La compassione
Christina Feldman
Discorso tenuto a Roma il 28 gennaio 2000.
Ho letto, di recente, la trascrizione di un incontro tra il Dalai Lama e un suo amico, un anziano monaco che aveva appena potuto raggiungere il Dalai Lama in India, dopo vent’anni passati in prigione e nei campi di lavoro in Tibet. Vent’anni di profonda solitudine, di brutalità e di torture. Il Dalai Lama chiedeva al suo anziano amico: "Raccontami di quando sei stato veramente in pericolo di perdere la vita". Il monaco ci pensò un attimo e poi rispose: "Ci sono state occasioni, situazioni in cui mi sono trovato di fronte a un vero pericolo; sono stati i momenti in cui ho rischiato di perdere la compassione per i mei carcerieri". Alla prima lettura, il pensiero immediato è stato che questo monaco doveva per forza essere un grande santo o che era il suo diverso condizionamento culturale a permettergli un simile modo di pensare. In verità, credo che questo monaco sia una persona che ha capito il potere dell’autentica compassione e di come la compassione ci assicuri un rifugio.
Possiamo cogliere queste parole e trasferirle nella nostra vita e nel nostro cuore. Ci sono momenti di grandissimo pericolo, sono le occasioni in cui perdiamo la compassione per noi stessi, quei dolorosissimi momenti in cui voltiamo le spalle o non siamo toccati dal nostro dolore o dalla nostra sofferenza e i momenti ugualmente dolorosi in cui perdiamo la compassione per quelli che ci hanno fatto del male o ferito. Cosa accade quando perdiamo il contatto con la compassione? La nostra vita e le nostre relazioni possono insegnarci qualcosa. Quando perdiamo la compassione, sorge un forte senso di separazione. Quando la compassione è andata perduta, appare spesso un’ incolmabile distanza, un’incolmabile divisione tra sé e l’altro. In questa separazione, ci sentiamo separati, distanti e isolati.
Ovviamente, quell’abisso di separazione non è un buco vuoto, contiene un oceano di emozioni e di sentimenti. Quel buco è colmo di sentimenti di rabbia, di paura, di biasimo. Talvolta di risentimento o di indifferenza. Ed è proprio la dolorosità di questi sentimenti che rende ancora più profonda la distanza tra sé e l’altro. Quando nella vita perdiamo il contatto con il senso di compassione, al cuore viene a mancare la capacità di aprirsi, di lasciarsi toccare dal dolore e dalla sofferenza.
Quello che va perduto è uno dei doni più preziosi e liberanti che si possano concepire. Nell’assenza della compassione perdiamo la comprensione profonda dell’interconnessione ed essere esiliati dal senso di interconnessione coincide realmente coll’essere deprivati del senso di essere a casa in noi stessi o nella vita. Diventiamo invece prigionieri di tutte le sensazioni e le ansie della separazione, prigionieri della paura, della rabbia, del biasimo, ed è la più intensa delle sofferenze.
Non è difficile scorgere tutto questo nella nostra vita, se riflettete per un momento su qualcuno che, nel passato o nel presente, vi abbia fatto del male o vi abbia offeso. Quali sentimenti sorgono e quale presa hanno su di voi?
Talvolta possiamo avvertire un sottile indurimento del cuore, altre volte percepiamo sensazioni di risentimento o di tensione.
Quando ci colleghiamo o pensiamo a quella persona anche a distanza, si possono aprire le porte a intense sensazioni di agitazione ed è un’esperienza dolorosa.
Non c’è solo il dolore per come siamo stati feriti, ma anche il dolore che deriva dalla perdita, dalla separazione, dalla mancata connessione. Quando nella nostra vita perdiamo il contatto con il senso di compassione, perdiamo anche, e in modo molto reale, noi stessi. Quando diventiamo prigionieri della separazione, tutti i sentimenti di paura, di rabbia e di biasimo sembrano improvvisamente assumere tantissimo potere, ma siamo noi a dare così tanta autorità a questi sentimenti, da lasciar loro decidere del nostro benessere e della nostra felicità.
