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Incompatibilità della
guerra con l’uso sostenibile delle risorse naturali e
la conservazione della biodiversità
Premessa
È ormai consapevolezza
diffusa che esistano condizioni profonde alla base di ogni conflitto
bellico contemporaneo, piccolo o grande che sia, che vanno al di là delle
motivazioni ufficiali: si tratta delle grandi crisi ambientali globali,
che alimentano i conflitti e retroagiscono drammaticamente amplificandoli.
La crisi delle risorse, del petrolio, dell’acqua,
la crisi climatica, la crisi demografica, la deforestazione, la perdita di
biodiversità, la riduzione delle riserve ittiche, la perdita di suolo
fertile, le crescenti diseguaglianze fra la parte più ricca dell’umanità
e quella più povera, sia a livello globale che all’interno dei singoli
stati, gli esodi di massa da un paese all’altro, da un continente all’altro
in fuga dalla fame e dalle guerre, sono gli elementi di un’unica grande
sfida che l’umanità, all’alba del terzo millennio, deve affrontare. L’attuale modello di sviluppo, basato
sulla crescita economica illimitata e sull’enfatizzazione delle regole
del mercato rispetto alle considerazioni di carattere ecologico, etico,
sociale o umanitario, ha portato di fatto ad una concentrazione di energie
e beni di consumo nei paesi ricchi, minando le possibilità future di
sviluppo dei paesi poveri, attraverso i perversi meccanismi di un
indebitamento estero quasi sempre pagato da loro in termini di
"svendita" delle proprie risorse naturali. Solo
un ripensamento profondo e radicale di questo modello potrà rallentare e
poi forse interrompere la corsa verso un collasso degli ecosistemi e dei
sistemi sociali di questo pianeta. Questa
consapevolezza, già espressa ben 30 anni fa nel famoso rapporto dal
titolo "I limiti dello sviluppo" promosso dal Club di Roma nel
1972, oggi non può che essere alla base anche delle strategie di
conservazione della natura. Senza un vero mutamento di rotta anche lo
sviluppo sostenibile rischia di restare uno slogan o divenire un alibi per
i governi per continuare fino all’estremo limite secondo le strategie
attuali, liquidando le questioni ambientali con qualche piccolo
aggiustamento.
Un modello di sviluppo in
crisi
L’umanità ha di fronte
a sé una grande sfida: come è possibile proteggere i complessi
ecosistemi che sostengono la vita sul nostro pianeta e fornire a miliardi
di esseri umani una chance per una vita migliore ? Questo
secolo appena iniziato sarà probabilmente determinante per vincere o
perdere definitivamente questa sfida. Abbiamo
iniziato il 1900 con 1,6 miliardi di abitanti ed abbiamo chiuso il secolo
scorso in più di 6 miliardi. Le previsioni più recenti delle Nazioni
Unite ci dicono che dovremmo essere nel 2050 8,9 miliardi di abitanti. Il
nostro modello di sviluppo basato sulla crescita continua del prelievo di
risorse naturali, della produzione di rifiuti, dell’utilizzo di energia,
sta mostrando in questi anni il suo duplice fallimento:
-
non ci sono risorse sufficienti per
applicare questo stesso modello e produrre sviluppo e benessere per la
crescente popolazione della Terra;
-
gli ecosistemi ed i processi naturali
su cui si fonda la vita sul nostro pianeta stanno subendo gravi
alterazioni a causa degli scarti solidi, liquidi e gassosi prodotti
dalle attività umane.
I principali problemi
planetari segnalati dal Global Change Programme, dell’International
Council for Science (ICSU)
in poche generazioni l’umanità è
andata esaurendo riserve di combustibili fossili che erano state
generate nell’arco di parecchie centinaia di milioni di anni;
la concentrazione nell’atmosfera di
diversi gas che incrementano l’effetto serra naturale, in particolare
anidride carbonica e metano, è andata aumentando pericolosamente,
causando l’innescarsi di cambiamenti climatici drammaticamente rapidi;
circa il 50% della superficie terrestre
è stata modificata direttamente dall’intervento umano, con
significative conseguenze per la biodiversità, il ciclo dei nutrienti,
la struttura del suolo ed il clima;
la quantità di azoto fissato
sinteticamente nell’agricoltura attraverso i fertilizzanti chimici, è
oggi superiore a quella fissata naturalmente negli ecosistemi terrestri,
nel ciclo naturale di questo elemento;
più della metà della quantità globale
di acqua dolce accessibile è utilizzato direttamente o indirettamente
dalla nostra specie e le riserve di acqua sotterranee si stanno
rapidamente esaurendo in moltissime aree del pianeta (dalla Cina agli
Stati Uniti, dall’India all’Iran);
gli ambienti marini e costieri si stanno
drammaticamente alterando. Il 50% degli ambienti di mangrovie sono stati
eliminati e la metà delle zone umide sono state distrutte;
circa il 22% delle zone marine di pesca
sono state ipersfruttate o esaurite ed il 44% è al limite dell’esaurimento;
i tassi di estinzione delle forme di
vita sono notevolmente incrementati sia negli ecosistemi marini che
terrestri. Siamo nel mezzo di un grande evento di grave perdita della
biodiversità causata, per la prima volta nella storia della vita sulla
Terra, dalle attività di una singola specie vivente (la nostra).
