L’INTELLIGENZA SPIRITUALE

CORRADO PENSA

 

IL BUDDHA E LA SECONDA FRECCIA

Ripercorriamo per sommi capi il famoso insegnamento del Buddha sulle due frecce 1. All’inizio del discorso il Beato osserva che il nobile discepolo del Dharma e la persona ignorante provano entrambi sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. Quale sarà, dunque, la differenza tra i due? La risposta è questa, che, allorché l’ignorante sperimenta una sensazione fisica spiacevole egli - a differenza del nobile discepolo - si agiterà e si preoccuperà in vario modo:

È come se un arciere, dopo aver colpito un uomo con una freccia, lo colpisse ancora con una seconda freccia. Sicché quell’uomo patirà il dolore di due ferite. Lo stesso accade all’ignorante, che soffre a causa di due dolori, quello fisico e quello mentale.

Subito dopo il Buddha illustra tre conseguenze importanti della ‘seconda freccia’, ossia dell’avversione nei confronti dello spiacevole. La prima è che, indugiando nell’avversione, si seminano disposizioni latenti (anusaya) di ulteriore avversione; la seconda è un simultaneo accendersi di attaccamento per il piacevole. Ciò è dovuto al fatto che "la persona ignorante non conosce altro modo per liberarsi da una sensazione spiacevole che cercare la distrazione di piaceri sensoriali". E questo porta a seminare disposizioni latenti di ulteriore attaccamento. Infine, l’essere all’oscuro di tutto questo dinamismo genera un accumulo di disposizioni latenti di ignoranza.

Le cose vanno altrimenti per il nobile discepolo, che al dolore del corpo non aggiungerà la sofferenza dell’avversione mentale. E dunque non sarà colpito dalla seconda freccia e quindi non seminerà avversione, attaccamento e ignoranza.

Mi pare utile cominciare a commentare questo fondamentale discorso del Buddha con un insegnamento di Krishnamurti, che usando un linguaggio diverso, tocca il medesimo tema. Qualcuno - in una conversazione - dice a Krishnamurti di essere pieno di odio e lo prega di insegnargli ad amare. Questa è la risposta:

Nessuno ti può insegnare ad amare. Se si potesse insegnare l’amore i problemi del mondo sarebbero molto semplici, no?... Non è facile imbattersi nell’amore. È invece facile odiare e l’odio può accomunare le persone... Ma l’amore è molto più difficile. Non si può imparare ad amare: quello che si può fare è osservare l’odio e metterlo gentilmente da parte. Non metterti a fare la guerra all’odio, non star lì a dire che cosa orribile è odiare gli altri. Piuttosto, invece, vedi l’odio per quello che è e lascialo cadere... La cosa importante è non lasciare che l’odio metta radici nella tua mente. Capisci? La tua mente è come un terreno fertile e qualsiasi problema, solo che gli si dia tempo a sufficienza, vi metterà radici come un’erbaccia e dopo farai fatica a tirarla via. Invece, se tu non lasci al problema il tempo di metter radici, allora non sarà possibile che esso cresca e finirà, piuttosto, con l’appassire. Ma se tu incoraggi l’odio e dai all’odio il tempo di mettere radici, di crescere e di maturare, allora l’odio diventerà un enorme problema. Al contrario, se ogni volta che l’odio sorge tu lo lasci passare, troverai che la mente si fa sensibile senza diventare sentimentale. E perciò conoscerà l’amore 2.

INTERCONNESSIONE DI AVVERSIONE, ATTACCAMENTO E IGNORANZA

A me sembra che entrambi questi insegnamenti descrivono quella che potremmo chiamare la non reattività profonda, ossia una non reattività fondata su consapevolezza, comprensione, accettazione e lasciare andare. Ben diversa, dunque, da una non reattività superficiale, quanto a dire basata non già sulla comprensione bensì sul controllo delle reazioni. E va da sé che il controllo, che pure in tanti casi è una forma di necessaria protezione, tuttavia, essendo alimentato dal nostro desiderio di essere in un certo modo e dall’avversione (o dalla paura) di essere in un altro modo, non potrà rappresentare una forza pacificante.

