Equanimità e fiducia

CORRADO PENSA

 

L’equanimità è l’opposto dell’attaccamento, è non-attaccamento. È una dimensione determinante del sentiero interiore. Ovviamente, esistono diversi gradi di equanimità, ma anche un’aspirazione, una sincera aspirazione verso di essa è già un inizio di vera equanimità. Dunque, l’equanimità è l’anima del lavoro interiore, il cuore del sentiero, il cuore della realizzazione e dell’adempimento. L’equanimità è l’anima della presenza mentale che chiamiamo consapevolezza non-giudicante, cioè una consapevolezza che tende all’equanimità. L’equanimità è il cuore della saggezza, non si può guardare in profondità senza l’intimo equilibrio dell’equanimità. E l’equanimità è anche il nucleo più profondo dell’amore, della compassione, della gioia empatica.

Nell’insegnamento delle quattro dimore sublimi: metta, gentilezza amorevole; karuna, compassione; mudita, gioia empatica; upekkha, equanimità, l’equanimità viene per ultima, è l’ultima ad essere insegnata, come per evidenziare che gli stati che la precedono, la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia empatica, non sono autentici se sono privi di equanimità.

Se è assente l’equanimità, può un sentimento di amorevole gentilezza essere davvero incondizionato e privo di riserve? È impossibile. Non sarebbe equilibrato. Si tratterebbe di una preferenza e non dell’apertura cui si allude parlando di gentilezza amorevole incondizionata. Non possiamo nemmeno essere sinceramente compassionevoli, se al cuore della nostra compassione non c’è una reale presenza di equanimità. Saremmo identificati con la sofferenza, proveremmo dispiacere, amarezza, cordoglio, commiserazione, ma tutto ciò non è compassione. La compassione è una grande forza, perché è una combinazione di tenerezza e di stabilità, la stabilità che proviene dall’equanimità.

Ci si può accostare all’equanimità attraverso tre stadi, ma ogni stadio può anche essere praticato separatamente.

Il primo stadio riguarda la fiducia e la sfiducia. Se verifichiamo che c’è molto scoraggiamento, molta sfiducia in noi stessi, o una tendenza generalizzata alla sfiducia, è importante prima di tutto prenderci cura di questi sentimenti, perché, per praticare l’equanimità, per generare equanimità, per svilupparla, abbiamo bisogno di una base di fiducia, altrimenti risulta impossibile. Dunque, ci proponiamo di osservare con gentilezza le onde di sfiducia, le onde di scoraggiamento, che generano squilibrio e disorientamento, e minano la nostra motivazione. Dobbiamo prenderci cura di queste onde di sfiducia, di autosvalutazione, di scoraggiamento e per prima cosa praticare la vipassana. Percepiamo con gentilezza e, se possibile, con tenerezza, la qualità di quest’onda di sfiducia, cerchiamo veramente di incontrarla e di osservarla gentilmente. È una cosa che facciamo raramente e alla quale non siamo affatto allenati. O ci lasciamo sommergere dallo scoraggiamento e dalla sfiducia o cerchiamo di respingerla e non di osservarla; mentre invece, nella nostra pratica, è essenziale entrare in contatto, in intimità, con questi sentimenti, lavorando seriamente a cambiare il nostro atteggiamento. Anziché rammaricarci di essere scoraggiati, anziché biasimarci per il nostro scoraggiamento, ci dedichiamo a osservare con gentilezza queste onde. E non dobbiamo esitare a infondere quanta più gentilezza possiamo, a insinuare un tocco delicato, lieve, tenero.

È un atteggiamento completamente diverso di fronte alla sfiducia e allo scoraggiamento, un atteggiamento che scardina alle radici l’identificazione, ossia la nostra radicata tendenza a credere ciecamente ai pensieri e alle conclusioni della sfiducia e dello scoraggiamento.

Dunque, io trovo che questo sia un lavoro essenziale, se vogliamo costruire fondamenta che ci permettano di lavorare fruttuosamente allo sviluppo dell’equanimità. Infatti, quando attivamente abbracciamo lo scoraggiamento e la fiducia, succede che, almeno in parte, essi perdano il potere che hanno su di noi. Ci sentiamo più liberi, anche se forse le onde di scoraggiamento ci fanno ancora male. Tuttavia avvertiamo che ora possiamo intraprendere il cammino per sviluppare l’equanimità.

Passiamo ora a quello che potremmo chiamare il secondo stadio, ma che può anche essere il primo, se non dobbiamo lavorare preliminarmente allo scoraggiamento e alla sfiducia. Il secondo stadio consiste nel portare la nostra capacità di un’osservazione sempre più salda, sempre più gentile, su qualsiasi reattività, su qualsiasi atteggiamento opposto all’equanimità, su qualsiasi momento di avversione o di attaccamento. Talvolta, viene usato il termine ‘egoità’, per sottolineare che il lavoro consiste nell’imparare ad osservare, sempre di più, in modo sempre più accurato, e sempre più disteso, il sorgere dell’io-mio, che è pura pratica di vipassana, e la pratica di vipassana è pratica di equanimità.

