Il respiro così com’è
CHRISTINA FELDMAN
Discorso tenuto durante un ritiro a Roma nel gennaio 2001.
Recentemente mi è capitato di leggere una
vignetta in cui un monaco giovane e uno anziano sedevano insieme. Il monaco più
giovane, con un’espressione alquanto ansiosa sul viso, aveva evidentemente
appena chiesto qualcosa al monaco anziano; ma il fumetto non ci palesa la
domanda. Riporta solo la risposta. Il monaco più anziano dice all’altro: “Dopo
non accade nulla. È tutto qui!”.
A volte quando iniziamo a meditare
vorremmo che ci venissero insegnate tutta una serie di tecniche emozionanti,
esoteriche, trascendentali. Invece quello che sentiamo ripetere più e più volte
è il semplice incoraggiamento a stare con il nostro respiro. Inspirare con
consapevolezza ed espirare con consapevolezza. Sentiamo dire che quando la
nostra attenzione divaga, tutto ciò che dobbiamo fare è ritornare alla
semplicità del respiro. Di solito, stranamente, siamo disponibili a farlo per
un certo periodo. Ma forse pensiamo che si tratti di una pratica per
principianti, preliminare, in cui ci esercitiamo prima che comincino le
iniziazioni e le meditazioni veramente interessanti. Una domanda inizia a
insinuarsi nella mente verso il secondo giorno: che cosa in realtà ci sia di
così speciale nel respiro. Qualche volta ci scopriamo abbastanza
disinteressati, annoiati, o scopriamo di essere diventati, come si suol dire, goal
oriented. Ci poniamo degli obiettivi (goals) come: essere con 5
respiri di seguito, 10 respiri di seguito. Oppure diventiamo piuttosto
meccanici e scopriamo che è ben possibile essere consapevoli del respiro e
nello stesso tempo cullarsi in meravigliose fantasticherie. Oppure ancora,
cercando un po’ di divertimento, diventiamo assai creativi con il respiro e
proviamo a scoprire… lo sapete… cosa succede quando inspiro da una narice ed
espiro dall’altra.
Inutile dire che in tutti questi piccoli
esperimenti stiamo in un certo senso perdendo di vista il punto importante.
L’inizio della nostra vita è segnato dal primo respiro. La fine del nostro
respirare è anche la fine della nostra vita. La consapevolezza del respiro
momento per momento è in realtà un potente accesso sia alla vita che alla
liberazione. Nella consapevolezza del respiro impariamo alcune delle più grandi
lezioni della nostra vita. Impariamo anche qualcosa sulla profondità di
saggezza e di silenzio che è disponibile per noi. Respiriamo per imparare a
stare svegli e partecipare alla nostra vita. Respiriamo per imparare a essere
in intimo contatto con tutte le cose. Respiriamo per scoprire un sentiero che
porti alla fine della sofferenza. E nella consapevolezza del respiro impariamo
a lasciar andare.
