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Anno 2 Numero 53 Mercoledì 09.04.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati

 

LA GUERRA È CONTRO IL PIANETA VIVENTE

 

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Incompatibilità della guerra con l’uso sostenibile delle risorse naturali e la conservazione della biodiversità

Premessa

È ormai consapevolezza diffusa che esistano condizioni profonde alla base di ogni conflitto bellico contemporaneo, piccolo o grande che sia, che vanno al di là delle motivazioni ufficiali: si tratta delle grandi crisi ambientali globali, che alimentano i conflitti e retroagiscono drammaticamente amplificandoli. La crisi delle risorse, del petrolio, dell’acqua, la crisi climatica, la crisi demografica, la deforestazione, la perdita di biodiversità, la riduzione delle riserve ittiche, la perdita di suolo fertile, le crescenti diseguaglianze fra la parte più ricca dell’umanità e quella più povera, sia a livello globale che all’interno dei singoli stati, gli esodi di massa da un paese all’altro, da un continente all’altro in fuga dalla fame e dalle guerre, sono gli elementi di un’unica grande sfida che l’umanità, all’alba del terzo millennio, deve affrontare. L’attuale modello di sviluppo, basato sulla crescita economica illimitata e sull’enfatizzazione delle regole del mercato rispetto alle considerazioni di carattere ecologico, etico, sociale o umanitario, ha portato di fatto ad una concentrazione di energie e beni di consumo nei paesi ricchi, minando le possibilità future di sviluppo dei paesi poveri, attraverso i perversi meccanismi di un indebitamento estero quasi sempre pagato da loro in termini di "svendita" delle proprie risorse naturali. Solo un ripensamento profondo e radicale di questo modello potrà rallentare e poi forse interrompere la corsa verso un collasso degli ecosistemi e dei sistemi sociali di questo pianeta. Questa consapevolezza, già espressa ben 30 anni fa nel famoso rapporto dal titolo "I limiti dello sviluppo" promosso dal Club di Roma nel 1972, oggi non può che essere alla base anche delle strategie di conservazione della natura. Senza un vero mutamento di rotta anche lo sviluppo sostenibile rischia di restare uno slogan o divenire un alibi per i governi per continuare fino all’estremo limite secondo le strategie attuali, liquidando le questioni ambientali con qualche piccolo aggiustamento.

Un modello di sviluppo in crisi

L’umanità ha di fronte a sé una grande sfida: come è possibile proteggere i complessi ecosistemi che sostengono la vita sul nostro pianeta e fornire a miliardi di esseri umani una chance per una vita migliore ? Questo secolo appena iniziato sarà probabilmente determinante per vincere o perdere definitivamente questa sfida. Abbiamo iniziato il 1900 con 1,6 miliardi di abitanti ed abbiamo chiuso il secolo scorso in più di 6 miliardi. Le previsioni più recenti delle Nazioni Unite ci dicono che dovremmo essere nel 2050 8,9 miliardi di abitanti. Il nostro modello di sviluppo basato sulla crescita continua del prelievo di risorse naturali, della produzione di rifiuti, dell’utilizzo di energia, sta mostrando in questi anni il suo duplice fallimento:

  1. non ci sono risorse sufficienti per applicare questo stesso modello e produrre sviluppo e benessere per la crescente popolazione della Terra;

  2. gli ecosistemi ed i processi naturali su cui si fonda la vita sul nostro pianeta stanno subendo gravi alterazioni a causa degli scarti solidi, liquidi e gassosi prodotti dalle attività umane.

I principali problemi planetari segnalati dal Global Change Programme, dell’International Council for Science (ICSU)

  • in poche generazioni l’umanità è andata esaurendo riserve di combustibili fossili che erano state generate nell’arco di parecchie centinaia di milioni di anni;

  • la concentrazione nell’atmosfera di diversi gas che incrementano l’effetto serra naturale, in particolare anidride carbonica e metano, è andata aumentando pericolosamente, causando l’innescarsi di cambiamenti climatici drammaticamente rapidi;

  • circa il 50% della superficie terrestre è stata modificata direttamente dall’intervento umano, con significative conseguenze per la biodiversità, il ciclo dei nutrienti, la struttura del suolo ed il clima;

  • la quantità di azoto fissato sinteticamente nell’agricoltura attraverso i fertilizzanti chimici, è oggi superiore a quella fissata naturalmente negli ecosistemi terrestri, nel ciclo naturale di questo elemento;

