Anno 2 Numero 67 Mercoledì 16.07.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati

 

Quello che l’Europa dice e quello che l’Italia fa (o non fa): vizi privati e pubbliche virtù

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Il WWF chiede al Governo Italiano, ed in particolare al Presidente Berlusconi, una particolare assunzione di responsabilità sui temi della politica ambientale. Innanzi tutto un preciso impegno sul protocollo di Kyoto che posizioni l’Europa come leader mondiale per garantire l’applicazione delle misure necessarie per rallentare e fermare quell’effetto serra che sta sconvolgendo i cicli climatici del pianeta con effetti devastanti sugli ecosistemi. Un preciso impegno anche sull’acqua, una risorsa che viene spesso sprecata o malamente utilizzata quando potrebbe essere ben risparmiata ad esempio finanziando ed utilizzando tecnologie differenti in agricoltura. Un impegno sulla chimica affinché la nuova Direttiva sia davvero efficace per l’eliminazione progressiva e definitiva delle sostanze tossiche, organiche e persistenti, e perché pienamente affermato il diritto dei consumatori a una piena conoscenza dei contenuti chimici dei prodotti. Ma soprattutto un impegno di garanzie per quel processo di nuova infrastrutturazione che si intende proporre all’Europa quale ricetta per il rilancio economico ed occupazionale: questo non può avvenire al di fuori di una puntuale applicazione delle direttive in materia di valutazione d’impatto ambientale e non può essere realizzato al di fuori di una dimostrabile scala di priorità. 

Le prime dichiarazioni europeiste del Governo Italiano sono state certamente interessanti ed il WWF ha apprezzato un approccio più cauto e più consapevole della normativa internazionale che è stato espresso in particolare dal Ministero dell’Ambiente. Va però rilevato che a fronte di questo l’Italia attualmente sta vivendo una profonda contraddizione poiché molte scelte in campo ambientale del Governo Berlusconi sono in rotta di collisione con le direttive, le convenzioni e le indicazioni comunitarie. Molti i casi che si potrebbero fare, ed ormai sono diverse decine le procedure di infrazione che sono state aperte nei confronti del nostro Paese, ma sette sono i casi che si possono definire eclatanti. Sette casi che costituiscono una sorta di vizi privati, cioè italiani, rispetto a pubbliche virtù, cioè rispetto alle dichiarazioni di ottemperanza alle direttive comunitarie ed internazionali che sempre come Governo italiano facciamo.

Clima ed energia

In Europa

Dopo la ratifica del Protocollo di Kyoto da parte dell’Unione Europea, e dopo che alcuni Paesi (Germania, Gran Bretagna, Olanda) hanno già espresso un orientamento ad obiettivi del 20-40% di riduzione delle emissioni di gas serra al 2020, del 40-60% al 2030 e dell’80% al 2040, il “Vecchio Continente” si trova ad esprimere alcune delle posizioni più avanzate al mondo nella lotta contro i cambiamenti climatici. E’ dunque necessario che la Presidenza Italiana confermi, come già annunciato, con decisione questo ruolo attraverso la promozione di coerenti politiche internazionali tese in primo luogo all’allargamento dei Paesi che ratificano il Protocollo. Questo significa operare una forte azione diplomatica nei confronti della Russia (la cui ratifica determinerebbe l’effettiva entrata in vigore del Protocollo) e, in prospettiva, un’azione nei confronti degli Stati Uniti tesa a mantenere aperta la prospettiva di una loro futura adesione al Protocollo.

Il WWF in particolare auspica che l’Italia a livello internazionale contribuisca all’implementazione di piani di sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili che portino il loro contributo a coprire il 30-40% dei consumi europei entro il 2020 ed il 50% entro il 2050. Questo significa sostenere lo sviluppo dell’energia da biomasse sostenibili, l’eolico, il solare termico e termoelettrico e la geotermia, investire massicciamente nella ricerca sull’energia fotovoltaiche e su nuove tecnologie per l’utilizzo dell’energia geotermica (anche di bassa entalpia), fissare obiettivi e tempi per la Direttiva sulla co-generazione, dare priorità agli investimenti nel trasporto pubblico, incentivare attraverso meccanismi fiscali l’uscita da petrolio, carbone e nucleare, definire procedure chiare e trasparenti per un mercato europeo della elettricità verde, sviluppare la ricerca sull’idrogeno facendo chiarezza sulla cattura e l’immagazzinamento del carbonio
Il WWF inoltre ritiene necessario ed opportuno definire a livello comunitario forti standards di efficienza energetica per tutte le apparecchiature elettriche.