Nella separazione sembriamo quasi dare l’autorità a un altro di determinare il nostro benessere e la nostra felicità. C’è tristezza nel nostro cuore nel rinunciare a questa libertà. Nella nostra vita, possiamo essere strenuamente chiusi alle persone difficili, le persone con cui litighiamo o da cui ci sentiamo feriti o risentiti. Così come possiamo essere chiusi ai punti di difficoltà dentro di noi, alle nostre personali difficoltà come la tendenza al giudizio, l’avidità, la rabbia, a cui ci sembra difficile aprirci, e difficile accettarli.
Queste relazioni e questi punti difficili occupano spesso un posto centrale nella nostra vita. Ci pensiamo molto. Pensiamo di più alle persone difficili della nostra vita che a quelle che amiamo. Pensiamo molto di più ai nostri lati difficili che a quelli che apprezziamo. E le persone e i lati difficili sembrano richiedere tanta energia e attenzione perché cerchiamo di trovare un modo per evitarli o per non stare con loro. Sembrano avere così tanto potere, ma è un potere che gli abbiamo dato noi.
Nutrire la compassione è un modo di riconquistare l’autorità e di riconquistare un senso di libertà, perché è anche un modo per recuperare la comprensione dell’interconnessione. Recuperare l’autorità di verità molto semplici: la verità che nella comprensione dell’interconnessione c’è pace e compassione, che nella separazione c’è alienazione, dolore e rammarico. Sempre di più arriviamo a comprendere nella nostra vita che la persona che ci sta davanti è veramente noi in un’altra forma, è la nostra mente in un corpo diverso, è il nostro stesso cuore che differisce solo nell’espressione.
Al di sotto di queste differenze superficiali, quello che ferisce noi ferisce anche l’altro.
Quello che ci dà gioia dà gioia anche all’altro. Nella tradizione cinese la compassione è spesso rappresentata come una divinità o come un Buddha chiamato Kuanin, il cui nome tradotto significa: "Colui che ascolta il suono dell’universo".
In pali, la compassione è karuna che viene definita come "il cuore che trema in risposta alla sofferenza".
La compassione è la capacità di ‘sentire con’, di ‘prestare ascolto alla vita’ ed è il cuore della pratica di meditazione.
Il Buddha dice: "Insegno una cosa sola: c’è la sofferenza e c’è la fine della sofferenza".
Attraverso la compassione noi coltiviamo il sentiero che porta alla fine della sofferenza.
Il Buddha disse che per conoscere cosa sia la compassione, basta guardare negli occhi di una madre o di un padre mentre cullano il loro bambino malato e febbricitante. Coltivando nella nostra vita la compassione impariamo come ammorbidire e sciogliere le nostre paure e le nostre contrazioni e come mitigare il nostro imprigionamento in un sé separato. La compassione non è una qualità da idealizzare o da proiettare nel futuro, ognuno di noi incontra il dispiacere e il dolore probabilmente ogni giorno della sua vita.
Facciamo i conti con la nostra mortalità e vediamo la mortalità degli altri, la nostra vita è fragile, come fragili sono tutte le vite.
Ci sono molti momenti della vita in cui incontriamo il dolore della solitudine o la rabbia o l’odio. Tutti questi momenti ci invitano a coltivare un cuore in ascolto, a lasciar cadere la separazione e a essere presenti con tutti noi stessi.
La compassione significa trovare la fine della sofferenza nel momento. Non significa che se ne vada tutto il dolore, non c’è una soluzione o una risposta a ogni conflitto o sofferenza di questo mondo, ma il dolore della separazione può finire e finisce in ogni momento in cui ci impegniamo a rivolgerci verso la difficoltà anziché distogliercene.
Non ci è possibile fermare o controllare tutto in questo mondo, ma possiamo imparare a essere presenti, imparare a contenere questo momento, questa persona, noi stessi, in un ascolto a cuore aperto. Quando incontriamo qualcuno che soffre o siamo noi a soffrire, la guarigione più importante che possa avvenire in quel momento per quella persona o per noi stessi è essere ascoltati, essere accolti, essere abbracciati con cuore aperto. Nel turbine del dolore non sono sempre necessarie le parole. Quello che è sempre necessario è un bisogno profondo di essere connessi. La sofferenza e il dolore vengono sorretti meglio con un quieto e comprensivo silenzio. Le parole e le risposte del coraggio e della saggezza, che sono quelle necessarie, nasceranno da quel silenzio molto più facilmente che non dall’agitazione o dalla disperazione.