  • più della metà della quantità globale di acqua dolce accessibile è utilizzato direttamente o indirettamente dalla nostra specie e le riserve di acqua sotterranee si stanno rapidamente esaurendo in moltissime aree del pianeta (dalla Cina agli Stati Uniti, dall’India all’Iran);

  • gli ambienti marini e costieri si stanno drammaticamente alterando. Il 50% degli ambienti di mangrovie sono stati eliminati e la metà delle zone umide sono state distrutte;

  • circa il 22% delle zone marine di pesca sono state ipersfruttate o esaurite ed il 44% è al limite dell’esaurimento;

  • i tassi di estinzione delle forme di vita sono notevolmente incrementati sia negli ecosistemi marini che terrestri. Siamo nel mezzo di un grande evento di grave perdita della biodiversità causata, per la prima volta nella storia della vita sulla Terra, dalle attività di una singola specie vivente (la nostra).

In un sistema orientato alla continua espansione economica, si arriva inevitabilmente ad un punto in cui alcuni paesi si trovano ad utilizzare più risorse di quante ne contiene il proprio territorio, ed iniziano ad utilizzare quelle provenienti dal territorio di altri paesi; per "risorse" intendiamo non solo quelle che hanno un valore commerciale, ma anche quel "capitale naturale" che produce gratuitamente servizi essenziali per la sopravvivenza della vita sulla Terra.

L’indicatore che con maggiore evidenza illustra questa situazione, l’impronta ecologica, ci dice che

  • i paesi industrializzati (OCSE), fatta eccezione per l’Australia e il Canada che hanno una bassa densità demografica, utilizzano una biocapacità più che doppia di quella disponibile sul loro territorio.

  • Gli USA utilizzano poco più del doppio della loro biocapacità, mentre l’Italia quasi il triplo.

  • I paesi Africani utilizzano invece meno di quanto la biocapacità del loro territorio è in grado di produrre.

  • I paesi del Medio Oriente e dell’Asia Centrale utilizzano circa il triplo di quanto gli consentirebbe la biocapacità del loro territorio.

  • L’Estremo Oriente ne utilizza il 60% in più,

  • L’America Latina ne utilizza solo il 38%.

Per biocapacità si intende la capacità della natura di produrre alimenti e materiali, aria ed acqua pulite, e di assorbire gli scarti. La percentuale di biocapacità utilizzata non è "equamente distribuita" né tra paesi all’interno di un’area continentale, né tra classi sociali all’interno dei singoli paesi. Il fattore limitante dell’economia futura sarà proprio la disponibilità e il funzionamento del capitale naturale, e in particolare di quei servizi che consentono la vita, che non hanno sostituti ed oggi non hanno valore di mercato Ciò che si verifica in modo evidente è che una parte del mondo vive utilizzando non solo le proprie risorse ma anche quelle di altri paesi, sottraendo a questi ultimi le risorse necessarie al loro sviluppo. E’ quanto già accaduto da tempo ai paesi industrializzati ed a quelli in via di sviluppo più densamente popolati. Questa situazione contribuisce in modo sostanziale alle grandi diseguaglianze planetarie nella distribuzione del reddito e del benessere.

- Tra il 1960 ed il 1995 la disparità esistente tra il reddito pro capite del 20% più ricco del pianeta e quello del 20% più povero è più che raddoppiata, passando da una proporzione di 18 ad 1 a quella di 37 ad 1.

- Lo stato di indigenza in cui versano almeno 2,5 miliardi di persone è insostenibile, e ciò origina gli inarrestabili flussi migratori di milioni di persone dal sud del mondo verso il nord e dall’est verso l’ovest.

- Il debito dei paesi poveri ha sorpassato i 2.500 miliardi di dollari nel 2000, mentre nel 1980 era di 1.200 miliardi di dollari.

Viviamo quindi in un mondo in cui il nostro impatto sui sistemi naturali è molto elevato ed in cui i nostri sistemi sociali ed economici sono profondamente iniqui. Democrazia e libertà, per noi valori fondamentali e di assoluta priorità, senza il diritto ad una vita dignitosa, dove non sono garantiti nemmeno i bisogni essenziali per la sopravvivenza, suonano come parole astratte. Per garantire a tutti una effettiva possibilità di partecipazione alla vita politica e sociale occorre prioritariamente garantire a tutta l’umanità il soddisfacimento dei bisogni essenziali, l’accesso all’informazione e all’istruzione. E’ evidente che i paesi che sono più avanti nell’applicazione di questo modello di sviluppo consumista, cioè i paesi più ricchi, hanno una assoluta necessità di garantirsi l’approvvigionamento delle risorse che provengono da altri paesi. Dal momento che lo sviluppo si basa quasi esclusivamente su risorse non rinnovabili e quindi che tendono col tempo all’esaurimento, l’imperativo dei paesi più ricchi è di garantirsi il controllo di queste risorse con ogni mezzo.