Osserviamo inoltre che l’esempio di ‘seconda freccia’ addotto nel sutta, vale a dire il turbamento mentale in presenza di dolore fisico, è un esempio deliberatamente semplice. Ma tutti sappiamo come e quanto più complicate possono essere le cose: ad esempio, la prima freccia, invece che un preciso dolore fisico, può essere uno stato d’animo sgradevole, subitaneo quanto incomprensibile, e la seconda freccia una speculazione amara e contorta che si accumula intorno a quello stato d’animo. E può darsi che uno si ritrovi immerso sordamente nel disagio senza avere visto né la prima né la seconda freccia. Questo aggiungere sofferenza a sofferenza, questo fabbricare dolore sul dolore è l’opposto dell’insegnamento quintessenziale che il Buddha impartì a Bahiya, ansioso di sapere in breve cosa mai predicasse Gotama:

In ciò che è visto ci sia solo ciò che è visto, in ciò che è udito solo ciò che è udito, in ciò che è sentito col tatto, col gusto e con l’olfatto solo ciò che è sentito, in ciò che è pensato solo ciò che pensato 3.

Una sorta di inno alla semplicità radicale, alla percezione chiara e diretta, non più appesantita e distorta da una incoercibile proliferazione concettuale ed emotiva. E dunque abbiamo da una parte l’abituale universo di sofferenze e di complicazioni che variamente si saldano e si rinforzano a vicenda, dall’altra la possibilità liberante di una chiarezza e una semplicità assolutamente cristallina, con tutta la pace gioiosa che ciò comporta.

Ma guardiamo ora più da vicino l’insegnamento della doppia freccia. Tre punti mi sembrano comunque da sottolineare. Anzitutto il sutta ci invita a riflettere sul fatto che, di fronte a una sensazione spiacevole, noi tendiamo a generare avversione, cioè un’aggiunta dolorosa e non necessaria. Perciò una cosa è la sensazione spiacevole, altra cosa è l’avversione nei suoi confronti. Non di rado, soprattutto se siamo digiuni di qualsiasi lavoro interiore, noi ‘accorpiamo’ sensazione spiacevole e avversione, percependo in tal modo due cose come una cosa sola. In realtà il saper discernere la differenza tra le due è un momento centrale dell’arte della consapevolezza. Una volta toccata con mano questa differenza, ci rendiamo conto che se poco o nulla è in nostro potere quanto alla prima freccia (per esempio una sensazione dolorosa fisica), molto, invece, possiamo riguardo alla risposta cioè alla nostra relazione con la sensazione (spiacevole, piacevole o neutra che essa sia).

Il secondo punto, anch’esso di grande importanza, è questo. Allorché coltiviamo avversione per una sensazione spiacevole, noi non ci limitiamo a creare disagio sul momento ma seminiamo, inoltre, disposizioni latenti (anusaya) di ulteriore futura avversione. Come se l’avversione lasciasse una traccia feconda la quale, al riaffacciarsi di condizioni simili, accenderà e potenzierà di nuovo l’avversione, alimentando così una specie di abbrivio, di progressivo rafforzamento, non diversamente da quanto accade, per esempio, in una dipendenza da sostanze chimiche.

Un terzo punto di rilievo, infine, mi pare che sia l’indicazione, fornita dal sutta, circa altre due conseguenze della ‘seconda freccia’, conseguenze tutt’altro che secondarie. Infatti ci viene detto che, nel seminare avversione, piantiamo contemporaneamente disposizioni latenti di attaccamento e di ignoranza. E ciò perché, in assenza di lavoro interiore, l’individuo davanti per esempio alla sensazione spiacevole di una frustrazione, facilmente e compulsivamente inclina verso desideri ‘compensativi’ di tutti i generi, inclusi quelli distruttivi. E dunque Tizio, amareggiato da un conflitto interpersonale, decide di ricominciare a bere; Caio, umiliato nel suo lavoro, concepisce di ‘rifarsi’ con un tradimento coniugale, eccetera. E anche il desiderio egocentrico, come l’avversione, tende a prosperare, a ‘mettere radici’ come direbbe Krishnamurti. Così come, inevitabilmente, in questa nebbia dolorosa si approfondiscono le radici dell’ignoranza.

