Umiltà
e libertà
CORRADO PENSA
Umiliati dal disagio
La parola ‘umiltà’ ha un profondo legame con la parola ‘libertà’. Questo legame non è così evidente, perché spesso noi parliamo di ‘umiltà’ in un senso diverso dal vero significato di questa parola. Ne parliamo troppo, ne parliamo a sproposito, e, a forza di parlarne, logoriamo questa parola delicata e la facciamo diventare inutile e consunta. Essere umili significa ‘stare con i piedi per terra’, sull’humus. Questa dimensione appartiene alla stessa area indicata da parole come ‘accettazione’, ‘equanimità’, ‘oltrepassamento dell’io’, perché in una modalità umile di vita si impara pian piano ad andare oltre l’egocentrismo e si acquista una nuova libertà.
Vivere umilmente non è affatto il nostro solito modo di vivere, anche se forse potremmo esserne convinti. È stato acutamente osservato da H. Benoit che ogni forma di disagio che incontriamo è da noi vissuta come un’umiliazione: perdiamo il treno e ci sentiamo umiliati; prendiamo un raffreddore e ci chiediamo perché proprio a noi debba toccare questa sfortuna, magari nei giorni in cui avevamo bisogno di tutta la nostra lucidità, e ancora una volta ci sentiamo perciò umiliati; e via dicendo.
Qualsiasi sofferenza ci umilia. E ciò accade per il semplice motivo che essa ci costringe ad ammettere che non siamo onnipotenti. Fa cadere il nostro io da un piedistallo. In un regime in cui l’io prevale, anche un piccolo disagio, anche una minima contrarietà minacciano la presunta onnipotenza dell’io. L’io scopre di avere dei limiti, e questo è percepito come umiliante.
Io-mio, umiltà e umiliazione
Accorgersi di quanto siano strettamente connessi egocentrismo e umiliazione è un primo passo fondamentale verso una diminuzione della sofferenza che ogni inconveniente provoca nella nostra vita. Non è un caso che nei termini tradizionali del Dharma l’io-mio si traduca con l’insieme di attaccamento, avversione e ignoranza. Finché questi tre prosperano, l’io-mio rimane al centro; e, finché permane l’atteggiamento divisivo e separativo portato dall’io, l’umiliazione è sempre dietro l’angolo. Se invece l’egocentrismo si indebolisce, c’è più umiltà, e di conseguenza ci sono minori umiliazioni. Infatti chi intraprende il cammino dell’umiltà non tende più a esperire tutto quello che gli capita di disagevole come un’umiliazione: al contrario, comincia ad accogliere le cose in modo radicalmente diverso.
La proposta della pratica
La pratica della meditazione consiste appunto nell’imparare ad accogliere le contrarietà in un modo nuovo. Essa ci propone qualcosa che all’inizio può sconcertare: non si tratta più di seguire ciecamente l’impulso a fuggire lo spiacevole a tutti i costi, bensì di abitare con calma l’umiliazione che tale spiacevole suscita.
È certamente una proposta paradossale, e lo si vede bene dalla difficoltà con cui l’io-mio la considera. Per l’io-mio questa è una prospettiva assolutamente intollerabile, perché va in senso opposto all’indicazione che esso dà in ogni circostanza: ricercare il piacevole e respingere lo spiacevole.
A prima vista la reazione dell’io-mio potrebbe sembrare molto ragionevole: non si vede perché mai dovremmo andare a incontrare il disagio.
Ma questa non è che un’impressione superficiale. Se approfondiamo la questione, ci rendiamo conto che l’atteggiamento egocentrato è assennato solo in apparenza. In realtà ci sono situazioni in cui è possibile vedere molto chiaramente come tale atteggiamento non sia di alcuna utilità, anzi, sia esclusivamente fonte di sofferenza. Pensiamo per esempio a quelle che potremmo chiamare le ‘umiliazioni inevitabili della vita’: l’invecchiamento, la malattia, la morte. Noi percepiamo il passare del tempo e il mutamento del corpo come un’umiliazione, e facciamo resistenza: questo significa che non riusciamo ad accettare la vita così com’è. E il nucleo portante dell’io è costituito proprio da questa contrazione di fondo, da questa incapacità ad abbracciare la vita come ci si presenta. Di qui nasce l’umiliazione, ed è in questo frangente che si crea la sofferenza.