Conflitti e risorse

  • nel decennio Novanta siano morte almeno 5 milioni di persone in conflitti legati alle risorse

  • almeno 2,5 milioni di morti si sono avuti nel solo conflitto della Repubblica democratica del Congo

  • almeno 6 milioni di persone si sono spostate in nazioni confinanti ed un numero tra gli 11 ed i 15 milioni è stato spostato all’interno degli stessi confini dei propri paesi.

Stime dei "redditi" derivanti dai conflitti sulle risorse

  • più di 4 miliardi di dollari per la guerra in Angola (1992-2001) per i diamanti,

  • 100-187 milioni di dollari per la guerra in Liberia (fine anni Novanta) per il legname tropicale,

  • più di 250 milioni di dollari per la guerra in Congo (1999-2000) per il coltan

  • 220-390 milioni di dollari per la guerra in Cambogia (metà anni Novanta) per il legname.

Proprio in questi anni in cui sarebbe necessario ed urgente convogliare tutte le risorse economiche, utilizzare le migliori tecnologie ed applicare le migliori intelligenze alla ricerca di soluzioni per i gravi problemi che ci sono davanti, tali risorse e potenzialità vengono impiegate per distruggere e seminare terrore e morte, con l’intento vano ed irrealizzabile di poter continuare ancora a lungo con uno sviluppo fondato su una crescita illimitata. La stima delle spese militari mondiali, sebbene sia scesa rispetto ai livelli raggiunti prima della caduta del muro di Berlino nel 1989 e quindi della "guerra fredda", (secondo una valutazione conservativa dell’autorevole Stocholm International Peace Institute) è di 839 miliardi di dollari nel 2001 (nel 1998 era di 772 miliardi di dollari). Si tratta di 2,3 miliardi ogni giorno, quasi 100 miliardi l’ora, 137 dollari a testa in un anno.

Spese militari

  • Le 35 nazioni più ricche, con il 15% della popolazione mondiale, spendono per scopi militari una cifra che rappresenta il 70% della spesa militare mondiale del 2001.

  • I soli Stati Uniti hanno un budget per le spese militari per il 2003 di circa 400 miliardi di dollari (circa il 25% della ricchezza nazionale pari a circa 10.000 miliardi di dollari), ma pari a metà delle intere spese militari del mondo.

  • Se gli USA sono il paese al mondo che spende di più in armamenti in termini assoluti, l’Iraq è però tra quelli che ha sostenuto una spesa percentualmente maggiore rispetto al prodotto interno lordo (intorno ai 60 miliardi di dollari). Nel periodo 1967-1996 è arrivato a spendere oltre il 70% della sua ricchezza nazionale in armamenti. Dal 1991 non sono disponibili dati sulla sua spesa militare

Stime proposte per azioni fondamentali per il benessere ambientale e sociale del pianeta

  • la prevenzione dell’erosione mondiale del suolo potrebbe essere evitata con un investimento di 24 miliardi di dollari l’anno,

  • l’eliminazione della malnutrizione potrebbe aver luogo con un investimento di 19 miliardi di dollari annui,

  • l’assicurazione di un’assistenza sanitaria riproduttiva per tutte le donne potrebbe aver luogo con un investimento di 12 miliardi di dollari annui,

  • la disponibilità di acqua potabile annuale potrebbe aver luogo con un investimento di 10 miliardi di dollari,

  • la prevenzione delle piogge acide potrebbe aver luogo con un investimento di 8 miliardi di dollari,

  • l’eliminazione dell’analfabetismo con 5 miliardi di dollari.

E’ evidente che non si può continuare su questa strada e già da anni si cerca di individuare nuovi percorsi basati sulla sostenibilità ambientale, economica e sociale dei nostri processi di sviluppo. Alla radice della sostenibilità vi è la necessità e l’urgenza di una equa distribuzione di risorse ed opportunità. Non è possibile pensare a nuovi modelli di sviluppo capaci di raccogliere e risolvere la grande sfida della sostenibilità ambientale, economica e sociale, se ancora persistono guerre e conflitti. Le due vie sono alternative ed inconciliabili: o si sceglie uno sviluppo sostenibile in grado di garantire il mantenimento degli equilibri naturali fondamentali per la vita e di soddisfare i bisogni di base di tutta la popolazione del nostro pianeta (alimentazione, acqua, salute, vestiario, casa, istruzione, accesso alla comunicazione), o per continuare a concentrare il benessere in poche mani si usa e si continuerà ad usare ogni mezzo compresa la guerra.

