Il rifugio di Alice

LETIZIA BAGLIONI

Discorso tenuto a Roma il 6 maggio 2000

Il cammino spirituale secondo l’insegnamento del Buddha comincia formalmente con la presa di rifugio. Buddha, Dhamma e Sangha sono i tre oggetti che rappresentano le nostre aspirazioni più profonde. Buddha come attuazione nel concreto della storia del potenziale di liberazione, Dhamma come la verità espressa nel suo insegnamento, Sangha come la comunità di coloro che lo mettono in pratica. Questo è un primo livello, esterno, del rifugio. Ciascuno di noi saprà poi tradurlo in qualcosa di più intimo e personale, al passo con la propria esperienza di vita e di pratica. Questo ci ricorda che ciò che qualifica la nostra pratica meditativa come parte di un processo di risveglio è la base da cui partiamo, la motivazione che sottende il nostro impegno.

L’idea di rifugio non avrebbe molto senso se non si conoscesse l’opposto del rifugio: l’insicurezza, la vulnerabilità, l’essere senza punti di riferimento. Dunque la ricerca spirituale, con la necessità di prendere rifugio, nasce dal fatto che ci siamo resi conto più o meno oscuramente, in forma più o meno drammatica, che la condizione umana è necessariamente incompleta, è necessariamente precaria e vulnerabile all’angoscia qualora manchi l’apertura a qualcosa che è nell’esperienza e al tempo stesso trascende l’esperienza.

Se ci sentiamo più o meno appagati dallo scenario che la mente condizionata offre, se cioè troviamo rifugio nella soddisfazione di desideri e ambizioni, nella rassegnazione all’impossibilità o limitatezza di tale soddisfazione, nella ribellione o nella fantasia, difficilmente ci verrà in mente di cercare rifugio in qualcos’altro. È normale e funzionale derivare un certo grado di sicurezza e appagamento da alcune nostre attività e relazioni; tuttavia, a mano a mano che la consapevolezza si approfondisce, ci accorgiamo di come la costante attività volta a creare sicurezza, piacere e felicità e a rifuggire l’insicurezza, la difficoltà e l’angoscia generi stress, quello che il Buddha definiva dukkha.

Nel corso di questa giornata di pratica abbiamo cercato di coltivare una sensibilità, un’attenzione alla vita del corpo; in particolare, di fare del corpo qualcosa in cui la mente abita volentieri, imparare a favorire una certa misura di rilassamento, di presenza, di apertura e di ciò che abbiamo definito risveglio, ossia interesse incondizionato, in relazione al vissuto corporeo. Vorrei suggerire che, così come per il rifugio, l’importanza di questo lavoro si chiarisce quanto più ci esponiamo all’incertezza. Cioè tanto più noi, coltivando la consapevolezza e aprendoci a ciò che è nella mente, a ciò che emerge nelle nostre vite, scopriamo la difficoltà e in ultima analisi l’impossibilità di controllare l’esperienza (tenere a bada lo spiacevole e trattenere il piacevole), tanto più abbiamo bisogno di fare riferimento a qualcosa che sia, da una parte più solido e affidabile di concetti e fantasie, e dall’altra flessibile, specchio e canale del flusso dell’esperienza.

Da un certo punto di vista, se dico ‘rifugio’ mi viene in mente il muovermi verso ‘dentro’, al riparo, o rivolgermi a qualcosa o qualcuno che mi protegga. In realtà, chiunque abbia contemplato e riflettuto su Buddha Dhamma Sangha sa che non è proprio così. Nella tradizione buddhista non ci si aggrappa a delle idee che ci rassicurino di aver scelto il partito giusto, la strada giusta. Così come non ci possiamo aspettare nulla dal fatto di imparare a stare a nostro agio col corpo e il respiro, anche se questo è già un risultato molto importante. Sappiamo che in ultima analisi il corpo è un processo che sfugge al controllo: è nato, cresce, è soggetto a disagio e malattie e morirà. Ma con il lavoro meditativo accendiamo delle qualità del cuore, della mente, che sono presenti e operanti malgrado la fluttuazione di questo processo. Tradizionalmente si parla delle cinque facoltà spirituali, o dei sette fattori del risveglio. Queste funzioni mentali tendono a generare un ‘campo’ che si offre come rifugio.

