Giovanni della Croce e la notte oscura dell’anima

FRANCO MICHELINI-TOCCI

 

S. Teresa d’Avila e S. Giovanni della Croce formano la grande coppia mistica del Cinquecento spagnolo. Come la prima, anche il secondo sperimenta e insegna il metodo che porta alla quiete interiore e può essere considerato, in ambito cristiano, uno dei più grandi esperti di questa ricerca.

Giovanni fu conquistato dalla grande personalità di Teresa quando aveva appena 25 anni, allorché si entusiasmò alle sue grandi idee di riforma dell’ordine carmelitano, secondo un programma di rinnovamento spirituale. L’anno seguente, il 1568 (Teresa aveva allora 53 anni), egli la segue a Valladolid dove assiste alla fondazione delle Carmelitane Scalze e tale è il suo trasporto di discepolo che dopo pochi mesi riesce ad infondere lo stesso entusiasmo in un gruppo di compagni, coi quali fonda il primo convento dell’ordine maschile. Cinque anni dopo il loro primo incontro, è Teresa a farsi in un certo senso discepola di Giovanni, del quale riconosce l’alto valore spirituale. Ella lo nomina vicario del monastero dell’Incarnazione di cui è priora e lo sceglie come suo confessore. In seguito Giovanni subirà la persecuzione da parte dell’ordine non riformato, soffrirà la prigione per otto mesi durante i quali comincerà a comporre i suoi poemi spirituali, e dopo la fuga e la riconquistata libertà avrà anche un non lungo periodo di successo per l’azione di riformatore e per i ruoli di responsabilità assunti. Seguiranno poi nuove ostilità e persecuzioni, anche da parte dei confratelli da lui giudicati troppo severi nell’imporre regole alle Scalze, ostilità che lo accompagneranno fino alla morte prematura a 49 anni. Otto anni prima era morta Teresa.

I due grandi mistici carmelitani dominano l’ambiente spirituale del Cinquecento non soltanto in Spagna. Dopo di loro la storia della mistica cristiana entra in una fase nuova che si concluderà solo un secolo dopo con la condanna del quietismo da parte della Chiesa e la virtuale fine del misticismo cristiano, che solo di recente accenna ad una timida rinascita sotto l’influenza dell’Oriente, rinascita contrastata sì dalla Chiesa ma, almeno finora, con non troppa efficacia.

Le due grandi personalità carmelitane, pur essendo legate da un’intensa ed amorosa amicizia, erano molto diverse tra loro. Irruenta e passionale Teresa, dolce e delicato Giovanni, ma diversi anche nel modo di procedere lungo il cammino spirituale. Giovanni non si sofferma troppo sulle pratiche concentrativo-estatiche e anzi parla degli effetti di esse come di cose che riguardano i principianti e che scompaiono col progredire della pratica spirituale. In termini buddhisti si potrebbe dire che Teresa è soprattutto un’esperta di samatha (concentrazione pacificante), anche se di essa si serve per giungere al vertice dell’esperienza unitiva, e Giovanni, che pure parte da samatha, è invece un esperto di vipassana, cioè dell’intuizione della natura ultima dell’essere.

In una rapida esposizione dei suoi principali insegnamenti, seguiamo la tradizionale suddivisione, cara all’autore, nelle tre tappe rispettivamente dedicate ai principianti, ai proficienti e ai perfetti.

 

Principianti

Il primo sottile ostacolo con cui dovrà misurarsi un principiante riguarda non tanto i suoi difetti o le sue colpe più gravi, che si presumono rare e facilmente individuabili, quanto piuttosto le piccole distrazioni dal cammino che passano inosservate proprio perché abituali. Tra queste Giovanni enumera il parlar molto, l’attaccamento alle persone, al vestire, alla residenza (la cella nel caso di un frate), al mangiare, alla curiosità di informarsi, di udire, ecc. 1 Questi attaccamenti, in sé non gravi, fanno tuttavia sì che il discepolo non progredisca, ma anzi regredisca, perché perde progressivamente interesse per ‘le cose celesti’ 2, ossia per l’unità con l’Assoluto. Se invece l’interesse fondamentale si mantiene, esso ha come conseguenza quella di introdurre il discepolo in una fase decisiva del percorso che Giovanni chiama, con un’espressione diventata famosa, notte oscura.

