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Anno 2 Numero 68 Mercoledì 23.07.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati

 

Eutanasia e principio di santità della vita 

 

di Anna Maria Daniele

 

Il termine eutanasia deriva dal greco: “eu”= “bene” e “thanatos” = “ morte”. Significa, infatti, buona morte o dolce morte o morte senza dolore. Essa si può manifestare in forma collettivistica e individualistica. L’eutanasia collettivistica indica tutti quei casi in cui miglioramenti della razza di un popolo o motivi di risparmio di risorse della società impongono l’eliminazione di individui malati e difformi. Tale tipo di eutanasia è assolutamente vietata per ragioni su cui mi sembra inutile e superfluo soffermarmi. La seconda, quella individualistica, può essere “passiva”, come mera interruzione del trattamento terapeutico o “attiva”, come interruzione della vita di un paziente mediante un comportamento attivo. L’individualistica passiva, ove abbia carattere consensuale, è ritenuta lecita. Il consenso deve avere per oggetto una precisa ed espressa volontà di non essere curato. La mancanza del consenso, nonostante il dato certo dell’incurabilità della malattia, fa permanere in capo al medico il dovere di curare il paziente. Nel caso di eutanasia attiva le cose diventano più complesse. Non è consentita, infatti, sia se effettuata con consenso, sia senza. In quest’ultimo caso, invero, si tratterebbe di un vero e proprio omicidio. Anche il consenso prestato non escluderebbe il reato; si applicherebbero in questo caso norme che disciplinano e l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicida. Entrambi i casi, eutanasia attiva e passiva, si sono venuti a prospettare dinanzi alla Corte Europea Dei Diritti Dell’Uomo (Tribunale Internazionale istituito con la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà Fondamentali). A breve distanza, in Inghilterra, dinanzi al tribunale sono stati presentati da due donne, entrambe tetraplegiche, cioè immobilizzate dal collo in giù, ricorsi aventi ad oggetto la richiesta, appunto, alla Corte di consentire loro la pratica dell’eutanasia. Ma, mentre, in un caso, la donna era tenuta in vita da un sistema di ventilazione artificiale, nell’altro la donna era immobilizzata (non tenuta i vita artificialmente) da una malattia progressiva delle cellule motorie del sistema nervoso centrale che, l’avrebbero presto portata ad una morte dolorosissima. È chiaro che il primo casi rientra, appunto, in quello di eutanasia passiva. Infatti, la donna aveva chiesto di spegnere il ventilatore e di non continuare le terapie dimostrate inutile e atte solo a prolungare l’agonia. Voleva quindi evitare il c.d.” accanimento terapeutico”. In questo caso, la risposta della Corte non poteva che essere positiva, alla luce soprattutto della diagnosi affermativa sulla capacità di intendere e volere della stessa. Viceversa, l’esito dell’altro caso; la ricorrente in questione, infatti, chiedeva l’immunità del marito che l’avesse assistita attivamente nel commettere il suicidio che ella a causa della sua invalidità non poteva commettere. Si trattava quindi di un’evidente caso di eutanasia attiva. La Corte inglese ebbe a questa richiesta risposta negativa. Non avendo avuto soluzione positiva alla sua richiesta, la ricorrente si è rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in base al fatto che il negato consenso della Corte inglese violasse diversi diritti umani; quali il diritto alla vita, il diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti, il diritto alla vita privata, alla libertà di pensiero e a non subire discriminazioni. Anche la Corte Europea, però, ha ritenuto che il divieto penalmente rilevante di suicidio assistito non trasgrediva ad alcuno di questi diritti. Non violava, infatti, il diritto alla vita in quanto quest’ultimo non implicherebbe, invero, anche il diritto diametralmente opposto del diritto alla morte. Non è, infatti, questo un diritto paragonabile al diritto di associazione che ha in sé, sia il diritto di associarsi, sia quello di non farlo. Né, tanto meno, dalla norma che stabiliva il diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti potrebbe derivare una richiesta legittima a che lo Stato approvi azioni dirette a porre termine alla morte. Al massimo, si potrebbe pretendere dalla Stato l’attenuazione del danno attraverso una prevenzione dei maltrattamenti da parte di pubblici poteri e privati o la predisposizione di migliori trattamenti. Soluzioni queste non oggetto della pretesa dell’assistita. Per quanto riguarda l’invasione alla sfera personale da parte dello stato che impone questi vincoli, la Corte non si è pronunciata a riguardo. La Stessa ha, invece, spostato le argomentazioni sul bilanciamento tra il principio della santità della vita e il principio di autodeterminazione sulla facoltà di poter decidere del proprio corpo. È indubbio che la Stato interferisca nella sfera privata delle persone, sostiene la Corte, ma lo Stesso non può prescindere dal fatto che il primo principio fa sì che la legge si adoperi per la protezione di soggetti più deboli e quindi più soggetti ad abusi, come, appunto, i malati terminali. Quest’ultimo concetto si ricollega a quello del diritto a non essere discriminati. Secondo la ricorrente, infatti, non tutti quelli che decidono di ricorrere al suicidio attivo o passivo sono definibili vulnerabili e, quindi, sottoponibili ad un trattamento differenziato. La Corte ha ritenuto che la difficoltà di valutare l’esistenza di una debolezza o addirittura il grado di intensità della stessa, comporta questo tipo di scelte generalizzate. Molti dei malati terminali sono vulnerabili ed è questa vulnerabilità che pone tale divieto. Questo perché la legalizzazione dell’eutanasia volontaria potrebbe con molta probabilità portare alla pratica di quella involontaria. Per concludere, la Corte poi argomenta che la richiesta della ricorrente è estranea a ogni credo e professione religiosa, per cui la stessa non può appellarsi al principio di libertà del pensiero. È questo, quello dell’eutanasia, un argomento estremamente complesso e tragicamente vero e presente. La difficoltà di definizione deriva soprattutto dal fatto che sono argomenti che toccano corde sconosciute e incontrollabili del vivere umano. Una mia opinione personalissima è che applicare in casi come queste regole troppo generalizzate e meccanismi automatici non è la soluzione più idonea. Né, tanto meno, penso che la legalizzazione regolamentata di una simile pratica sia fonte di degradazioni del sistema. Credo invece che un sistema di norme puntuali e indirizzate a professionisti, quali i medici, porterebbe alla realizzazione di un più alto livello (non è un eufemismo!) della qualità della vita. Mi spiego: passare gli ultimi momenti della propria vita in uno stato agonizzante, capace di toglierti gli ultimi afflati di dignità, per tenere fermi il principio di santità della vita, non è più giusto che interrompere la vita quando si è ancora lucidi e consapevoli della propria fine inevitabile. A ben vedere, però, quello che non è giusto, prima di ogni altra cosa, è pensare che un uomo possa decidere della vita o della morte di un altro uomo.

 


 

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