Potremmo dire che esistono due livelli di rifugio, corrispondenti alle due modalità di ciò che si definisce sammaditthi, ossia retto approccio, retta prospettiva. Sammaditthi è il fattore fondante dell’ottuplice sentiero e determina la direzione e l’efficacia degli altri fattori – a cominciare dall’intenzione e la parola fino alla presenza mentale e al samadhi. È ciò che rende la nostra pratica meditativa e le nostre attività esteriori ‘corrette’, ossia adeguate all’obiettivo della liberazione. Il primo livello di sammaditthi si definisce mondano o relativo. Questi termini non ci debbono far credere che sia qualcosa di opzionale o di meno importante: è il tipo di atteggiamento, di visione, che il Buddha contrapponeva al nichilismo, al determinismo, al materialismo e a una religiosità di tipo ritualistico. Sammaditthi in senso convenzionale è un approccio positivo, fiducioso e responsabile a se stessi e al mondo. Il Buddha lo riassumeva in espressioni del tipo: ci sono padre e madre, c’è un effetto positivo che consegue alle intenzioni virtuose e salutari e un effetto negativo che consegue alle intenzioni dannose, vi sono al mondo contemplativi e religiosi che conoscono per esperienza i frutti di un retto modo di vivere in questa e nell’altra vita. 1 In altri termini: c’è il bene e c’è il male, e la possibilità di coltivare il primo e lasciar andare il secondo. E – soprattutto – vale la pena di farlo. Le proprie azioni contano, le proprie relazioni contano. L’area dell’etica viene esplorata e si fanno scelte di vita.

A questo livello il retto approccio ha a che vedere soprattutto col fare amicizia con se stessi e col proprio ambiente, col "prendersi in mano", come diceva una mia amica meditante. Qui il rifugio nel Buddha Dhamma e Sangha comporta, significativamente, l’interesse a seguire i precetti e apprendere un metodo di tirocinio interiore. A un livello più sottile, prendiamo rifugio nella bontà delle nostre aspirazioni, nella bontà delle nostre intenzioni. Scopriamo un livello di efficacia, di dignità e di autostima indipendente dalle vicissitudini della nostra immagine sociale, dai successi spirituali o materiali. Impariamo a volgerci al Buddha dentro di noi, a ciò che è sveglio e compassionevole, a vedere il corpo e la mente come un processo naturale e rispettare il Dhamma che è in noi, la verità che noi siamo. E scopriamo il Sangha nella nostra e altrui capacità di dare voce, dare corpo a queste aspirazioni. Di fronte agli alti e bassi della vita, alle difficoltà, al dubbio, c’è qualcosa di degno e affidabile. In meditazione, l’esperienza di una mente più attenta e unita, l’esperienza di un certo benessere che nasce dal lavoro paziente, danno spessore e sapore al sentimento di un rifugio interiore.

Tuttavia sappiamo, e diventa più chiaro col tempo, che al di là delle intenzioni e abilità che sentiamo ‘nostre’, la natura della mente è quella che è: la mente non appartiene a nessuno e non prende ordini da nessuno. Si cominciano a sperimentare, se la pratica è condotta in modo adeguato, livelli sempre maggiori di apertura, quindi anche livelli sempre maggiori di incertezza. Ciò che prima era represso, contratto o semplicemente non evidente, comincia a emergere e a sciogliersi. Ciò che prima sembrava chiaro appare confuso. Con l’approfondimento della calma mentale può sembrare a volte che il corpo sia più agitato di prima, semplicemente perché divengono accessibili livelli più sottili di vitalità e di energia. Lo stesso accade per emozioni e pensieri; se la quiete è di tipo corretto, c’è spazio perché tutto il condizionamento si esprima. Possono emergere ricordi, percezioni, intenzioni ed emozioni anche molto disturbanti. Spesso si fa l’esempio, a questo proposito, dello specchio d’acqua limpido che consente di vedere cosa c’è sul fondo.