La guerra del petrolio

Mentre per il futuro c’è già chi prevede le guerre per l’acqua, fra le risorse oggi più suscettibili di provocare conflitti va sicuramente annoverato il petrolio. La crescita economica, conseguita attraverso l’aumento della produzione e dei consumi, continua ad essere l’unico grande obiettivo dell’economia mondiale, trascinando la crescita dei consumi energetici. Secondo il World Energy Outlook 2000 dell’International Energy Agency, continuando lungo il percorso energetico attuale, entro il 2012 le emissioni di gas-serra aumenteranno del 45% ed entro il 2020 addirittura del 60% allontanando la soluzione del problema dei cambiamenti climatici ed anzi aggravandone le conseguenze. I paesi industrializzati stanno infatti seguendo un percorso energetico in continua crescita quantitativa e basato quasi esclusivamente sui combustibili fossili, trascinando lungo questa via il resto del mondo ed in particolare le economie asiatiche emergenti. Solo il 3% dell’energia consumata nel mondo deriva da fonti rinnovabili e sostenibili, mentre circa il’90% da fonti fossili (carbone, petrolio e gas) che sono limitate e localizzate in particolari aree geografiche. Quanto detto ci porta a disegnare uno scenario energetico davvero inquietante, verso il quale il mondo sta correndo senza alcun tentennamento ed in totale contraddizione con gli impegni in procinto di assumere con la prossima ratifica del Protocollo di Kyoto.

Previsioni dell’International Energy Agency per il 2020

  • I consumi mondiali di energia primaria saranno cresciuti del 57% rispetto al 1997.

  • Il mondo continuerà a dipendere come oggi per il 35% dal petrolio,

  • per il 23% dal carbone (nel 1997 era il 26%)

  • il gas naturale salirà dal 21 al 26%.

Possibile scenario al 2050 seguendo l’attuale modello di sviluppo

Dal momento che circa il 60% dell’energia utilizzata annualmente nel mondo viene consumata dal 20% più ricco della popolazione mondiale, se seguendo un principio di equità volessimo estendere lo stile di vita dei più ricchi al resto dell’umanità, mantenendo immutato l’attuale sistema energetico incentrato sui combustibili fossili, e supponessimo di raggiungere questo obiettivo nel 2050 quando la popolazione umana sarà di circa 9 miliardi, sulla Terra circolerebbero 4,5 miliardi di automobili contro gli attuali 550 milioni e dovremmo utilizzare circa 4 volte l’energia utilizzata oggi. Il petrolio, il carbone e il metano sarebbero, a causa di questa impennata dei consumi, già completamente esauriti. La concentrazione di CO2 in atmosfera sarebbe circa due volte e mezzo quella attuale e di conseguenza il nostro pianeta sarebbe sconvolto da cambiamenti climatici enormi. La realtà che abbiamo di fronte è quella di paesi industrializzati che propongono modelli impossibili al resto del mondo, preoccupati in realtà solo di assicurarsi le risorse necessarie per continuare a godere da soli della maggior parte dei benefici dello sviluppo. Per quanto riguarda il petrolio, infatti, nel 2003 verrà raggiunto il picco di estrazione, dopodiché questa fonte inizierà il suo declino fino ad esaurirsi poco oltre il 2030. Eppure tutte le tecnologie sviluppate negli ultimi 100 anni sono fondate sulla sua disponibilità abbondante ed a basso costo. Tale situazione non esiste più, ovvero, può ancora esistere per una ventina d’anni per pochi paesi in grado di accaparrarsi le risorse mondiali residue. La necessità di affrontare il drammatico problema dei cambiamenti climatici provocati dall’uso dei combustibili fossili, ha portato quei paesi che hanno ratificato il Protocollo di Kyoto a predisporre strategie per uscire il più rapidamente possibile dalla dipendenza del sistema economico dal petrolio. Essi stanno investendo ingenti capitali nell’efficienza energetica e nello sviluppo di fonti energetiche rinnovabili (geotermico, eolico, solare, idroelettrico e biomasse). L’alternativa proposta da chi non ha ratificato il Protocollo di Kyoto, come gli USA, è lasciar fare al mercato ed alle imprese, continuando sulla strada del passato finché non matureranno nuove tecnologie. Non è casuale che proprio il paese che ha i più alti consumi energetici pro capite, e con un sistema economico e produttivo fortemente dipendente dal petrolio, sia stato il più fermo sostenitore della necessità di condurre una guerra nella regione dove risiedono i più abbondanti giacimenti petroliferi mondiali. La necessità vitale di controllare quell’area ha spinto gli USA, insieme alla Spagna e al Regno Unito, con il sostegno, esplicito anche se non attivo sul campo di battaglia, anche dell’Italia, a portare avanti il suo proposito bellico, mettendo perfino in crisi istituzioni fondamentali come l’ONU e l’Unione Europea; tutti i paesi citati hanno economie fortemente dipendenti dal petrolio.

