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di Domenico
Fargnoli*
www. clorofilla.it
Il vuoto è il rischio estremo che corre ciascuno quando cerca se
stesso, la propria identità oltre la coscienza, oltre la percezione
spesso ingannevole dei sensi fisici. Per capire le fobie bisogna
innanzitutto comprendere che la nostra cultura è costruita sopra un
vuoto e nessuno incredibilmente sembra rendersene conto o ne trae le
dovute conseguenze
Siena - Il vuoto è
il rischio estremo che corre ciascuno quando cerca se stesso, la
propria identità oltre la coscienza, oltre la percezione spesso
ingannevole dei sensi fisici.
Per capire “la fobia” bisogna innanzitutto comprendere che la
nostra cultura è costruita sopra un vuoto e nessuno incredibilmente
sembra rendersene conto o ne trae le dovute conseguenze. Quella che
allora alcune persone vivono come condizione psicopatologica di
fobia, angoscia, terrore potrebbe avere una matrice ideologica
generatasi attraverso la lunga storia della nostra civiltà.
Come non ricordare l’atteggiamento religioso di fronte al sacro,
le persecuzioni delle streghe e degli eretici basate sull’angoscia
continua di un’infiltrazione del demoniaco? Come non ricordare che
il terrore, vissuto come pericolo di un’effrazione dell’Io ha
fatto parte integrante dell’estetica romantica del sublime
attraverso la mediazione di Kant? In tempi relativamente più
recenti anche la filosofia scendendo dal piano della trascendenza a
quello dell’esistenza concreta, ha ratificato con Kierkegaard, con
Heidegger che l’angoscia, lo spaesamento sarebbero la condizione
originaria dell’uomo. E Freud, colui che per una valutazione cieca
ed acritica viene considerato da molti un genio della modernità, ha
addirittura sostenuto che il sentimento perturbante nascerebbe dalla
nostra relazione con l’Inconscio!
Freud che è l’incarnazione stessa della fobia per l’arcinota
storia della molteplicità di disturbi di questo tipo ai quali per
tutta la vita fu soggetto.
La paura quindi nasce dal vuoto, dall’annullamento dall’assenza
del pensiero che può avere o una valenza sociale essendo condiviso
da un gruppo od una comunità o può per taluni trasformarsi in un
vissuto privato di delirio che cambia il significato usuale dei
rapporti colle cose e con gli altri attribuendo spesso a situazioni
od oggetti usuali un contenuto persecutorio.
Una vera e propria epidemia di terrore si è propagò in seguito
alla famosa trasmissione radiofonica di Orson Welles negli anni
trenta nella quale si annunciava l’invasione dei marziani. In
piena guerra fredda e Maccartismo, nel 1954, il lento incalzare di
una sensazione di inquietante estraneità nell’ambito della
quotidiano pervade il classico film di Don Siegel “L’invasione
degli ultracorpi”.
L’ultracorpo è un involucro, un’apparenza svuotata di umanità,
è l’individuo che nella massa perde se stesso e scopre il proprio
isolamento oltre la socialità come convenzione e costrizione
illuministica.
Dopo l’11 settembre 2001 e l’attacco alle torri, la società
americana è traumatizzata dal “terrorismo” che per una
circostanza singolare la colpisce nelle forme suggerite proprio
dalla cinematografia holliwoodiana ed dai media rendendo realtà le
fantasticherie di un immaginario perverso intriso di attese
catastrofiche ed apocalittiche.
Ed è a questo punto che la paura diventa acting out violento, che
nel linguaggio della politica di Bush viene tradotto nell’idea
delirante di una guerra preventiva, di un’invasione militare per
estirpare il male.
Ma spostandoci a questo punto sul terreno della psichiatria e della
clinica, cioè del discorso più specificamente di nostra
competenza, dobbiamo aggiungere che ,
una volta individuato il nucleo generatore della paura, la
fenomenologia degli stati fobici si articola nella transizione fra
condizioni socialmente condivise e quindi difficilmente
diagnosticabili come patologia e situazione di delirio e ritualità
privata di gravità diversa che può giungere fino all’attacco di
panico in cui il soggetto ha una reattività dissociata,
parossistica di fronte a stimoli non particolarmente significativi.
E’ proprio questa apparente assenza o scarsa significatività
dello stimoli che ha fatto pensare ad una condizione prevalentemente
organica. Ma chi ha esperienza di terapia in questo settore sa che
la capacità di ricostruzione dello psichiatra può individuare
sempre a monte della crisi una situazione di rapporto che l’ha
scatenata ma che viene regolarmente scotomizzata. Salvo poi
ripresentarsi per una tendenza alla ripetizione che elude ogni
tentativo di controllo cosciente, salvo stabilire un nesso strano e
casuale, sia sotto il profilo del tempo che dello spazio, con eventi
che sembrano insignificanti.
Bisogna pertanto resistere alla tentazione farmacologia che si viene
indotti a ritenere una soluzione semplice ed a portata di mano ma la
qiale ,di fatto, escludendo la comprensione dei fattori eziologici,
a lungo termine rafforza l’atteggiamento fobico o se
apparentemente lo risolve lo fa al prezzo di una perdita di
sensibilità e di una alterazione qualitativa della capacità di
pensare del soggetto; alterazione che è tanto più subdola e grave
quanto più riesce a passare inosservata ed eludere la valutazione
clinica dello psichiatra spesso solo interessato agli aspetti
sintomatologici e comportamentali grossolani.
E’ chiaro che l’intervento medico su di uno stato fobico, su di
una condizione d’angoscia non può essere standardizzata ma deve
articolarsi in una psicoterapia mirata a cogliere la specificità
del disturbo nell’ottica di dare al soggetto una forma nuova di
socialità, che gli consenta un rapporto diverso con gli altri.
Lo stato di “paura”, anche quando sembra scatenato da oggetti
inanimati, è una sensazione di pericolo che incombe sull’Io, è
una minaccia di lesione o di perdita di quell’immagine interiore
che dà all’uomo la specificità del suo essere che non
prescindere dalla relazione con altri esseri umani.
*L'autore è psichiatra e psicoterapeuta |
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