In un sistema orientato
alla continua espansione economica, si arriva inevitabilmente ad un punto
in cui alcuni paesi si trovano ad utilizzare più risorse di quante ne
contiene il proprio territorio, ed iniziano ad utilizzare quelle
provenienti dal territorio di altri paesi; per "risorse"
intendiamo non solo quelle che hanno un valore commerciale, ma anche quel
"capitale naturale" che produce gratuitamente servizi essenziali
per la sopravvivenza della vita sulla Terra.
L’indicatore che con
maggiore evidenza illustra questa situazione, l’impronta ecologica, ci
dice che
i paesi industrializzati (OCSE), fatta
eccezione per l’Australia e il Canada che hanno una bassa densità
demografica, utilizzano una biocapacità più che doppia di quella
disponibile sul loro territorio.
Gli USA utilizzano poco più del doppio
della loro biocapacità, mentre l’Italia quasi il triplo.
I paesi Africani utilizzano invece meno
di quanto la biocapacità del loro territorio è in grado di produrre.
I paesi del Medio Oriente e dell’Asia
Centrale utilizzano circa il triplo di quanto gli consentirebbe la
biocapacità del loro territorio.
L’Estremo Oriente ne utilizza il 60%
in più,
L’America Latina ne utilizza solo il
38%.
Per biocapacità
si intende la capacità della natura di produrre alimenti e materiali,
aria ed acqua pulite, e di assorbire gli scarti. La
percentuale di biocapacità utilizzata non è "equamente
distribuita" né tra paesi all’interno di un’area continentale,
né tra classi sociali all’interno dei singoli paesi. Il
fattore limitante dell’economia futura sarà proprio la disponibilità e
il funzionamento del capitale naturale, e in particolare di quei servizi
che consentono la vita, che non hanno sostituti ed oggi non hanno valore
di mercato Ciò che si verifica in
modo evidente è che una parte del mondo vive utilizzando non solo le
proprie risorse ma anche quelle di altri paesi, sottraendo a questi ultimi
le risorse necessarie al loro sviluppo. E’ quanto già accaduto da tempo
ai paesi industrializzati ed a quelli in via di sviluppo più densamente
popolati. Questa situazione contribuisce in modo sostanziale alle grandi
diseguaglianze planetarie nella distribuzione del reddito e del benessere.
- Tra il 1960 ed il 1995
la disparità esistente tra il reddito pro capite del 20% più ricco del
pianeta e quello del 20% più povero è più che raddoppiata, passando da
una proporzione di 18 ad 1 a quella di 37 ad 1.
- Lo stato di indigenza
in cui versano almeno 2,5 miliardi di persone è insostenibile, e ciò
origina gli inarrestabili flussi migratori di milioni di persone dal sud
del mondo verso il nord e dall’est verso l’ovest.
- Il debito dei paesi
poveri ha sorpassato i 2.500 miliardi di dollari nel 2000, mentre nel 1980
era di 1.200 miliardi di dollari.
Viviamo quindi in un
mondo in cui il nostro impatto sui sistemi naturali è molto elevato ed in
cui i nostri sistemi sociali ed economici sono profondamente iniqui.