Guerra e Biodiversità

Tutte le guerre hanno conseguenze devastanti e traumatiche sulle persone direttamente coinvolte, ma hanno anche conseguenze drammatiche sulla biodiversità. Non sulle specie, come immediatamente potrebbe venirci in mente, o meglio non solo.

Precedenti degli effetti di un conflitto sull’ambiente:

I conflitti armati hanno avuto in passato un impatto ambientale notevole. Secondo "War and Biodiversity: an Assessment of Impacts" di Jeffrey A. McNeely dell’ IUCN – Unione Mondiale per la Conservazione della Natura, tali effetti possono essere diretti, provocati dalla caccia e dalla distruzione degli habitat da parte degli eserciti, o indiretti, causati ad esempio dall’attività dei rifugiati. A livello generale, le conseguenze negative della guerra comprendono: deforestazione, aumento del bracconaggio, distruzione degli habitat, inquinamento delle acque e del suolo, riduzione dei fondi per la conservazione, spostamenti forzati di persone verso aree marginali e creazione di popolazioni di rifugiati che danneggiano la biodiversità.

Alcuni esempi specifici*:

  • Guerra del Vietnam: 325.000 ettari di terra furono cancellati. Di conseguenza, foreste che ospitavano una grande diversità furono sostituite da praterie con diversità limitata. L’utilizzo di pesticidi sulle mangrovie trasformò la zona in piana fangosa.

  • Guerra Iran-Iraq del 1980-1988: turbò gravemente lo stile di vita degli arabi delle paludi e provocò la devastazione della popolazione di palme da datteri – pare che il numero di palme produttive sia passato da 16 milioni a meno di 3 milioni.

  • Guerra del Golfo del 1991: oltre 700 milioni di litri di petrolio si riversarono nel Golfo Persico. 300 km di costa del Kuwait e dell’Arabia Saudita furono coperte di greggio, danneggiando le zone umide e le paludi. Si ritiene che da 15.000 e 30.000 uccelli siano morti come diretta conseguenza della guerra – e un alto numero di uccelli migratori morirono in seguito alla contaminazione da petrolio durante il transito nella zona. Seicento pozzi di petrolio furono sabotati – rilasciando mezzo miliardo di tonnellate di CO2, e l’inquinamento dell’aria giunse fino in India. Grandi laghi di petrolio si formarono a causa del più massiccio versamento di petrolio sul suolo che si conosca. Gli ecosistemi desertici furono danneggiati dal movimento di attrezzature pesanti. Due delle aree proposte per la conservazione della natura in Kuwait – il Parco del deserto di Al-Khiran e il Parco Nazionale di Jal Al Zhor furono gravemente disturbate. Il Comitato per la Remunerazione dell’ONU diede al Kuwait 108,9 milioni di dollari derivati dalle vendite del petrolio iracheno, da utilizzare per la gestione dell’impatto ambientale della Guerra del Golfo.

  • Guerra civile in Ruanda/Repubblica Democratica del Congo all’inizio degli anni ‘90: oltre 700.000 rifugiati furono sospinti dai combattimenti nel Parco Nazionale di Virunga. A causa della carenza di risorse le foreste furono deprivate di legname e della fauna selvatica – anche i gorilla di montagna, una specie in via di estinzione, furono uccisi come nutrimento.

  • Guerra in Jugoslavia del 1999: contaminanti altamente tossici furono riversati nel fiume Danubio. Una missione di valutazione dell’ONU con la partecipazione del WWF rilevò che tali versamenti rappresentavano una minaccia per la salute umana e dell’ecosistema.