Il corpo comincia a essere più sensibile e vivo, la mente più sensibile e viva; l’essere esposti a qualcosa di elusivo e insoddisfacente, a ciò che è difficile per la mente razionale da afferrare e controllare, diventa più evidente. Appare ovvio che non vi è alcun rifugio; o quanto meno, non regge un rifugio che sia ‘luogo’ separato, o alternativo, rispetto a ciò che sta accadendo. Percezioni e intenzioni salutari non reggono all’impatto con la vastità e ambiguità della coscienza, e la vastità della sofferenza che incontriamo intorno a noi e nelle nostre vite. C’è la necessità di intendere il rifugio in modo più radicale.

Scrive Pema Chodron, monaca americana allieva di Chogyam Trungpa:

L’espressione prendere rifugio mi ha sempre fatto uno strano effetto, perché sa di dualismo, di dipendenza, prendere rifugio in qualcosa. Ricordo vividamente: ero in un momento di grande travaglio nella mia vita e leggevo Alice nel paese delle meraviglie. Alice divenne la mia eroina, perché lei cade dentro questo buco (vi ricordate che Alice cade nella tana del coniglio N.d.T.) e semplicemente si lascia cadere; non si aggrappa ai bordi, non si fa prendere dal panico, non cerca di arrestare la caduta, semplicemente cade, e mentre va giù si guarda intorno. Poi, una volta arrivata in fondo, si ritrova in un posto nuovo, non prende rifugio in nulla. Volevo essere come lei, perché mi vedevo avvicinarmi sempre di più al buco e non facevo altro che strillare, tirarmi indietro, rifiutarmi di andare dove non c’era alcuna mano a cui aggrapparmi. 2

Penso che sia un brano molto bello, e mi chiedo se questo non prendere rifugio in nulla di Alice che si lascia semplicemente cadere nell’esperienza così com’è, nell’ignoto così com’è, se non si possa prendere questo come rifugio più radicale, il rifugio inattaccabile. Sammaditthi in senso trascendente, il secondo e più profondo livello di retta prospettiva, nasce con l’apertura dell’occhio del Dhamma, ossia con la visione diretta delle Quattro Nobili Verità. In primo luogo, con la comprensione esistenziale, diretta, di dukkha. Quindi non tanto della mia sofferenza particolare, ma apertura alla realtà e alla nostra stessa identità in quanto incerte, in quanto fondamentalmente insicure.

Mi chiedo anche se noi sappiamo che aspetto abbia il buco, nelle nostre vite o in una seduta di meditazione. E come si sperimenta questo aggrapparsi ai bordi oppure, come diceva Pema Chodron, accorgerci di scivolare verso il buco e resistere, non volerci cadere dentro, volere una mano a cui aggrapparci, magari le buone nozioni, percezioni e intenzioni che abbiamo coltivato nella pratica spirituale. Se ci accorgiamo che il buco inesorabilmente ci attrae. E che spesso non ci interessa affatto né di lasciarci andar giù, né tantomeno di guardarci intorno mentre cadiamo.

Capacità di aderire all’esperienza per quella che è, così com’è nel momento presente. Massima protezione perché massima esposizione. Questa è una cosa molto grossa, perché vuol dire assottigliare fino a ridurla a zero la divisione tra me, l’osservatore, e l’esperienza. Questa distanza, fatta di resistenza, desiderio o distrazione, può essere gestita in modo salutare, appunto applicando delle rette intenzioni, ma certamente resta una distanza. Un ritiro potrebbe essere un’occasione per sperimentare cosa può voler dire lasciarsi cadere nel buco con curiosità, e senza paura. Quello che forse mi colpisce di più in questo brano è che Alice mentre cade si guarda intorno. È la differenza fra il buttarsi a corpo morto e il lasciar andare, che è un modo sveglio, interessato, lieve.

Credo che a volte la nostra presa di rifugio abbia poco impatto perché non ci lasciamo toccare fino in fondo l’incertezza. Se mi espongo, mi rendo vulnerabile, allora sento che la pratica ha valore, sento che il Buddha ha valore, che il Dhamma ha valore. Finché aggrapparmi a opinioni ed emozioni mi basta, e il modo in cui gestisco attività e relazioni mi consente di ripararmi in qualche misura dall’insicurezza, che me ne faccio di un rifugio? È un extra, un accessorio. Così pure nella pratica: c’è la giornata che va bene, quella che va male e quella in cui mi accontento; ma ho mai toccato il fatto di non essere l’autore della mia pratica? Ridurmi a presenza che in effetti cade dentro il buco dell’esperienza?

