, continueremo a evitarlo con cura e quindi ad aumentare la sofferenza.
Un maestro di Vedanta lo ha detto splendidamente:
Apprezzate tutto,
sole e pioggia, salute e malattia. Questo è un approccio rivoluzionario al lato
doloroso della vita. Non dite più: "È terribile". Dite piuttosto:
"È molto interessante". Cancellate proprio dal vostro vocabolario
l’espressione "è terribile", e dite piuttosto: "È interessante e
molto prezioso, perché mi farà progredire e mi aiuterà a portare la mia
esistenza alla pienezza della vita umana". E questo svilupperà
naturalmente saggezza 1.
Egli continua spiegando che un momento fondamentale nella sua vita fu quando disse a se stesso:
Ho passato
quarant’anni della mia vita nel buio, perché non capivo questo punto. E ora,
presto, che una situazione difficile possa presentarsi, per farmi mettere
immediatamente in pratica quel che ho capito, prima che me lo dimentichi 2.
Naturalmente l’interesse non riguarda la sofferenza o la spiacevolezza, ma piuttosto il lavorare con la sofferenza e con lo spiacevole. Interesse, gentilezza, rispetto, tenerezza: appartengono tutti alla stessa famiglia.
I nostri itinerari educativi per lo più non contemplano alcun addestramento per fare questo tipo di lavoro, il che è una delle ragioni per cui il sangha, la comunità dei praticanti, è tanto importante. Altrimenti ci ritroviamo del tutto isolati in un’impresa così essenziale.
Supponiamo di essere preoccupati. Possiamo osservare gentilmente la preoccupazione? Possiamo essere rispettosamente attenti a una preoccupazione? Stiamo parlando di uno di quei sentimenti dei quali vogliamo solo sbarazzarci e nei confronti dei quali proviamo soprattutto avversione. Inoltre abbiamo la tendenza a identificarci con essi. Ed è impossibile contemplare qualcosa in cui siamo totalmente identificati. Si tratta del classico rapporto sbagliato con lo spiacevole. Attraverso la pratica, tuttavia, possiamo vederlo meglio. E più lo vediamo, più sviluppiamo interesse a lavorarci, fino al punto in cui ci accorgiamo che, in realtà, non c’è alternativa. Quale sarebbe infatti l’alternativa? Soffrire! Anzi, soffrire di più. Allora, rendendoci conto di tutto ciò, la motivazione e l’interesse aumentano e questa è la nostra fortuna, il nostro buon karma. Senza un simile interesse, infatti, non è possibile affrontare le afflizioni mentali (o kilesa), data la loro potenza. Abbiamo perciò bisogno della forza dell’interesse che, come si è detto, appartiene alla stessa famiglia della tenerezza e del rispetto.
Risvegliare la consapevolezza e mantenerla
Nella tradizione meditativa della vipassana si considerano due momenti nell’applicazione dell’attenzione: vitakka e vicara. Vitakka significa connettere, collegare la consapevolezza con l’oggetto, per esempio con il respiro. E vicara significa mantenere la consapevolezza sul respiro. Nel primo momento c’è il connettere, e poi c’è il mantenere: connettere, mantenere, connettere, mantenere. Ora la stessa cosa avviene quando lavoriamo con le situazioni spiacevoli. Primo, dobbiamo risvegliarci a osservare tali situazioni con interesse e gentilezza. Secondo, dobbiamo imparare a rimanere svegli, rimanere rispettosi, rimanere interessati. A volte diciamo: "Oh sì, ero consapevole. Quando è successo questo fatto, sì, avevo la presenza mentale". Ma ciò che vogliamo dire veramente è che abbiamo avuto un lampo di consapevolezza. Benissimo. Molto meglio di niente; enormemente meglio di niente. Ma era solo un lampo, solo la connessione, non era il mantenere. Era solo vitakka, ma non vicara.