Nella nostra pratica essenzialmente
impariamo a respirare come un Buddha. Il Buddha una volta disse che nella
consapevolezza del respiro si sviluppa una potente quiete che conduce alla pace
e all’illuminazione. Quando coltiviamo la consapevolezza del respiro portiamo a
compimento la saggezza. Insegnando la consapevolezza del respiro il Buddha
iniziò con le istruzioni: quando inspirate profondamente, sappiate che state
inspirando profondamente. Quando inspirate superficialmente, sappiate che state
inspirando superficialmente. Questa qualità della conoscenza menzionata è una
qualità di chiara connessione e chiara comprensione. Vedere il respiro così
com’è veramente in ogni momento è un allenamento a imparare a vedere tutte le
cose della nostra vita così come sono. Il Buddha istruiva: inspirando
sperimentate il corpo intero nel respiro. Espirando sperimentate il corpo
intero nel respiro. Quando rivolgiamo l’attenzione al respiro, rivolgiamo
l’attenzione al momento presente. E scopriamo che il respiro è qualcosa di
vivo, fluido, mutevole, proprio come ogni momento nella vita è vivo, fluido e
mutevole. Non c’è nulla che rimanga fermo, nulla che rimanga lo stesso. Questo
è in realtà l’inizio di una grandissima comprensione dell’impermanenza. È un
cambiamento nel nostro modo di essere con le cose. La comprensione
dell’impermanenza è infatti uno dei più potenti insight. Ha il potere di
apportare un cambiamento radicale a tutta la nostra vita. Come vivremmo se
capissimo veramente che tutto cambia, che non c’è nulla che possiamo
costringere a rimanere lo stesso, che non c’è nulla fuori o dentro di noi a cui
possiamo veramente aggrapparci? Se lo abbiamo capito veramente in profondità,
allora il nostro modo di porci in relazione con la vita cambia radicalmente. Ci
spostiamo dal tentare di controllare le cose al capire che cosa significa
partecipare veramente alla vita e impegnarci con ogni momento proprio come esso
è. Il movimento dal controllo alla partecipazione è anche un movimento dalla
lotta alla pace. Molto spesso nella nostra pratica scopriamo di perdere
contatto con il respiro. Ci separiamo dal momento in cui ci separiamo dal
respiro. In quei momenti percepiamo come, in modi molto simili, ci separiamo
dalle persone, dalla vita, anche da noi stessi. Iniziamo a vedere cos’è che ci
fa veramente separare. A volte è solo l’abitudine a essere impegnati, o a fantasticare.
A volte ciò che veramente ci fa “divorziare” dal respiro e dal momento presente
sono tutte le filastrocche di “piacere e dispiacere”, di “volere e rifiutare”,
che assai spesso si esprimono con il termine “dovrebbe”. Notiamo il potere di
questa parola nella pratica del respiro. Possiamo dire per esempio che il
nostro respiro dovrebbe essere più profondo o più interessante. Col respiro la
lista dei “dovrebbe” è in realtà abbastanza breve. Ma ogni volta che la parola
“dovrebbe” nasce, arriva insieme a un altro messaggio: ossia che qualcosa è
sbagliato, inaccettabile nella nostra esperienza, in ciò che accade. Nel resto
della nostra vita la lista dei “dovrebbe” infatti tende a essere molto più
lunga. Come dovrei essere, come tu dovresti essere, come la vita dovrebbe
essere. L’effetto è sempre lo stesso: con la parola “dovrebbe” arriva la
resistenza, a volte il giudizio, ma di solito la separazione, la perdita di
contatto. Con la parola “dovrebbe” arriva l’idea di successo e fallimento, di
giusto e sbagliato. E naturalmente noi non mettiamo sempre in discussione i
nostri “dovrebbe”. Al contrario, seguiamo il sentiero del controllo, cercando
di rendere il respiro conforme alle nostre immagini e aspettative. Allo stesso
modo lottiamo per rendere noi stessi, o le altre persone, o la vita, conformi
alle nostre aspettative. Il risultato è sempre lo stesso: una specie di
agitazione, di disagio. Possiamo essere in un certo senso abitudinari, quasi
dipendenti dal controllo. Possiamo credere che se riuscissimo, almeno una
volta, a far coincidere le cose con le nostre immagini, allora saremmo
finalmente felici.
