L’avversione e la pratica del Dharma

CORRADO PENSA

A proposito di avversione e pratica del Dharma, mi sembra che un problema centrale sia questo, che spesso, pur essendo praticanti, non ci accorgiamo abbastanza di quale notevole spazio l’avversione occupi nelle nostre vite. Il che è un segno eloquente sia del potere, sia della elusività di tanta avversione. Magari abbiamo sviluppato una certa facilità a riconoscere-comprendere-lasciare andare certe forme acute di avversione, mentre però continuano a sfuggirci (e quindi continuano a dominarci) numerose altre forme di avversione: o perché di piccolo calibro, o perché di carattere complesso o perché col tempo sono diventate croniche e quindi particolarmente difficili da vedere. Inoltre, punto non meno importante riguardo all’elusività dell’avversione, può darsi che, malgrado la nostra pratica abbia già qualche anno, noi non abbiamo ancora percepito con chiarezza che qualsiasi nostra insoddisfazione può tramutarsi in avversione (verso altri o verso noi stessi), avversione che sarà foriera di ulteriore infelicità.

Tuttavia, se, nonostante queste difficoltà e questa cecità, la nostra pratica non viene meno, essa, gradualmente e naturalmente, ci porterà in contatto sia col vasto universo dell’avversione dentro di noi, sia con la nostra resistenza a coltivare la consapevolezza nei suoi confronti. Questo vero e proprio dono che la pratica ci offre rappresenta un passo fondamentale, poiché significa che ci stiamo aprendo un varco all’esperienza diretta dell’avversione e del nostro attaccamento-paura nei suoi riguardi.

Il secondo passo è quell’affinamento della consapevolezza che ci fa avvertire la sofferenza contenuta nell’avversione. E, in effetto, quanto più rivolgiamo la pratica all’avversione, tanto più perveniamo a sentire che la nostra avversione porta con sé sofferenza schietta e, non di rado, bruciante. Scopriamo, in preda a una mescolanza di sgomento e di interesse, che, di fatto, l’avversione è sofferenza. Questo secondo passo è un vero e proprio piccolo risveglio. Dopo avere visto (primo passo) il carattere pervasivo dell’avversione, adesso cominciamo a toccare con mano che avversione significa sempre sofferenza e separazione. Un altro contributo prezioso della pratica, se pensiamo a quanto l’io-mio sia nutrito di avversione e separatività.

Il terzo passo è un ulteriore piccolo risveglio e forse è anche quello che richiede più tempo per essere assimilato. Ci riferiamo alla comprensione diretta e intuitiva che l’avversione abita dentro di noi. Essa, cioè, non è creata da un agente esterno. La condizione esterna – un evento frustrante, una persona aggressiva – è semplicemente un catalizzatore. Invece il credere, come abitualmente facciamo, che quell’evento o quella persona sono la causa, la sorgente della nostra avversione è soltanto una dolorosa illusione. Per esempio, siamo in un negozio e la persona che ci precede è particolarmente lenta nelle sue scelte e nei suoi movimenti. Se diventiamo impazienti e pensiamo che la nostra impazienza sia generata da quella persona, noi siamo ingenui o meglio siamo vittime dell’ignoranza: non sappiamo che l’avversione è dentro di noi, pronta a manifestarsi appena sorgono le condizioni favorevoli, procurando sofferenza non necessaria e imprevedibile. E proprio questo non sapere, questo non conoscere veramente l’avversione (e l’attaccamento) fa parte di quella ignoranza (avijja), non a caso indicata dal Buddha come la causa-radice della sofferenza: è in forza di questa ignoranza, straordinariamente feconda, prospera e creativa, che noi coltiviamo con fedeltà e con tenacia l’avversione e l’attaccamento. Con il risultato – se non interviene un cammino interiore – di essere sempre più ingessati dentro l’avversione e l’attaccamento, nella convinzione che tutto ciò sia ‘la vita normale’.

Per cogliere il grande potere dell’avversione (o dell’attaccamento) è sufficiente osservare cosa accade allorché spunta una prima onda di avversione. La tendenza della mente ‘non lavorata’ è quella di ingrossare immediatamente e sollecitamente quell’onda, come se l’avversione fosse un’ovvia ricchezza da incrementare. Fortunatamente, grazie alla pratica, possiamo avvederci di questo potere straordinario degli inquinanti mentali. E se rendiamo questo potere l’oggetto della nostra consapevolezza e non già del nostro spavento o della nostra indifferenza, ciò prima o poi favorirà la nostra umiltà, che è poi la disposizione migliore per procedere nel lavoro interiore.