IL POTERE DELLA CONSAPEVOLEZZA

Le implicazioni positive di tutto quanto si è fin qui detto sono grandi e notevoli. Giacché, se noi impariamo prima a studiare e a capire il dinamismo della seconda freccia in noi e quindi gradualmente a ‘perdere il vizio’ di scagliarla, il risultato andrà ben oltre un certo prosciugamento dell’avversione, dato che, simultaneamente, cominceranno altresì a disseccarsi attaccamento e ignoranza, ossia l’intera costellazione delle cause della sofferenza, o impedimenti alla felicità. È una conversione lenta e radicale: dalla coltivazione dell’avversione si passa all’addestramento della non avversione, dalla ‘pratica’ dell’attaccamento alla pratica del non attaccamento, dalla fecondità dell’ignoranza alla fecondità del discernimento, indispensabile per guidare tale conversione. E questo mi sembra che possa chiamarsi l’inizio dell’intelligenza spirituale, ossia dell’intelligenza che capisce ciò che è importante capire. La pace che consegue all’esercizio di questa intelligenza, oltre ad essere intrinsecamente appagante, è generatrice, per costituzione, di fiducia e di unità, al contrario della ‘seconda freccia’ e delle sue implicazioni, che vanno tutte in direzione della divisività dolorosa. Le scritture buddhiste in più di una occasione ci mostrano il Buddha che resta serenamente imperturbato sia davanti a biasimo, sia davanti a lode. La chiave, evidentemente, può essere soltanto una pace incrollabile e profonda, in presenza della quale il complimento e l’insulto si spengono in una completa irrilevanza. L’acqua limpida e ferma della pace non ne viene agitata o colorata. Così come, al contrario, in mancanza di pace vera, l’insulto e il complimento diventano invece episodi clamorosi, incancellabili, e fertili di sofferenza.

Ma quali sono - conviene ora chiederci - i fattori che più contribuiscono alla fioritura dell’intelligenza spirituale, ossia di quella intelligenza che sola è capace di emanciparci dallo scenario doloroso della seconda freccia? Lo strumento fondamentale, naturalmente, è la consapevolezza, sati, che ha tra i suoi sinonimi, lo ricordiamo, il termine yoniso-manasikara o attenzione saggia. Questo è importante, poiché differenzia marcatamente sati da due altre forme di attenzione che niente hanno a che vedere con la consapevolezza liberante, ossia l’attenzione funzionale (manasikara) - quella necessaria, appunto, per funzionare nella vita - e l’attenzione non saggia, ayoniso-manasikara. Due esempi di quest’ultima: l’attenzione malevola con la quale scrutiamo un viso che ci suscita antipatia o l’attenzione risentita e puntigliosa che progetta di vendicarsi. Ovviamente, né l’attenzione funzionale, né l’attenzione non saggia hanno alcunché da spartire con sati che la tradizione del Dharma reputa fattore sempre salutare (kusala) e invariabilmente saggio e bello (sobhana) 5. Dunque sati, se è vera sati, ci deve mettere in contatto con la verità e nei due esempi appena addotti la verità è la sofferenza: la sofferenza che è generata dall’antipatia, la sofferenza che è alimentata dallo spirito di vendetta.

Facciamo ancora un esempio per cogliere la differenza tra attenzione semplice o funzionale (manasikara) e attenzione saggia (yoniso-manasikara). Supponiamo che mi siano state dette cose sgradevoli e irritanti che ora ribollono dentro di me. Avere manasikara significa essere cosciente di questa situazione, percepirla, riconoscerla. Questo può essere il presupposto della consapevolezza. Tuttavia, in sé, non è in grado di modificare in nulla la situazione dolorosa. Altra cosa, invece, è esercitare sati sull’irritazione. Infatti, diversamente da una coscienza superficiale, sati finisce col penetrare nell’irritazione, cogliendo al vivo la verità della sofferenza che la connota e scorgendo, con altrettanta chiarezza, la verità del carattere cangiante, dipendente da cause e condizioni e privo, dunque, di realtà intrinseca, dell’irritazione. E in virtù di tale visione di verità, propiziata da sati, l’irritazione perderà del tutto o in parte il suo potere su di noi.

