Note sull’avversione

LETIZIA BAGLIONI

 

L’avversione è spesso percepita come l’ostacolo dominante alla pratica meditativa, o in generale al benessere nella vita quotidiana, soprattutto nelle fasi iniziali di un tirocinio contemplativo o di un periodo di meditazione intensiva. Non è che desiderio e confusione/ignoranza non siano presenti (nella forma di aspettative, dubbio e torpore ad esempio) ma l’avversione sembra avere un effetto particolarmente inibente o disturbante nei confronti del raccoglimento, sembra annunciare un’immediata eclissi della fede e coprire gli effetti degli altri inquinanti; o semplicemente emerge con più evidenza, dato il suo carattere apertamente spiacevole.

Svalutazione, biasimo e sfiducia, impazienza e paura del disagio sono etichette concettuali frequenti per descrivere un iniziale incontro con gli effetti cognitivi ed emozionali dell’avversione, che è sostanzialmente una modalità o qualità dell’intenzione, un modo di esprimersi della volontà. Quando non viene riconosciuta direttamente, le impressioni che genera vengono proiettate sul soggetto (il meditante) e immaginate come qualità negative personali da correggere, di cui preoccuparsi ecc.; oppure si condensano attorno all’oggetto di meditazione (ad esempio il respiro), per cui l’attenzione, trovandolo sgradevole o difficile a maneggiarsi tenderà a evitarlo o a lasciarlo cadere. Se c’è sfiducia in se stessi e l’attenzione non dimora volentieri sul suo oggetto mancano le premesse per il retto raccoglimento (samma samadhi) e quindi l’ambiente necessario per un qualunque approfondimento contemplativo1. Quando si notano effetti del genere è importante ricordare e applicare la modalità della saggezza, che risolve lo stallo senza bisogno di cambiare le condizioni ma ridefinendo la situazione in modo da renderla lavorabile. È la modalità per cui si riconosce semplicemente: “C’è avversione”. Non c’è nulla che non vada, né in me né nel respiro né in nessun’altra cosa: soggetto e oggetto recuperano la propria innocenza originaria. Il respiro è così com’è, la mente è così com’è. Al di là delle definizioni.

L’avversione è percepita come ostacolo nella misura in cui comincia a diventare cosciente e non è più semplicemente ignorata o agita in modo meccanico: laddove prima ad esempio imputavamo all’irrequietezza, alla noia o all’indolenzimento l’interrompere o saltare una seduta, ora sentiamo che l’irrequietezza, la noia e l’indolenzimento sono condizioni spiacevoli, e che la motivazione – l’impedimento – è il non volere l’esperienza spiacevole o il timore di poterla ripetere, ossia l’avversione. Motivazione del tutto ovvia e legittima, secondo il comune modo di pensare; e se non ci fosse qualcosa in noi che vuole vederci chiaro, che è interessato a capire meglio e a essere più libero – che, in altri termini, vuole continuare a meditare – potremmo tranquillamente fermarci lì, come difatti spesso avviene.

E non sarebbe un gran male come invece lo è, io credo, tirare avanti passando sopra all’avversione e alle sensazioni spiacevoli senza penetrarle con la comprensione e quindi scioglierle, andare al di là, accedere a un nuovo modo di vedere e sentire l’esperienza che arricchisce e risana. Si può restare bloccati in un limbo per cui la meditazione diviene un mero compito, un’ennesima cosa che “dovrei fare” ma “non riesco a fare”, priva di ogni dolcezza e interesse esplorativo. O un oggetto da prendere e mollare a seconda dell’umore o della convenienza del momento. Spesso, di quello che penso sia l’umore o la convenienza del momento, dato che l’avversione mi porta a reagire e mi impedisce di sentire come sto e di cosa ho veramente bisogno. Trattiamo così anche gli esseri viventi, a volte, inclusi noi stessi.

Il passo successivo avviene quando intuiamo che: a) l’avversione è una condizione che può a sua volta essere contemplata, ossia resa oggetto di consapevolezza; b) che l’avversione/paura domina tante delle nostre scelte, reazioni e modi di esprimerci nella vita quotidiana, che ciò ha conseguenze dolorose, e che non siamo più disposti a ignorarlo o rassegnarci; c) che la spiacevolezza dell’irrequietezza e del resto (per rimanere con l’esempio) non è una realtà assoluta e immutabile, ma è più o meno intensa, duratura e tollerabile a seconda di una serie di fattori e circostanze; d) che uno di questi fattori è il modo di recepire e rispondere alla spiacevolezza: in altre parole, iniziamo a vedere che la qualità dell’attenzione e dell’intenzione ha effetti concreti, nel senso di generare benessere o malessere, libertà o schiavitù.

È il gioco di attenzione e intenzione a generare significati, e il significato che attribuiamo ai dati dell’esperienza è determinante nel farcela vivere come nemica, amica o indifferente.