Se lavoriamo in questo modo, rivolgiamo la nostra attenzione non-violenta in particolare all’area della reattività, che è chiamata ‘il nemico lontano’, il nemico antitetico dell’equanimità. Ma rivolgiamo l’osservazione anche a ogni forma di indifferenza, che è tradizionalmente chiamata ‘il nemico prossimo’ dell’equanimità, ricordandoci che l’indifferenza è un indurimento, un’avversione congelata e ricordandoci che, non di rado, per lavorare con l’indifferenza è necessaria una buona capacità di investigazione.

Un’accresciuta energia investe la nostra motivazione, il nostro impegno, allorché cominciamo ad assaporare momenti di vera equanimità, allorché cominciamo a gustare la qualità speciale di libertà che si accompagna all’equanimità. Si tratta di un primo assaggio della nostra libertà interiore, che non dipende dalle condizioni esterne. È un profondissimo sollievo quando cominciamo ad assaporarla e la nostra motivazione per la pratica del Dharma cresce straordinariamente.

Più lavoriamo allo sviluppo dell’equanimità, e più la parola ‘rilassamento’ acquista un significato più vasto. Comprendiamo cosa possa essere un totale rilassamento, anche se solo per pochi istanti, perché in generale pensiamo al rilassamento come a un fenomeno fisico, ma il rilassamento può essere sia fisico sia mentale. E può essere talora un’intuizione improvvisa e dirompente, perché forse siamo stati contratti senza saperlo, per un’intera vita. E quando cominciamo di nuovo a gustare qualche momento di vera distensione mentale, che significa l’aprirsi del cuore, la forza di questa sensazione di sollievo ci fa letteralmente trasalire.

Ci accorgiamo, allora, di quanta sofferenza crei la reattività, e più ce ne accorgiamo e più diventiamo non-reattivi. Continuiamo, ogni volta di più, a verificare la qualità separativa della reattività e generiamo quello che in questa tradizione è chiamato ‘sereno disincanto’. Siamo sempre meno sedotti dalla nostra reattività. Diventiamo più sereni. Sereno disincanto: meno ipnotizzati dall’io-mio.

Quello che chiamo il terzo stadio è la pratica specifica del brahmavihara, basata sul pronunciare alcune frasi, come negli altri brahmavihara. Secondo la tradizione buddhista, quando si pratica upekkha, l’equanimità, si porta alla mente qualcuno o se stessi e si pronuncia la frase: "La tua felicità o infelicità non dipendono dai miei auspici, ma dalle tue intenzioni e dalle tue azioni".

Dunque, noi auguriamo di cuore qualcosa a qualcuno, ma dobbiamo anche avere la saggezza per comprendere che il nostro controllo sulle cose è molto limitato. E in questo consiste l’equilibrio di upekkha, l’equilibrio dell’equanimità.

Possiamo anche usare un genere di frasi diverso, purché abbia la stessa forza evocativa di equanimità. Possiamo pronunciare le frasi: "Che tu possa accettare le cose così come sono, che tu possa accettare te stesso così come sei. Che io possa accettarti così come sei. Che io possa accettare me stesso così come sono".

Il Buddha ha spesso sottolineato la forza di un’intenzione chiara. Queste frasi sono la formulazione di intenzioni chiare. La pratica dei brahmavihara, in questo caso la pratica di upekkha, dell’equanimità, è basata sull’attenta ripetizione di una, due o tre di queste frasi. Si tratta di concentrarsi sulla ripetizione, la lenta e attenta ripetizione di queste frasi colme di significato e di sostituire, sempre e di nuovo, alle proprie proliferazioni queste chiare e positive intenzioni.

Si può praticare upekkha durante una seduta di meditazione, seguendo una sequenza: si inizia da una persona neutra. "Che tu possa accettare le cose così come sono. Che tu possa accettare te stesso così come sei. Che io possa accettarti così come sei".

Si prosegue quindi con un benefattore, una persona cara, sé stessi, una persona con cui si è in difficoltà, tutti gli esseri.

Si può praticare in modo formale, durante una seduta, o si può praticare in azione e io personalmente raccomando vivamente la pratica in azione, in aggiunta alla pratica formale. Nell’ambito dei corsi di meditazione abbiamo sperimentato la pratica dell’equanimità nell’azione, ed è risultato estremamente utile, nel corso delle nostre giornate più o meno affaccendate, tornare a quelle frasi: "Che io possa accettarti così come sei. Che io possa accettarmi così come sono".

Accettare quello che c’è così com’è è una saggia rinuncia a ciò che non c’è. Dunque, l’accettazione, il lasciar andare, la saggezza, la compassione, non sono che diverse facce della stessa cosa. C’è una qualità particolarmente lenitiva, non solo in uno stato mentale di equanimità pienamente sbocciata, ma, come già si diceva, anche in una tranquilla aspirazione all’equanimità. È curativa, è lenitiva, perché è un bisogno che costantemente reprimiamo, che costantemente soffochiamo. E quando cominciamo a prenderci cura di questo bisogno, cominciamo a respirare, veramente.

Il potenziale è all’interno, il potenziale è dentro di noi, e vuole essere sviluppato, ci prega di essere sviluppato. È la nostra natura. La nostra vera natura. E uno dei miracoli della pratica è che ci risvegliamo sempre di più a questo potenziale che già possediamo e che ci chiede di essere sviluppato.

Dunque, che noi tutti si possa accettare noi stessi così come siamo, che possiamo accettare gli altri così come sono. Che tutti gli esseri possano accettare se stessi e gli altri esseri così come sono.