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di
Anna Maria Daniele
.…allora parliamone anche noi! Senza voler polemizzare, ma con tanto di legge a portata di mano!
Un passo questo fondamentale per poter cogliere a fondo le possibili ripercussioni che un’eventuale manomissione dello stesso articolo possano comportare nel mondo, e lavorativo,
e sociale.
Prima di ogni altra cosa, quando si parla di articolo 18 si fa riferimento, nell’ambito della disciplina sul lavoro, all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Quest’ultimo è stato introdotto con la L.20.05.1970, n.300 (così come modificato dallaL.108/90).
L’articolo, in questione, disciplina una forma particolare di licenziamento, vale a dire il licenziamento “individuale”.
Quest’ultimo si differenzia dal c.d. “licenziamento collettivo”, sia per ragioni “quantitative”, sia per i presupposti di fatto che necessitano per la sua attuazione.
Il licenziamento collettivo, difatti, deve coinvolgere una pluralità di lavoratori, viceversa per quello individuale, che si pone come una manifestazione di volontà del datore di lavoro a voler recedere unilateralmente dal contratto con un singolo lavoratore.
Inoltre, il primo richiede una ragione ben precisa per attuarla, vale a dire l’effettiva e stabile soppressione dei rapporti di lavoro conseguenti ad una riduzione o trasformazione dell’attività lavorativa. Il licenziamento individuale, invece, ha limiti di presupposti solo in negativo. Ossia, la legge non disciplina i casi in cui si possa ricorrere al licenziamento, bensì i casi in cui questo possa essere dichiarato illegittimo dall’Autorità Giudiziaria.
Prima di addentrarci nella materia in oggetto, bisogna ricordare la disciplina generale del licenziamento è regolata data dalla legge 604/66 (così come modificata dalla L.108/90).
La stessa, infatti, dichiarava illegittimo il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo. S’intende per giusta causa, un motivo che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto di lavoro. Vale a dire qualsiasi causa che faccia venir meno il rapporto di fiducia con il datore di lavoro.
Il giustificato motivo può essere, viceversa, “soggettivo” e “oggettivo”.
Il primo si presenta come un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro. Si tratta di fatti o comportamenti meno gravi rispetto a quelli previsti per la giusta causa, ma, in ogni caso, idonei a ledere i rapporti con il datore di lavoro, indotto, per questo, a dubitare sulla capacità del lavoratore a svolgere le sue mansioni (il c.d. “licenziamento per scarso rendimento”)
Il giustificato motivo “oggettivo”, viceversa, prevede le ipotesi di particolari esigenze relative all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della stessa. In pratica, tutti i casi in cui tali circostanze, ancorché non imprevedibili, siano tali che il personale, divenuto superfluo, non possa essere utilizzato in altri compiti equivalenti.
Per la procedura di intimazione del licenziamento si fa rinvia all’articolo 2 della l. 606 del 1966.
Quello che interessa valutare in questa sede è appunto la disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo che viene regolata sia dalla L.604/66, sia dall’ormai famoso articolo 18 L.300/70.
Entriamo, quindi, nel vivo della questione.
Il licenziamento che si presume lesivo del lavoratore può essere quindi impugnato davanti e all’Autorità Giudiziaria (sede giudiziale) e/o innanzi al Collegio di conciliazione (sede stragiudiziale).
Se viene accertata dall’organo giudicante la illegittimità del licenziamento, si avranno diverse conseguenze, a seconda del fatto/comportamento che vi ha dato origine.
Se, infatti, quelle violate sono le regole formali del procedimento, la sanzione sarà l’inefficacia. Ossia, pur essendo valido, cioè fondato su ragioni valide, in realtà, il licenziamento non è stato portato avanti con modalità previste dalla legge, atte anche queste a tutelare il lavoratore.
Completamente nullo, cioè invalido sin dalla nascita, è il licenziamento per motivi discriminatori, ossia determinato da motivi religiosi, politici, di sesso etc., o da motivi illeciti.
L’annullamento, invece, colpisce i case in cui manchi una giusta causa o un giustificato motivo.
Il licenziamento illegittimo può dare vita ad una tutela reale (art.18 della L.300/70) o ad una tutela obbligatoria (art. 8 della L.604/66)
La prima permette a giudice, che ha dichiarato l’illegittimo licenziamento, di ordinare al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. A questo si aggiunge il risarcimento del danno: un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto (non inferiore alle 5 mensilità) dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione. A questo si sommano, naturalmente, i contributi previdenziali.
D’altronde, il lavoratore ha la facoltà, in luogo della reintegrazione, di scegliere la corresponsione di un’indennità pari a quindici mensilità.
La tutela obbligatoria è presente quando il datore di lavoro è condannato a riassumere il lavoratore entro 3 giorni oppure a risarcire il danno, con una somma pari ad un importo che oscilla tra le 2.5 e le 6 mensilità dall’ultima retribuzione globale di fatto, fino a raggiungere , in presenza di particolari circostanze, le 10/14 mensilità.
La scelta tra l’una o l’altra soluzione, in questo caso, spetta al datore di lavoro.
E’ chiaro quindi come per la tutela reale si parli di tutela “forte” e per quella obbligatoria di tutela “debole”.
Reintegrazione e riassunzione,inoltre, sono concetti differenti.
Il primo, infatti, fa sì che il rapporto di lavoro riprenda il suo corso originario,senza interruzioni.
Il secondo, invece, impone la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro tra il datore di lavoro e il licenziato.
Per attuare l’una o l’altra disciplina, si deve guardare alle dimensioni dell’impresa in cui il lavoratore esercita le sue funzioni.