Forse siamo convinti che la contrazione di fondo delle nostre vite non si possa eliminare. Ma tutte le grandi tradizioni spirituali concordano nel dire che non è così. Gli esempi nel senso dello scioglimento sono senza numero. Voglio ricordare a questo proposito il racconto di un’infermiera americana che, in un ospedale, si occupava di un’anziana donna di colore, malata in maniera terminale. Un giorno la vide nel letto che sorrideva, e le domandò: "Come va?". La donna rispose: "Bene, sto pregando per te".
Un episodio del genere ci tocca proprio perché in esso è sorprendentemente assente quella contrazione di cui parlavamo. In questo racconto c’è un senso miracoloso di libertà, la libertà dall’umiliazione che viene inflitta all’io-mio da una malattia incurabile.
Il tirocinio della presenza mentale
In un percorso meditativo non ci viene chiesto di riuscire immediatamente a stare con il disagio. Nella maggior parte dei casi l’incontro consapevole con le contrarietà, che permette di abitare saldamente l’umiliazione, è un obiettivo per raggiungere il quale occorre un certo tempo. Prima di fare questa esperienza ci si può quindi allenare gradualmente con oggetti piacevoli o neutri. Per esempio, il respiro è un oggetto neutro o piacevole che può essere usato nella prospettiva di passare poi a un oggetto spiacevole, perché non bisogna dimenticare che la pratica meditativa non può limitarsi all’area del piacevole e del neutro.
Ovviamente dinanzi a una modalità più impegnativa o spiacevole di pratica ci si deve rapportare in modo diverso, a seconda della propria esperienza. Le persone che praticano da molto tempo verificheranno queste indicazioni con la loro meditazione; le persone che stanno incominciando o hanno cominciato da poco intenderanno queste parole come una prospettiva aperta sul futuro.
Non è affatto inutile notare la differenza fra queste due situazioni, perché se non se ne tiene conto si rischia di formulare un giudizio superficiale sulla propria attitudine a praticare con il disagio. Chi non ha esperienza può pensare che, poiché non ha alcuna propensione né facilità a stare con l’umiliazione, non è il caso che insista in questa direzione.
Tuttavia l’arte di abitare il disagio non richiede uno speciale talento. Al contrario, è un fatto che può rivelarsi naturale e organico. Ma questa naturalezza non è in genere immediatamente accessibile, e richiede un graduale tirocinio. Aiutati da esso, si passa dalla capacità di stare con il piacevole e il neutro a quella di conservare la presenza mentale anche nelle situazioni spiacevoli, difficili e umilianti. Questa è una transizione di fondamentale importanza, che può essere compiuta più facilmente con l’ausilio del sangha, degli insegnanti e della pratica intensiva di ritiro.
La pace incondizionata
Nel corso di tale transizione si possono incontrare vari equivoci. Un equivoco notevole è quello che ci fa credere che l’obbiettivo della pratica sia una pace condizionata anziché incondizionata. Immaginiamo, per esempio, di praticare già da un certo tempo, di essere soddisfatti della nostra pratica e della sua evoluzione; improvvisamente ci troviamo di fronte a una fase difficile della nostra vita. Non ce lo aspettavamo e restiamo sconcertati. Abbiamo l’impressione che, a causa delle nuove difficoltà, ci manchi la calma necessaria per praticare. In precedenza, in una situazione di relativa tranquillità, riuscivamo a proseguire il nostro percorso; ora non più, perché il contesto è cambiato in peggio.
Questa reazione è comprensibile; tuttavia essa è fondata su un malinteso. Infatti è vero che la pace è uno scopo importante della meditazione di consapevolezza: essa ne è l’oggetto, il traguardo, la meta. Ma quando diciamo di non avere abbastanza calma per praticare, ci riferiamo a una pace dipendente da certe condizioni, quali possono essere, per esempio, la buona salute e l’assenza di preoccupazioni. Ci riferiamo a una pace che non cambia la nostra vita, perché dura soltanto finché sono presenti queste caratteristiche favorevoli. Questa pace è certamente positiva, però è molto fragile: essa ha la durata e la consistenza delle condizioni da cui dipende, e finisce non appena tali condizioni si esauriscono.
Ma la pace che si ripromette un cammino interiore è una pace ‘incondizionata’, perché sempre meno dipendente da condizioni, e quindi sempre più profonda.
Quando cominciamo a capire che questo tipo di pace esiste e può essere avvicinato indipendentemente dallo stato in cui ci troviamo, non ci soffermiamo più nel rimpianto della pace condizionata che prima avevamo e ora abbiamo perso, non diciamo più che in questo momento non possiamo praticare perché ci manca la calma e siamo agitati, ma il nostro orientamento a praticare permane saldo, invece, nell’agitazione, e con l’agitazione. Ed è solo con la sottile comprensione di questa possibilità, che il superamento del nostro pregiudizio riguardo all’incompatibilità fra pratica e situazioni difficili, che può avvenire, a poco a poco, la ‘conversione’ a lavorare con lo spiacevole.