Il termine notte oscura non è inventato da Giovanni, anche se è lui a fornirgli diffusione e fama, ma è ripreso dalla tradizione mistica, in particolare da Gregorio Nisseno, dallo Pseudo-Dionigi e da Taulero. Tuttavia fu Giovanni della Croce ad attribuirgli quel valore centrale che ne fa l’espressione sintetica dell’esperienza mistica. Su di essa ci sono vari fraintendimenti, il più frequente dei quali è quello di identificare notte oscura con sofferenza e nient’altro, senza tener presente che l’espressione si riferisce invece a tutti i momenti dell’esperienza e quindi anche a quello culminante, quando diventa “notte pacifica, abissale e oscura intelligenza divina” 3, allorché l’anima si unisce a Dio “trasformata dall’amore”. Ma essa è notte, oltre tutto ciò, anche perché è il luogo dove agisce la fede, che procede nell’oscurità, cioè nella non conoscenza dell’obiettivo finale. Inoltre questa notte ha due modalità, che sono l’attiva e la passiva, la prima fatta di opportuni sforzi da parte dell’interessato, la seconda data per grazia. Si tratta dunque di una progressiva trasformazione, che è una purificazione del soggetto, il quale perde uno dopo l’altro i suoi attaccamenti ai sensi e alle facoltà psichiche (intelletto, immaginazione e desiderio). Questa trasformazione purificante è di notevole interesse psicologico, perché il suo punto di partenza, sul quale poi si basa tutto il successivo sviluppo, consiste nel pratico riconoscimento che ogni desiderio è ingannevole, nel senso che nemmeno il desiderio realizzato riesce mai ad essere completamene o definitivamente appagante. Il graduale raggiungimento di questa basilare convinzione (così contraria al comune sentire) determina quella che sopra chiamavamo ‘purificazione passiva’. Si tratta di un processo doloroso, in cui gli oggetti del desiderio perdono progressivamente significato, rivelando la loro sostanziale insoddisfacenza (è quello che nel buddhismo va sotto il nome di ‘prima nobile verità’ o riconoscimento di dukkha, la sofferenza universale). Dall’analisi accurata che l’autore fa di tutte le illusioni e gli errori in cui può cadere un principiante, si capisce che per Giovanni l’ultima illusione che deve cadere è quella che il cammino mistico possa diventare l’unico desiderio con promesse di appagamento, una volta che tutti gli altri si sono rivelati ingannevoli. Anch’esso, il fine spirituale, deve quindi diventare una notte oscura, pena la sua fallacia; anch’esso deve deludere e non dare quello che all’inizio si sperava che desse. E proprio questo è il momento cruciale che è l’inizio della catarsi, il vero principio di un mutamento di rotta salvifico, perché solo in esso può generarsi la convinzione che tutte le attese sono fallaci e che l’unica realtà è il presente così com’è, nella sua nuda semplicità tranquillamente accettata, cioè contemplata con un semplice sguardo fiducioso-amoroso. Nel momento della rinuncia a ogni vana speranza (una deleteria passione dell’anima la definisce Giovanni) si può gustare un’autentica pace, che sembra anche l’unica possibile, perché solo in essa si è finalmente in unità con la vita (e dunque con Dio).

Una maestra spirituale Zen ha ben colto in un suo libro 4 l’affinità della notte oscura cristiana con la pratica buddhista della progressiva attenzione alla delusione derivante da qualunque oggetto di desiderio, satori compreso.

