Devi dire qualcosa. Manifestare l’intuizione Zen.

Dainin Katagiri. Ubaldini Editore, Roma 2000, pp. 143, L. 26.000.

Shunryu Suzuki-roshi, un illustre maestro Zen giapponese, appartenente alla scuola Soto, andò a San Francisco nel 1959, quando aveva 54 anni. Impressionato dalla serietà con cui molti occidentali si dedicavano allo Zen, decise di stabilirsi là in via definitiva. Poiché sempre più persone si univano a lui nella meditazione, si costituì lo Zen Center di San Francisco, di cui egli divenne l’abate. Suzuki-roshi fu un maestro eccezionalmente influente (il suo famoso Mente Zen, mente di principiante è stato pubblicato in Italia da Ubaldini). Morì nel 1971. Il secondo abate del Centro fu, dal 1971 al 1983, anno in cui abbandonò l’incarico, Zentatsu Richard Baker-roshi. Quest’ultimo fu sostituito da Dainin Katagiri-roshi. In precedenza Katagiri aveva studiato nel monastero di Eiheiji Monastery e lavorato presso il Soto Propagation and Research Institute e quindi per il Soto Headquarters Office a Tokyo. Egli giunse negli Stati Uniti nel 1963. Qui, dopo aver insegnato a Los Angeles, raggiunse lo Zen Center di San Francisco, dove fu assistente di Suzuki-roshi (il libro di David Chadwick Cetriolo storto. La vita e l’insegnamento zen di Shunryu Suzuki-roshi, recentemente pubblicato da Ubaldini, non manca di trattare i rapporti tra i due roshi, a volte non semplici, come è testimoniato da una lunga intervista a Tomoe Katagiri, moglie di Dainin). Nel 1982 Katagiri-roshi divenne il primo abate dello Zen Meditation Center del Minnesota, a Minneapolis. Ritornò poi come abate a San Francisco, tra il 1984 e il 1985, e poi fu di nuovo a Minneapolis. È morto nel 1990.

Devi dire qualcosa è una raccolta di discorsi di Dharma di Katagiri-roshi (anche il suo primo libro, Ritorno al silenzio, è stato tradotto in italiano e pubblicato da Ubaldini). Qui ritroviamo quella semplicità profonda (eredità della scuola Soto) unita a un’abilità nei mezzi dell’insegnamento, che era già caratteristica di Suzuki-roshi. Uno dei punti centrali dell’insegnamento di Katagiri-roshi è costituito dall’affermazione che le questioni circa la possibilità di raggiungere l’illuminazione ("di divenire buddha"), sono assolutamente superflue: queste rientrano nel campo di una continua speculazione su se stessi e di un autoriferimento che usualmente impregnano di sofferenza la vita umana e che, nonostante le apparenze, non ne sono parte essenziale. La buddhità non è tanto qualcosa che si possa raggiungere, quanto la risoluzione di praticare qui e ora. Il significato più pieno di pratica non consiste solo nel sedere in meditazione, ma soprattutto nel dedicarsi con tutto il cuore a ciò che si sta facendo in ogni istante. Afferma Katagiri-roshi: "Tutte le cose si fondono in un evento singolo chiamato ‘questo istante’". (p. 68) E ancora: "Tutto quello che possiamo fare è entrare in contatto continuamente con questo preciso momento con il cuore puro". (p. 107) Sebbene questa formulazione sia semplice, questo non significa che la pratica relativa sia agevole: "Fondersi con lo zazen [ossia con il momento presente] non è facile: richiede una forte determinazione. In altre parole nello zazen dovete gettar via completamente voi stessi". (p. 60) Fusione con lo zazen significa congiungimento con la realtà che si vive ogni giorno, momento per momento, che di per sé è completamente al di là di ragione, analisi e riflessione. Il mondo che esiste prima della concettualizzazione è un mondo d’unità, totalmente inconcepibile, non esprimibile a parole. Qui, afferma Katagiri-roshi, è la sola pace possibile. Questo mondo ineffabile può essere dal maestro solo additato, o fatto intravedere dall’arte (superfluo ricordare l’importanza che lo Zen ha nella storia dell’arte giapponese); ecco perché "dietro la poesia c’è qualcosa che ci fa provare sollievo". (p. 111) Se da una parte categorie e analisi concettuale ci impediscono la visione del mondo come realmente è, dall’altra questo riconoscimento non è ancora abbastanza. Nel Dharma la saggezza non può essere separata dalla compassione. "Ecco perché il maestro Zen deve parlare". (p. 126) L’arte Zen e l’insegnamento dello zazen sono simili: ambedue sono manifestazioni di compassione, concepite precisamente per ridestarci alla percezione diretta, la quale è in realtà sempre in atto, ma come obnubilata dalle mappe concettuali e dall’incessante riflessione su se stessi.