2. Abbiamo menzionato tre passi fondamentali per incontrare, riconoscere e trascendere l’avversione: la prima reale presa di contatto, la percezione della sofferenza intrinseca all’avversione, la comprensione intuitiva che l’avversione non è generata da fattori esterni ma è bensì una dimensione interiore, ed è oggetto per eccellenza del lavoro di purificazione. Il che, possiamo aggiungere, è una buona notizia, giacché se l’avversione fosse prodotta da agenti esterni, non ci sarebbe modo di porvi fine.

È possibile e desiderabile approdare a un quarto passo, il più arduo di tutti. Si tratta della coltivazione di una sincera gratitudine per tutto ciò che suscita la nostra avversione, che siano persone, eventi, situazioni. Per esempio, è grazie alla lentezza di quella persona nel negozio che la nostra impazienza è venuta fuori e che noi abbiamo avuto in tal modo la possibilità di riconoscerla, sperimentarla, comprenderla e lasciarla andare. Possiamo inoltre osservare che per ridurre seriamente il potere dell’impazienza abbiamo bisogno di molte occasioni di impazienza e delle persone che ce le forniscono. L’evidente difficoltà di questa specie di gratitudine sta nel suo essere del tutto controcorrente, anche se, dal punto di vista del lavoro interiore, essa è fondata su una logica ineccepibile. Personalmente sono contento di poter dire questo: quelle volte che mi è riuscito di avvertire anche soltanto un inizio di questo tipo di gratitudine, ho provato una indimenticabile impressione di libertà e di fiducia nel Dharma.

Quali i mezzi abili per lavorare sull’avversione?

a) La prima regola potrebbe formularsi così: "piccolo è utile". Ossia è particolarmente importante che i praticanti non si lascino sfuggire le piccole o piccolissime avversioni, dato che esse offrono occasioni di pratica relativamente facili e, insieme, del tutto convincenti. Naturalmente la condizione necessaria è quella di poter contare su una consapevolezza ben allenata. E, a questo proposito, notiamo come il beneficio di praticare la modalità meditativa chiamata ‘consapevolezza aperta’ vada ben oltre la meditazione seduta. Questa modalità, infatti, ci addestra a essere presenti il più possibile nei riguardi di tutto ciò che sorge nella mente, inclusi, evidentemente i moti di avversione. Diversamente, nell’ipotesi che fossimo interessati a un approccio esclusivamente concentrativo, potremmo ritrovarci facilmente (anche se non necessariamente) in una situazione molto paradossale, e cioè con la capacità di accedere a stati di tranquillità e di silenzio mentale da una parte, mentre, dall’altra parte, potremmo scoprire che tutto quanto disturba o contrasta quegli stati di pace suscita in noi risentimento e fastidio!

b) Dobbiamo tenere presente che il praticante incline ad avere poca stima di sé, scoprendosi molta più avversione di quanto immaginasse, potrebbe vedere in ciò una conferma alla propria tendenza all’autosvalutazione. E dunque in questo caso avremmo che il risultato della contemplazione dell’avversione sarà solo un aumento della medesima avversione. Torna alla mente una famosa immagine delle scritture: il Dharma male inteso è pericoloso, così come accade quando un serpente è preso nel modo sbagliato. Tuttavia a me sembra che, qualora ci sia un buon fondamento, non solo il pericolo di moltiplicare l’avversione viene meno, ma, al contrario, usciamo particolarmente arricchiti dal contatto meditativo con nostre aree difficili.