Accendere una piccola luce
Ora tale transizione avviene, come già si diceva, abitando l’umiliazione, giacché lo spiacevole ci umilia. E ci offende: a volte, incorrendo in qualcosa che ci contraria, ci sentiamo offesi. Non si tratta di un risentimento di fronte a un’ingiustizia o a un insulto, ma di un broncio che mettiamo alla vita quando le cose non vanno come noi vorremmo che andassero. Per esempio, viene meno una certa occasione che ci sembrava importante e cala sul nostro viso un broncio. Ci sentiamo umiliati, perché diminuiti o perché minacciati.
E, francamente, non avremmo molta voglia di lavorare con le situazioni disagevoli, frustranti, umilianti. Per farlo occorre un interesse, una piccola luce nel buio della circostanza sgradevole. L’interesse, in genere, nasce sempre nello stesso modo: dapprima proviamo fiducia nei confronti di qualche insegnante o di una tradizione e, un po’ timorosi, proviamo a portare il lavoro interiore nella situazione spiacevole. Col tempo, provando e riprovando, tra alti e bassi, scopriamo che non solo non veniamo sommersi – come temevamo – dalla sofferenza, dal disagio, dalla frustrazione, dall’umiliazione, ma che, al contrario, stando dentro alla sofferenza senza ignorarla, siamo stati in ultima analisi meglio, pur soffrendo. E non abbiamo neppure dovuto far ricorso a tutte le nostre abituali strategie per sottrarci a quello che non ci piaceva. Temevamo di rimanere diminuiti, mentre, al contrario, abbiamo toccato una potenzialità dentro di noi che non ci aspettavamo: e ci siamo riusciti rimanendo fermi, invece di agitarci variamente come di solito facciamo.
Questa potenzialità con cui siamo entrati in contatto è un inaspettato elemento di pace dentro la sofferenza; ed è grazie a esso che in noi si sveglia quello specifico interesse a lavorare con lo spiacevole. Non per questo preferiamo lo spiacevole al piacevole: preferiamo sempre il piacevole, ma lo spiacevole non ci umilia più come un tempo. Ora ci interessa, e sempre di più. È un interesse che, una volta sorto, non si spegne, e continuamente ci stimola a lavorare con le situazioni di disagio.
"Sopporta te stessa con dolcezza"
Un autore cristiano del XVII-XVIII sec., il Padre Jean-Pierre de Caussade, scrive in una sua lettera di direzione spirituale:
Sopporta te stessa
con dolcezza, senza impazienza esteriore o interiore, ma tranquillamente.
Questa sola cosa ben praticata può procurarti la calma interiore che ti farà
progredire più di tutto ciò che riusciresti mai a fare. Perché? Perché quando
si sente un po’ di pace e di dolcezza nel proprio cuore, vi si ritorna con
piacere, e ciò che si fa con piacere, lo si fa volentieri, continuamente, senza
pena e quasi senza riflettervi 1.
Le parole del Padre de Caussade descrivono qual è secondo lui l’atteggiamento da assumere in una situazione di difficoltà: l’invito è alla dolcezza, alla tranquillità e alla pazienza. Noi diremmo che è un invito a praticare intensamente e con interesse (in questa parola possiamo vedere un equivalente di ciò che il Padre de Caussade chiama ‘piacere’), rimanendo consapevoli di tutto ciò che c’è in noi: consapevoli del contrario della dolcezza, cioè dell’amarezza, del contrario della tranquillità, ossia dell’agitazione, e dell’impazienza.
Vipassana e metta
La via della consapevolezza è un processo di purificazione che affronta direttamente gli ostacoli alla pace, alla saggezza, alla compassione. E dunque, per esempio, per cominciare ad accedere alla pace del non attaccamento occorrerà contemplare l’attaccamento stesso. Così pure tutto ciò che è amarezza, impazienza e agitazione, se guardato affettuosamente (questa è la pratica della vipassana), comincia a mutarsi nel contrario, tanto più se uniamo a questa modalità la pratica di metta o benevolenza, in virtù della quale evochiamo parole di dolcezza, di pazienza e di tranquillità.
Quindi in una situazione disagevole e umiliante contempliamo affettuosamente il contrario della dolcezza, cioè l’amarezza, ed evochiamo deliberatamente la dolcezza attraverso la pratica di metta. Rimanendo in questa posizione ossia in questa fermezza vigile e affettuosa, cresciamo e sviluppiamo interesse; l’interesse a sua volta ci induce fruttuosamente alla pratica.