Ma sentiamo come Giovanni descrive questo stato, riferendosi a chi ha cominciato a inoltrarsi nel percorso e ne ha già gustato qualche frutto: allora

il Signore ottenebra questa luce e chiude la porta, ed essi annegano in questa notte la quale li lascia tanto aridi che essi non trovano alcun gusto nelle cose spirituali e nelle devozioni in cui erano soliti trovare diletto e piacere, ma al contrario vi trovano disgusto e amarezza 5… Non si può dire con certezza quanto duri… Quelli che hanno più capacità e forza per soffrire, vengono purificati dal Signore con maggiore intensità e prontezza, coloro invece che sono molto fiacchi, vengono condotti per questa notte a lungo con grande condiscendenza e con tentazioni deboli, poiché il Signore concede loro ordinariamente qualche sollievo al senso affinchè non tornino indietro; così essi giungono tardi… e alcuni non arrivano mai. Costoro non stanno né dentro né fuori di questa notte… 6

Si vede chiaramente che il disagio di costoro nasce dall’incapacità di sopportare nel modo giusto la durezza della notte. Perché l’alba finalmente si affacci non occorrono eroismi ascetici che, anzi, l’autore severamente condanna:

è da deplorarsi l’ignoranza di coloro i quali si caricano di penitenze straordinarie e di molti altri esercizi volontari, persuasi che ciò sia sufficiente per giungere all’unione con la sapienza divina 7.

Occorrerà invece sviluppare la capacità di contemplazione che, in modo apparentemente molto semplice, è descritta come un “rimanere quieti trascurando qualsiasi opera interiore ed esteriore e tenendo lontana ogni sollecitudine di fare qualche cosa” 8. In realtà si tratta di un suggerimento molto tecnico, che viene spiegato come un cessare da ogni ‘meditazione’ di tipo discorsivo (come sarebbe p. es. riflettere su un passo della Scrittura o altri simili esercizi in cui è coinvolto il pensiero) e restare fermi su un oggetto singolo e specifico, che nella fattispecie è la sensazione della presenza di Dio.

Il modo da tenere nella notte del senso è che essi non si devono curare per niente di camminare servendosi del discorso e della “meditazione”, poiché ormai non ne è più il tempo… faranno molto se avranno pazienza e persevereranno nell’orazione senza far niente… lasciare libera l’anima, sgombra e aliena da ogni notizia e pensiero… contentandosi solo di avere un’avvertenza amorosa e tranquilla di Dio… La contemplazione infatti non è altro che un’infusione segreta, pacifica e amorosa di Dio 9.

Proficienti

In questa fase intermedia, continua il lavoro iniziale, non libero ancora da un certo sforzo, che è considerato essenziale, perché la successiva unione perfetta potrà aver luogo soltanto a seconda della disposizione che l’anima si è conquistata 10. Ma viene ulteriormente specificato che tale disposizione non si acquista con la molteplicità delle meditazioni discorsive, di particolari pratiche, o di sensazioni piacevoli. Anche se “si ricevono comunicazioni sublimi come quelle degli angeli” l’unica cosa importante è la pratica di rinunciare a se stessi, cioè ai propri desideri egocentrici 11.

Ma, in particolare, la notte oscura (che qui assume il nome di notte oscura dello spirito) si manifesta in questa fase come un progressivo distacco da quelle che sono le tradizionali facoltà psichiche, cioè intelletto, memoria e volontà (o, detto più modernamente, pensiero, immaginazione e desiderio).

Il distacco dall’intelletto consiste nel perdere fiducia che esso possa arrivare a conoscere lo scopo finale coi suoi mezzi, anche se si tratti di rivelazioni, locuzioni o sentimenti e comunicazioni visionarie, che servono solo a fare insuperbire. L’antidoto perciò è la fede, cioè lo slancio fiducioso dell’anima, senza dati di conoscenza a cui affidarsi. E il rimedio pratico è sempre lo stesso: imparare “a starsene nella quiete con attenzione e avvertenza amorosa di Dio” 12. È questa la principale pratica suggerita dall’autore ai proficienti, ai quali sarà consigliato di abbandonare definitivamente la meditazione discorsiva, quando diventa da sé arida e priva di interesse. La nuova forma di meditazione, cioè il piacere di “starsene soli con attenzione amorosa in Dio, senza considerazione particolare, e in pace interiore, quiete e riposo” è in pratica quello che Giovanni intende per contemplazione:

Quanto più l’anima si andrà abituando alla quiete, tanto più crescerà e si farà sentire in lei l’amorosa notizia generale di Dio, nella quale ella prova piacere più che in ogni altra cosa, perché le causa pace, riposo, sapore e diletto senza pena 13.