La chiave, appunto, è il ‘buon fondamento’, ossia un insieme di cose tra le quali spicca una buona conoscenza, attenta e convinta, dei principi del Dharma, la frequentazione di insegnanti che stimiamo, l’aver sviluppato una certa inclinazione a prendere rifugio nella consapevolezza e nell’apertura del cuore. Certo, a volte il buon fondamento può mancare o essere insufficiente, ora per carenze dell’insegnamento o dei centri di Dharma, ora, invece, per un fatto di ansia individuale: siamo insofferenti per tutto ciò che è preparazione e approccio graduale, vogliamo andare subito al sodo… e ci facciamo male. Dunque, il mezzo abile nel caso di cui stiamo parlando, sarà di accantonare momentaneamente il lavoro focalizzato sull’avversione e di curare, invece, il ‘fondamento’, con speciale riguardo alla pratica di metta e di karuna (benevolenza e compassione).

c) Un problema cruciale nel lavorare con l’avversione è, come molti praticanti sanno, l‘attaccamento all'avversione.

Il piacere connesso con gli oggetti sensoriali ha i suoi difetti, ma anche i suoi aspetti utili. E così le sensazioni, le percezioni, i pensieri e la coscienza hanno i loro aspetti utili. L’unica eccezione è la rabbia: non serve assolutamente a niente. È calda e brucia. Non piace a nessuno. Quando gli altri sono arrabbiati con noi, non ci piace. Quando siamo noi a essere arrabbiati con gli altri, questo a loro non piace. Eppure la nostra confusione è tale che siamo attaccati alla nostra rabbia.1

Tra le varie osservazioni che si possono fare su questo tipo di attaccamento, limitiamoci a sottolineare quella che sembra la più importante dal punto di vista della pratica: è a causa di questo attaccamento che non entriamo in contatto con l’avversione. Infatti l’attaccamento all’avversione ci fa indulgere nell’avversione, ci fa pensare fervidamente a essa, provoca insomma l’identificazione con l’avversione e tutto ciò ha per effetto di rendere insensibili e ciechi riguardo all’avversione: non la vediamo così com’è, non avvertiamo la sofferenza che accende e non incontriamo nemmeno quella parte di noi stessi che non la vuole.

È chiaro che qui il mezzo abile è rivolgere la consapevolezza non tanto all’avversione, quanto, piuttosto, all’attaccamento alla medesima. Sicché, in virtù del potere specifico della consapevolezza, cominceremo a lasciare andare questo attaccamento. Lasciare l’attaccamento all’avversione e aprirsi all’avversione è tutt’uno. Osserviamo che questo movimento di apertura è agli antipodi di ciò che facciamo abitualmente. Dunque aprirsi e cioè ascoltare con pienezza, in silenzio e senza resistenza la rabbia, l’impazienza, il giudicare amaro. Questa apertura è un moto di amicizia oltre che di coraggio. La regola che l’odio non si vince con l’odio bensì con l’amore è vera sia nella relazione con l’altro sia nella relazione con sé stessi. E dunque l’ascolto amichevole e sensibile della nostra avversione è la cura per eccellenza, non già l’aspra autocondanna.

È di grande importanza il toccare con mano personalmente, molte e molte volte, che l’aprirsi all’avversione è una buona esperienza. All’inizio ciò non sarà evidente, un po’ come quando si scioglie una tensione fisica cronica: sulle prime il beneficio di tale scioglimento è come soverchiato da una sensazione dolorosa. Successivamente, però, è il beneficio che verrà in primo piano. Un importante insight che può accompagnare questo lavoro d’apertura all’avversione è il rendersi conto del fatto che, per molto tempo, noi abbiamo letteralmente ‘dato il cuore’ alle nostre avversioni. Se pensiamo che ‘dare’ o ‘porre’ il cuore è il significato della parola saddha, fede, ci accorgiamo che abbiamo in sostanza riposto la nostra fiducia negli inquinanti, ossia nella causa della sofferenza. E non è dunque un caso se la sofferenza, così fedelmente perseguita, abbia continuato a fiorire nelle nostre vite.

Un’ultima osservazione. Questo insight, questa comprensione intuitiva del nostro errore fondamentale (o ignoranza) ossia del perseguire ciò che nuoce invece di ciò che giova, deve in primo luogo stabilizzarsi e radicarsi in noi. In secondo luogo esso deve progressivamente e luminosamente raffinarsi, pervenendo ad applicarsi con facilità a qualsiasi increspatura di avversione e aprendoci così a quella pace profonda il cui richiamo coglie sempre più spesso chi pratica con fiducia.

Note

1. Ajahn Khamdee Pabhaso, Making the Dharmma Your Own, ms. p.5. (reperibile presso il Barre Center for Buddhist Studies, Barre. Mass. 01005, USA).