Democrazia e libertà, per noi valori fondamentali e di assoluta
priorità, senza il diritto ad una vita dignitosa, dove non sono garantiti
nemmeno i bisogni essenziali per la sopravvivenza, suonano come parole
astratte. Per garantire a tutti una effettiva possibilità di
partecipazione alla vita politica e sociale occorre prioritariamente
garantire a tutta l’umanità il soddisfacimento dei bisogni essenziali,
l’accesso all’informazione e all’istruzione. E’
evidente che i paesi che sono più avanti nell’applicazione di questo
modello di sviluppo consumista, cioè i paesi più ricchi, hanno una
assoluta necessità di garantirsi l’approvvigionamento delle risorse che
provengono da altri paesi. Dal momento che lo sviluppo si basa quasi
esclusivamente su risorse non rinnovabili e quindi che tendono col tempo
all’esaurimento, l’imperativo dei paesi più ricchi è di garantirsi
il controllo di queste risorse con ogni mezzo.
Conflitti e risorse
nel decennio Novanta siano morte almeno
5 milioni di persone in conflitti legati alle risorse
almeno 2,5 milioni di morti si sono
avuti nel solo conflitto della Repubblica democratica del Congo
almeno 6 milioni di persone si sono
spostate in nazioni confinanti ed un numero tra gli 11 ed i 15 milioni
è stato spostato all’interno degli stessi confini dei propri paesi.
Stime dei
"redditi" derivanti dai conflitti sulle risorse
più di 4 miliardi di dollari per la
guerra in Angola (1992-2001) per i diamanti,
100-187 milioni di dollari per la guerra
in Liberia (fine anni Novanta) per il legname tropicale,
più di 250 milioni di dollari per la
guerra in Congo (1999-2000) per il coltan
220-390 milioni di dollari per la guerra
in Cambogia (metà anni Novanta) per il legname.
Proprio in questi anni in
cui sarebbe necessario ed urgente convogliare tutte le risorse economiche,
utilizzare le migliori tecnologie ed applicare le migliori intelligenze
alla ricerca di soluzioni per i gravi problemi che ci sono davanti, tali
risorse e potenzialità vengono impiegate per distruggere e seminare
terrore e morte, con l’intento vano ed irrealizzabile di poter
continuare ancora a lungo con uno sviluppo fondato su una crescita
illimitata. La stima delle spese
militari mondiali, sebbene sia scesa rispetto ai livelli raggiunti prima
della caduta del muro di Berlino nel 1989 e quindi della "guerra
fredda", (secondo una valutazione conservativa dell’autorevole
Stocholm International Peace Institute) è di 839 miliardi di dollari nel
2001 (nel 1998 era di 772 miliardi di dollari). Si
tratta di 2,3 miliardi ogni giorno, quasi 100 miliardi l’ora, 137
dollari a testa in un anno.
Spese militari
Le 35 nazioni più ricche, con il 15%
della popolazione mondiale, spendono per scopi militari una cifra che
rappresenta il 70% della spesa militare mondiale del 2001.
I soli Stati Uniti hanno un budget per
le spese militari per il 2003 di circa 400 miliardi di dollari (circa il
25% della ricchezza nazionale pari a circa 10.000 miliardi di dollari),
ma pari a metà delle intere spese militari del mondo.
Se gli USA sono il paese al mondo che
spende di più in armamenti in termini assoluti, l’Iraq è però tra
quelli che ha sostenuto una spesa percentualmente maggiore rispetto al
prodotto interno lordo (intorno ai 60 miliardi di dollari). Nel periodo
1967-1996 è arrivato a spendere oltre il 70% della sua ricchezza
nazionale in armamenti. Dal 1991 non sono disponibili dati sulla sua
spesa militare
Stime proposte per
azioni fondamentali per il benessere ambientale e sociale del pianeta
la prevenzione dell’erosione mondiale
del suolo potrebbe essere evitata con un investimento di 24 miliardi di
dollari l’anno,
l’eliminazione della malnutrizione
potrebbe aver luogo con un investimento di 19 miliardi di dollari annui,
l’assicurazione di un’assistenza
sanitaria riproduttiva per tutte le donne potrebbe aver luogo con un
investimento di 12 miliardi di dollari annui,
la disponibilità di acqua potabile
annuale potrebbe aver luogo con un investimento di 10 miliardi di
dollari,
la prevenzione delle piogge acide
potrebbe aver luogo con un investimento di 8 miliardi di dollari,
l’eliminazione dell’analfabetismo
con 5 miliardi di dollari.