Le istruzioni di osservare il respiro
così com’è, che sia profondo o superficiale, notando il modo in cui
continuamente cambia, sono una fortissima lezione di vita: un invito a lasciar
perdere le nostre aspettative, le nostre idee su come le cose dovrebbero essere
e trovare pace con ciò che è. È un invito a spostarsi da uno stato di
separazione a un maggiore senso di unità e armonia. Questo insegnamento di unità
e armonia è centrale nella consapevolezza del respiro. Nell’essere consapevoli
del respiro impariamo infatti a coltivare l’unità. Rivolgendo l’attenzione al
respiro impariamo a raccoglierci e a conservare memoria di noi stessi. La
pratica di consapevolezza è anche chiamata pratica di raccoglimento. Mentre
raccogliamo l’attenzione in questo momento, stiamo in realtà imparando a
integrare corpo, mente e cuore nel momento presente. Impariamo a essere
affettivamente aperti piuttosto che frammentati. Incominciamo a vedere quante
volte nella vita non siamo effettivamente tanto presenti. Talvolta tendiamo
verso il futuro, anticipando un momento migliore o più perfetto. O talvolta ci
rivolgiamo indietro al passato, a come le cose erano, liete o tristi. A volte, mentre
cerchiamo di essere presenti, scopriamo di non sapere bene dove siamo, di avere
come degli spazi vuoti. La campana finale suona e improvvisamente apriamo gli
occhi, pensando che se qualcuno ci chiedesse: “Dov’eri?” non sapremmo
rispondere.
A volte il modo in cui ci allontaniamo
dal presente è facendo le prove generali per il futuro: programmiamo i nostri
domani, la conversazione che avremo, le cose che diremo, le cose che faremo.
Scopriamo quanti momenti della vita abbiamo perduto, e quante cose ci sono
venute a mancare in quei momenti perduti. Tutti presi dall’attività di
programmare i nostri domani, dimentichiamo che cosa significa veramente vivere.
È curioso esaminare che cosa veramente
facciamo in tutta la nostra attività di programmazione. Sembra che cerchiamo
qualcosa. Non siamo neanche sicuri di che cosa stiamo cercando. Ma la
sensazione è di star cercando qualcosa che proprio ora ci manca.
C’è un koan Zen che invita le
persone a sedersi con la domanda: “Che cosa manca in questo momento?”. Quando
siamo presi da tutta l’attività mentale, siamo anche in preda a un’agitazione
piuttosto dolorosa. Molto raramente usciamo da un’ora di fantasticherie o
ossessioni o programmi sentendoci più freschi o liberi o creativi. Quando ne
usciamo fuori ci sentiamo così esausti e disperati che quasi dimentichiamo i
successivi dieci minuti prima di imbarcarci nel prossimo “viaggio”.
Joseph Campbell disse una volta:
Ciò che cerchiamo in un’esperienza è l’estasi di sentirci pienamente
vivi. Tendiamo a credere che ci sia una gioia nell’essere vivi. Ma pensiamo
sempre che questa gioia si trovi da un’altra parte, in qualche momento migliore
che raggiungeremo dopo esserci liberati delle cose spiacevoli della vita o
quando avremo il carattere perfetto o il corpo perfetto o la mente perfetta.
Così viviamo con un sentimento di disappunto, perché la gioia di sentirci vivi
sembra non arrivare mai. Eppure ciò non ci trattiene dal guardare avanti, nel
prossimo momento o nella prossima progettazione. Coltivare l’unità nel respiro calma
l’agitazione e sorprendentemente porta con sé un aroma di gioia. Impariamo a
coltivare quel senso di felicità nella semplicità di essere presenti solo con
questo respiro, questo corpo, questo momento. Sperimentiamo molto fortemente il
fatto di essere tanto impegnati nei nostri piaceri e dispiaceri, nelle prove e
fantasie e sogni a occhi aperti. Avvertiamo così potentemente questo senso di
“me”.
Avete notato come sia raro fantasticare
con qualcun altro nel ruolo di primo attore? Di solito siamo noi gli eroi delle
nostre fantasie. Non sogniamo il successo, la felicità e le grandi passioni di
qualcun altro. Avete notato che quando ci perdiamo nei nostri progetti sul
futuro si tratta sempre di quanto “io” sarò bravo. Quando ci perdiamo nelle
storie del passato è sempre su cose che sono accadute “a me” o non sono
accadute “a me”. Notiamo un senso dell’“io” molto potente che viene
intrappolato nell’attrazione e nella repulsione. In modo contorto questo “io”
cerca anche l’unità. Però cerca di trovarla attraverso l’afferrare e
l’aggrapparsi, così da poter chiamare qualcosa “mio”: conosciamo il mio successo,
le mie conquiste. Evidentemente l’impermanenza è proprio una brutta
notizia per l’attaccamento. Cerchiamo di attaccarci a qualcosa: ma non importa
quanto saldamente ci afferriamo ad essa, questa scivola sempre via da noi.