Riflettendo sulla nostra pratica e sulla nostra vita possiamo tutti imparare a esplorare questo spazio di silenzioso ascolto e di benvenuto. Dunque per noi la compassione non è solo accidentale, ma è una possibilità sempre disponibile. Non c’è una risposta e nemmeno una spiegazione soddisfacente per tutta la sofferenza e il dolore che esistono nella vita e non riusciremo mai a fermarli. Ma imparando a essere silenziosi e ad ascoltare in noi stessi, possiamo imparare i sentieri dell’azione saggia e della capacità di rispondere.
Avere un cuore sconfinato non implica una resa della saggezza. La compassione ha bisogno della saggezza che sa cosa contribuisce alla sofferenza e cosa le mette fine. Ci sono molti momenti nella nostra vita in cui la compassione ha bisogno di prendere la forma di parole, di azioni, di scelte, la forma del coraggio e della saggezza. La maggior parte di noi sa che l’azione saggia nella vita nasce molto raramente dalla paura, dal biasimo o dall’odio.
La compassione non è solo un’emozione o un sentimento. Contiene in sé sia la capacità di ascoltare che una profonda saggezza.
La compassione libera la saggezza dal rimanere solo una buona intenzione e la saggezza salva la compassione dall’essere solo un’emozione.
Un mistico cristiano disse: "A che serve aprire gli occhi se il cuore è chiuso?". Potremmo aggiungere: "A che serve aprire il cuore se gli occhi sono ciechi?". Nutrire la saggezza e la compassione è un sentiero che ha inizio in qualsiasi momento ci rivolgiamo a ciò che è difficile anziché distogliercene.
Con la meditazione si è dediti soprattutto ad avvicinarsi al momento presente, a questo momento. Nella pratica meditativa impariamo a stabilire la connessione con ‘ciò che è’, anziché seguire i sentieri del negare e dell’evitare, sentieri che imbocchiamo spesso per volare via da ciò che ci fa male o che ci sfida. Portare l’attenzione a ‘ciò che è’, in ogni momento, è il primo passo per imparare ad ascoltare e a essere silenziosi.
Tradizionalmente, la compassione viene coltivata in modo intenzionale, prima di tutto investendo di attenzione quei momenti e quelle circostanze di dolore o di sofferenza che sembrano essere inspiegabili e sconvolgenti e che per noi sono difficili da accettare o da comprendere.
Ci interessiamo al bambino cha ha il cancro o che ha subito un abuso, ci interessiamo alla famiglia terrorizzata dalla guerra in un altro Paese. Prestiamo attenzione alla persona la cui vita è improvvisamente andata a pezzi. Prestiamo attenzione a quegli spazi di sofferenza in cui spesso ci sentiamo più indifesi e per cui non possiamo biasimare nessuno. Nel coltivare la compassione portiamo l’attenzione alla natura fragile di ogni esperienza della vita, alla sofferenza che proviene dall’invecchiamento, dalla malattia, dalla morte, dalla nascita. Tutti gli eventi della vita che comportano perdita, dolore, lutto e da cui nessuno è esente. Nel coltivare la compassione investiamo di attenzione anche quelle relazioni e quei punti di sofferenza e dolore in cui spesso ci abbandoniamo al biasimo. E portiamo anche attenzione a chi commette l’abuso, allo stupratore o all’oppressore e anche in questo caso è necessario porre fine alla separazione, lasciar andare la rabbia e il senso di separazione nel nostro cuore ed essere presenti con una semplicissima intenzione:
"Che tu possa comprendere e guarire", "Che io possa comprendere e guarire". Questa investigazione e connessione intenzionale col dolore presente nel mondo è, in verità, un’investigazione del dolore e della sofferenza che incontriamo nella nostra vita e nel nostro cuore. Anche noi facciamo esperienza della sventura quando gli eventi e le circostanze si svolgono in modo imprevedibile, anche noi sperimentiamo la perdita, sofferenze e disperazioni inaspettate, anche noi ci sentiamo indifesi e impotenti in questa vita e, in verità, l’unico autentico rifugio per noi in questa fragile esistenza è nella nostra capacità di essere presenti e saldi.