Perciò, risvegliandoci e imparando pazientemente, un anno dopo l’altro, a rimanere svegli, a rimanere interessati, a rimanere gentili, a rimanere morbidi, a rimanere teneri, cominceremo a riuscire, tra alti e bassi. In fondo questo è il modo in cui impariamo le cose, compresa la meditazione. Se ci pensiamo, vediamo che quello che succede è: consapevolezza, accettazione, più consapevolezza. Ossia diventiamo più consapevoli della sofferenza che è implicita nell’avere una relazione sbagliata con lo spiacevole, sofferenza prodotta dall’identificazione. Avendo maggiore consapevolezza, diventiamo più propensi all’accettazione dello spiacevole, perché abbiamo visto quanto è doloroso indurirsi e resistere.
Spontaneamente, quindi, dalla comprensione nasce l’accettazione o il lasciar andare. E dall’accettazione a sua volta nasce la capacità di maggiore consapevolezza in una situazione difficile. È come un circolo virtuoso. L’essere stati in una posizione di accettazione ci rende più motivati a risvegliare la nostra consapevolezza, perché accettazione e consapevolezza sono due dimensioni molto vicine.
Nel processo di irrigidimento succede l’opposto. Dalla mancanza di consapevolezza di tutta la sofferenza che creiamo derivano paura e non accettazione, il che riduce ulteriormente la consapevolezza. Si tratta di effetti ‘a palla di neve’ in due direzioni opposte. Una porta a più condizionamento, l’altra porta al decondizionamento.
La libertà dell’accettazione
Per esempio, supponiamo di avere contemplato gentilmente e rispettosamente la nostra impazienza il più possibile. E abbiamo visto tutta la sofferenza che creiamo, mentre siamo intenti a dare la colpa a qualcos’altro. Un giorno, finito il lavoro, aspettiamo un autobus che ci porti a casa. Immaginiamo che l’autobus sia in ritardo, forse molto in ritardo, e forse non è la prima volta. Quello che potrebbe accadere, con nostra sorpresa e sollievo e diletto, è di ritrovarci a dire un sì pieno al fatto che l’autobus è in ritardo. Non che la cosa ci faccia piacere, ma ci troviamo ad accettare pienamente il fatto che l’autobus sia in ritardo. E in tal modo gustiamo un senso di libertà. Naturalmente non ci piace la cosa, ma siamo in grado di dire sì alla realtà, e la realtà è che l’autobus è in ritardo. Non dovrebbe esserlo, ma lo è.
L’autobus che arriva puntuale esiste ora solo nella nostra immaginazione. La realtà è che l’autobus è in ritardo, quindi noi semplicemente siamo tutt’uno con la realtà. Non ci spacchiamo in due con un rammarico pieno di tensione e risentimento. Semplicemente abbracciamo la realtà così com’è. E questo può essere come un grido interiore di libertà, questa capacità di dire sì alla realtà così com’è.
Possiamo ampliare lo scenario, questa sequenza di eventi quotidiani. Infatti può capitare che quando l’autobus finalmente arriva sia incredibilmente pieno. E a stento riusciamo a entrare. Ancora, possiamo dire un sì totale a questo fatto? Sapete, un autobus semivuoto è, di nuovo, solo nella nostra immaginazione. L’autobus è incredibilmente pieno, e questo è la realtà. Il senso di spaziosità e libertà che possiamo sperimentare è proporzionale alla nostra capacità di dire di sì alla situazione, a una situazione relativamente difficile. Simultanea-mente stiamo dicendo no alla prigione della nostra reattività: ecco il gusto della libertà. Una volta tanto non ci stiamo condannando alla sofferenza, alla sofferenza non necessaria, come facciamo abitualmente. E forse, quando finalmente arriviamo a casa, abbiamo appena messo un piede sulla porta che qualcuno ci dice qualcosa di spiacevole; è possibile!
Ma se siamo riusciti a tenere la finestra aperta finora, non ci siamo contratti e abbiamo detto sì al primo evento e sì al secondo, allora non saremo amaramente induriti. E forse possiamo dire un terzo sì, con nostra completa gioia. Il che non significa, naturalmente, che non diremo niente se pensiamo che invece sia necessario farlo, ossia che non diremo ciò che riteniamo giusto, ma la grande differenza è che la nostra risposta verrà dalla pace, invece che dalla reattività. Saremo perciò anche più convincenti, oltre che più in pace.