Anche il meraviglioso momento di calma,
la bellissima fantasia o il meraviglioso sogno a occhi aperti continuano a
trasformarsi in qualcos’altro, proprio come il respiro. Provate a sedervi avendo
solo inspirazioni: non funziona. Provate a sedervi avendo solo espirazioni: non
funziona. Quando vogliamo tenere strette le cose, viviamo con la paura della
perdita. Un genuino senso di unità non porta con sé l’ombra della perdita,
perché l’unità che coltiviamo nel respirare è l’unità con il momento presente:
che comprende il cambiamento, che non fa affidamento su nulla che rimanga lo
stesso. Scopriamo una stupenda libertà in ciò. Cominciamo a sentirla nella
consapevolezza del respiro. All’inizio, quando stiamo attenti al respiro, ci
sentiamo immedesimati nel ruolo di colui che respira, l’osservatore, che in
qualche modo deve mettercela tutta. Piano piano, in modo sottile, questa
sensazione inizia a cambiare, via via che diventiamo più intimi e connessi con
il respiro. Improvvisamente il livello di sforzo necessario diventa molto
minore; soprattutto perché iniziamo a connetterci con un senso più profondo di
felicità e benessere. Siccome lo sforzo è molto minore, la sensazione di essere
colui che respira inizia anch’essa ad affievolirsi. Avvertiamo semplicemente la
sensazione del respiro che respira se stesso. Iniziamo ad avere una qualche
comprensione del vuoto, della mancanza di colui che respira, che risulta in una
certa comprensione della mancanza del pensatore, possessore e attore. La stessa
armonia e calma nascente da una tale unità è un maestro assai potente. Ci
insegna a lasciare andare, ci insegna a stare con ciò che è.
Le istruzioni del Buddha dicono anche:
“Calmando l’intero corpo inspiriamo; calmando l’intero corpo espiriamo. Quindi
calmando la mente inspiriamo ed espiriamo”. Come possiamo calmare la mente e il
corpo? Perché impariamo qualcosa sul lasciarli essere proprio come sono.
Impariamo a lasciar perdere alcune delle
nostre storie e aspettative e paure. Ogni volta che ritorniamo al respiro
impariamo naturalmente come lasciare che le cose siano quello che sono.
Scopriamo che la mente non deve fermarsi per trovare una profonda calma; che la
mente non è un ostacolo alla pace; che il pensiero non è un ostacolo al
risveglio. Il corpo con tutte le sue sensazioni non deve fermarsi; il corpo non
è un ostacolo alla pace. A volte la mente e il corpo sembrano ostacoli, ma
l’ostacolo è in realtà un altro. È l’avversione a non essere molto compatibile
con la pace. Quando c’è avversione vogliamo solo che qualcosa vada via o
finisca. L’avversione crea un sacco di storie. Quante storie avete scritto oggi
in cui c’era l’avversione nella trama?
Il volere e il bramare sono ostacoli alla
pace. Quanta agitazione si crea quando vogliamo che qualcosa rimanga o
continui! La paura e l’ansia sono ostacoli molto forti alla pace: la paura del
dolore, la paura dell’incertezza, la paura di essere fuori controllo. E tutte
le storie che vengono con l’ansia. Il Buddha disse che la mente ossessionata
diventa agitata. E la mente agitata è lontana dalla libertà. Disse anche che la
mente non ossessionata non è agitata. E la mente che non è agitata è molto
vicina alla libertà. Nella nostra pratica impariamo a respirare come un Buddha,
non per uscire dalla vita ma per illuminarla. Respiriamo non per superare noi
stessi ma per imparare ad abbracciare le nostre vite, con una consapevolezza
gentile e chiara; per imparare a lasciare andare come atto di compassione e
saggezza verso noi stessi.