Quiete è la parola fondamentale che richiama la pratica di Teresa, ma anche la lotta che si scatenerà un secolo dopo nella chiesa cattolica contro il quietismo. Eppure in questa quiete, e nei doni che essa comporta, è racchiusa tutta la pratica di Giovanni, che a volte è cosa talmente delicata, a differenza dei rapimenti e dei voli di Teresa, che può essere addirittura inavvertibile, per quanto strano questo possa sembrare:

È necessario sapere che la notizia generale di cui sto parlando, talvolta è così sottile e delicata, specialmente quando è più pura, più semplice, più perfetta, più spirituale e più interiore, che l’anima, quantunque sia occupata in essa, non la vede, né la sente. Ciò avviene massimamente quando essa è in sé più chiara, più perfetta e più semplice, caso che si verifica quando essa investe un’anima la quale, a sua volta, è più monda e più aliena da altre intelligenze e notizie particolari, a cui l’intelletto e il senso si potrebbero attaccare  14.

Ma si tratta, come è evidente, di stati particolarmente avanzati, sui quali torneremo più avanti.

Quanto alla facoltà psichica della memoria, che ha soprattutto a che fare con l’immaginazione e la fantasia, anch’essa sarà abbandonata allorché apparirà evidente la sua inadeguatezza a cogliere Dio. Qui l’antidoto sarà la virtù della speranza, perché ha la caratteristica di fondarsi non su quanto vede ma su quanto attende, e il rimedio pratico sarà il concentrarsi sull’ascolto, altra facoltà meditativa per eccellenza, “attendendo in silenzio a Dio”15.

La “volontà” è la facoltà desiderativa, gli affetti, anch’essi inadeguati a cogliere l’Assoluto, perché ottenebrati dalle quattro passioni che, nel linguaggio di Giovanni, sono “gioia e dolore, speranza e timore” 16. A ben guardare, le quattro passioni possono essere ridotte a due che non sembrano troppo diverse dal “desiderio” e dall’“avversione” della dottrina buddhista. La speranza (che in quanto passione non ha evidentemente niente a che fare con l’omonima virtù teologale, di cui si è parlato poc’anzi) è desiderio e il timore è avversione, mentre gioia e dolore sono le immediate compagne della loro presenza. Passioni però sono esse stesse nel momento che a loro si indulga. Si ricordi, a questo proposito, l’espressiva metafora di Ajahn Chah riguardo al percorso spirituale. Dice questo noto maestro thailandese, da poco scomparso, che la vita conduce naturalmente verso la liberazione, come il fluire della corrente di un fiume porta un tronco verso il mare anche senza che esso lo voglia, ma che a ciò si oppongono due ostacoli, cioè la possibilità che il tronco si areni sulla riva destra o sulla sinistra e queste due rive ostacolanti il naturale processo sono appunto l’indulgere alla gioia e l’indulgere al dolore 17. Ma per tornare agli affetti, alla cosiddetta “volontà”, essa ha come antidoto la carità, che consiste nell’amare quanto Dio ama, cioè quanto la vita offre, senza più essere attratto dalle preferenze individuali. A proposito delle quali, l’autore non tralascia occasione di sorridere di come si manifestino, tra gli spirituali, alcune di queste, che appaiono inutili e nocive. Nessuna particolare preferenza, egli dice, va accordata alle immagini sensibili, come quadri o statue, dato che “la persona veramente devota ripone principalmente la sua devozione nell’invisibile” 18. Se un’immagine è più miracolosa di un’altra, dice l’autore con spirito indipendente, ciò è dovuto alla devozione che vi si ripone. E continua dicendo che spesso sono più efficaci le immagini solitarie perché sono lontane dal chiasso e dalla moltitudine e perché “a causa del movimento necessario per andarle a vedere l’affetto cresce di più”. Così pure, i pellegrinaggi sono consigliabili solo quando sono solitari, e meglio se fatti in tempi non usuali.