E’ evidente che non si
può continuare su questa strada e già da anni si cerca di individuare
nuovi percorsi basati sulla sostenibilità ambientale, economica e sociale
dei nostri processi di sviluppo. Alla radice della sostenibilità vi è la
necessità e l’urgenza di una equa distribuzione di risorse ed
opportunità. Non è possibile
pensare a nuovi modelli di sviluppo capaci di raccogliere e risolvere la
grande sfida della sostenibilità ambientale, economica e sociale, se
ancora persistono guerre e conflitti. Le due vie sono alternative ed
inconciliabili: o si sceglie uno sviluppo sostenibile in grado di
garantire il mantenimento degli equilibri naturali fondamentali per la
vita e di soddisfare i bisogni di base di tutta la popolazione del nostro
pianeta (alimentazione, acqua, salute, vestiario, casa, istruzione,
accesso alla comunicazione), o per continuare a concentrare il benessere
in poche mani si usa e si continuerà ad usare ogni mezzo compresa la
guerra.
La guerra del petrolio
Mentre per il futuro c’è
già chi prevede le guerre per l’acqua, fra le risorse oggi più
suscettibili di provocare conflitti va sicuramente annoverato il petrolio.
La crescita economica, conseguita
attraverso l’aumento della produzione e dei consumi, continua ad essere
l’unico grande obiettivo dell’economia mondiale, trascinando la
crescita dei consumi energetici. Secondo
il World Energy Outlook 2000 dell’International Energy Agency,
continuando lungo il percorso energetico attuale, entro il 2012 le
emissioni di gas-serra aumenteranno del 45% ed entro il 2020 addirittura
del 60% allontanando la soluzione del problema dei cambiamenti climatici
ed anzi aggravandone le conseguenze. I
paesi industrializzati stanno infatti seguendo un percorso energetico in
continua crescita quantitativa e basato quasi esclusivamente sui
combustibili fossili, trascinando lungo questa via il resto del mondo ed
in particolare le economie asiatiche emergenti. Solo
il 3% dell’energia consumata nel mondo deriva da fonti rinnovabili e
sostenibili, mentre circa il’90% da fonti fossili (carbone, petrolio e
gas) che sono limitate e localizzate in particolari aree geografiche. Quanto detto ci porta a disegnare uno
scenario energetico davvero inquietante, verso il quale il mondo sta
correndo senza alcun tentennamento ed in totale contraddizione con gli
impegni in procinto di assumere con la prossima ratifica del Protocollo di
Kyoto.
Previsioni dell’International
Energy Agency per il 2020
I consumi mondiali di energia primaria
saranno cresciuti del 57% rispetto al 1997.
Il mondo continuerà a dipendere come
oggi per il 35% dal petrolio,
per il 23% dal carbone (nel 1997 era il
26%)
il gas naturale salirà dal 21 al 26%.
Possibile scenario al
2050 seguendo l’attuale modello di sviluppo
Dal momento che circa il
60% dell’energia utilizzata annualmente nel mondo viene consumata dal
20% più ricco della popolazione mondiale, se seguendo un principio di
equità volessimo estendere lo stile di vita dei più ricchi al resto dell’umanità,
mantenendo immutato l’attuale sistema energetico incentrato sui
combustibili fossili, e supponessimo di raggiungere questo obiettivo nel
2050 quando la popolazione umana sarà di circa 9 miliardi, sulla Terra
circolerebbero 4,5 miliardi di automobili contro gli attuali 550 milioni e
dovremmo utilizzare circa 4 volte l’energia utilizzata oggi. Il
petrolio, il carbone e il metano sarebbero, a causa di questa impennata
dei consumi, già completamente esauriti. La concentrazione di CO2
in atmosfera sarebbe circa due volte e mezzo quella attuale e di
conseguenza il nostro pianeta sarebbe sconvolto da cambiamenti climatici
enormi. La realtà che abbiamo di
fronte è quella di paesi industrializzati che propongono modelli
impossibili al resto del mondo, preoccupati in realtà solo di assicurarsi
le risorse necessarie per continuare a godere da soli della maggior parte
dei benefici dello sviluppo. Per
quanto riguarda il petrolio, infatti, nel 2003 verrà raggiunto il picco
di estrazione, dopodiché questa fonte inizierà il suo declino fino ad
esaurirsi poco oltre il 2030. Eppure tutte le tecnologie sviluppate negli
ultimi 100 anni sono fondate sulla sua disponibilità abbondante ed a
basso costo. Tale situazione non esiste più, ovvero, può ancora esistere
per una ventina d’anni per pochi paesi in grado di accaparrarsi le
risorse mondiali residue. La necessità di affrontare il drammatico
problema dei cambiamenti climatici provocati dall’uso dei combustibili
fossili, ha portato quei paesi che hanno ratificato il Protocollo di Kyoto
a predisporre strategie per uscire il più rapidamente possibile dalla
dipendenza del sistema economico dal petrolio. Essi stanno investendo
ingenti capitali nell’efficienza energetica e nello sviluppo di fonti
energetiche rinnovabili (geotermico, eolico, solare, idroelettrico e
biomasse). L’alternativa proposta
da chi non ha ratificato il Protocollo di Kyoto, come gli USA, è lasciar
fare al mercato ed alle imprese, continuando sulla strada del passato
finché non matureranno nuove tecnologie. Non è casuale che proprio il
paese che ha i più alti consumi energetici pro capite, e con un sistema
economico e produttivo fortemente dipendente dal petrolio, sia stato il
più fermo sostenitore della necessità di condurre una guerra nella
regione dove risiedono i più abbondanti giacimenti petroliferi mondiali.