Oggi ho parlato della fissazione: la
tendenza della mente a soffermarsi, indugiare nelle cose. La fissazione è una
specie di “prurito” mentale che grattiamo e grattiamo, cercando di trovare
sollievo. Recentemente mi è capitato di leggere un detto che suggeriva: se vi
trovate in una buca, sarebbe una buona idea smettere di scavare. Quando siamo
ossessionati dalle fissazioni in un certo senso moriamo al mondo. Quando siamo
ossessionati, il mondo di immagini e suoni e sensazioni tattili e tutte le cose
che accadono intorno a noi non ci toccano veramente, perché non siamo
consapevoli di esse. Quando siamo ossessionati siamo travolti in un nostro
mondo interiore molto contratto, molto stretto. A volte, con buone intenzioni,
cerchiamo di investigare alcune di tali fissazioni (da dove vengono, perché
sono qui, che cosa significano?). Ma spesso l’investigazione diventa una specie
di modo di ossessionarci più consapevole. Sapete come potete distinguere tra
investigazione e fissazione? Con l’investigazione, se vi ponete la domanda:
“Posso lasciarlo andare?” la risposta sarà immediatamente “Sì!”. Con la
fissazione, se vi ponete la domanda: “Posso lasciarlo andare?” la risposta è
quasi sempre “No!”. Siamo prigionieri di ciò che ci ossessiona: questo è il
motivo per cui impariamo a coltivare la calma del respiro.
È meglio impararlo da soli, perché è
spesso difficile farsi convincere da altri. Una meditante a questo proposito mi
ha detto: continuo a pensare a queste cose. Allora piuttosto che cercare di
lasciarle andare, credo sia meglio continuare a pensarle. Ben presto avrò
esaurito tutti i pensieri che è possibile avere. Dieci giorni più tardi le ho
chiesto: “Come va? Hai finito?”. E lei mi ha risposto: “No! Sai, sembra che vi
sia un numero infinito di pensieri che è possibile avere”. La verità è che noi
siamo un po’ innamorati delle nostre fissazioni, anche quando sono dolorose.
Conoscete il mito greco di Sisifo? Sisifo è condannato a spingere un masso su
per la montagna per l’eternità. Ogni volta che il masso arriva vicino alla cima
della montagna, egli perde la presa e il masso rotola giù di nuovo fino al
punto di partenza. Molta gente legge questa storia e pensa: “Povero Sisifo!”.
Invece forse Sisifo era innamorato del suo pezzo di pietra. Avrebbe potuto
semplicemente dire: “Perché non lasciarlo alla base della montagna?”. Anche noi
a volte siamo innamorati delle nostre fissazioni: ci tengono impegnati, ci
procurano qualcosa da fare. Ci forniscono un’identità, la sensazione di poter
controllare le cose. E ci chiediamo: “Che cosa saremmo se lasciassimo andare
alcune di queste preoccupazioni?”. Finché infine non esploriamo quello spazio:
allora, quando ci svincoliamo dalle nostre fissazioni, scopriamo una grande
vastità di calma che è davvero piena di gioia.
Il Buddha ci incoraggiava a inspirare
lavorando per la cessazione, a espirare lavorando per la liberazione; a vedere
lo svanire di ogni respiro, di ogni suono, di ogni visione, ma anche a vedere
lo svanire della sofferenza; a vedere lo svanire del dispiacere e a vedere lo
svanire della separazione. Ciò che veramente emerge in questo svanire, nel non
afferrarsi più a niente, è un grande senso di calma e vastità. Perciò nella
nostra pratica cerchiamo di imparare veramente a respirare come un Buddha.
Traduzione a cura di Cristiana GENTILI e Franca
Zucalli.