In Italia

La delibera CIPE per la “Revisione delle linee guida per le politiche e misure nazionali di riduzione delle emissioni dei gas serra” delinea un quadro generale coerente con gli obiettivi quantitativi al 2008-2012 del il protocollo di Kyoto, ma incoerente qualitativamente con l’obiettivo di fondo della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici da cui scaturisce il Protocollo. In altri termini ne emerge un mero esercizio contabile che ci consente di rispettare gli impegni internazionali presi, ma insufficiente a fronteggiare l’emergenza dei cambiamenti climatici. In campo energetico si punta infatti fortemente sulla riconversione delle vecchie centrali termoelettriche ad olio combustibile, in moderne centrali a carbone ed orimulsion con tecnologie di abbattimento delle emissioni inquinanti e maggiore efficienza degli impianti. Solo una parte minore del parco termoelettrico esistente verrà convertito a metano. In tal modo si vincolerà il sistema energetico a questi combustibili per i prossimi 30-35 anni quando ben si sa che il Protocollo di Kyoto rappresenta un passo fondamentale politicamente, ma purtroppo poco significativo per una vera soluzione che richiederebbe una riduzione delle emissioni di gas serra del 60-80%. Le soluzioni ipotizzate dal Governo Italiano non consentiranno ulteriori miglioramenti dopo aver conseguito l’obiettivo di riduzione stabilito per il 2008-2012 (-6,5%). Il rischio concreto è che dopo il 2012 l’Italia si troverà a dover acquistare in modo oneroso i diritti di emissione sul mercato delle “emission trading” ed il costo dell’energia sarà più alto rispetto a Paesi come Germania, Olanda e Gran Bretagna che oggi stanno orientando le proprie strategie energetiche verso un massiccio utilizzo delle fonti rinnovabili.
Il ricorso a quote crescenti di fonti rinnovabili, che questo Governo dichiara di voler portare dal 2% della nuova energia prodotta al 4,6%, si configura come un obiettivo solo di facciata; infatti l’aver annoverato fra le fonti rinnovabili l’incenerimento della frazione inorganica dei rifiuti e, peggio ancora, l’intenzione di considerare rinnovabile addirittura il carbone miscelato in acqua, contenuta nella prima stesura del Ddl del Ministro Marzano approvato dal Consiglio dei Ministri del 13/9/2002, costituiscono una violazione palese della Direttiva Europea sulle fonti rinnovabili (2001/77/CE), svuotando di qualsiasi significato ambientale e climatico obiettivi pur apprezzabili nei numeri, ma solo nei numeri..

Contraddittori appaiono anche gli interventi predisposti nella situazione di emergenza di queste ultime settimane, risposte che mirano a soddisfare la domanda senza alcuna preoccupazione di “governarla”. Se ci si impegnasse a ottenere solo la metà del potenziale di risparmio energetico (valutato dall’Agenzia Nazionale per l’Ambiente in 140-150 TWh) utilizzando apparecchiature elettriche più efficienti (elettrodomestici compresi), i consumi energetici italiani potrebbero in una decina di anni tornare ai livelli del 1995 senza cambiare i nostri stili di vita. In altre parole, anziché costruire nuove centrali potremmo chiuderne alcune, magari le più inquinanti. 

Invece il Governo con il Decreto “Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale” (febbraio 2002) sostenendo che le “attuali previsioni” sulla crescita del fabbisogno di energia mostrerebbero una “straordinaria necessità e urgenza” di superare una presunta situazione di crisi, al fine di “evitare l’imminente pericolo di interruzione di fornitura di energia elettrica su tutto (sic) il territorio nazionale”, istituisce un unico procedimento e un’unica autorizzazione (che costituisce anche variante degli strumenti urbanistici e ai Piani Regolatori Portuali) per la costruzione di impianti di potenza superiore ai 300 MW termici. 


