Osservazioni sulla pratica

CORRADO PENSA

 

LA FASCINAZIONE DEL PENSARE

Ovvero la tendenza ad attribuire il massimo valore possibile al pensare in sé e per sé. Non ci riferiamo, perciò, all’apprezzamento della riflessione saggia o di altre forme costruttive di pensiero, bensì, appunto, a una fascinazione indiscriminata per l’attività mentale. Due aspetti salienti di tale orientamento sembrano questi. 1) Ci sentiamo ‘a posto’ e in regola solo quando la mente pensa molto, non importa a cosa e non importa come. Quello che conta, invece, è il discorrere mentale: e discorrere viene dal latino discurrere, che significa ‘correre di qua e di là’. 2) Ci aspettiamo tutto e la soluzione di tutto in primo luogo dal pensare e poi anche dal leggere e dal parlare. È come se una parte di noi dicesse: se soltanto riesco a pensare abbastanza e abbastanza ripetutamente alla tale questione, se solo rivedo il film mentale di quell’avvenimento tantissime volte, se ce la faccio a leggere in abbondanza sulla meditazione... allora sì, allora succederà sicuramente qualcosa di buono. È una specie di fede cieca, di abbandono a un presunto potere magico del pensare e del ripensare, della cogitazione compulsiva o proliferazione mentale.

In realtà - e questa è una delle lezioni più preziose della pratica - siamo davanti a uno degli attaccamenti più forti e radicati, l’attaccamento al pensare per pensare, l’attaccamento alla concettualizzazione e alla verbalizzazione, la dipendenza dall’incessante discorrere mentale, con la conseguente e inevitabile diffidenza nei confronti di tutto ciò che esula dalla discorsività. Ed è proprio l’attaccamento alla proliferazione che ci rende ciechi a fondamentali capacità della mente diverse dal pensare, in particolare sati (consapevolezza) e metta (benevolenza incondizionata).

Ossia da una parte la capacità di ascolto attento, di intimità non giudicante con ciò che i sensi e la mente via via ci presentano e, dall’altra, la capacità di investire i medesimi oggetti di una tenerezza altrettanto non giudicante e silenziosa (fatte salve, s’intende, le frasi-supporto per la metta). E ugualmente silenziosa - in quanto più intuitiva che discorsiva - è poi la saggezza compassionevole che nasce come frutto dell’esercizio di sati e di metta.

La difficoltà principale circa questo attaccamento è che il continuo discorrere mentale ci sembra una cosa normale o, addirittura, appetibile. Diversamente da quanto può accadere in altre forme di dipendenza, delle quali, pur continuando a coltivarle, conosciamo il carattere nocivo.

E perché la proliferazione mentale e l’attaccamento nei suoi confronti è un impedimento alla crescita interiore? Per molte ragioni. Vogliamo ricordarne una particolarmente importante. La discorsività mentale compulsiva è uno schermo, una barriera alla chiara percezione. Se, per esempio, ci troviamo di fronte a una nostra esperienza dolorosa, il pensarvi in modo ossessivo, in realtà, ci separerà da essa, rendendoci progressivamente più impotenti e più appesantiti. Mentre, al contrario, se impariamo a collocare questa esperienza nel raggio di un’osservazione attenta e affettuosa - il che comporta subito più silenzio mentale - entreremo finalmente in contatto con essa. E a misura che ci apriamo all’esperienza, si rafforzerà la nostra capacità di comprenderla e di lasciarla andare delicatamente, ossia di ampliare il potere liberante della saggezza compassionevole.

Una sequenza cruciale

È la sequenza phassa (contatto tra i sensi, che includono la mente, e i loro rispettivi oggetti) - vedana (sensazione piacevole, spiacevole o neutra) conseguente a tale contatto - tanha (attrazione, repulsione, confusione o distrazione rispettivamente davanti al piacevole, allo spiacevole o al neutro). Questa sequenza è chiamata anche l’‘anello debole’ nella catena della ‘produzione condizionata’ (paticca-samuppada), che è il cuore dell’insegnamento del Buddha circa la sofferenza e le sue cause. Perché anello debole? Perché l’area di phassa-vedana-tanha è quella in cui è possibile intervenire con la pratica, applicando una precisa consapevolezza su tutta la sequenza. Ciò avrà per effetto un progressivo indebolimento dell’attaccamento (upadana, il fattore immediatamente successivo a tanha) e dunque della causa fondamentale, insieme con l’ignoranza, della sofferenza.