La biodiversità, che si manifesta con la ricchezza di specie viventi sul nostro Pianeta, è un concetto in realtà molto più complesso e ricco. Le guerre pongono a rischio la funzionalità ecologica e i processi evolutivi in estese aree della Terra. La biodiversità è un immenso valore della vita e dell’umanità, senza la quale niente, nemmeno l’uomo, potrebbe esistere. Tutte le guerre, passate e in corso sul nostro pianeta, provocano un’immensa e immediata sofferenza umana in chi la combatte e in chi la subisce. Provocano anche il depauperamento, altrettanto immediato, della biodiversità con l’uccisione di fauna selvatica e la distruzione di habitat naturali. Provocano anche effetti a lungo termine, i più devastanti, con l’inquinamento delle risorse (acqua, aria, suolo) e la distruzione dei sistemi strutturali volti a preservare la biodiversità (parchi, impegno di organizzazioni internazionali, perdita di controllo e capacità gestionale del territorio). Circa l’80% del territorio dell’Iraq è desertico, sia deserto sabbioso – erg – che ghiaioso e pietroso – serir e hammada – si tratta comunque di ecosistemi estremamente fragili che ospitano comunità animali e vegetali caratteristiche e adattate alle elevate temperature e carenza d’acqua. Questi ambienti sono già stati fortemente danneggiati dal movimento di mezzi pesanti nel conflitto del 1991. Questa nuova guerra in Iraq rischia di avere gravi conseguenze sugli ecosistemi e sulle risorse d’acqua dolce dell’area meridionale delle paludi della Mesopotamia, già sottoposte a devastazione durante la guerra Iran-Iraq del 1980-’88 e durante le repressioni con l’uso di armi chimiche nei confronti degli Sciiti, dopo la Prima Guerra del Golfo. Questa enorme area umida di circa 126.000 ettari è di immenso valore, per lo più ancora sconosciuto, in termini di biodiversità e di risorse per le popolazioni locali,. Fu infatti esplorata, da un punto di vista zoologico, solo una volta nel 1968. In Iraq vivono molte specie minacciate (16 specie di uccelli a rischio globale; tre endemiche). Inoltre le paludi dei delta del fiume Tigri ed Eufrate ospitano importantissime zone umide di svernamento di migratori euroasiatici. Sarebbe assurdo voler determinare quali effetti siano più gravi tra la perdita di vite umane o la distruzione di intere aree e delle forme viventi ivi ospitate. Sono i due lati altrettanto drammatici della stessa medaglia. La guerra è solo e semplicemente un evento incompatibile con la preservazione degli equilibri ecologici del pianeta, funzionali a garantire tutte le forme di vita – la biodiversità – incluso l’uomo.

BIBLIOGRAFIA

  • Amnesty International, 2000 -Diritti Umani e Ambiente - Edizioni Cultura della Pace

  • Ciampo M., 2002 - Pianeta guerra - Edizioni Intra Moenia.

  • International Energy Agency, 2000 – World Energy Outlook - IEA

  • IGBP, 2001 - Global Change and the Earth System: a Planet under Pressure – IGBP Science n.4

  • McNeely J., 2002 – War and Biodiversity: an Assessment of Impacts - IUCN

  • Renner M., 1999 – State of the War – Edizioni Ambiente

  • Renner M., 2002 – Rompere i legami fra risorse e conflitti – in State of the World 2002 , Edizioni Ambiente

  • Renner M., 2003 - The Anatomy of Resource Wars - Worldwatch Institute Papers

  • Sachs W., 2002 – Ambiente e giustizia sociale – Editori Riuniti

  • United Nations, 2003 – World Population Prospect. The 2002 Revision – United Nations

  • WWF, 2002 - Living Planet Report 2002 - WWF International

 

 * Il coltan (costituito da columbite e tantalite, una sorta di fanghiglia granulosa e nerastra ricchissima di tantalio utilizzato nell’industria high-tech, in particolare per i telefoni cellulari e computer – laptop e palmari -) ha una produzione annuale mondiale tra le 3.000 e le 3.500 tonnellate annue proveniente da attività estrattive in Australia, Canada, Brasile e Congo. In Congo, in particolare, l’attività estrattiva non è legittima ed è fonte di pesanti conflitti. La domanda di tantalio è talmente salita nell’industria high-tech da causare, nel 2000, il temporaneo esaurimento delle scorte mondiali. I prezzi sono saliti da meno di 20 dollari l’oncia nel 1998 a più di 200 nel 2000, facendo del coltan un’immensa fonte di lucro.

 


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