Certamente la compassione degli altri ci rincuora e ci sostiene; la compassione, il profondo impegno interiore a restare saldi al centro del dolore, è ciò che ci libera dal biasimo e dalla paura. Ci sono in noi anche zone difficili per le quali facilmente ci biasimiamo. Pronunciamo parole di cui ci pentiamo o agiamo in modi che offendono gli altri. Certe volte feriamo noi stessi con giudizi, severità e biasimo e ogni sorta di idee su come dovremmo comportarci nella vita. Qualsiasi strategia, libro, prescrizione non può essere un valido sostituto della compassione, del concedersi un momento per prestare ascolto ed essere silenziosi. Essere capaci di reggere le ondate di rabbia, di rimorso o di colpa senza giudizio.
In questi momenti di silenzio interiore, impariamo una delle più profonde lezioni della vita: cosa conduce alla sofferenza e cosa conduce alla fine della sofferenza.
Un cuore compassionevole non è un cuore idealizzato che non ha mai un pensiero rabbioso o una sensazione di avidità, che possono sorgere e di fatto sorgono, ma la compassione mantiene l’apertura per ascoltare quei sentimenti senza necessariamente concedergli di pilotarci. La compassione è una delle più grandi qualità trasformanti del cuore. I suoi peggiori nemici sono il dubbio e la paura. Abbiamo paura di essere vulnerabili e di venire sommersi, non ci fidiamo della nostra capacità di saper ricevere il dolore.
Talvolta vediamo la separazione come un modo di proteggere noi stessi dalla vulnerabilità o dall’essere troppo aperti o feribili dagli altri. Ma possiamo capire dalla nostra vita che la separazione non ci protegge, ci toglie piuttosto la libertà.
Coltivando la compassione impariamo a interessarci dei paesaggi del cuore. Impariamo ad apprezzare la forza delle nostre sensazioni, non per etichettarle come buone o cattive, ma per apprezzare il modo in cui caratterizzano la nostra esperienza del mondo. Qualcuno ci dice qualcosa di offensivo, ci sentiamo irritati, insultati. In un attimo quella persona diventa il nostro nemico, investito del potere di distruggere la nostra vita in quel momento.
Un’altra persona dice qualcosa che ci fa piacere o che ci lusinga, ci sentiamo a meraviglia. Quella persona sembra avere il potere di renderci felici.
Ma nella nostra vita c’è molto di più di questi effimeri momenti di ‘bene’ e ‘male’: fugaci sensazioni piacevoli e spiacevoli. È saggio dar loro il potere di determinare il nostro mondo? Non dovremmo mai sottovalutare il potere di questi sentimenti.
Abbiamo bisogno di imparare a interessarci alla vita di questi sentimenti, a vedere come il nostro mondo si crei momento per momento attraverso quello che sentiamo verso un’altra persona, a sapere dove siamo noi, grazie all’interesse per la vita del cuore. Cominciamo anche ad imparare come sciogliere qualcuna delle nostre zone congelate e bloccate dalla paura e dalla resistenza. Possiamo imparare ad ammorbidire e a intenerire le immagini che abbiamo degli altri e di noi stessi.
Possiamo cominciare a dissolvere la separazione e cominciare a comprendere che nel coltivare la compassione stiamo sempre scegliendo la libertà, anziché la sofferenza, che nell’imparare a coltivare la compassione onoriamo la semplice verità della nostra vita, che nella separazione c’è sofferenza e nell’interconnessione c’è pace.
D Puoi dirci qualcosa di più sulla relazione tra la compassione e la paura, in particolare la paura del futuro?