Diciamo, dunque, che se la coltivazione della presenza mentale o consapevolezza (sati) è sempre auspicabile, la sequenza suddetta è uno dei suoi campi d’elezione, uno di quei campi dove emerge il carattere intrinsecamente saggio della vera consapevolezza, che non a caso è chiamata ayoniso-manasikara, attenzione saggia. È bene ricordare, in proposito, che è possibile essere meditanti disciplinati e, tuttavia, lavorare poco o nulla in questa zona del contatto-sensazione-reazione. Addirittura, è possibile fare ritiri lunghi, acquisire una buona capacità di pacificazione interiore e però, anche per mancanza di guida, rimanere piuttosto crudi in questo lavoro crucialissimo di investigazione della sequenza fondamentale.

Perciò io credo che sia molto utile prefiggersi deliberatamente di praticare sulla sequenza, sia durante la pratica formale, sia durante la pratica in azione. Altrimenti, se ci limitiamo all’intento generale di attenzione, si corre il rischio, da un certo momento in poi, di girare in tondo, senza entrare mai con pienezza nell’attenzione-investigazione circa le cause del dolore. E dunque, per usare la famosa immagine del Buddha, rischiamo di non mettere mai in acqua la zattera del Dharma per farne l’uso specifico cui essa è adibita, che è quello di portarci al di là delle acque della sofferenza.

I piccoli momenti di reattività che capitano nel quotidiano sono ottimo materiale di lavoro. Ottimo perché, essendo minimi, sono episodi che non ci annebbiano e dunque non spengono il nostro intento di pratica che, soprattutto agli inizi (ma non soltanto), può essere cosa fragile. Immaginiamo, ad esempio, di trovarci di fronte a qualcuno che si comporta in modo lievemente irritante o magari davanti a uno spot televisivo che non ci piace. Se prestiamo la retta consapevolezza (né tesa, né, d’altra parte, vaga e superficiale) sia al fuori (ciò che vediamo e ascoltiamo), sia al dentro (il nostro reagire), percepiremo come il gonfiarsi di una piccola onda di avversione. Questa onda sarà comunque - dato che si tratta di un evento minimo - effimera e di breve durata. Ma se viene fermamente illuminata dalla consapevolezza è ben possibile che l’onda si dissolva all’istante. Quasi un subitaneo rinvenire a una nostra pace di fondo che si indovina, promettente, al di là del piccolo turbamento.

Lavorando sulla sequenza (sempre davanti a minime cause di fastidio) può anche succedere questo, se l’attenzione è specialmente stabile, viva e accurata: percepiamo suoni, forme, colori, sensazioni fisiche, pensieri che si avvicendano in un movimento continuo. Niente altro. Non c’è spiacevolezza né avversione. E ciò con nostra sorpresa, dato che ci saremmo aspettati - sulla base dell’esperienza passata - una nostra piccola reazione avversiva, come al solito. Evidentemente quella spiacevolezza che abitualmente emergeva in noi vedendo la tal cosa è diversa dalla spiacevolezza, che potremmo chiamare oggettiva, di un ginocchio sbucciato. Si trattava, piuttosto, di una spiacevolezza mentale ‘confezionata’ in base a condizionamenti passati. Ma se, in virtù dell’attenzione, siamo radicati nel presente vivo, allora quei frammenti semiconsci di ricordi, mescolati a ‘cariche’ reattive ancora in circolo, non hanno potere e non si manifestano.

Ci ritroviamo, invece, con una intuizione, piccola ma molto istruttiva, del continuo avvicendarsi di suoni, colori, forme eccetera (anicca) che caratterizza la realtà ma che la nostra reattività e la nostra distrazione ci impediscono di vedere. Attenzione: quello che sto cercando di dire è che, nell’attimo di chiara visione, questo avvicendarsi, questo continuo processo, ci colpisce come più immediato, più evidente, più rilevante, più vero che non le nostre reazioni o interpretazioni. Dunque, se la sequenza di cui parliamo non è ‘lavorata’ con lo strumento della pratica, essa porta al costante rafforzarsi dell’attaccamento (upadana) che va a potenziare, altrettanto costantemente, la nostra sofferenza.

Al contrario, se la sequenza è resa oggetto di una giusta osservazione (ossia precisa e, insieme, duttile e tenera) ciò favorirà una progressiva attenuazione dell’attaccamento e dunque della stessa predisposizione alla sofferenza mentale: infatti tale predisposizione è fatta di quell’ansia di sicurezza, di possesso, di identificazione che è la trama medesima dell’attaccamento. E questo perché sati, tipicamente, illumina quello che non vediamo, e cioè tanto il carattere in vario grado nocivo e doloroso (dukkha) dell’attaccamento, quanto le altre caratteristiche dell’esistenza (cambiamento e non-solidità, anicca e anatta) che l’attaccamento, per sua natura, ci occulta.