Nasce allora un genuino interesse per il messaggio del Buddha: attenzione e intenzione possono essere educate e purificate per il bene nostro e dell’intero di cui siamo parte indivisibile; qui abbiamo scelta, laddove sensazioni, reazioni, stati d’animo e pensieri “ci accadono” come effetti sui quali non abbiamo – né ci si chiede di avere – alcun controllo, alcuna voce in capitolo. E nasce un genuino interesse per la meditazione, che ci consente di esplorare – di toccare con mano – quali modi di rapportarci all’esperienza fanno del bene e portano alla pace e quali tengono in piedi dolore e confusione. Allora è possibile che il “no” dell’avversione non sia più l’ultima parola, il segno di un limite che non può essere varcato, ma un invito: qui c’è qualcosa che vuole essere riconosciuto, sentito, compreso. Tradizionalmente si dice che il Dhamma, la verità, è ehipassiko: “vieni e vedi”; inoltre si dice che è sanditthiko, akaliko: presente qui e ora, senza tempo. Risvegliarsi all’avversione è Dhamma – è la verità del momento; ci tiriamo indietro, o andiamo a vedere? Ora?

Percepisco l’avversione come uno spazio corrugato, ispido, spinoso o frastagliato, come una contrazione che tenta di espellere, che non vuole tenere; come uno spingersi in fuori, un rigonfiarsi per spingere fuori o tenere lontano.

L’avversione tenta di vomitare qualcosa che è già dentro o impedire l’accesso a qualcosa che sta fuori. Una contrazione del corpo, spesso nel petto o nella gola, o a volte nella testa, nella mascella, che è un dire di no, un voltare le spalle, un troncare di netto o un lasciar cadere, un non voler sapere, un non voler avere niente a che fare.

Una durezza, una rapidità brusca nei gesti quotidiani anche non apertamente aggressivi, nel manipolare gli oggetti; un voler essere altrove il prima possibile. Ma l’avversione può essere anche un ribollire della superficie che tiene le cose in sospensione, impedendo loro di calare a fondo e depositarsi.

L’avversione è anche un saluto che vuole non tanto salutare l’arrivo dell’altro quanto inchiodare l’altro dov’è, tenerlo confinato nel suo spazio, nel suo ruolo di oggetto separato e diverso da sé. È un dire: ti vedo, ti riconosco, resta lì. L’avversione come difesa di un confine minacciato da cose interne o esterne: idee o situazioni, emozioni o persone.

In questo senso l’avversione è una qualità che colora in certi momenti l’attenzione/consapevolezza: un riconoscere magari con chiarezza ma senza quella curiosità silenziosa che prelude a una relazione più intima, più fiduciosa, più serena e liberante con le cose. Mi pare di sapere già come andrà a finire, e mi premunisco. Ma quando “so già”, il cuore si appesantisce, si chiude, si accascia. Il fuoco dell’avversione si spegne nella mota dell’indifferenza, della depressione, del vittimismo.

A questo punto sto operando al livello di concetti e astrazioni (io, lui, la tal cosa, la tal situazione...) e ho perso il riferimento all’una o l’altra delle quattro basi per la coltivazione della consapevolezza (satipatthana), ho perso il riferimento al processo nel momento presente (ora c’è questo, e dà questa sensazione, si comporta così, si associa a questo, si intensifica o cessa quando…)

Quando l’intenzione inclina verso il Dhamma – verso il lasciar andare il peso del noto per aprirsi alle cose così come sono – acquista una dolcezza, e una forza, straordinarie. La dolcezza dell’intenzione è effetto naturale della rinuncia: rinuncia alla volontà di cambiare o sopprimere, controllare o spiegare, evitare o guadagnare qualcosa. Si rinuncia per stanchezza e compassione, come quando si depone un pacco pesante per riposare le mani contratte e le braccia indolenzite. La dolcezza dell’intenzione è essenziale per accostare e rassicurare l’avversione, perché non si chiuda a riccio e non esploda aggressivamente, perché ci si riveli tutta nei suoi modi e nelle sue ragioni. La forza è essenziale per sostenere e contenere un campo saturo di sensazioni, che rischia a ogni attimo di essere bucato e lacerato da impulsi ad agire, parlare, correre appresso a pensieri e fantasie. Sostenere e contenere il campo dell’osservazione consente all’energia dell’avversione di restare in casa, di essere riguadagnata al cuore e alla vitalità del corpo. Questa è la cessazione dell’avversione, non repressione, ma rilassamento della volontà e liberazione di energia. Sotto l’effetto dell’ignoranza l’energia tende invece a generare e nutrire oggetti sui quali fissarsi e scaricarsi: percezioni e immagini di situazioni o persone – o perfino di sentimenti e idee – vissute come definite e permanenti, come rappresentazioni credibili di una realtà separata dalla mente. E questo genera tensione e svuotamento, disagio fisico e mentale. Genera dukkha.