Il WWF ritiene che nell’immediato andrebbero rimossi gli ostacoli normativi opposti alla diffusione delle fonti rinnovabili attraverso iniziative che possiamo sintetizzare nei seguenti punti:
 eliminare la considerazione fra le fonti rinnovabili dell’incenerimento dei rifiuti, in palese violazione della Direttiva Comunitaria 2001/77/CE, che ha portato nel 2001 all’attribuzione a queste attività di circa il 45% dei RECS, sottraendo alle vere fonti rinnovabili importanti finanziamenti;
 scongiurare i tentativi di annoverare fra le fonti pulite utilizzabili per fronteggiare i cambiamenti climatici l’energia nucleare (si ricorda che questa fonte per cinquant’anni ha goduto di finanziamenti pubblici superiori a qualsiasi altra tecnologia senza che si risolvessero problemi fondamentali quali la gestione dei rifiuti e il decommissioning);
 orientare maggiori investimenti a favore delle tecnologie fotovoltaiche che dividono con le altre fonti rinnovabili solo il 13% dei fondi destinati alla ricerca energetica in Europa; pesanti investimenti (in Europa il 59% del totale) ancora vengono destinati alla ricerca nucleare ed a ipotesi tecnologiche ancora tutte da dimostrare come la fissione intrinsecamente sicura e la fusione, e comunque ancora lontane dall’applicabilità industriale;
 rimuovere le ingenti sovvenzioni attribuite alle fonti energetiche fossili;
 riattivare una carbon tax che costituisca meccanismo di incentivazione verso le fonte energetiche rinnovabili e verso il risparmio energetico; 
 rivedere il meccanismo di incentivo del fotovoltaico, ispirandosi al sistema tedesco che finanzia il kwh immesso in rete piuttosto che l’impianto installato;
 sostenere la formazione di Energy Service Companies (ESCO), per diffondere attività di governo razionale della domanda di energia.


Acqua

In Europa

Direttiva 60/2000 del parlamento e del consiglio che istituisce un “quadro per l’azione comunitaria in materia di acque”. Recepimento legislativo, amministrativo e regolamentare da parte degli Stati membri fissato al 22 dicembre 2003. Scopo della direttiva è il “raggiungimento di un buono stato delle acque definendo ed attuando le misure necessarie nell’ambito di programmi integrati di misure”. Le metodologie assunte attengono principalmente: l’individuazione di bacini idrografici come soggetti su cui dovrà essere modellato funzionalmente l’apparato amministrativo; coordinamento delle disposizioni tra le amministrazioni dei bacini idrografici e scambio costante ed aggiornato di best practicies come elemento guida vincolante anche nell’ambito di un approccio combinato dei Piani di gestione; diritto all’informazione pubblica ed obbligatorietà di consultazione pubblica –comprese le organizzazioni rappresentative di settore -, da cui discende la formazione del pubblico per la promozione di un uso sostenibile dell’acqua. 

In Italia

Il silenzio della Legge comunitaria del 2002 nei confronti del recepimento legislativo, amministrativo e regolamentare della direttiva in oggetto entro lo scadere del 2003 comporterà l’ennesimo ritardo da parte dell’Italia nell’adempimento degli obblighi assunti sul piano europeo. 
L’individuazione delle “Autorità territoriali di bacino” resa obbligatoria dalla Legge n.36 del 1994 (cd Legge Galli) è stata svilita nella sua valenza in quanto effettuata partendo dall’Amministrazione come soggetto e non come mezzo rispetto al bacino idrografico – soggetto (mantenendo pertanto una prospettiva capovolta del metodo di gestione rispetto alla direttiva). Il successivo decreto 152/1999, pure strumentalmente denominato testo Unico sulle acque, non solo si propone un ambito regolamentare assai più ristretto rispetto agli obiettivi della direttiva comunitaria, ma non ha ancora trovato compiuta applicazione (principalmente a causa di una calendarizzazione a lungo periodo della predisposizione obbligatoria dei Piani di tutela). Da ultimo, nel quadro dai colori sfumati del panorama normativo nazionale in materia, l’Art. 35 della Legge finanziaria 2002 (L. 448/2001) tende palesemente alla privatizzazione del sistema gestionale dell’acqua, e ciò sulla scia di una direzione divergente rispetto agli obblighi dall’Italia stessa assunti in ambito europeo. Questo per non dire che tutta la materia acque risulta essere delegata al Governo, con scarsa definizione degli obiettivi da perseguire, nell’ambito della cosiddetta “Legge Delega in campo ambientale” ancora all’esame del Parlamento.


Valutazione d’ImpattoAmbientale

In Europa

La Direttiva 97/11CEE (che modifica la direttiva 85/337CEE) prevede che la Valutazione d’impatto ambientale sia “uno strumento a carattere preventivo e integrativo delle autorizzazioni su progetti per i quali si prevede che possano avere un impatto ambientale importante, segnatamente per la loro natura, dimensioni e ubicazione” ed in particolare le finalità sono di verificare gli effetti dell’opera su uomo, fauna, flora, paesaggio etc”.
La direttiva elenca le opere che devono essere sottoposte a VIA (autostrade, porti, etc) indicate nell’allegato I, ed altre indicate nell’allegato II che sono rimesse ai singoli Stati.
Inoltre la direttiva prevede che gli Stati membri possano invia straordinaria specificare che per taluni specifici progetti non si applichi la V.I.A., ma viene posto come limite che tali progetti non siano relativi ad opere che, per la loro natura, ubicazione, dimensione non costituiscono un impatto rilevante sull’ambiente. Mai la direttiva consente agli Stati membri discrezionalmente di attuare procedure semplificate generalizzate o alternative, né prevede l’esclusione dalla V.I.A. per opere “idonee ad avere un notevole impatto sull’ambiente”.