È ben possibile educarci in un simile modo. Ed è la ragione per cui pratichiamo. Tre piccoli incidenti come questi possono essere utili per educarci a una maggiore duttilità. Ma gli stessi incidenti, non accompagnati dalla pratica, facilmente sono destinati ad avere l’effetto opposto.
Ora c’è una trappola insidiosa quando ci accostiamo a questo tema. E la trappola è questa: le piccole cose – l’autobus e così via – possono sembrarci situazioni troppo comuni, troppo poco importanti. Noi, invece, vogliamo imparare ad affrontare situazioni veramente difficili. Supponete però che abbiamo appena iniziato a studiare l’inglese. Dopo poco tempo diciamo: "Ma io voglio leggere Shakespeare. Non voglio fare gli esercizi di grammatica. Non voglio perdere tempo a tradurre queste frasette brevi e piuttosto stupide". Sappiamo tutti che questa è un’assurdità, che abbiamo bisogno di questo lavoro di base se vogliamo leggere Shakespeare. In termini di pratica, l’esercizio fondamentale è, in primo luogo, la meditazione seduta. In termini Zen, la pratica di base sviluppa quello che in giapponese si chiama jiriki, termine che designa quella energia che deriva da anni di pratica seduta. Essa si traduce in fiducia, in motivazione, nella capacità di praticare e di vivere.
In secondo luogo è necessario esercitarsi con tutta la varietà di piccoli incidenti che avvengono durante il giorno. È una pratica enormemente importante. Pensiamo a ciò che avviene spesso in un tempo molto breve. Ci svegliamo al mattino, per esempio, e in breve abbiamo già accumulato un certo numero di no, un certo numero di irrigidimenti. La prima cosa che pensiamo è che non abbiamo terminato un lavoro la sera prima. Non ci piace la cosa e non ci piace nemmeno il fatto che sia brutto tempo. Inoltre non ci piace l’idea che dovremmo andare alla banca che è molto lontana dal nostro posto di lavoro, e così via. Ognuna di queste reazioni potrebbe essere un luogo per esercitarci, potrebbe essere un invito a rilassarci invece di contrarci. E nel caso in cui ci contraiamo, ci è offerta allora un’occasione per contemplare la contrazione e per infondere un po’ di tenerezza dentro la contrazione.
Ma questo lavoro ha bisogno di spazio interno, e parecchio spazio può venire dalla pratica seduta. Abbiamo un sentimento così angusto riguardo al tempo nella nostra società che spesso perdiamo molte occasioni di praticare per il semplice fatto che è sempre tardi. In un ritiro forse ci rilassiamo, finalmente, ma poi torniamo a casa ed è di nuovo sempre tardi. Anche il modo in cui parliamo è indice di questa mentalità. "Farò un salto per un secondo..." perdiamo perfino il senso dell’umorismo. È come se fossimo costantemente inseguiti da qualcosa o qualcuno.
L’attaccamento all’avversione è attaccamento alla sofferenza
Forse siamo molto diligenti nel meditare ogni mattina, ma appena la seduta è finita, entriamo in questo folle ritmo mentale, in questa forma di sofferenza. Fondamentalmente, chiudiamo la porta alla consapevolezza per il resto della giornata. È come se le dicessimo: "Arrivederci alla prossima seduta". E questo è un grosso ostacolo per il lavoro di cui parliamo, il lavoro di diventare più duttili.
Poiché la tua
mente è abituata a indugiare nella negatività anche se accade qualcosa di
piccolo, per esempio una piccola agitazione, tu immediatamente l’afferri, e a
causa del tuo attaccamento, la trasformi in qualcosa di molto più grande. In
tal modo permetti a un fatto irrilevante di portare molta infelicità nella tua
vita. Tendi a dare la colpa della tua infelicità a qualcosa di esterno, ma in
effetti tu stesso hai creato questa sofferenza perché sei attratto dalla
sofferenza 3.