La tutela reale si applica,dunque, quando il datore di lavoro :
1. occupa più di 15 dipendenti o più di 5 se è un’impresa agricola, in ciascuna unità produttiva od ufficio
2. occupa più di 15 dipendenti o più di 5 se agricola, nello stesso comune ,sebbene in più unità produttive od uffici
3. occupa più di 60 dipendenti,ovunque si trovino
E la tutela obbligatoria quando il datore di lavoro:
1. occupa più di 15 dipendenti per ogni unità produttiva , più di 5 per l’imprenditore agricolo
2. occupa fino a 60 dipendenti ovunque si trovino.
In particolare una tutela reale molto più ampia è prevista in casi di licenziamenti discriminatori, per i quali è prevista la nullità. In questo caso, la tutela ex art.18 è attribuita a prescindere dal numero dei lavoratori
Tale copertura è concessa anche ai dirigenti, per espressa previsione di legge, esclusi, insieme ad una ristretta categoria di lavoratori (elencata nell’art.1 L.604/66) ,dalla tutela garantistica.
Questa è di fatto la disciplina attuale del sistema.
Perché allora queste polemiche sull’articolo 18?
Il tutto è spiegato dal fatto che a Giugno il popolo italiano è chiamato ad esprimersi sull’abrogazione parziale di tale articolo.
Per chiarezza: il referendum abrogativo è previsto dall’art.75 della Costituzione. Consiste nel potere dei cittadini tutti di deliberare l’abrogazione (ossia l’eliminazione) parziale o totale di una o più leggi o di un atto avente forza di legge, quando lo richiedono 500.000 lettori o 5 consiglieri regionali.
La Corte costituzionale è chiamata a valutare la conformità della proposta, prima di tutto, all’art.75 C. e, in secondo luogo, ai principi costituzionali tutti.
La Corte Costituzionale,difatti, con la sentenza 41/2003 ha dichiarato ammissibile il referendum abrogativo, avente ad oggetto l’articolo 18, al fine di estendere la tutela reale contro i licenziamenti illegittimi:
1. ai lavoratori che attualmente fruiscono della tutela obbligatoria in conseguenza dei limiti suddetti ,
2. nonché ai dipendenti delle organizzazioni di “tendenza”; vale a dire organizzazioni non imprenditoriali, senza fine di lucro, svolgono attività politica, sindacale, culturale, di istruzione, di religione o di culto.
L’Ufficio Centrale ha stabilito la seguente denominazione del referendum: “reintegrazione” dei lavoratori illegittimamente licenziati: abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l’applicazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori.
È chiaro che una simile modifica nel mondo del lavoro determini una generalizzazione della tutela reale e riconduca soltanto ad alcuni casi specifici quella obbligatoria.
È, altresì, evidente quanto questa evoluzione (o se si vuole rivoluzione) sia di estrema tutela per il lavoratore, il quale si troverebbe, comunque, a poter decidere, dopo aver subito un torto, se tornare o meno sul posto di lavoro.
In una realtà così complessa come quella lavorativa è una scelta importante. Basta pensare quanto sia difficile trovare lavoro o, comunque, trovarne uno che possa garantire una mansione corrispondente alla propria preparazione .
Naturalmente, l’eccesso di garantismo ha, tuttavia, i suoi risvolti non proprio positivi.
E’ chiaro, infatti, che un lavoratore, che torna, per sua esclusiva volontà , sul posto di lavoro, non possa trovare un “ambiente” a lui molto favorevole. La spinta, quindi, a non farsi reintegrare sarà molto forte. Basta pensare che, nei casi sottoposti alla giurisprudenza, il lavoratore non opta quasi mai per tale tipo di scelta.
Era infatti questa una della ragioni che ha determinato il legislatore a ridurre solo alle grandi imprese la tutela reale. Nelle piccole imprese (meno di 15 dipendenti), difatti, il rapporto con il datore di lavoro è troppo stretto e diretto.
Ma non è da dimenticare,anche, come l’esito positivo del referendum possa determinare notevoli ripercussioni sulle aziende; basti pensare ai costi economici cui il piccolo imprenditore dovrà sottostare.
Ma anche l’economia del lavoro in generale ne potrebbe soffrire. Infatti, è molto probabile un irrigidimento dei rapporti di lavoro, in contrapposizione con la linea che negli ultimi anni si sta proiettando verso una maggiore flessibilità, all’insegna dell’aumento dell’occupazione. E’, infatti, chiaramente prevedibile che le piccole imprese limiteranno il proprio organico.
Queste ultime,inoltre, si serviranno di contratti di formazione di lavoro, di contratti a termine etc..che contrasteranno di certo con la formazione di un nucleo stabile, idoneo a dare stabilità all’impresa.
E’, comunque, indubbio quanto l’esito favorevole del referendum possa agevolare colui che è già occupato e ledere d’altro canto colui che non lo è ancora.
Ed è, altresì, chiaro quanto formalmente (speriamo anche nella sostanza!) tale modifica possa garantire la sicurezza di un posto di lavoro.
Come ogni scelta che ha in sé innumerevoli sfaccettature e l’una o l’altra decisione possono sottrarre al potere grandi fette di elettorato, la “patata bollente” passa al popolo italiano. Questi, (cioè noi!) come sempre, decideranno là dove i loro rappresentanti hanno fallito.
Ci vediamo il 15 Giugno!
(In particolare il referendum prende ad oggetto:
1. parte del comma 1,2, 3 dell’art. 18 della legge 300/70 (norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento)
2. il comma 1 dell’art.2 della legge 108/90 (disciplina licenziamenti individuali)
3. l’art.8 della legge 604/66 (norme suoi licenziamenti individuali)
4. parte del comma 1 dell’art.4 della legge 108/1990. )
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