BRUNO LO TURCO

  

Non lasciarti andare.

Pema Chödrön. Armenia, Milano 1999, pp. 224, L. 25.000.

Quando le cose vanno in pezzi è il titolo originale di questo libro di Pema Chödrön, ed è curioso che l’editore italiano abbia scelto di contraddire il messaggio fondamentale di questa insegnante che si propone di scuotere la nostra pigrizia e le nostre sicurezze con il pressante invito a lasciarsi andare – appunto – a mollare la presa, ad abbandonarsi al flusso mutevole della vita.

Allieva di Trungpa Rimpoche e direttrice del monastero di Gambo, in Canada, Pema Chödrön delinea un percorso spirituale che prende come punto di partenza proprio quegli aspetti della vita che sembrano essere i più duri e difficili, quelli nei quali ci ritroviamo a perdere ogni punto di riferimento, a toccare il nostro limite. Tutto si sfalda, ma "quando non si ha luogo alcuno dove fuggire, le cose si fanno assolutamente chiare". (p. 15) "Lo smarrimento e la perdita di ogni certezza e riparo è insieme una sorta di prova e una sorta di guarigione… La soluzione, ciò che davvero può risanarci, deriva dal lasciare che tutto possa accadere, che ci sia la possibilità perché si abbiano dolore e sollievo, miseria, pena e gioia". (p. 25)

Non si tratta di risolvere i nostri problemi, non serve cercare di evitare la sofferenza ed evadere dalle nostre angosce: quello di cui abbiamo bisogno è cambiare completamente il nostro rapporto con la realtà, mettere in discussione ogni nostro punto fermo.

Pema Chödrön ci parla della paura e ci invita a fare amicizia con i nostri demoni. Secondo i suoi insegnamenti la situazione ideale per aprire il nostro cuore e la nostra mente è proprio quella in cui il nostro io vacilla e tutto intorno a noi si muove e cambia. Perdiamo il controllo e a questo punto, invece di aggrapparci a false sicurezze, possiamo imparare a restare nella precarietà e nel dolore, senza ritrarci e senza cadere nel panico.

Questa è la via del guerriero spirituale, e la meditazione ne è il fondamento. Con la meditazione possiamo imparare ad assumere un atteggiamento corretti nei confronti di tutto ciò che si manifesta nella nostra vita, rinunciando a cercare di controllare la realtà, quello che non possiamo prevedere e gestire. Per addestrarci a questo ogni momento è la guida perfetta, il nostro autentico maestro.

Centrale nel discorso di Pema Chödrön è il rendersi conto della necessità di rinunciare alla speranza di eliminare l’incertezza e il dolore dalle nostre vite: "Rivolgere la mente al Dharma non conduce a sicurezze e conferme; rivolgere la mente al Dharma non porta ad alcun territorio dove sentirsi al sicuro. In realtà, quando di rivolge la mente al Dharma si arriva a riconoscere senza più paure la mutabilità e il cambiamento, iniziando così a farsi più consapevoli e capaci di muoversi nella disperazione". (p. 70) Da questa condizione "disperata", possiamo accostarci agli insegnamenti del Dharma "senza illusioni". Il motto che propone, "liberiamoci dalla speranza", è l’esortazione ad assumere un atteggiamento radicale, rinunciando a risultati di immediata gratificazione perché la via è già in sé la meta del nostro cammino.