Credo che per tutti noi ci siano momenti in cui non sappiamo dare una risposta o in cui sentiamo che è perfino difficile dire "va bene", "va male", è difficile dare un giudizio. Questi sono momenti molto preziosi, come sono preziosi i momenti di noia o di vuoto, gli interstizi fra un’attività che finisce e una che comincia, o i momenti in cui rinunciamo ad applicare il solito sistema per tirarci fuori da un piccolo o grande disagio. Il termine anicca viene spesso tradotto come impermanenza. Nella tradizione thailandese della foresta, in particolare con Ajahn Chah, si incoraggia a cogliere anicca non tanto nel fatto che i fenomeni hanno durata limitata, ma nella fondamentale ambiguità e relatività di ogni esperienza e opinione soggettiva. Sorge un pensiero: quanto crediamo a questo pensiero? Quanto crediamo alla rappresentazione che diamo di noi stessi e del mondo esterno: io sono così, lui è colà, andrà a finire che, è una fortuna, è una sfortuna? Mettere in questione la solidità delle nostre percezioni fa scoprire anicca: vedere ad esempio come sono legate agli stati d’animo, e come giudizi e percezioni cambiano quando lo stato d’animo cambia.

Spesse volte il gusto della pratica scompare, non sappiamo bene perché facciamo certe cose; sì, in qualche misura ci sono utili, però poi, guarda caso, nel momento in cui si presenta un problema che giudichiamo serio o le cose vanno come "non dovrebbero" ecco le reazioni abituali: rabbia, delusione, preoccupazione, o il tentativo di rimediare e controllare. Ricorriamo a un bagaglio di nozioni, di abilità, per risolvere i problemi quotidiani, ci sembra ovvio. Ma ci sono momenti in cui siamo rigettati nell’impotenza o nella mancanza di significato, verso il buco di Alice. Cosa proviamo quando siamo costretti a un’attività che non ci piace o per cui non abbiamo particolare interesse? Difficile dire, spesso è più facile notare le reazioni: portare avanti l’attività in modo svogliato o aggressivo, sovrapporgliene un’altra, lamentarsi, fare appello alla pazienza o al dovere eccetera. Fondamentalmente quello che succede è uno scollamento, la mente comincia a muoversi: crea pensieri e fantasie, crea torpore o eccitazione, non vuol essere lì. Si aggrappa ai bordi.

Cadere nel buco è qualcosa che avviene comunque; siamo in caduta libera e non vediamo il fondo. Tuttavia la rappresentazione che riusciamo a mantenere – questo è l’attaccamento – ci dice che non è così e ci consente di conservare una certa presa su chi siamo, dove siamo, cosa ci piace, cosa non ci piace. Ma ci sono momenti in cui questo processo viene bruscamente interrotto, o si insinua il dubbio. Oppure possiamo interromperlo deliberatamente, arrischiarci a uscire allo scoperto. Uno degli strumenti principali è la rinuncia. Sapete che il Buddha stesso ha cominciato il suo percorso spirituale abbandonando la casa paterna, sua moglie, suo figlio, le sue ricchezze, il suo ruolo sociale per un tipo di vita che a noi può sembrare poetico ma che di fatto lo esponeva a rischi, disagi, umiliazioni, solitudine. Gotama e i monaci (bhikkhu) che lo seguivano rinunciavano non tanto o non solo agli agi materiali, quanto a ogni forma di controllo sulla propria sussistenza; uscendo dal ciclo produttivo e facendosi mendicanti dovevano dipendere dalla generosità degli altri per il cibo, le medicine, le vesti, e fare di un luogo qualunque, spesso all’aperto, la propria casa.