Non consiglierei a recarvisi quando v’è la folla poiché, ordinariamente, in tal caso si torna più distratti di quando siamo partiti. Molti anzi si decidono a fare tali pellegrinaggi più per svago che per devozione 19.

Un interesse particolare meritano le caratteristiche della notte oscura in questa fase. Intanto questa, detta ”dello spirito”, ha dei periodi di aridità del cuore e di sofferenza molto più duri di quella “del senso”, e si manifesta molti anni dopo essere entrati nello stato di proficienti. Questo significa dunque che vi è un lungo periodo di preparazione alla notte, nel quale si manifestano fenomeni di rilievo. Da un lato l’anima progredita ha meno difficoltà, anzi ha facilità, a immergersi subito in una contemplazione “molto serena e amorosa” trovando “sapore spirituale senza la fatica del ragionamento”. Dall’altro

non le mancheranno mai alcune prove, aridità, tenebre e angustie talora molto più intense di quelle passate che sono come presagio e annunzio della notte dello spirito che sta per venire 20.

Si aggiungano a tutto ciò disagi fisici, che sono la conseguenza dell’inadeguatezza del corpo alla forza dello spirito, quali debolezza di stomaco, deperimento, fiacchezza. Ma è interessante che alla stessa stregua Giovanni metta quei fenomeni che sono generalmente considerati manifestazioni di stati speciali, come le estasi (elencate assieme agli svenimenti e agli slogamenti delle ossa). Ciò non accade ai perfetti, che sono stati purificati dalla notte dello spirito. “In essi cessano le estasi e i tormenti del corpo” 21. L’estasi non ha dunque alcun valore in sé, mentre ha valore la quiete dello stato contemplativo che, come diremo, apre la strada alla suprema intuizione dell’Essere, come già in Teresa. E anche a questo proposito può essere utile un riferimento ad Ajahn Chah, là dove parla del “cattivo” samadhi, che è tale appunto perché fine a se stesso e non strumento per giungere alla visione profonda (vipassana) 22.

Non deve credersi tuttavia, come si diceva all’inizio, che la notte sia sinonimo di sofferenza e nient’altro. Essa, certo, dura alcuni anni, prima di cessare nello stato di perfezione, ma anche mentre dura

vi sono intervalli di sollievo, durante i quali la contemplazione oscura… tralascia di investire l’anima in modo purificativo per investirla in maniera illuminativa o amorosa 23.

Si parla anche di “effetti gustosi” 24 e si dice addirittura che, durante il percorso, all’anima

Dio concede spesso e molto ordinariamente la gioia, visitandola saporosamente e dilettevolmente nello spirito 25.

Perfetti

L’appartenenza a quest’ultimo e più alto grado è caratterizzata principalmente da due condizioni. La prima riguarda l’intelletto, ed è sempre una forma di notte oscura, anche se molto diversa dalle precedenti; l’altra riguarda il cuore, che è pervaso dall'amore.

La notte qui è tale soltanto perché, essendo ormai vuota di contenuti la mente, la luce non è riflessa da nulla e perciò appare invisibile ed oscura. Si tratta dunque, per così dire, di una luce tenebrosa. All’atto pratico, questo significa che la persona non si accorge di niente, che non ha, cioè, alcuna fruizione di stati di essere speciali: “sa soltanto di essere al buio”. Ma ecco la rilevante particolarità:

quando la luce spirituale da cui l’anima è investita trova qualcosa in cui riverberarsi, cioè quando le si offre di intendere qualche perfezione o imperfezione spirituale o da fare qualche giudizio intorno al falso e al vero, allora ella intende e vede molto più chiaramente di quanto non vedesse e intendesse prima di trovarsi in quelle tenebre …Con grande facilità e universalità conosce e penetra qualunque cosa divina o terrena che le si offra 26.