Apprezzare ciò che è piacevole e neutro
Ci accorgiamo a questo punto che una situazione difficile non solo non ci ha nuociuto, ma, al contrario, vissuta in questo modo, ci ha portato vantaggio. È chiaro che non ci auguriamo di incontrare un’altra situazione di questo genere, ma è importante toccare con mano come la capacità di abitare consapevolmente l’umiliazione porti frutto.
E nello stesso tempo scopriamo che lavorare con il disagio non cambia soltanto il rapporto che abbiamo con quanto ci umilia, ma modifica anche il nostro modo di vivere ciò che è piacevole o neutro. Questo nuovo modo si può esprimere in breve con le parole ‘apprezzamento’ e ‘gratitudine’. Non diamo più per scontati il positivo, il piacevole, il sereno, il pacifico, il bello, l’interessante; non li accompagniamo più con qualche lamentela perché non sono all’altezza delle nostre aspettative; semplicemente cominciamo a gustarli meglio mentre in noi aumenta la capacità di essere grati e di apprezzarli.
Quando si cominciano a vedere questi frutti, nella propria esistenza nascono come una densità e uno spazio che prima non c’erano. Un tempo potevamo anche apprezzare qualcosa di gradevole che era stato detto o fatto, o qualcosa che avevamo visto, ma si trattava di un’annotazione veloce, occasionale. Non riuscivamo a fermarci e ad apprezzare una piccola cosa buona, perché subito venivamo catturati dalla mente avida che ne voleva subito un’altra, più grande, o dalla mente giudicante che investiva molta energia a rammaricarsi della piccolezza della cosa. Ora, invece, spontaneamente, il gradevole, anche se marginale, ci colpisce di più; è come se finalmente questa continua corsa a fuggire lo spiacevole e ad arraffare il piacevole prenda a rallentare. Ci svegliamo a minuscole situazioni piacevoli e non le diamo più per scontate. E, così facendo, conosciamo un rilassamento nuovo.
Nel presente, senza paura
È in questo modo che cominciamo a stare nel presente. Questa espressione è divenuta ormai fin troppo usata, al punto da sembrare quasi vuota di significato. Ma il rallentamento generato dalla pratica fa sì che noi sperimentiamo proprio nella sua realtà e, verrebbe da dire, nella sua densità, che cosa vuol dire abitare il presente.
Quando rallentiamo la corsa, è come se nella nostra vita nascesse più spazio e più ricchezza. Perché, diventando più capaci di stare in quello che potremmo chiamare il ‘presente scuro’ – l’umiliazione, la frustrazione –, raggiungiamo una maggiore facilità a stare nel ‘presente chiaro’, cioè il piacevole.
Prima di questa svolta, non riuscivamo a stare realmente nel presente, pur avendone l’aspirazione. La realtà del presente ci sfuggiva. Ed era la nostra paura a impedirci di stare pienamente in contatto con esso. Il timore di stare con lo spiacevole, il timore di perdere il piacevole, in altri termini la contrazione di fondo, l’io-mio, ci facevano correre sempre.
Per fermarsi è fondamentale che la paura cominci a sgretolarsi. Una posizione iconografica tipica del Buddha è quella dell’abhayamudra, ‘posizione della non paura’. Se abbiamo paura non possiamo sostare nel presente e radicarci in esso. D’altra parte è soltanto quando riusciamo a radicarci in questo modo che cominciamo a vedere la realtà così com’è.
È l’io che proietta, prolifera, distorce. La paura portata dall’io ci fa vedere una realtà deformata e falsa, e ci impedisce di fermarci. Ma una visione tranquilla della realtà vera ha bisogno di un punto fermo in mezzo a tutto quello che gira, quello still point cantato da T. S. Eliot.
Lo svuotamento, che è l’umiltà, porta più vita. Un grande maestro, Kalu Rinpoche, ha detto:
Noi viviamo
nell’illusione, nell’apparenza delle cose, ma c’è una realtà, e noi siamo
quella realtà. Quando tu capisci questo, tu vedi che sei nulla, ed essendo
nulla sei tutto.
Se ci si svuota dall’egocentrismo si vede la propria interconnessione con gli altri e con tutto il resto del mondo; di conseguenza ci si sente meno soli, perché è proprio l’attività separativa dell’io-mio che genera la solitudine. E venendo meno il senso di solitudine, comincia a venir meno la paura.
A CURA DI ANTONELLA COMBA