R Con questo tipo di paura non specifica, come è invece la paura di una persona o di un evento, è molto facile perdersi, pensando a cosa potrà succedere. E spesso in questi momenti di paura e di ansia, la mente non è nostra amica. Oscar Wilde disse che le cose più tremende della vita non accadono in effetti mai. Ma con la paura enumeriamo a noi stessi tutto il peggio che ci potrebbe accadere. Nei momenti di paura, la mente è una specie di vandalo psichico. Spesso la cosa più saggia, in quei momenti, è di creare, quanto più possibile, un senso di rifugio. La compassione per sé stessi consiste nell’imparare come non cadere nell’agitazione della paura. La compassione, come la gentilezza amorevole e l’equanimità, è una pratica oltre che una comprensione. È una pratica che utilizza frasi semplicissime o singole parole come modo per riconnettersi con l’intenzione della compassione. Utilizzare frasi semplici come: "Che io possa riposare nella paura", "Che io possa trovare la quiete dentro la paura", è un modo per imparare a trovare quel rifugio che ci libera dall’agitazione e dall’ansia.
D Qual è la relazione, se c’è, tra la compassione e il senso di responsabilità? Responsabilità per la sofferenza a cui io stesso, in qualche modo, contribuisco?
R Bisogna essere cauti con l’espressione ‘senso di responsabilità’, perché si può nutrire un esagerato senso di responsabilità in cui si cela molto biasimo verso sé stessi. Una sorta di responsabilità depredata dal giudizio. Nell’insegnamento buddhista è importante ricordare che nessuno va biasimato per l’ignoranza. Può essere successo molte volte nella nostra vita che per ignoranza abbiamo fatto o detto cose di cui ci siamo pentiti. Ma ovviamente non possiamo annullare quello che è già accaduto o cambiare la realtà del fatto che è accaduto per mancanza di consapevolezza. Nella nostra vita le cose cominciano a cambiare quando troviamo il modo per essere più consapevoli e presenti. Siamo allora più coscienti delle cause, degli effetti e delle conseguenze delle nostre azioni e delle nostre scelte. Io penso che la consapevolezza o presenza mentale, porti con sé un’intrinseca responsabilità. Nella consapevolezza è implicita la trasformazione che ci solleva dalla sofferenza esterna e interna verso una libertà più vasta e verso il benessere interiore ed esteriore. In questo sentiero l’autentica responsabilità non consiste solo nella consapevolezza delle cause e degli effetti, ma anche nella coltivazione conscia delle cause sagge, abili e compassionevoli che conducono a effetti saggi, abili e compassionevoli.
D Non distinguo con chiarezza la differenza tra metta e karuna.
R La gentilezza amorevole è la coltivazione e l’espressione consapevole dell’intenzione che si attua nelle parole e nell’aspirazione espressa dalle frasi: "Che io possa essere felice", "Che io possa essere libera dalla sofferenza", il generare cioè un senso di ampiezza. In un certo senso è qualcosa di piuttosto attivo. La differenza con la compassione è che quest’ultima è più silenziosa e non è caratterizzata tanto dall’esprimere quanto dal ricevere. L’intenzione è sottilmente diversa, come le parole: "Che io possa essere libera da". Nella pratica della compassione si riconosce che non tutti potranno ‘essere liberi da’. L’intenzione è più che altro quella espressa dall’augurio: "Che tu possa essere in pace". Nella pratica della gentilezza amorevole e della compassione c’è un tono molto diverso. La pratica della gentilezza amorevole è esuberante, affettuosa, donativa. La pratica della compassione può spezzarti il cuore. Non perché tu ti senta disperato o impotente, ma perché crea un’apertura molto alta e profonda verso il dolore presente nel mondo e prepara anche lo spazio perché esso possa attraversarti.
D Continuo a non vedere alcuna differenza tra la gentilezza amorevole e la compassione.
R Certamente nella gentilezza amorevole c’è compassione e nella compassione c’è gentilezza amorevole, non sono completamente separate, ma c’è una differenza. Nei brahmavihara viene spesso consigliato di praticare prima la gentilezza amorevole e poi la compassione. Abbiamo veramente bisogno di felicità e amorevolezza per poterci aprire alla comprensione di quanto sia difficile la pratica della compassione.
TRADUZIONE A CURA DI SAMIRA COCCON E CHANDRA CANDIANI.