La necessità vitale di controllare quell’area ha spinto gli USA,
insieme alla Spagna e al Regno Unito, con il sostegno, esplicito anche se
non attivo sul campo di battaglia, anche dell’Italia, a portare avanti
il suo proposito bellico, mettendo perfino in crisi istituzioni
fondamentali come l’ONU e l’Unione Europea; tutti i paesi citati hanno
economie fortemente dipendenti dal petrolio.
Guerra e Biodiversità
Tutte le guerre hanno
conseguenze devastanti e traumatiche sulle persone direttamente coinvolte,
ma hanno anche conseguenze drammatiche sulla biodiversità. Non sulle
specie, come immediatamente potrebbe venirci in mente, o meglio non solo.
Precedenti degli effetti
di un conflitto sull’ambiente:
I conflitti armati hanno
avuto in passato un impatto ambientale notevole. Secondo "War and
Biodiversity: an Assessment of Impacts" di Jeffrey A. McNeely dell’
IUCN – Unione Mondiale per la Conservazione della Natura, tali
effetti possono essere diretti, provocati dalla caccia e dalla distruzione
degli habitat da parte degli eserciti, o indiretti, causati ad esempio
dall’attività dei rifugiati. A livello generale, le conseguenze
negative della guerra comprendono: deforestazione, aumento del
bracconaggio, distruzione degli habitat, inquinamento delle acque e del
suolo, riduzione dei fondi per la conservazione, spostamenti forzati di
persone verso aree marginali e creazione di popolazioni di rifugiati che
danneggiano la biodiversità.
Alcuni esempi specifici*:
-
Guerra del Vietnam :
325.000 ettari di terra furono cancellati. Di conseguenza, foreste che
ospitavano una grande diversità furono sostituite da praterie con
diversità limitata. L’utilizzo di pesticidi sulle mangrovie
trasformò la zona in piana fangosa.
-
Guerra Iran-Iraq del 1980-1988 :
turbò gravemente lo stile di vita degli arabi delle paludi e provocò
la devastazione della popolazione di palme da datteri – pare che il
numero di palme produttive sia passato da 16 milioni a meno di 3
milioni.
-
Guerra del Golfo del 1991 :
oltre 700 milioni di litri di petrolio si riversarono nel Golfo Persico.
300 km di costa del Kuwait e dell’Arabia Saudita furono coperte di
greggio, danneggiando le zone umide e le paludi. Si ritiene che da
15.000 e 30.000 uccelli siano morti come diretta conseguenza della
guerra – e un alto numero di uccelli migratori morirono in seguito
alla contaminazione da petrolio durante il transito nella zona. Seicento
pozzi di petrolio furono sabotati – rilasciando mezzo miliardo di
tonnellate di CO2, e l’inquinamento dell’aria giunse fino in India.
Grandi laghi di petrolio si formarono a causa del più massiccio
versamento di petrolio sul suolo che si conosca. Gli ecosistemi
desertici furono danneggiati dal movimento di attrezzature pesanti. Due
delle aree proposte per la conservazione della natura in Kuwait – il
Parco del deserto di Al-Khiran e il Parco Nazionale di Jal Al Zhor
furono gravemente disturbate. Il Comitato per la Remunerazione dell’ONU
diede al Kuwait 108,9 milioni di dollari derivati dalle vendite del
petrolio iracheno, da utilizzare per la gestione dell’impatto
ambientale della Guerra del Golfo.