In Italia

Il Decreto legislativo n. 190/2002, in attuazione della Legge Obiettivo (L. n. 443/2001), introduce: a) un sistema di individuazione, approvazione, aggiudicazione e esecuzione degli interventi, la cui regia è affidata al Governo attraverso il CIPE e a commissari straordinari con ampi poteri sostitutivi, che vede l’emarginazione di Regioni e Enti Locali (articoli da 1 a 4 del DLgs); b) una procedura di Valutazione di Impatto Ambientale fondata sulla base di progetti preliminari, vagliata da una Commissione tecnica speciale non più sotto il controllo del Ministero dell’Ambiente e del Territorio e la preminenza degli interessi rappresentati dal Ministero delle Infrastrutture e dell’Economia, attraverso il CIPE (art. 4 , 12 e 18) ; c) un regime di attuazione e esecuzione dei lavori pubblici il quale lo Stato si indebolisce di fronte agli interessi dei Concessionari e ai General Contractor (art. 7 e 9); d) il blocco d’autorità di qualsiasi procedimento della giustizia amministrativa su un determinato progetto o contratto, in forza del “preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera” (art. 14); e) una disciplina degli interventi urgenti destinati all’approvvigionamento energetico che non fanno parte dell’oggetto della Legge Obiettivo (L. n. 4443/2001) e, quindi, non possono essere ricompresi in questo provvedimento (all’art. 21 e al Capo III art. 22-30)



La tutela del Paesaggio

In Europa

La Convenzione europea sul Paesaggio, firmata dall’Italia il 20 ott. 2000, ha come scopo quello di vincolare gli Stati firmatari ad adottare a livello locale, regionale, nazionale ed internazionale politiche e provvedimenti al fine di salvaguardare, gestire e pianificare i “paesaggi d’Europa” per conservarne e migliorarne la qualità in un ottica di tutela dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile.

In Italia

Il nostro Paese non solo non ha ancora ratificato la Convenzione sul Paesaggio, non solo non è mai riuscito a garantire una seria applicazione della cosiddetta Legge Galasso (approvata nel 1985), ma con una serie di norme ha creato i meccanismi per derogare anche a questa. Infatti il fortissimo impulso che il Governo italiano vorrebbe dare alle infrastrutture, con l’approvazione di normative ad hoc (“legge Obiettivo”) concepite apposta per comprimere o superare l’opposizione delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale (Ministero BAC, Sopraintendenze, Parchi, ecc.), attraverso l’istituzione di procedure V.I.A. che non garantiscono un’efficace azione di tutela. Ad esempio la Legge 443 del 21/12/2001 (art. 1 comma 2 lettera d) stabilisce che le amministrazioni che partecipano a Conferenza di Servizi (CDS) possono in questa sede proporre solo “prescrizioni e varianti migliorative che non modificano la localizzazione e le caratteristiche essenziali delle opere”
Anche per l’installazione delle antenne per la telefonia mobile di nuova generazione (UMTS normata dal cosiddetto Decreto Gasparri) sono state deliberate procedure che possono facilmente scavalcare gli eventuali pareri negativi espressi dagli enti proposti alla tutela del territorio..
Inoltre le nuove procedure sulle Conferenze di Servizi (oltretutto in perenne mutamento) hanno trasformato l’opposizione delle autorità di tutela in un mero “dissenso” superabile “a maggioranza” dai presenti alla stessa Conferenza di Servizi. 
La cosiddetta “Legge Delega in materia ambientale”, ancora all’attenzione del Parlamento, al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale” introduce in via ordinaria, modificando il Testo Unico sui beni culturali e ambientali (DLgs n. 4901999), le procedure di concessione in sanatoria per le opere abusive realizzate in zone sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale e l’estinzione di tutti i reati compiuti da chi ha costruito l’opera o trasformato il territorio. Nonostante si riconosca che nell’iter parlamentare il Governo abbia inserito requisiti di garanzia, la norma proposta viola un principio basilare di tutela.. 
In via generale, la tendenza – sempre più forte e condivisa da forze politiche anche assai diverse - a devolvere maggiori poteri alle Regioni (e da queste agli enti locali), comporta la sempre maggiore difficoltà di gestire in termini coerenti, anche al di là dei confini amministrativi dei vari soggetti istituzionali, ambiti territoriali unitari, quindi ambientali e paesaggistici, che necessiterebbero di una tutela univoca ed omogenea.