Sentendo questo forse potremmo protestare, dire: "No, non è vero! Io non sono attratto dalla sofferenza". Ma che dire dell’attrazione per l’avversione? Anche questa è attrazione per la sofferenza e non dovremmo avere difficoltà a metterci in contatto con essa dentro di noi! A volte siamo molto bravi nel praticare e ricordare il Dharma in situazioni positive o neutrali, il che è un bel passo avanti. Perciò ora c’è un nuovo importante elemento nelle nostre vite, dato che ci ricordiamo del Dharma quando la situazione è buona o neutrale. Senonché quando la situazione diventa difficile, non c’è verso! È come se continuassimo a fare qualcosa che ci fa sentire sicuri, ma evitassimo ciò che ci sembra rischioso. In un certo senso, è come se continuassimo ad andare al liceo e non entrassimo mai all’università perché ci sentiamo sicuri al liceo. Una delle ragioni di ciò è che siamo attratti dalle ruminazioni negative. C’è una sorta di eccitazione nel sentirci indignati, nel sentirci furiosi, nell’alimentare quel fuoco dentro di noi. E non vogliamo lasciarla andare. Sentiamo che la consapevolezza mette in pericolo questo piacere piuttosto discutibile, e perciò evitiamo con cura la consapevolezza. Il fatto è che non vogliamo deporre la nostra dipendenza mentale dalla collera, dall’irritazione, dall’avversione e da tutto ciò che la nostra mente è solita dire quando divampano queste emozioni. Ci pare di ricavare una qualche energia da tutto ciò, e non vogliamo lasciarla andare.
Penso che il punto cruciale sia l’auto-importanza, l’importanza data a se stessi. Quando parliamo di io-mio, parliamo di auto-importanza. Se ci critichiamo, se abbiamo un’autostima molto scarsa, anche questa è auto-importanza. Affoghiamo letteralmente nell’auto-importanza. Se diciamo auto-importanza, magari pensiamo solo al fatto di vantarsi o simili. Ma l’auto-importanza è una dimensione molto più vasta, e comprende tante forme di autoriferimento. Perciò eccitarci nella nostra avversione è auto-importanza. Letteralmente, è come se ci sentissimo più importanti se siamo arrabbiati. A volte è come se non volessimo perderci nemmeno un’occasione per arrabbiarci.
Tuttavia più vediamo che l’attaccamento all’avversione è una grande fonte di sofferenza, più è probabile che la nostra auto-importanza comincerà a ridursi. E allora entreremo in contatto con qualcosa di completamente diverso che potremmo chiamare dignità fondamentale, la dignità di un essere umano, di un essere vivente. E questo non ha niente a che fare con l’io-mio; è qualcosa di molto più basilare, più calmo, più semplice. Non abbiamo bisogno di ubriacarci di avversione una volta che siamo entrati in contatto con questa dignità fondamentale; a questo punto non abbiamo più bisogno di droghe.
Quando cominciamo a sperimentare un po’ di questa dignità fondamentale, allora il lavoro interiore diventa più facile: la possibilità di accettare, la possibilità di ingentilirci, diventa più accessibile, perché non siamo più ubriachi di auto-importanza. Non abbiamo bisogno di tutti questi espedienti, siano essi rabbia o attaccamento. A misura che riusciamo a cambiare la nostra relazione con lo spiacevole, la tenerezza che è in noi — tenerezza che è sia amore sia intelligenza — aumenta. E questa è decisamente una buona cosa.
1. A. Desjardins, Toward the fullnes of
life, Putney and Brattleboro, 1990, p. 29.
2. Ivi.
3. Gyatrul Rinpoche, Ancient Wisdom,
New York 1933, p. 33; trad. ital. Un’antica sapienza, Ubaldini, Roma.
Tratto da "Buddhism Now", vol. IX,
Maggio 1997. Traduzione dall’Inglese a cura di Franca Zucalli.