A scanso di fraintendimenti da parte di meditanti principianti: sati, la consapevolezza saggia, non è un analgesico. In effetto il suo potere è complesso e si mostra, inoltre, gradualmente. Se in quei casi di reattività minima tale potere agisce facendo dissolvere il minuscolo disagio, allorché invece abbiamo a che fare con disagi più grandi, allora il potere di sati - ovvero l’esplicazione della sua saggezza intrinseca - si manifesta secondo modalità più indirette, nelle quali predomina un insieme di accettazione-discernimento. Il che, senza dissolvere la sofferenza, modifica tuttavia in profondità il nostro rapporto con essa. E poiché all’origine della parte più tossica della sofferenza, che è quella mentale, c’è, appunto, il nostro rapporto sbagliato con le cose, vediamo che - pur non scomparendo la sofferenza - sati, di fatto, opera per la guarigione dalla sofferenza. E questo non già sospendendola, come fa un analgesico, bensì, piuttosto, curandola nelle cause, come fa un farmaco specifico.

Dunque i piccoli disagi quotidiani, che conviene proficuamente usare per la nostra pratica, ci servono per uno scopo tanto semplice quanto importante: toccare con mano, spesso e immediatamente, il potere benefico (kusala) di sati nell’intervenire sul potere non benefico (akusala) dell’attaccamento.

LA PRATICA FORMALE

La figura dell’aspirante meditante curvo sotto il peso della colpa e della frustrazione perché non riesce ad avviare una regolare disciplina quotidiana di pratica seduta non è un incontro raro in ambiti di Dharma. Ora dietro questa insoddisfazione c’è spesso una equiparazione arbitraria, l’equiparazione della pratica del Dharma - che nella scuola antica è pratica dell’ottuplice sentiero (retta comprensione, retta motivazione, retta parola, retta azione, retto modo di vita, retto sforzo, retta consapevolezza, retta calma concentrata), con la pratica dei tre ultimi fattori soltanto e, per giunta, intesi solo come aspetti della meditazione formale. Laddove retto sforzo, retta consapevolezza e retta calma concentrata sono concepiti per essere praticati sia nella pratica formale sia nella pratica in azione.

Tale equiparazione tra una parte e il tutto, oltre a essere indebita, è prevedibilmente fallimentare, dato che il sentiero è un insieme unitario e bilanciato, una unità organica. Perciò, se ne ritagliamo una parte, questa parte è destinata ad appassire o a vivere di una vita fittizia, dato che non riceve la linfa proveniente dal resto della pianta, ossia dagli altri cinque fattori.

Ci sono tanti interrogativi fondamentali che fanno capo all’ottuplice cammino nella sua interezza, interrogativi che però noi mettiamo a tacere se siamo ossessionati da quell’unico interrogativo ("Perché non riesco a sedermi" oppure "Mi voglio sedere oppure no"), che è spesso la nuova edizione di una nostra vecchia ambivalenza e indecisione. Interrogativi come: quanta contentezza e serenità c’è nelle nostre vite e cosa facciamo perché ci sia? In che rapporto siamo con gli altri: distratto o rispettoso? Etica è una parola morta o viva per noi? Quanta sofferenza non necessaria siamo consapevoli di fabbricare dentro e fuori di noi? Quanta capacità abbiamo di abbandonare ciò che nuoce e di scegliere ciò che giova e quanto ci anima un progetto siffatto? Concepiamo la possibilità di una visione della vita e della morte che trascenda la visione angusta e confusa che ci portiamo dentro? Intendiamo esplorare questa possibilità?

Lavorare a questi interrogativi significa lavorare a tutto l’ottuplice sentiero, a cominciare dal fattore chiave della retta comprensione. E se ci interroghiamo sul modo giusto di essere nel mondo, sulla possibilità di una comprensione delle cose più ampia e profonda, prima o poi capiremo che abbiamo bisogno di emigrare dall’abitudinario e dal meccanico, che abbiamo necessità di una energia di pace e di una intelligenza amorosa nutrita da questa energia. Insomma se coltiviamo davvero un cammino la necessità di una pratica formale emerge con una certa naturalezza. Tutte le grandi tradizioni interiori sottolineano con vigore la necessità di regolari tempi protetti, di recinti di quiete. Questi tempi, questi recinti servono ad alimentare quell’energia di pace che è indispensabile per sostenere l’impegno radicale del lavoro interiore.

Allora praticando il cammino nella sua interezza, vedremo che, se la pratica formale stenta e si inaridisce qualora sia disgiunta dal resto del cammino, allo stesso modo succede che l’etica (ossia i tre fattori morali) e la comprensione (i primi due fattori) crescono e fioriscono se hanno le radici immerse nell’humus della contemplazione.

Uno dei contributi più lucidi dell’insegnamento del Buddha riguarda l’universale interdipendere e intercondizionarsi delle cose. L’ottuplice sentiero non fa eccezione: i suoi vari fattori sono in rapporto di mutua dipendenza e di mutuo sostegno. Cogliere al vivo questa realtà significa cominciare a capire in profondità il sentiero e quindi, in ultima analisi, la pratica formale.