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di Piero Palumbo
La scoperta è documentata da uno scarno, incolore libretto stampato nel lontano 1895, conservato per cento anni e più negli archivi della Università di Napoli. "Appare chiaro", si legge "che nella sostanza cellulare delle muffe esaminate sono contenuti dei principi solubili in acqua forniti di azione battericida". Autore, un medico da poco laureato, Vincenzo
Tiberio, che aveva chiesto e faticosamente ottenuto di verificare presso i laboratori di Igiene della facoltà di medicina i risultati delle osservazioni fatte nel cortile della casa in cui temporaneamente abitava ad
Arzano, un comune della provincia napoletana. La relazione finale, stampata a cura dell’Università, finì in archivio senza che nessuno si rendesse conto della portata della scoperta. Perché il ragazzo Tiberio aveva intuito, trentaquattro anni prima di
Fleming, il potere degli antibiotici.
Ancor adesso il nome di Tiberio è ignoto ai più (benchè il Comune di Roma gli abbia intitolato una strada e la municipalità di Sepino abbia innalzato una targa sulla sua casa natia). Il medico molisano appartiene alla schiera, lunghissima, degli italiani dalla genialità misconosciuta. Era nato nel comune molisano, l’antica
Saepinum, da famiglia di buona borghesia. Il padre, Domenico Antonio, era notaio: con la moglie e due figli abitava in un palazzetto signorile, oggi riconoscibile per la lapide che vi fu a suo tempo murata. Vincenzo rivelò già da bambino le proprie curiosità e attitudini. Lo distingueva dai coetanei l’hobby di raccogliere sassi e catalogarli in un
quadernetto. A diciotto anni volle iscriversi alla facoltà di medicina. Si stabilì che avrebbe studiato a Napoli e che sarebbe andato ad abitare presso una famiglia di parenti, i
Graniero, ad Arzano. La casa era spaziosa e antica, caratterizzata da un ampio cortile: al centro un pozzo dava acqua per le necessità domestiche. Fu quella presenza a suggerire a Tiberio l’intuizione decisiva. Gli successe di constatare che gli abitanti della casa erano colti da infezioni intestinali ogni volta che il pozzo veniva ripulito delle muffe. Quando la muffa tornava a formarsi, i disturbi degli abitanti cessavano. Il giovane laureando suppose che tra i due fenomeni ci fosse un rapporto di causa ed effetto.
Tiberio prelevò alcuni campioni della miracolosa sostanza e ne parlò in facoltà. Affrontò difficoltà e diffidenze. Gli fu consentito di accedere al laboratorio di igiene diretto dal professor Vincenzo De Giaxa solo dopo
la laurea. Tra le prime osservazioni e la pubblicazione della relazione conclusiva passarono circa cinque anni. Manco a dirlo, l’establishment scientifico non dette peso alla scoperta. Le conclusioni sul potere antibattericida delle muffe furono registrate come una coincidenza. La relazione fu consegnata alla polvere degli archivi con la data del 1895. Nessuno pensò che la constatazione di Tiberio potesse aprire nuovi orizzonti terapeutici. Lo stesso scopritore accettò senza proteste l’archiviazione silenziosa.
Difficile dire se vi si rassegnò per mitezza di carattere o per la consapevolezza dell’impossibilità di andare avanti. Gli stessi suoi discendenti nutrono dubbi a riguardo. Una nipote laureata in biologia, la signora Anna Zuppa
Covelli, è convinta che in quegli anni fosse impensabile tradurre in novità terapeutica la scoperta. "Le ovvie carenze della biochimica e della biologia molecolare erano tali alla fine del secolo scorso", ha scritto "da non permettere che le intelligenti indagini del Tiberio potessero approdare ai risultati concreti che 50 anni dopo permisero l’avvento in terapia della miracolosa penicillina per merito di Chain e
Florey".
Ma sulla rassegnazione di Vincenzo Tiberio e sulla sua decisione di lasciare Napoli si è immaginata una spiegazione più romantica: che ad allontanarlo dalle ricerche e dalla città fosse un amore contrastato. E’ certo che egli si innamorò della cugina Amalia
Graniero, figlia degli zii che l’ospitavano nella casa di Arzano. L’ostacolo era con ogni evidenza la parentela. Forse disperando di superarlo, il giovane partì per arruolarsi nella Marina militare. Degli effetti terapeutici di "certe muffe" non si parlò più né a Napoli né altrove fino al 1929 quando il batteriologo scozzese Alexander
Fleming, partendo da esperienze analoghe, aprì la strada alle terapie
antibiotiche.
La storia d’amore di Vincenzo e Amalia continuò nonostante la separazione temporanea e approdò al lieto fine. I due
si sposarono infatti nella chiesa parrocchiale di Arzano il 6 agosto 1905. Dal matrimonio nacquero tre figlie. Tiberio fu un eccellente ufficiale medico. A Tobruk organizzò, dopo la conquista della Libia, il primo ospedale italiano. La figlia Tomassina ricordava le disavventure che il padre aveva vissuto in Africa, fra cui un assalto di formiche da cui si salvò saltando su una barca. L’interesse per le discipline scientifiche l’accompagnò per tutta la vita. In casa Tiberio si ricordava la lunga corrispondenza che il capofamiglia aveva intrattenuto con il famoso
storico e epigrafista Teodoro Mommsen.
Vincenzo Tiberio morì nel gennaio 1915, ucciso da una crisi cardiaca, mentre stava per imbarcarsi sulla nave ospedale "Regina Elena". Della scoperta di Arzano non si parlò più fino agli anni Quaranta, quando si ebbero in Italia le prime notizie della penicillina, il miracoloso rimedio regalato all’umanità dalla scoperta di
Fleming. Solo più tardi la scienza ufficiale rese merito al precursore della sua intuizione: il fascicolo degli "Annali" con la sua relazione fu estratto dall’archivio e ristampato nel 1955 a cura dell’Istituto di Igiene dell’Università napoletana, vari congressi medici ricordarono quei trascorsi, Sepino inaugurò la lapide di cui abbiamo detto. Forse non è un caso che la strada dedicata a Tiberio dal Comune di Roma sorga sulla "collina
Fleming".
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