In diversa misura, con modalità diverse, il sentimento del lasciare la casa ed esporsi alla vulnerabilità della condizione umana resta alla base della nostra aspirazione, la accompagna nel suo sviluppo e infine dà senso al frutto della pratica. Nella vita quotidiana il fattore della rinuncia può essere esercitato anche in modo molto pacato, senza gesti eroici. Scegliendo ad esempio di non evitare situazioni o persone in fondo innocue ma che tendiamo a evitare perché ‘imbarazzanti’, scomode o insolite, come parlare in pubblico o fare un tratto di strada con un vicino di casa ‘difficile’. Privarmi di qualche piccolo puntello, non per cattiveria, ma per una forma di curiosità, di apertura, per contemplare e comprendere sentimenti che credo di non potermi permettere, che "non quadrano" con la persona che vorrei o dovrei essere. Rinunciare a mangiare o bere nei momenti in cui so che non è di nutrimento materiale che ho bisogno. E in questo caso vulnerabilità vuol dire concedermi di toccare il bisogno, la solitudine, l’ansia o qualunque sia la cosa che mi spinge a cercare cibo quando non voglio cibo. Con gentilezza, senza cercare di risolvere nulla o cambiare nulla.

Fa freddo, mi metto la giacca; fa caldo, me la tolgo: sono gesti naturali, ma se il Dhamma mi interessa prima mi dò almeno qualche minuto per essere in contatto con l’esperienza. C’è il freddo: cos’è? Lo sento, vedo cosa c’è nella mia mente. Irritazione? Resistenza? Paura? È permanente? Come cambia? Come cessa? Perché di solito questa esperienza non c’è, non è neanche un’esperienza, c’è l’acchiappare la giacca o il togliersi la giacca. Esporsi all’incertezza tramite la rinuncia implica diventare sempre più abili e più gioiosi e curiosi nel trovare modi di decostruire il meccanismo sensazione-reazione-azione. Allargare lo spazio. Rinuncia è anche inserire quei cinque minuti o quell’ora prima di spostare un elemento sulla scrivania, e investigare l’esperienza del disordine: cos’è che io chiamo disordine? È là fuori? È qua dentro? Mi accorgo di quante volte compulsivamente tocco oggetti, di come l’attività del creare ordine, creare il piacevole, sia sempre viva, ma sempre ricoperta di nebbia. E sembra così naturale perché sa di istinto di autodifesa. Chi vuole lasciarla andare?

In una giornata di meditazione, esporsi ha a che vedere con quanto ci sto e quanto non ci sto a seguire le istruzioni ricevute. All’ora della camminata vorrei stare seduta, all’ora della seduta vorrei camminare. E già prendere contatto con l’essere come in controfase rispetto a un ritiro è un bel passo avanti. Spesso non stiamo con l’esperienza della contraddizione, stiamo – se pure ci stiamo – con le misure di emergenza che prendiamo: fare, cambiare, evitare, lamentarci. Perciò, a volte ci vuole una certa dose di attività per tenerci lì dove siamo. Laddove il mondo ci incoraggia a diventare più forti, più competenti, più vincenti, nel Dhamma facciamo l’opposto. Sono capace di essere perdente, impotente, ignorante? Da dove viene questo sentimento? Sono davvero io? È tutto lì?

È un passo enorme donarsi a questo: alla cosa che non va, alla cosa inquietante o inattesa, a ciò che interrompe; e ce ne possono essere tante durante la giornata, durante una seduta, che interrompono il flusso di ciò che consideriamo calma. C’è una pace che è viva, la pace del Dhamma, e una pace che c’è solo quando le cose stanno apparentemente come diciamo noi. Tutto tranquillo, ok, addormentati.