-
Guerra civile in Ruanda/Repubblica
Democratica del Congo all’inizio degli anni ‘90 :
oltre 700.000 rifugiati furono sospinti dai combattimenti nel Parco
Nazionale di Virunga. A causa della carenza di risorse le foreste furono
deprivate di legname e della fauna selvatica – anche i gorilla di
montagna, una specie in via di estinzione, furono uccisi come
nutrimento.
-
Guerra in Jugoslavia del 1999 :
contaminanti altamente tossici furono riversati nel fiume Danubio. Una
missione di valutazione dell’ONU con la partecipazione del WWF rilevò
che tali versamenti rappresentavano una minaccia per la salute umana e
dell’ecosistema.
La biodiversità, che si
manifesta con la ricchezza di specie viventi sul nostro Pianeta, è un
concetto in realtà molto più complesso e ricco. Le guerre pongono a
rischio la funzionalità ecologica e i processi evolutivi in estese aree
della Terra. La biodiversità è un immenso valore della vita e dell’umanità,
senza la quale niente, nemmeno l’uomo, potrebbe esistere. Tutte
le guerre, passate e in corso sul nostro pianeta, provocano un’immensa e
immediata sofferenza umana in chi la combatte e in chi la subisce. Provocano
anche il depauperamento, altrettanto immediato, della biodiversità con l’uccisione
di fauna selvatica e la distruzione di habitat naturali. Provocano anche
effetti a lungo termine, i più devastanti, con l’inquinamento delle
risorse (acqua, aria, suolo) e la distruzione dei sistemi strutturali
volti a preservare la biodiversità (parchi, impegno di organizzazioni
internazionali, perdita di controllo e capacità gestionale del
territorio). Circa l’80% del
territorio dell’Iraq è desertico, sia deserto sabbioso – erg
– che ghiaioso e pietroso – serir e hammada – si
tratta comunque di ecosistemi estremamente fragili che ospitano comunità
animali e vegetali caratteristiche e adattate alle elevate temperature e
carenza d’acqua. Questi ambienti sono già stati fortemente danneggiati
dal movimento di mezzi pesanti nel conflitto del 1991. Questa
nuova guerra in Iraq rischia di avere gravi conseguenze sugli ecosistemi e
sulle risorse d’acqua dolce dell’area meridionale delle paludi della
Mesopotamia, già sottoposte a devastazione durante la guerra Iran-Iraq
del 1980-’88 e durante le repressioni con l’uso di armi chimiche nei
confronti degli Sciiti, dopo la Prima Guerra del Golfo. Questa enorme area
umida di circa 126.000 ettari è di immenso valore, per lo più ancora
sconosciuto, in termini di biodiversità e di risorse per le popolazioni
locali,. Fu infatti esplorata, da un punto di vista zoologico, solo una
volta nel 1968. In Iraq vivono molte specie minacciate (16 specie di
uccelli a rischio globale; tre endemiche). Inoltre le paludi dei delta del
fiume Tigri ed Eufrate ospitano importantissime zone umide di svernamento
di migratori euroasiatici. Sarebbe
assurdo voler determinare quali effetti siano più gravi tra la perdita di
vite umane o la distruzione di intere aree e delle forme viventi ivi
ospitate. Sono i due lati altrettanto drammatici della stessa medaglia. La
guerra è solo e semplicemente un evento incompatibile con la
preservazione degli equilibri ecologici del pianeta, funzionali a
garantire tutte le forme di vita – la biodiversità – incluso l’uomo.
BIBLIOGRAFIA
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Umani e Ambiente - Edizioni Cultura della Pace
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Edizioni Intra Moenia.
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Renner M., 2002 – Rompere i legami fra
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-
United Nations, 2003 – World
Population Prospect. The 2002 Revision – United Nations
-
WWF, 2002 - Living Planet Report 2002 -
WWF International
*
Il
coltan (costituito da columbite e tantalite, una sorta di fanghiglia
granulosa e nerastra ricchissima di tantalio utilizzato nell’industria
high-tech, in particolare per i telefoni cellulari e computer –
laptop e palmari -) ha una produzione annuale mondiale tra le 3.000
e le 3.500 tonnellate annue proveniente da attività estrattive in
Australia, Canada, Brasile e Congo. In Congo, in particolare, l’attività
estrattiva non è legittima ed è fonte di pesanti conflitti. La
domanda di tantalio è talmente salita nell’industria high-tech da
causare, nel 2000, il temporaneo esaurimento delle scorte mondiali.
I prezzi sono saliti da meno di 20 dollari l’oncia nel 1998 a più
di 200 nel 2000, facendo del coltan un’immensa fonte di lucro.
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