Da dove viene la forza? Di nuovo, essenzialmente dalla rinuncia: l’energia non si disperde più in intenzioni confuse, si raccoglie nel momento presente come acqua che riempie a goccia a goccia un contenitore senza crepe. Poi, dall’evocare la fiducia fondamentale. Saddha – ossia fede, fiducia – è la prima delle cinque facoltà spirituali, cinque funzioni o modalità della mente che si supportano a vicenda e manifestano l’incondizionato. Fiducia nella elasticità e invulnerabilità dello spazio fondamentale della mente, che è puro conoscere. All’inizio, basta ricordare e affidarsi, senza pretendere di dover provare o capire qualcosa di speciale: possiamo ripeterci la parola “Buddho” – Sveglio – ciò che conosce, ciò che riconosce l’avversione ma non è avversione. Ancorandoci alla fermezza della postura – seduti, in piedi o camminando – divenuta nei mesi e anni di esercizio quotidiano espressione tangibile della costanza della nostra aspirazione: essere presenza, piuttosto che fare o diventare, lasciando che le condizioni facciano il loro corso. Possiamo riflettere sulla natura dello spazio – quello esterno o quello interno, frammenti di silenzio e di spazio fra i pensieri – per rievocare quella qualità: così come lo spazio non è danneggiato o deformato dall’andare e venire di suoni, odori, forme e attività che lo attraversano, per quanto massicci, sgradevoli o violenti possano essere, così la turbolenza dell’avversione e dei suoi effetti non alterano la natura del conoscere. La fiducia fondamentale riguarda anche le condizioni, la loro sostanziale innocenza: il Buddha sorride perché le vede tutte non come nemiche, anche quelle spiacevoli, ma come Dhamma – espressioni della vita nel momento presente.

Infine, la forza si consolida massaggiando e vitalizzando l’attenzione. Esercitandosi ad aderire a un solo oggetto in mezzo ai venti e alle maree degli stimoli e umori cangianti, l’attenzione acquista tono e freschezza, guarisce pian piano dall’atrofia e passività abituali. Quando l’attenzione è sensibile e viva, ed è sostenuta da una ferma intenzione, ha le risorse per accogliere gli effetti dell’avversione nel corpo senza deprimersi. Può cogliere le sensazioni nella loro natura pulsante e cangiante, e trovare interesse e gioia in questa contemplazione. Può ancorarsi al ritmo e all’energia del respiro per lenire e soffondere di benevolenza tensioni e nodi. Custodire l’attenzione durante la giornata ed esercitarla alla stabilità col suo oggetto nutre la forza.

 

1. È in questo senso che l’avversione si manifesta come uno dei cinque impedimenti al raccoglimento (nivarana), insieme al desiderio di stimolazione sensoriale o intellettuale, al torpore/indolenza, all’irrequietez­ za/preoccupazione e al dubbio o speculazione concettuale. In diversi luoghi dei discorsi del Buddha si mette in evidenza che per samadhi non si intende uno sforzo di concentrazione isolato ma l’esito naturale di un insieme di condizioni interdipendenti: prima fra tutte l’apprezzamento per se stessi e la mancanza di rimorso che nascono da una vita orientata alla gentilezza, alla compassione, all’onestà, alla generosità e alla semplicità nei bisogni. Ciò include la capacità di riconoscere apertamente eventuali mancanze sul piano etico, perdonare e stabilire o ristabilire la retta intenzione e il retto sforzo in quell’area. Quando considero la bontà delle mie azioni e intenzioni (e qui il Buddha non parla di altruismo eroico o di utilità sociale ma del semplice e nient’affatto scontato astenersi dal nuocere, così com’è definito scarnamente dai cinque tradizionali precetti per i laici!) posso senz’altro sentirmi fortunata e nutrire serena fiducia nella mia natura originaria. E se non è così, posso tranquillamente attribuire sentimenti di inadeguatezza e autocritiche non a un che di negativo o carente intrinseco alla mia persona o (sostanzialmente sulla stessa linea) ai danni permanenti di qualche trauma infantile, bensì all’identificarmi con gli effetti oscuranti dell’avversione, dell’invidia, dell’orgoglio e delle altre afflizioni mentali (kilesa). E posso dedicarmi con entusiasmo a riconoscerne la natura contingente, impersonale e vuota, piuttosto che credere di dover risolvere un problema che io stessa creo attraverso la mia infelice interpretazione dei fatti. Si dirà che la nostra cultura non sembra favorire un’autostima basata sui valori del cuore e sulla fondamentale dignità umana, ma pone modelli assai sofisticati, complessi e diversificati che spesso ci lasciano confusi e fomentano conformismo o ribellione. Anche in questo caso, forse ancor di più, ancorarsi alla linearità del ragionamento del Buddha e lasciar sedimentare pazientemente gli effetti della confusione mi sembra l’approccio più sicuro per chi si accosta alla meditazione.