Il WWF auspica che il Parlamento ratifichi quanto prima la Convenzione Europea sul Paesaggio e che la revisione in corso delle normative faticosamente stratificatesi dal 1939 ad oggi – e solo di recente riscritte dal Testo Unico dei Beni CC.AA. - tenga nel debito conto i problemi fin qui.


Rifiuti

In Europa

La direttiva comunitaria sui rifiuti 75/442/CEE afferma che per rifiuto si intende: “qualsiasi oggetto o sostanza che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”

In Italia

Nella legge 8 agosto 2002 n. 178 (conversione in legge del DL n. 138 del 1002) viene introdotta (art. 14) una definizione soggettiva del concetto di rifiuto che stravolge la definizione oggettiva contenuta all’art. 6 del DLgs n. 22/1997 (cosiddetto Decreto Ronchi). Al primo comma dell’art. 14 si fa riferimento, appunto, alla “volontà” del privato di destinare o no alle attività di smaltimento o di recupero i materiali di cui si debba disfare (comma 1 lettera b), rispondendo a un generico “obbligo” stabilito molto vagamente e imprecisamente, da ordinanze, da leggi, dalla stessa “natura del materiale” e solo ad ultimo dalla Legge quadro che regola la materia, cioè il DLgs n. 22/1997, per quanto riguarda i rifiuti pericolosi. Al secondo comma si stabilisce che: a) le “sostanze e i materiali residuali di produzione o di consumo” non devono considerarsi rifiuti quando possano essere effettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza creare pregiudizio all’ambiente” ; b) o anche dopo un trattamento di recupero diverso da quello previsto dal DLgs. n. 22/1997.

Nella sostanza, da una definizione oggettiva, concisa e circostanziata prevista dalla direttiva, abbiamo invece una definizione di rifiuto tutta soggettiva, con una delega al privato di stabilire quali sostanze o materiali smaltire, recuperare o riutilizzare fuori da un controllo pubblico.

Ed ancora in Europa

Dal 1997 la Unione europea ha precisato che le terre e rocce da scavo derivanti da attività di demolizione, costruzione, scavo, lavorazioni minerarie e di cava rientrano nella normativa sui rifiuti e in particolare tra i rifiuti speciali.


Mentre in Italia

La Legge 443/2001 (art. 1 comma 17), meglio nota come Legge Obiettivo, stabilisce che le “terre e rocce da scavo”, derivate da attività di demolizione, costruzione, scavo, da lavorazioni minerarie e di cava, anche se contaminate con sostanze inquinanti o provenienti da siti inquinati, non sono più rifiuti speciali come stabiliva il DLgs. n. 22/1997, in attuazione della normativa comunitaria.

Per effetto di tale norma le terre di scavo, anche se contaminate, vengano così sottratte al regime di autorizzazioni e controlli proprio della normativa sui rifiuti che disciplina, bisogna ricordarlo, anche il riutilizzo dei materiali, facendo un regalo non da poco agli imprenditori che operano nel settore delle grandi opere infrastrutturali. 


Tutela della fauna selvatica

In Europa

la Direttiva Uccelli (Dir. 79/409CEE), consente agli Stati membri di derogare al generale divieto di prelievo di alcune specie particolarmente protette a livello europeo e internazionale solo in casi eccezionali, nei modi e nei limiti di quantità e di tempo fissati dalla direttiva stessa e solo se esiste un controllo statale sulle specie protette. 

In Italia

Nella Legge 3 ottobre 2002 n. 221 recante “Integrazioni alla Legge 11 febbraio 1992 n. 157 in materia di protezione della fauna selvatica e di prelievo venatorio in attuazione dell’articolo 9 della Direttiva 79/409/CEE”, sulla base di una proposta di DDL redatta dal Governo, lo Stato delega alle Regioni la competenza ad aprire “la caccia” alle specie protette in deroga; senza un controllo preventivo obbligatorio nazionale e senza che esista un censimento dell’avifauna da parte di un ente nazionale o comunitario.

La conseguenza è che le regioni approvano leggi e delibere con le quali aprono la caccia ad alcune specie di uccelli protetti indipendentemente da una strategia di conservazione nazionale, e a dispetto del fatto che la deroga è comunque uno strumento eccezionale da utilizzarsi solo in certe particolari condizioni e su piccole quantità di uccelli, non può diventare un modo per ampliare la lista delle specie cacciabili. 


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