Non a caso questa tradizione definisce sati come un fattore connotato da ‘non superficialità’, ossia sati è tale che, invece di rimanere a galla sulla superficie delle cose e in balìa della corrente, scende dritta, piuttosto, sul fondo delle cose come una pietra 6. Ritornando al discorso delle due frecce, possiamo dire che dietro la seconda freccia c’è una buona dose di attenzione non saggia, mentre, al contrario, è la coltivazione dell’attenzione saggia che porta a superare l’impulso a creare sofferenza, e cioè a scagliare la seconda freccia.

L’INTELLIGENZA SPIRITUALE COME LUCE E CALORE

Abbiamo nominato spesso la parola discernimento. Ed è naturale: insieme a sati, pañña, il discernimento, è paragonabile alla luce portata dall’intelligenza spirituale. Ma questo tipo di intelligenza, tipicamente, oltre che di luce è costituita di calore. E se consapevolezza e discernimento sono la luce, altri fattori-chiave rappresentano il calore. Essi mi sembrano essere, in particolare, la pace, l’accettazione-compassione, la fiducia. È importante comprendere che l’efficacia trasformante della pratica del Dharma sarebbe impensabile qualora consapevolezza e discernimento non fossero accompagnati dagli altri fattori. Cioè la chiara visione diventa feconda di trasformazione in virtù della spaziosità e del calore portati da pace, accettazione e fiducia. È una qualche misura (magari minima, agli inizi) di questi fattori che aiuta il discernimento a portare frutto. Basti pensare, per esempio, a quella pace, spesso non priva di travagli, indotta da un ritiro di meditazione: succede talora che, per sua virtù, ci sembra di capire per la prima volta certe cose importanti della nostra vita. Non che precedentemente non le avessimo capite. Solo che era una comprensione meramente teorica e sterile. Ora invece la spaziosità della pace permette alla comprensione di ‘entrare in circolo’ con possibilità di trasformazioni interne ed esterne all’individuo.

L’accettazione-compassione e la fiducia sono fondamentali per infondere calore nella spaziosità della pace e per rendere in tal modo feconda la comprensione e il discernimento. Evidentemente l’intelligenza spirituale può avere infiniti gradi di sviluppo. Tuttavia, per essere vera intelligenza spirituale, anche un grado minimo di tale intelligenza dovrà avere, insieme, luce e calore: la luce che fa comprendere la ‘seconda freccia’, il calore spazioso che rende più profonda tale comprensione. Quella luce e quel calore che ci portano a una fiduciosa intuizione che, intessuto dentro il condizionato, brilli l’incondizionato.

 

1 Samyutta-Nikaya, IV, 207-210. Per una traduzione italiana dell’intero sutta cf. P. Confalonieri (a cura di), La saggezza che libera, Oscar Mondadori, Milano 1995, pp. 92-94.

2 Krishnamurti, Think on These Things, New York 1970, p. 76, traduzione nostra, corsivi nostri.

3 Udana, 1, 10.

4 Cf. per esempio Majjhima-Nikaya, 22, p. 140.

5 Basterà consultare, ad esempio, le sezioni concernenti Sati nel Visuddhimagga e nei più importanti testi dell’Abhidhamma, in particolare l’Atthasalini, traduzione inglese Pali Text Society, vol. I, pp. 159 sg. e Abhidhammattha-sangaha, traduzione PTS, pp. 94 sg.

6 Vedi nota precedente e vedi anche C. Pensa, Raccoglimento e investigazione nella meditazione Theravada, Paramita, 59, Estate 1996.