Dunque, le uniche certezze assolute della nostra esistenza, come più di una volta Pema Chödrön sottolinea, sono labilità, dolore e assenza di una identità definita. In tutto questo, noi possiamo fare la diretta esperienza che la nostra fondamentale condizione è la gioia piena. Superando il dualismo arriviamo a cogliere la vita nella sua interezza.

Questo libro è un potente invito a meditare perché riesce, con semplicità e passione, a farci comprendere cosa la meditazione può fare di noi e per noi.

Ma il lavoro che inizia da noi stessi si irradia, sviluppando comprensione, tolleranza nei confronti degli altri. Il nostro orizzonte si allarga: l’esperienza del nostro personale dolore, affrontata senza fughe e senza avversione, è il fondamento per la comprensione del dolore degli altri e il punto di partenza per un agire compassionevole e generoso. Allentare la morsa del nostro io, limitato e limitante, ci apre a quella che è la nostra naturale bontà (la nostra vera natura, la natura del Buddha dentro di noi). "Questo processo è quello che ci permette di approdare all’esito finale – non fare del male – in cui risiede l’essenza del nostro benessere fisico, l’essenza del nostro pensiero e della nostra parola". (p. 65)

In questa prospettiva Pema Chödrön propone quello che chiama "l’addestramento del bodhisattva", colui che, nella tradizione Mahayana, ha dedicato la propria vita all’altruismo e alla comprensione e che lei definisce anche il "servitore della pace". I metodi di questo addestramento sono la meditazione, la pratica tibetana del tonglen e l’esercizio delle parami.

Con il tonglen (pratica del dare e del ricevere) impariamo a non avere paura del dolore, facendo proprio quello degli altri e, insieme, cercando di diffondere intorno a noi pace e serenità. Questo serve a risvegliare in noi la bodhicitta, la mente dell’illuminazione, la motivazione altruistica capace di portare all’esterno gli effetti della nostra pratica spirituale. "Quando scopriamo il Buddha che siamo, ci rendiamo conto che ogni cosa e ogni essere umano è Buddha. Scopriamo che ogni cosa possiede consapevolezza, e che ogni essere umano ha una coscienza. Ogni cosa è allo stesso modo preziosa, e buona e completa in sé, e ogni persona è allo stesso modo preziosa, e buona e in sé completa". (p. 125)

Pema Chödrön ci invita a portare gli insegnamenti dei maestri nella nostra vita quotidiana ma si rende conto della tensione che esiste tra le nostre aspirazioni e quello che, concretamente, ci troviamo a vivere. Occorre perciò uno sforzo costante e disciplinato, nutrito di tenerezza nei nostri propri confronti; una pratica che sappia usare le circostanze difficili come vie per l’illuminazione e la gioia. Partire dal mondo in cui ci troviamo e dalle persone che siamo, con profonda accettazione di noi stessi e delle circostanze. Esserci per gli altri, in uno spazio aperto, non limitato dalla nostra personale visione della realtà; rilassarci e stare dentro la nostra esperienza. Sperimentare.

L’atteggiamento della meditazione deve diffondersi a ogni aspetto della nostra vita. "Rendete personale il Dharma", dice Pema Chödrön, e conclude: "… tutto ciò che ci si presenta va considerato come la via e… tutte le cose, non solo alcune, possono essere il punto di partenza su cui operare. Il messaggio è una dichiarazione priva di paura di quello che è possibile fare per gente normale, come voi e come me". (p. 223)

ELENA RAFANELLI

  

La meditazione per i bambini.

David Fontana e Ingrid Slack. Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma 1999, pp. 178, L. 30.000.