Ma siccome “Dio non dà mai la sapienza mistica senza l’amore dal quale viene infusa” 27, ecco allora che il cuore è pervaso d’amore, che si impadronisce di lui come il fuoco si impadronisce progressivamente del legno 28. Si tratta di un amore infuso, cioè passivo, in cui “l’unica azione che l’anima deve compiere è quella di dare il proprio assenso” 29.

Giovanni dedica ben due delle sue opere, il Cantico spirituale e la Fiamma viva d’amore, a descrivere lo stato della pienezza dell’esperienza mistica. Qui di seguito elencherò solo alcune delle caratteristiche principali di questo stato.

1. Nell’unione d’amore o matrimonio spirituale si raggiunge l’identità tra l’amante e l’amato. A ciò allude S. Paolo col famoso : “Non sono io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal.2, 20). “Chi in vita raggiunge quest’abbozzo di trasformazione è veramente felice” 30.

2. Quiete interiore e intuizione profonda (non molto diversamente da samatha e vipassana) sono concepite, nella giusta forma, come un’unità: “Nel sonno spirituale… l’anima è pervasa e gusta la calma, il riposo e la quiete della notte pacifica, e insieme riceve un’abissale e oscura intelligenza divina” 31. Si noti come la “notte oscura” abbia qui lasciato il passo alla “notte pacifica”.

3. “La grande stabilità dell’anima in questo stato… non prova né dolore né afflizione. Ella non ha neppure la compassione, cioè la pena propria di quella virtù, sebbene ne possegga le opere e la perfezione. Infatti ora le manca ciò che di fiacco c’è nelle virtù, e le rimane invece quanto c’è di forte, di costante e di perfetto” 32.

4. L’anima non teme più ormai le esperienze dolorose e anzi le accoglie, o addirittura le desidera, come manifestazione della volontà divina, con la quale è identificata, e non della propria, che non esiste più. La sofferenza, a questo punto, è solo “un mezzo per penetrare maggiormente nel folto della dilettevole sapienza di Dio” 33.

5. Infine, come già si è detto, il mistico realizzato possiede pienamente una “sapienza tranquilla” grazie alla quale ha la facoltà di penetrare con chiarezza tutti i grandi misteri dell’essere, dall’unione tra uomo e Dio all’armonia tra giustizia e misericordia 34 e, cosa grande tra le grandi, al vedere il tutto in unità 35.

 

NOTE

1. S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, in Opere, Roma 1998, p. 51.

2. Ivi, p. 53.

3. Cantico spirituale, in Opere, p. 587, v. avanti.

4. Ch. J. Beck, Nothing Special. Living Zen, Harper, San Francisco 1993, tr. it. Niente di speciale. Vivere lo Zen, Ubaldini, Roma 1994, p. 40.

5. Notte oscura, in Opere, p. 373.

6. Ivi, p. 398.

7. Salita, p. 40.

8. Notte, p. 377.

9. Ivi, p. 382.

10. Salita, p. 231.

11. Ivi, p. 91.

12. Ivi, p. 114.

13. Ivi, p. 118.

14. Ivi, p. 122.

15. Ivi, p. 235.

16. Ivi, p. 260.

17. A. Chah, I maestri della foresta, Ubaldini, Roma 1989.

18. Salita, p. 316.

19. Ivi, p. 319.

20. Notte, p. 399.

21. Ivi, p. 401.

22. A. Chah, op. cit.

23. Notte, p. 416.

24. Ivi, p. 439.

25. Ivi, p. 463.

26. Ivi, p. 421 s.

27. Ivi, p. 436.

28. Ivi, p. 429.

29. Ivi, p. 433.

30. Cantico, p. 565.

31. Ivi, p. 587.

32. Ivi, p. 618.

33. Ivi, p. 700.

34. Ivi, p. 702.

35. Ivi, p. 589 s.