In un periodo in cui stavo per intraprendere sostanziali cambiamenti di vita, un amico spirituale, un insegnante di Dharma, mi concesse un colloquio e gli parlai di questa ansia acuta che provavo, un’ansia che sembrava sottendere e a volte allagare ogni altra esperienza. In fondo era piuttosto normale, proviamo ansia quando ci separiamo dal noto, è un’esperienza molto umana, molto ordinaria. E ricordo che pensavo: dovrei fare qualcosa per quest’ansia, ma cosa? Investigarla, calmarla, o notare che l’ansia è impermanente? Lasciarla andare... sì, lascio andare, ma l’ansia resta lì... C’è consapevolezza... sì, ma c’è anche l’ansia... Da qualche parte cioè c’era l’idea: se avessi l’atteggiamento giusto, o il metodo giusto, l’ansia non ci sarebbe, invece sta lì, com’è? Disappunto, preoccupazione, e poi dubbio: Dov’è che sbaglio? Cos’è che non vedo? Perché sono così ansiosa? Ecco il senso dell’io che si solidifica. E l’ansia che cresce. Vedevo tutto questo, l’avversione per l’ansia, il dubbio, non c’era totale cecità, ma in quella situazione di non controllo comunque cercassi di rigirare la frittata sembrava che non si potesse fare presa da nessuna parte. E allora questo amico mi disse: "Certo, bene, riposa nell’ansia". Riposare nell’ansia? Assurdo!

Ma se mi affido a quel che c’è, senza commento, senza compianto, non c’è più ‘ansia’: è solo il nome a farmi paura, il luogo dove non posso riposare. Quell’esortazione mi libera dall’obbligo di cercare o di produrre un immaginario altrove rassicurante – mi libera da tanha – e dall’angoscia del ripetuto fallimento: dukkha. E c’è sollievo in questo fermarsi, c’è pace, e grande intimità.

Istintivamente, non siamo portati a sentire il lasciar andare come qualcosa di rassicurante e non colleghiamo l’esperienza del flusso, del cambiamento, all’idea di rifugio. Per tutti noi che siamo stati bambini piccoli, rifugio vuol dire aggrapparci al petto della mamma, vuol dire calore, latte, piacere; toccare questo livello, lasciando andare l’illusione, è veramente bello, rende possibile la compassione.

Nel brano Pema Chodron dice che Alice si lascia cadere e poi, una volta arrivata in fondo, si ritrova in un posto nuovo. Non sempre ci apriamo con fiducia al processo, alla verità dell’impermanenza e della trasformazione. Allora la vita diventa lineare e ripetitiva – le preferenze, le gioie, i dolori – vado da qui a lì, sto quel tanto che basta a esaurire le mie solite reazioni e torno indietro. La vita nel samsara è assai ripetitiva. Se c’è l’andare a fondo, allora forse mi ritrovo in un posto nuovo. Possiamo vederlo nella pratica di oggi: come cambia l’esperienza e il significato del corpo avendo la pazienza e la costanza di lavorare col respiro, di donare attenzione, di stare. Ad esempio, lasciarsi cadere nell’esperienza della solidità, della densità o della resistenza, che a volte può essere piuttosto dolorosa. A volte incontriamo sensazioni non particolarmente piacevoli o un po’ inquietanti, o magari sono piacevoli ma siccome sono insolite possono lo stesso essere inquietanti. Ma avere la fiducia e la semplicità di lasciare che le cose facciano il loro corso, sapendo che ci si può ritrovare in un posto nuovo, con una nuova sensibilità, una nuova comprensione. La coltivazione del samadhi richiede questo tipo di fiducia per dare i suoi frutti. Un agio, sia pure embrionale, che genera più agio e gradualmente informa la presenza corporea.

Ma, oggi sono rilassata, domani posso essere tesa: allora ho fatto una fatica inutile? La mente è in pace e fra mezz’ora è piena di pensieri; oggi c’è raccoglimento, la mente è luminosa, e appena smetto quella serie di attività particolari che sostengono quello stato, questo si disgrega. Segno che qualcosa non va, che non pratico bene? Qui, diceva Ajahn Chah, lo scolaro riottoso deve imparare la lezione. La lezione è: questa mente non ti appartiene. La natura delle cose è incerta, non aggrapparti a nulla. Imparare la lezione e continuare a donare attenzione, lavorare a mettere insieme corpo e mente, renderli duttili ed espansi, sapendo che si possono contrarre e possono cambiare con il mutare delle condizioni. Questo è il rifugio trascendente, la retta visione trascendente. Con la capacità di abbandono ed equanimità che tipicamente comporta.

 

NOTE

1. Cfr. Majjhima Nikaya 117.

2. The Wisdom of No Escape, pag. 65; trad. mia.