"Come si fa a immaginare che dei bambini pieni di vita se ne stiano seduti tranquilli e con gli occhi chiusi e che per giunta trovino la cosa piacevole?". Gli autori del manuale riconoscono che è difficile ipotizzare una cosa del genere. Eppure, attraverso il racconto di numerosi esempi concreti di bambini alle prese con la meditazione, pian piano essi riescono a ridurre la perplessità e i pregiudizi sul tema da parte del lettore. Soprende infatti, leggendone i resoconti, la risposta molto positiva di un buon numero di ragazzi (il testo si rivolge all’insegnamento di ragazzi dai 4 anni fino alla tarda adolescenza).

Con il diffondersi in Occidente delle pratiche meditative cresce sempre più il numero dei genitori che vorrebbero condividere con i propri figli questa esperienza. Cosa tuttavia difficile a causa del contesto sociale, profondamente distante dai valori spirituali, in cui comunque vivono i propri figli. Proporre di fare insieme la seduta a bambini distratti da cartoni animati, videogames e mode che cambiano a ritmo incalzante può sembrare un’impresa a dir poco utopistica. Né è pensabile esercitare forzature più o meno velate in un campo dove la motivazione è alla base di tutto il sentiero.

Ecco perciò questo libro, un vero e proprio manuale per educatori e genitori che vogliono insegnare la meditazione ai bambini.

Nella prima parte viene affrontata la questione di fondo, cioè del perché meditare con i bambini. Vengono sfatati implacabilmente i luoghi comuni che vogliono i bambini esenti dalle angosce e dalla sofferenza propria degli adulti. E, proprio come per gli adulti, sia pure con tempi e modi diversi, la meditazione viene proposta come valida medicina.

Successivamente vengono descritti dettagliatamente diversi aspetti pratici, quali la preparazione teorica dei ragazzi, la scelta e la sistemazione del luogo, la risposta alle domande più frequenti, la scelta e la durata degli esercizi a seconda delle diverse fasce d’età. Un accento particolare viene posto sull’assoluta libertà che deve essere lasciata ai bambini di scegliere se partecipare o meno alla meditazione, dal momento che, come accade agli adulti, anche alcuni bambini possono non provare interesse per essa. Nondimeno vengono suggerite strategie per incoraggiare a provare a meditare almeno per un periodo.

Interessanti anche i consigli agli insegnanti sul come gestire le situazioni – frequenti all’inizio – in cui i bambini, soprattutto i più piccoli, disturbano i compagni durante la seduta. Viene proposto e spiegato il metodo dell’‘autoesclusione’, secondo il quale è il bambino stesso che, una volta allontanato, decide quando può partecipare di nuovo.

Nella maggior parte dei casi, secondo gli autori, è più utile proporre la meditazione nella sua forma più scarna e ‘laica’ possibile, alla stregua di esercizi di rilassamento e di potenziamento delle proprie facoltà mentali. Senza nascondere, per chi ne ha l’inclinazione, gli aspetti più propriamente spirituali, di apertura al mistero.

Vengono proposti fondamentalmente gli stessi esercizi praticati dagli adulti, quali la consapevolezza del respiro, il ’contare’ il respiro, la meditazione camminata, la metta, alcuni esercizi di visualizzazione.

L’utilità del testo, perciò, non è tanto negli esercizi proposti quanto nei numerosi consigli per così dire ’accessori’, quali la durata delle diverse pratiche meditative, la risposta alle difficoltà che possono presentarsi, la capacità di elogiare ugualmente tutti i bambini scoraggiando la facile tendenza al confronto, e così via. Dalla lettura delle diverse strategie e consigli resta tuttavia la convinzione che, in fondo, l’abilità nell’insegnamento della meditazione ai bambini è soprattutto un’arte, per la quale oltre al proprio cammino spirituale e ad alcune conoscenze tecniche deve concorrere un qualcosa di non facilmente acquisibile dai libri.

ROBERTO LUONGO